Rivista numero 29 - SATURA art gallery

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Rivista numero 29 - SATURA art gallery
SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
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Anno 8 n° 29
primo trimestre
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di Genova n° 8/2008
in copertina
Karl-Heinz Hinz
Senza titolo, 1992, fotografia
analogica, 50x40
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sommario
3
7
QUATTRO POESIE
Come scorre l’acqua
Fine del libro
La visita
Istruzioni per dormire
Kajetan Kovič
65
76
DUE POESIE
Entanglement
Mi manca il mare
Corrado Calabrò
82
8
PATRICK MODIANO,
OVVERO L’ARTE DELLA MEMORIA
Giuliana Rovetta
93
16
DUE POESIE
A Nicole
Il segnale
Guido Zavanone
96
17
LE SALMONELLE A RADO
Guido Zavanone
24
UN LIBRO DA LEGGERE
Rosa Elisa Giangoia
27
ORO BIRMANO
Milena Buzzoni
33
DUE POESIE
VIII
X
Francesco Macciò
36
LA PRESENZA-ASSENZA
DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
Marino Boaglio
54
UNA POESIA
In un giardino ligure dopo la pioggia
Luigi De Rosa
55
TRE POESIE
IN SONNO
Noi divisi dall’uno all’altro grido
La città lunare
Il fiore rosso
Giusi Verbaro
56
UNA POESIA
Angeli in fiamme
Antonio De Marchi Gherini
58
PROSPEZIONI
UNA POESIA SUSSURRATA
Guido Zavanone
DOKTOR BEY: UNA STORIA
Floriano Romboli
MEMORIE E SUGGESTIONI
DALL’APPENNINO EMILIANO
Giuliana Rovetta
LA DONNA DI MARMO
Luigi Martellini
MA CHI È ARRIVATO PRIMA
IN AMERICA?
Paolo Tietz
85
98
CRITICA
FERMARE L’ISTANTE
KARL-HEINZ HINZ
Flavia Motolese
DUE PAROLE CON...
EUGENIO CARMI
Mario Napoli
IL CONTINENTE EMILIO VILLA
Adriano Accattino
OMAGGIO A EMILIO SCANAVINO
Francesco Magnanego
ASPETTANDO
LA BIENNALE DI GENOVA
VETRINA
ERICA CAMPANELLA
MITICA UMANITÀ
Andrea Rossetti
MARIO AGRIFOGLIO
BLACK LIGHT E BAUHAUS
Flavia Motolese
100
ANDANDO PER MOSTRE
Wanda Castelnuovo
110
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
Elena Colombo
Q U AT T R O P O E S I E
Di Kajetan Kovič
COME SCORRE L’ACQUA
Come scorre l’acqua
come scorre
tra ontani e acacie
attraverso gli occhi e l’udito
sussurra così sommessa
a volte è implorante
e talvolta cupa
quante primavere quanti anemoni
ma ora
nascosti nel sottobosco
in luoghi trascurati
come scorre l’acqua
continuamente nuova
sotto ponti
e mulini solitari
come scorre
irripetibile
come scorre
e passa oltre
Kajetan Kovič
Poeta, romanziere, saggista, scrittore per l’infanzia e traduttore, nato nel 1931 a Maribor in Slovenia. autore di otto libri di prosa, tra cui quattro sono romanzi, di un libro di racconti e di una
decina di libri per l’infanzia, di un volume di saggi e di una ventina di raccolte di poesia, tra le quali si ricordano le più recenti Vse poti so (tutte
le strade sono) 2009, edizione antologica con testi inediti; Orfejeva nostalgija (nostalgia di orfeo) 2012 e Labrador in nove pesmi (Labrador e
poesie nuove) 2014, edizione postuma.
Kajetan Kovič Come scorre l’acqua
QUATTRO POESIE
3
Kajetan Kovič Fine del libro
4
Q U AT T R O P O E S I E
FINE DEL LIBRO
A un giovane poeta
Caro amico,
quanto diversa può essere
una vecchia cucina
dove un gruppo di poeti
fraternizza bevendo allegramente.
Sono solo,
le falene volano intorno alla lampada,
scrivo capitoli dalla genesi,
nella stanza accanto
dorme mia madre
vecchia come la Sibilla
e anch’io mi porto dietro
un bel gruzzolo di anni.
È temporale,
vento e pioggia,
e tu sei lontano, chissà dove,
bello e giovane,
pronto a sfidare
a cuor leggero tutte le sorti
e a ripetere tutti gli errori
dei vecchi poeti.
non ti hanno insegnato nulla
i lamenti di ovidio,
né i reticolati della Siberia,
né il nero corvo sul campo,
né la morte che ci aspetta
davanti a Cordoba,
e neanche questa lettera
ti toccherà sul vivo.
Dovrai andare da solo
per vie anguste e insidiose.
Da solo sperimentare
i veleni e i balsami.
e da solo siederai prima o poi
in una vecchia cucina
a calcolare il guadagno e la perdita,
lambiccandoti il cervello come io adesso
se alla fine del libro
bisogna scrivere
Mai più
o
Ancora
Q U AT T R O P O E S I E
Ricordando Sandor Weöres
non andate a trovare
i vecchi poeti.
Le loro lunghe solitudini
corrono con più stento
del vostro tempo veloce.
Lo splendore della quinta ristampa
della loro opera omnia
non illumina la loro fronte.
Con sguardo spento
fissano
le agende carbonizzate
nelle quali una volta scrivevano
con matite ardenti.
neanche gli amori infelici
ni salvano più.
Le spose turche
nei loro petti
sono ormai fredda cenere.
Sdraiati su vecchi sofà,
raggomitolati nel loro sconforto,
quando scricchiola qualche scalino
tirano a indovinare
se per la scala di legno
stia salendo il medico o la morte.
Kajetan Kovič La visita
LA VISITA
5
Kajetan Kovič Istruzioni per dormire
6
Q U AT T R O P O E S I E
ISTRUZIONI PER DORMIRE
Certo, addormentarsi.
Scacciare la luna
dalla finestra.
Mettere in contumacia
le zanzare.
Stabilire per i gatti
lo spazio notturno.
Zittire i malinconici
cani dei vicini.
Chiudere l’udito
a tutti i rumori
tranne a quello della pioggia.
Relegare tutti i pensieri
angosciosi nel posto
che gli spetta,
nel tempo passato
o futuro.
Sistemare i sentimenti
nei reconditi
meandri del cuore,
in astucci
chiusi a chiave fino all’alba.
Reprimere i dolori.
Controllare i desideri
e superare le offese.
non comporre poesie.
afferrare il filo di una storia
e inventare una favola.
Fungere da mamma a se stessi.
essere la propria amata.
Coprire di baci
il cuore insoddisfatto.
Coprire con una coperta
le membra infreddolite.
entrare
nell’enclave monastica
del buio e del silenzio.
andare lontano.
in capo al mondo.
al confine dei sogni e dei non sogni.
e magari
ancora più lontano.
(traduzione dallo sloveno di jolka Milič)
DUE POESIE
Di Corrado Calabrò
ENTANGLEMENT
Fredda la tua guancia e struccata
sul traghetto, di prima mattina.
Un gabbiano ci segue come un drone
senza un battito d’ali.
Si poserà su Reggio o su Messina?
Quanto sono vicine le due sponde!
Si può scorgere forse la casa
con tante stanze in cui mia madre è morta.
Quello ad angolo sembra un suo balcone.
To leave or not to live?
Così vicina e non ci son tornato.
MI MANCA IL MARE
Se non sognassi non avrei un passato
non appartiene al navigante il mare
che ha solcato
non trattiene chi nuota
altro che il sogno
del mare che ha abbracciato.
Corrado Calabrò Entanglement - Mi manca il mare
DUE POESIE
7
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
8
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
PATRICK MODIANO,
OVVERO L’ARTE DELLA MEMORIA
Di Giuliana Rovetta
Avevo solo vent’anni, ma la mia memoria precedeva la mia nascita.
P. Modiano, Livret de famille.
Forse nessun autore può considerarsi così
intimamente legato a una città -un’autentica metropoli e non un piccolo borgo o un’area urbana circoscritta- quanto Patrick Modiano alla sua
Parigi. e la sua Parigi, va detto, non è la nostra,
non è quella che ognuno di noi osserva e impara a conoscere aggirandosi per strade e quartieri, passeggiando sui quais del lungosenna o attraversando i sobborghi che portano dal centro alla periferia. Diversa dalla nostra percezione, sia nel tempo che nello spazio la Parigi “modianesque “ è, proprio come lui, sfuggente e difficile da circoscrivere, è luogo d’ombra con sprazzi di luce (lo scrittore, nelle rare e impacciate interviste, concede brevi sorrisi
su un volto affabile ma reticente), è una lunga traccia che si snoda senza soluzione di continuità da un libro all’altro, topograficamente e letterariamente
da La Place de l’Étoile ai Boulevards de ceinture, da un improbabile oggi a un
passato che si mimetizza in segreti recessi, mai leggibile, mai decifrabile per
intero. in un’intervista rilasciata a jérome Garcin alcuni anni fa Modiano precisava: “La Parigi che ho vissuto e che percorro nei miei libri non esiste più. Scrivo proprio per cercare di ritrovarla. non si tratta di una forma di nostalgia. il
fatto è che Parigi è diventata la mia città interiore, una città onirica, senza riferimenti temporali, in cui le diverse età si sovrappongono e dove s’incarna quello che nietzsche chiamava l’eterno ritorno.”1
Poco noto in italia, dove non tutti i titoli della sua consistente opera, una
trentina di romanzi, sono stati pubblicati, l’autore di Dora Bruder, il suo romanzo più famoso, è amatissimo in patria da fedelissimi lettori e da una critica che
non si è lasciata turbare né dall’insistenza su temi chiave sempre ricorrenti,
né dall’assenza di un battage pubblicitario, né dalla misurata invisibilità del personaggio. nato in Île de France a Boulogne-Billancourt alla fine della guerra, Modiano è arrivato a cogliere nel 2014 il massimo riconoscimento letterario puntando tutto su una scrittura esercitata nel silenzio2: “Si potrebbe pensare che
per uno scrittore sia facile e naturale pronunciare un discorso. Ma uno scrittore - o quanto meno un romanziere - ha spesso rapporti difficili con la parojérôme Garcin, Rencontre avec Patrick Modiano, «Le nouvel observateur», 2 ottobre 2003.
il nobel gli è stato conferito dall’accademia reale svedese con la seguente motivazione:
“Per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato la vita
reale durante l’occupazione”.
1
2
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
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la. È abituato a tacere e se vuole essere parte di un’atmosfera deve confondersi nella folla. ascolta le conversazioni senza averne l’aria, e se interviene è sempre per porre con discrezione qualche domanda che serva a comprendere meglio le donne e gli uomini che lo circondano”.
Lasciando trapelare, proprio in una sede solenne come quella di Stoccolma, una confessione relativa al mondo dell’infanzia, Modiano attribuisce la propria esitazione nel prendere la parola alle rigide regole che escludevano i ragazzi, salvo occasioni speciali, dalle conversazioni degli adulti: “Ma poi comunque nessuno li ascoltava e spesso veniva loro tolta la parola. ecco spiegata in alcuni di noi
la difficoltà nell’eloquio, a volte trattenuto altre volte concitato, come se si temesse ad ogni istante di essere interrotti. Da qui certamente il desiderio di scrivere
che mi ha colto, insieme ad altri come me, all’uscita dall’infanzia” 3.
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
tutti i romanzi di Modiano sono attraversati dal tema dell’assenza, ovvero dall’indagine su un’eventuale dimensione di sopravvivenza di persone realmente scomparse o rese invisibili da una imprecisata lontananza. Sembra ovvio affermare che alla radice della sua scrittura si trova lo stato di figlio ignorato sia dal padre, un ebreo francese di origini italiane spesso invischiato in
traffici illeciti, sia dalla madre, un’attrice belga di etnia fiamminga sempre in
tournée con modeste compagnie di giro. oltre a non aver stabilito col figlio una
valida relazione parentale (e difatti il giovane Patrick vivrà fino alla maggiore
età affidato a terzi o come interno in strutture scolastiche), i genitori presto
separati, di cui sobriamente ci viene detto soltanto che “si erano conosciuti durante l’occupazione”4 terranno ognuno per proprio conto dei comportamenti
ambigui: albert Modiano facendo affari col mercato nero e frequentando il sinistro ambiente di Henri Lafont, capo della Gestapo, Louisa Colpeyn, la madre,
non disdegnando di lavorare per la Continental Films, società di produzione
cinematografica fondata da Goebbels e sovvenzionata da capitali tedeschi. nato
da questa unione nel luglio 1945, il giovane Patrick cercherà di collocarsi a qualche distanza dalla realtà immediatamente postbellica, opprimente scenario fatto di “cataste di cadaveri, rovine”, attribuendosi come anno di nascita il 1947
(quello, in realtà, del fratello Rudy scomparso prematuramente). Ma è chiaro
che questo escamotage non cambia la sostanza a cui si riferisce il giornalista
di «Le Monde» Cosnard5 affermando che l’occupazione rappresenta per Modiano la “nuit originelle” di tutta la sua opera.
nel tentativo di accertare la personalità di un padre che si sottrae ad ogni
approccio, lo scrittore dapprima cercherà di ricostruirne l’ambiente storico-politico, sulla base dei testi di Drieu La Rochelle, Brasillach, Céline e poi collezionerà vecchi documenti, articoli di giornale, elenchi telefonici che andranno a
costituire un immenso patrimonio di notizie, più o meno aderenti alla realtà,
a cui attingere. Da qui la sua ricerca prenderà le mosse, le carte inerti acquisteranno vita, ma a svelarsi saranno solo “figure angoscianti, nuovi fantasmi
che accresceranno il suo senso di solitudine”6.
3
Le frasi virgolettate sono tratte dalla lecture pronunciata in occasione dell’assegnazione del premio nobel, 7 dicembre 2014.
4
in Patrick Modiano, Livret de famille, Gallimard, Parigi 1977.
5
Denis Cosnard, Dans la peau de Patrick Modiano, Fayard, Parigi 2011.
6
Colin nettelbeck, Penelope Hueston, Patrick Modiano. Pièces d’identité, Lettres Modernes édition, Parigi 1986.
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
10
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
Quando nella primavera 1968 esce da Gallimard, su sollecitazione di Raymond Queneau, La Place de l’Étoile, la cronaca è invasa dal racconto di una società in cui esplode la protesta dei giovani in crisi per ragioni a cui Modiano
si dichiarerà risolutamente estraneo: “Come avrei potuto essere dei loro? Si ribellavano alla famiglia, e non ne avevo; all’Università, e non l’ho mai frequentata; al sistema e non ne ho mai fatto parte”7. Ma è chiaro che, così come la stagione del maggio francese, anche il suo romanzo sia ricollegabile alla fine di
un’epoca, quel dopoguerra caratterizzato da un visione gaullista della società e della storia in cui i giovani sembravano non trovare un loro spazio. il giovane protagonista di questo romanzo, Schlemilovitch, un uomo confuso e isolato, condensa in sé esperienze di vita grottesche e sperimenta continui cambi d’orizzonte, in una frenesia caleidoscopica tutta imperniata sul problema
dell’identità: essere ebreo, essere francese, essere scrittore. Mentre la parigina piazza de l’Étoile, in mezzo a cui troneggia l’arco di trionfo, nel 1942 è il
fulcro delle attività tristemente più significative della collaborazione tra i tedeschi occupanti e la popolazione residente, la stella a cui è intitolata (evidentemente in ragione del suo disegno architettonico) indica anche il simbolo che
gli ebrei erano obbligati a portare, in giallo, bene in vista a sinistra sul petto:
quello era per loro il posto della stella, ovvero la “place de l’étoile”. in questa
voluta ambiguità si cela un gioco di riferimenti che aggredisce gli stereotipi della ovvia contrapposizione tra vittime innocenti e carnefici corrotti, attraversando convulsamente sia gli anni, dai Sessanta all’inquisizione, che i luoghi, da Parigi a tel aviv8. Quella comunemente nota come la trilogia giovanile di Modiano, prodotta dal 1968 ai primi anni Settanta, si articola su altri due romanzi,
La Ronde de nuit e Les Boulevards de ceinture, tutti aventi l’occupazione come
toile de fond, a cui si può aggiungere la sceneggiatura del film di Louis Malle
Lacombe Lucien ambientato nello stesso clima (1974)9. il tenore di questi scritti fa risaltare il loro specifico carattere di laboratorio psicologico in cui l’oggetto principale è la costruzione di un’identità non solo personale ma anche
letteraria. Lo stile dello scrittore si stacca via via da quello che inizialmente sembrava assimilabile al modello comunicativo degli “hussards” di quella stagione (nimier, Blondin, Déon ed altri) per assumere un atteggiamento da nouveau romancier, ovvero da indagatore e distaccato resocontista. e ciò soprattutto nei Boulevards, dove più insistito è il coinvolgimento del narratore/protagonista (ma l’identificazione fra i due ruoli è lasciata proustianamente nell’ambiguità) nel lavoro di ricerca del padre. Come mai, a partire da una vecchia foto
ritrovata in un cassetto, il figlio, spinto da malcelata ammirazione filiale e da
un sentimento di appartenenza familiare, s’impegna a seguire fuori Parigi la
in «Le Point», n. 537, 3 gennaio 1983.
La versione di questo testo è stata ritoccata dopo la prima uscita in libreria dall’autore stesso, con l’esclusione di alcuni concetti che, col precisarsi di una sensibilità comune su alcuni temi, potevano apparire omofobi o antisionisti. in questo senso l’autocensura ad esempio ha eliminato dall’invettiva di un personaggio il riferimento circa “il monopolio del martirio” esercitato da alcuni ebrei.
9
i tre romanzi sono stati editi da Gallimard, Parigi, rispettivamente nel 1968, 1969, 1972.
in italiano I viali di circonvallazione, Rusconi, Milano 1973, traduzione di annamaria tedeschi. Sul
ricorso a questo scenario, Modiano ha chiarito più volte che quella che ha voluto descrivere non è
l’occupazione storica, ma la “luce incerta delle [sue] origini”, ovvero un microcosmo in cui si condensavano vari aspetti della tragedia umana.
7
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PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
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traccia di un genitore incanaglito e imbroglione, attorniato e sbeffeggiato da
loschi figuri? 10 “È un dovere, per chi come me ha conosciuto queste persone,
farle uscire -fosse pure per un istante- dall’ombra. non è solo un obbligo, è per
me un vero e proprio bisogno”11.
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
“e molto tardi, d’inverno. Si distinguono appena, sull’altra riva del lago,
le luci tremolanti della Svizzera”12. in Villa Triste viene così descritto l’arrivo
in una città termale dell’alta Savoia, luogo di spaesamento comodo all’espatrio, di un giovane che vuole sottrarsi alla mobilitazione per l’algeria e che qui
intreccerà una storia d’amore con una stellina del cinema. in una cornice falsamente fitzgeraldiana, o se si vuole in uno scenario somigliante a una Costa
azzurra decadente e sbiadita, Modiano, appena trentenne (ma i suoi romanzi
avevano già ottenuto importanti riconoscimenti13), compie un ulteriore passo
verso la calibratura del suo vero movente letterario. emancipatosi dall’ambientazione parigina e dalle suggestioni degli anni Quaranta, in Villa Triste mette
in campo non più figure evanescenti generate da ossessioni interiori ma un personaggio vero, attentamente costruito e dotato di forza evocativa che, con la
sua vita solitaria e la sua presunta omosessualità, fa da contraltare all’effimera spensieratezza della giovane coppia di gaudenti. il mondo del dottor Meinthe appare come una stagione ormai arresa agli assalti della modernità: l’americanizzazione, la decolonizzazione determinano il declino dei valori tradizionali, travolti da un flusso di energie nuove. abbandonata la struttura circolare del racconto (a cui si allude nei titoli dei primi tre romanzi: la piazza, la ronda, la cintura) lo scrittore sembra ormai libero dall’obbligo di tornare ossessivamente sui suoi passi e con questa vicenda crepuscolare, venata da molte malinconie, assume la posizione di un “voyer d’ombres” attento alla vita degli altri e alla realtà del suo tempo14. Sarà questo un punto di non ritorno della sua
scrittura che si presenterà con connotazioni e richiami alla contemporaneità,
non rinunciando al suo famoso “clima”, sempre riconoscibile, ma ottenuto ora
con tocchi più leggeri, filtrando frammenti di esperienza e di storia per trattenerne soprattutto la luce, le sfumature evocative di un’epoca. il ritorno alla
stagione della Francia occupata in un’opera successiva avrà come nucleo e motivazione, proprio in linea con questa nuova apertura, il gusto di repertoriare
un certo numero di esistenze, suggerite dall’ambiente familiare o del tutto immaginarie, spesso in funzione di una visione controcorrente rispetto all’epoca storica. in Livret de famille (il documento consegnato agli sposi in occasione della celebrazione delle nozze civili) Modiano disdegna la versione ufficiale che indica nei francesi dominati dai tedeschi solo delle vittime innocenti e
racconta con toni ora patetici, ora dichiaratamente ironici, di ebrei collabora10
il luogo, in Seine-et-Marne, viene identificato da Ferny nesson, in «L’Écho de la Bourse»,
dicembre 1972, nel famoso villaggio di Barbizon, ritrovo degli impressionisti.
11
Dominique Fernandez, in «L’express», agosto 1972
12
Patrick Modiano, Villa Triste, Gallimard, Parigi 1975. in italiano con lo stesso titolo Rusconi, Milano 1976, traduzione di alfredo Cattabiani.
13
Con Rue des Boutiques obscures, Gallimard, Parigi 1978, Modiano ottiene il premio Goncourt, e così commenta: “il Goncourt è un po’ come l’elezione di Miss Francia. Senza avvenire”.
in italiano Via delle Botteghe Oscure, Milano, Rusconi, 1979, traduzione di Giancarlo Buzzi.
14
L’epigrafe di Villa Triste è un verso di Dylan thomas, nella traduzione francese di Modiano: “Qui es-tu, toi, voyeur d’ombres?
12
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
tori del nemico, scrittori antisemiti, traffici loschi e relazioni equivoche. tutto un materiale sulfureo che non mancherà di suscitare reazioni scandalizzate (fra cui quella dell’anticonformista Queneau che gli era stato maestro).
È facile constatare quanto è complesso, pur nell’apparente uniformità del
linguaggio, il mondo a cui fa riferimento questo scrittore. Si può notare che nel
designarlo per il premio nobel, l’accademia svedese ha scelto per una volta di
premiare un lavoro che non sfiora temi attinenti all’etnologia, all’economia, alla
politica ma un’opera che esplica la sua azione unicamente nel campo della letteratura. anche se nei romanzi di Modiano esiste un rapporto con la storia, questo rapporto è sempre assolutamente fluido, mediato com’è dalla memoria. Uno
dei cardini della sua scrittura è proprio il contrasto estraniante tra la meticolosità geografica (o, come già detto, topografica) e l’indeterminatezza temporale: la cifra della narrazione essendo quella del ricordo è ammessa la disomogeneità tra precisazione dei luoghi (indirizzi, numeri civici, atrii di alberghi, terrazze di ristoranti, vicoli, incroci di strade: tutti flash visivi) e vaghezza estrema delle date. anche in Un Pedigree, il libro che Modiano sessantenne decide
di usare come “biglietto da visita” per fornire ulteriori chiavi di lettura del suo
incerto autobiografismo e nel quale parla in prima persona senza intermediari, l’autore non riesce pur nell’accumulo di notizie presunte reali a colmare la
distanza che fa sembrare ancora una volta essenziale il non detto e inutile l’elenco di fatti, nomi, eventi precisati15. Ci troviamo dunque difronte a uno scrittore che si riconosce nei valori del segreto e della distanza, lasciando al chiaroscuro, alle tinte attenuate, alle presenze sfuggenti, il compito di esprimere il
suo modo di procedere: all’origine si materializza il bisogno di approfondire
una ricerca (o trovare la risposta a una domanda) ma questo avviene sempre
in una dimensione di rêverie nostalgica, quasi di torpore che se per Fitzgerald
poteva assomigliare a una “prolungata permanenza sott’acqua”, per Modiano
ha quasi l’aspetto di una momentanea “asfissia”.
esemplarmente è questa la genesi di un ulteriore romanzo, o lungo racconto, che mette al centro in filigrana l’immagine di una donna. La sua descrizione, apparsa nella cronaca di un quotidiano francese16, attrae ipnoticamente lo scrittore e lo trascina su labili tracce a cercare i motivi di un’eventuale fuga
volontaria o di un rapimento della giovane scomparsa: Dora Bruder, una studentessa di soli quindici anni, in una notte d’inverno del 1941 non fa ritorno
a casa. i suoi genitori, allarmati, pur con la comprensibile apprensione imposta dal loro stato di ebrei rifugiati, si precipitano a segnalarne la scomparsa alla
polizia francese. L’immedesimazione dello scrittore con questa figura enigmatica crea una sovrapposizione di piani esistenziali, sia in riferimento al padre,
arrestato nel febbraio 1942, sia relativamente al suo stesso destino: se fosse
nato qualche anno prima avrebbe potuto trovarsi lui stesso nei panni di Dora
adolescente che “a neanche sedici anni, aveva tutto il mondo contro, senza sapere il perché”. e a proposito della direzione che può prendere un’esistenza,
15
Patrick Modiano, Un pedigree, Gallimard, Parigi 2005; in italiano Un pedigree, einaudi, torino 2006, traduzione di irene Babboni.
16
L’annuncio appare in «Paris-Soir», 31 dicembre 1941, nella rubrica “D’hier à aujourd’hui”.
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
13
sempre in questo romanzo così Modiano si esprime: “Sapete, ho sempre avuto la sensazione che mentre la mia natura profonda mi predisponeva alla felicità, era però stata sviata nel corso della mia esistenza da circostanze esterne. È un caso che io sia nato nel 1945, è il caso che mi ha dato delle origini
incerte e che mi ha privato del calore familiare. non posso sentirmi responsabile delle idee cupe, dell’angoscia, di una certa forma di morbosità che mi sono
state imposte. non ho mai scelto il contenuto dei miei libri. Ho dovuto scrivere non in base a quello che sono, e cioè una persona banale e felice, ma in base
a come mi ha reso il destino. Mi consolo pensando che tutto è programmato
e che se non fossi stato io, sarebbe stato un altro a sentirsi un clandestino. io,
se fossi nato in campagna, sarei diventato uno scrittore paesaggista. e questo
mi sarebbe bastato”.
ecco dunque nel libro incrociarsi le traiettorie, da un indirizzo all’altro, rispondersi i suoni, da una strada all’altra, ecco ritrovare l’eco, se non il ricordo, di
una presenza ravvicinata, in uno spazio aperto o alla vetrata di un caffè, sentendo intorno, palpabile, il mondo ostile a cui è urgente sfuggire. La posizione, mai
frontale, che Modiano assume nei confronti dei suoi personaggi, fossero pure degli alter ego, infonde una coloritura di eterna inquietudine alla sua scrittura, in
cui ha una parte importante il linguaggio: chiaro, limpidamente scarno, a volte lapidario, spesso in sottotono rispetto a quella “petite musique” che ne caratterizza il ritmo ipnotico, nostalgico, diluito ad arte nel tempo e nello spazio17.
nel personaggio della giovane Bruder, lo scrittore ritrae un’eroina in cui
proietta, insieme ai fantasmi infantili che abitano la sua mente, anche una particolare forma di vulnerabilità ed enigmaticità che gli sono proprie: dalla Yvonne che in Villa Triste attira l’attenzione per “i suoi occhi verdi, il viso arrossato”, l’abito multicolore e il cane allungato ai suoi piedi, alla inafferrabile Louki che fa continuamente perdere le sue tracce cambiando nome e indirizzo ma
comparendo d’improvviso, immagine senza tempo, Dans le café de la jeunesse perdue18, a Dannie il personaggio sfuggente che si muove in un ambiente losco fra i banconi dei bar o i vialetti di un parco in L’Herbe des nuits 19, tutte le
figure femminili, contestualizzate attraverso dettagli a volte trascurabili, sembrano sprigionare una misteriosa energia che mette in moto la ricostruzione
di un ricordo, aziona il congegno della memoria. Se in La Petite Bijou è una donna a cercare attraverso labili indizi la propria madre, mossa da un vuoto di affetti che non è mai riuscita a colmare, più frequentemente è rappresentato l’inseguimento della figura femminile da parte di un ex amante, come in L’Hori-
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
17
L’académie française, nella persona della segretaria generale Hélène Carrère d’encausse, in occasione del premio nobel così si è espressa: “Da oltre quaranta anni la petite musique di
Modiano, di cui parlano i critici, non ha mai smesso di risuonare”. e Cosnard (vedi nota 1) avanza l’ipotesi che questo ritmo particolarmente modulato e quasi cantabile possa dipendere dall’influsso del fiammingo, che fu la sua lingua materna nei primi anni di vita.
18
Una citazione da Guy Debord è posta in esergo al romanzo Dans le café de la jeunesse
perdue, Gallimard, Parigi 2007 (in italiano Nel caffè della gioventù perduta, einaudi, torino 2010,
traduzione di irene Babboni): “a metà del cammino della vera vita, eravamo circondati da una pesante malinconia, espressa con molte parole beffarde e tristi, nel caffè della gioventù perduta”.
19
L’Herbe des nuits, Gallimard, Parigi 2012; L’erba delle notti, einaudi, torino 2014, traduzione di emanuelle Caillat.
20
La Petite Bijou, Gallimard, Parigi 2001; L’Horizon, Gallimard, Parigi 2010. in italiano Bijou, einaudi, torino 2014, traduzione di irene Babboni; L’orizzonte, einaudi, torino 2014, traduzione di emanuelle Caillat.
14
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
zon: una ricerca forsennata che sprofonda nel passato20. in un contesto che sembra vertere sull’universo femminile, ma poi risulta ancora una volta impregnato della sua esperienza adolescenziale, Modiano già aveva costruito in Des inconnues un interessante trittico di monologhi al femminile21. a parlare di sé
erano tre ragazze degli anni Sessanta, ognuna intenta a confidare un particolare momento di rottura tra adolescenza ed età adulta, mentre sullo sfondo si
defilavano le tragedie del secondo novecento: collaborazionismo, Shoa, guerra d’algeria, diseguaglianza sociale, miseria morale. “Sconosciute” perché senza nome, ma belle e vitali, queste ragazze di provincia ingenuamente attratte
dallo sfolgorio del lusso e dalla vita brillante della metropoli saranno invece
vittime predestinate, ognuna a suo modo, di coetanei cosiddetti perbene, di smaliziati uomini di mondo e del cinismo di persone senza scrupoli.
“i punti di riferimento più sicuri sono le guerre”, afferma Modiano. Quando i suoi romanzi non evocano gli anni Quaranta scelgono come ambientazione la fase della guerra d’algeria: periodo storico livido, incoerente e incerto come
la sua adolescenza, in cui al senso di frustrazione per l’origine sfavorita (ebreo,
senza affetti familiari, privo di risorse economiche e con in più la sottile angoscia trasmessa dalla moderna dimensione urbana) si somma drammaticamente il senso di colpa per essere sopravvissuto al fratello minore a cui dedicherà ossessivamente molti dei suoi libri. Mancando di una vera legittimazione ad
esistere, il personaggio narrante in cui Modiano spesso s’identifica si sente un
clandestino, indotto dal suo sradicamento a percorrere i luoghi della città senza trovare un punto d’appoggio, in mezzo a figure evanescenti, lui stesso una
silhouette furtiva che lascia come unica traccia i segni della sua scrittura. nei
suoi libri non ci sono persone di spicco ma personaggi anonimi che si trasformano in figure interessanti, non ci sono vere trame, ma destini che s’incrociano. alcuni dati, non si sa se certi o meno, vengono posti sul tavolo e all’autore spetta il compito di captarli, decrittarli, metterli in connessione, ma sempre
-come accade nelle indagini poliziesche (e non a caso per Simenon, scrittore
di romanzi non soltanto noir, Modiano ha sempre dichiarato molta ammirazione)- qualcosa manca per completare il quadro d’insieme. ecco allora l’impulso a riprendere in esame i legami rimasti oscuri, nel tentativo di riempire
gli spazi vuoti, magari ripartendo da un altro libro, da un altro spunto. e lo spunto dell’ultimo romanzo, uscito appena prima dell’assegnazione del nobel, è una
telefonata inattesa. in Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier, questo il
titolo di cui non conosciamo ancora la versione italiana, prevista prossimamente in uscita da einaudi, il lettore è subito introdotto in un clima di disagio e incertezza: “il telefono aveva suonato verso le quattro del pomeriggio in casa di
jean Daragne, nella stanza che lui chiamava studio. Si era assopito sul divano
in fondo, al riparo dal sole. e lo squillo, che non aveva più l’abitudine di sentire da parecchio tempo, non smetteva più. Perché questa insistenza?”. a ricevere la telefonata è uno scrittore sfaticato, o forse solo demotivato, all’altro capo
del telefono c’è uno sconosciuto che gli parla di un’agenda che ha ritrovato.
“Presque rien”. Questo l’incipit, ma in quel “quasi niente” c’è il turbamento di
chi non vuole essere sollecitato da un fatto che inconsciamente viene presen21
Des Inconnues, Gallimard, Parigi 1999. Sconosciute, einaudi, torino 2000, traduzione di
Paola Gallo.
PAT R I C K M O D I A N O , O V V E R O L’ A R T E D E L L A M E M O R I A
15
tito come un fastidio, “una puntura d’insetto”, non grave in sé
ma foriera di qualche evento
malaugurato. al centro sta la
storia di una perdita, quella di
un’agenda in cui l’interlocutore,
“dalla voce falsa e intimidatoria”,
ha trovato scritto un nome su
cui vorrebbe avere ragguagli. Ma
come si può immaginare, trattandosi di Modiano, la perdita è
piuttosto una zona d’ombra
della memoria, la mancanza di
risposte apre una breccia nel
tempo, dove, come insinua l’autore “basta lasciarsi scivolare
dentro…” per far partire il meccanismo d’indagine già collaudato e mai concluso. in una periferia ancora rurale, nelle vicinanze di un castello in rovina che
evoca il romanzo di alain-Fournier22, il solito tuffo nel passato
provoca nel protagonista a una
vertigine di ricordi confusi, tra
misteri inesplorati e brevi, intermittenti pause di felicità. a chi lo interroga sul movente che lo spinge a ricalcare passi già abbozzati in opere precedenti Modiano concede: “Ho l’impressione non tanto di scrivere, come obiettano alcuni critici, sempre lo stesso libro, ma piuttosto che i miei romanzi costituiscano di fatto un solo grande libro. Un tema appena accennato ricompare in forma più approfondita, e c’è in
questo una logica interna. Sono come un fotografo che riprende la stessa scena sotto angolature diverse”. Risalendo alla fonte dell’angoscia inspiegata che
ha còlto il protagonista Daragne, da una coincidenza a un evento casuale, da
un barlume di ricordo al rinnovarsi di un’emozione, si aggiungono tasselli al
quadro di un dolore originario, quello della paura infantile dell’abbandono.
La realtà ancora una volta è vista da Modiano come frammentaria: lo scrittore ne prende atto, procede a raccogliere le schegge in uno stato quasi di dormiveglia, tanto è assorto nel suo lavoro. Uno stato ipnotico che l’interessato
descrive così: “Un romanziere è spesso un sonnambulo. Si potrebbe temere che
si lasci investire attraversando una strada. Ma ci dimentichiamo della prodigiosa precisione dei sonnambuli che camminano sui tetti senza mai cadere”.
Giuliana Rovetta Patrick Modiano, ovvero l’arte della memoria
22
alain-Fournier, Le Grand Meaulnes, nRF, Émile Paul, Parigi 1913. in italiano Il Grande Meaulnes, Garzanti, Milano 2006, traduzione di Giuliano Gramigna.
Guido Zavanone A Nicole - Il segnale
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DUE POESIE
DUE POESIE
Di Guido Zavanone
A NICOLE
tre ore di vita soltanto
il tempo effimero di un fiore
il tempo del tuo pianto,
o bambina tradita,
ma solo gli astri
conoscono la sorte
se crudele o benigna
di chi nasce e a lungo cammina
verso la valle oscura
ove attende la morte.
IL SEGNALE
«Pronto»
non sono pronto attendo
un altro segnale
penso che sei tu che chiami
dalla terra o da qualche
nebulosa stellare
Ma io
io non ho più tempo mi smarrisco in
questo mio labirinto
suona nel vuoto il cellulare
non saprò mai cosa volevi dirmi
il tuo segreto
nel mio sprofondare
LE SALMONELLE A RADO
Di Guido Zavanone
Riassunto della puntata precedente1
A Raso, centro agricolo-industriale della Repubblica di San Sulpicio, è festa grande per l’arrivo del nuovo parroco, don Sereno.
Purtroppo, subito dopo, scoppia una grave epidemia di tifo. È chiaro che solo malevolenza, se non empietà, può suffragare la supposizione di coloro che post hoc propter hoc indicano in don Sereno il portatore del bacillo e non piuttosto il pastore che, per una
miracolosa ispirazione, accorre in mezzo al suo gregge al profilarsi del pericolo.
In realtà, la febbre tifoidea ha cause ben precise, in quanto colpisce gli utenti di uno degli acquedotti del paese, il Cresci, in condizioni deplorevoli, segnalate dall’Ufficiale Sanitario, aggravate ora
da uno scavo apportatore di acque putride. In proposito il proprietario Cresci, il Sindaco, il Commissario della Sanità si rimpallano
la responsabilità e poco fanno per affrontare l’epidemia. Anche la
spedalizzazione degli ammalati si presenta ardua per gli ostacoli e i pretesti vari frapposti dagli ospedali.
Capitolo V
Quel giorno il Sindaco, premesse ad alta voce alcune considerazioni poco
pertinenti sulla persona del Commissario, con particolare riferimento a sue asserite abitudini e vicissitudini private, iniziava a scrivere adeguata risposta alle
lettere del Commissario quando, proprio nel bel mezzo della frase “Mi farò premura di portare in attuazione quelle disposizioni attinenti agli acquedotti che
la S.v. vorrà impartire”, corse la solennità dell’ufficio lo sfrenato galoppo di novanta chilogrammi a fiori rossi e turchini; con alla ruota un tarchiatello decenne, senza luce d’intelligenza, che ruttò forte per saluto.
La porta, scagliata gagliardamente alle loro spalle, tosto si riaperse, e due
impiegati del Comune s’appaiarono sulla soglia, gomito a gomito, in atto di disputare la volata; cui rinunciarono, arretrando di colpo e scusandosi, poi che avevano scorto sul traguardo, gesticolante e loquace, la sagoma ben nota, “la balena Giuseppa”. Stava precedendoli pur nell’annuncio, di cui, premurosi, volevano offrire la primizia al loro Sindaco: solitamente così forte nell’altrui sventura.
videro il rag. Costanzi turbarsi, impallidire, lo udirono pronunciare frasi sconnesse: “Giovanni Canzio… un ragazzone così… ma come… all’improvviso”, quasi un rivolo di pietà le attraversasse davvero; poi si prese la testa tra
le mani stringendola coi palmi come a farne sprizzare qualche idea rassicuran-
1
apparsa sul n. 28 di questa rivista.
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
LE SALMONELLE A RADO
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LE SALMONELLE A RADO
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
te, ebbe uno scatto improvviso che atterrì i due impiegati, gridò: “il medico condotto che venga a riferirmi immediatamente” e, sillabando l’avverbio, menò un
ceffone al ragazzo a cavalcioni su una poltrona.
Capitolo VI
autorità e proprietario dell’acquedotto giocavano con abili colpi a rimbalzarsi responsabilità e compiti ed ecco, d’improvviso, sul tavolo di quel pingpong burocratico aveva picchiato il suo pugno terribile la morte.
Colpì una, due, più volte con fredda determinazione e feroce; attendendo le sue vittime al varco tra il quindicesimo e il ventesimo giorno della malattia, allora che il decrescere della febbre e dei lancinanti dolori illudevano il
malato e i suoi famigliari.
La prima vittima: aldo Canzio, un giovane appena tornato da una “missione di pace”, che aveva già cominciato ad alzarsi da letto; fu colpito da una
fitta improvvisa, acutissima, un colpo di pugnale all’addome. il medico che lo
aveva in cura, un giovane di ventiquattro anni, dal Commissario per la Sanità
posto generosamente a disposizione del medico condotto con la confortante
spiegazione che si sarebbe fatta una bella pratica, non diede importanza alla
fitta. Dopo qualche ora, chiamato d’urgenza, trovò il Canzio col volto cianotico, le estremità fredde, il polso filiforme. Si rese conto della gravità della situazione, ma non ne comprese le cause, lasciò il malato e si precipitò alla ricerca del medico condotto, in giro per i cascinali. tornarono insieme, trafelati; le condizioni del malato erano ancora peggiorate, scosso da un respiro sempre più affannoso. il vecchio professionista capì, parlò di “perforazione intestinale” e, chinato al giovane collega, “prognosi solitamente infausta”; ordinò
quindi l’immediato ricovero del Canzio in ospedale per un intervento chirurgico urgente.
L’obitus si verificò nel momento in cui l’infermo veniva avviato alla sala operatoria. Lo rivestirono della sua divisa azzurra di “combattente per la pace”: d’istinto, credo, perché il ricordo dell’assurdità della vita lo consolasse di morire.
La seconda vittima fu un ragazzo di otto anni, anselmuccio, che il padre, un bracciante di origine veneta, chiamava “il fiol del preve”.
era, questa del prete, una paternità singolare, non assimilabile né a quella del sangue, né a quella, più ampia, dello spirito.
Una mattina la Giovanna, una ragazzona di circa trent’anni con tre bambini sulle spalle, già incurvata a furia di lavoro, si era inginocchiata nel confessionale di don Pietro, il predecessore di don Sereno. e, dopo una sequela di peccati venialissimi che a lui, penitenziere e confessore del vescovo, sembrava quasi una mancanza di rispetto – un medico di oxford chiamato a curare un’orticaria! – aveva preso a recitargli un discorso tutto scombinato e, passi la forma, ma nella sostanza: che il marito faceva il bracciante a ore per i cascinali…
la voglia di lavorare, grazie a Dio, non gli mancava… alle cinque era già nei campi… lei aveva tre bambini da accudire… andava anche a servizio,… il suo andrea le voleva troppo bene, pover’uomo, non ci aveva altra soddisfazione… adesso di figli avevano detto basta… ci voleva tutta a tirare avanti con quelli che
c’erano… la loro parte di cristiani l’avevano fatta.
LE SALMONELLE A RADO
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Don Pietro aveva interrotto di colpo quelle, sia pur confuse, proposizioni del Maligno: con uno scatto di voce improvviso nella biascicante penombra
della chiesa, tra un ondeggiare di fiammelle sugli altari, anime trepidanti al nuovo, efferato assalto del Demonio.
era – si sdegnava il penitenziere – uno dei peccati più gravi: un uccidere avanti la nascita, un pararsi davanti al Creatore, e dirgli “fermati” nel momento in cui sta soffiando nel fango una nuova vita; e mettersi alla pari con
le donnacce, sì – e alzava la voce – con le donnacce, che non hanno una coscienza e, nell’amplesso, cercano soltanto il piacere. Dalle vette sublimi della Creazione, per gli orridi strapiombi della colpa, giù, giù, negli abissi infernali: persistesse ancora in quel proposito, frodasse la natura, però quella strada aveva un cartello con scritto “addio salvezza eterna”. Basta, lui l’aveva avvertita,
lui il suo dovere lo aveva fatto. e, in così dire, e forse fu soltanto per cambiare posizione in quello spazio angusto, era giunto da dentro il confessionale un
grande trepestio, come se davvero don Pietro, avvistate e segnalate le fiamme
infernali, si preparasse ad abbandonare la donna al suo igneo destino.
La Giovanna se ne stava rannicchiata, gemendo “Gesù mio” e balbettando qualche parola di sconsolato ravvedimento; e ora, staccato un poco il corpo dalla graticola, andava volgendo intorno occhiate spaurite, più ancora che
dai tremendi castighi preannunciati dal parroco, dal pensiero, poi rivelatosi esatto, che tra gli ammutoliti banchi della chiesa le pie donne, sospeso per un momento il colloquio con Dio, si stessero sollazzando ai suoi casi.
nove mesi dopo la confessione era nato anselmuccio; e nel giro di pochi anni altri due pargoli che in tutto facevano sei. né è a dire la consolazione del buon parroco quando la domenica, dall’altare, posava il suo sguardo benedicente su quella bella famiglia cristiana e sembrava soffermarsi più a lungo sugli ultimi nati che egli, a ragione, sentiva un poco come suoi.
anselmuccio era stato tra i primi ad ammalarsi; ora se ne stava sollevato e tranquillo nel suo lettino, una piccola sorella e un orsacchiotto per assistenza e compagnia.
D’improvviso, un grande pallore gli discese nel volto e un viscido freddo strisciò, s’attorse ai piedi, alle gambe, alle esili braccia, sul lenzuolo s’allargò una macchia di sangue cupa e infrenabile.
La bimba, levatasi tutta in spavento, si precipitò fuori per il paese, cercando ove fosse la mamma. era costei intenta ai servizi domestici, ad un chilometro e più dalla casa: per il tam-tam degli umili, già avvertita di quanto stava accadendo.
Corse, che il cuore le martellava in petto, per il sentiero lungo il fiume,
tra le verdi gramaglie dei salici; ad abbracciare, che già rantolava, anselmuccio, il figlio suo, la vita: non voluta ed amata.
Giunsero solleciti il medico condotto e don Sereno; il primo, per il tetro
servigio di uno specchio subito conscio dell’inutilità della sua opera; il secondo, armato della fede e persuaso alla provvidenzialità della sua opera. Specie
riguardo alla disperazione della donna; sì che, tolto l’ingombro del medico, si
pose prontamente alla ricerca delle parole più adatte alla circostanza. Scartata con rammarico la consolazione sublime “iddio ha dato, iddio ha tolto”, poco
comprensibile dall’ignoranza della donna, ripiegò su altra di più sicuro effetto “ora avete un angelo che prega per voi in Paradiso”, come quella che alla
visione della felicità celeste del morto fanciullo discretamente aggiungeva la
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
20
LE SALMONELLE A RADO
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
terrena speranza di un avvenire migliore per i vivi: grazie ad una intercessione di cui le condizioni delle cose malamente ammonticchiate in quella stanza
rivelavano a prima vista l’improrogabile necessità.
La morte ha conservato una fantasia che la vita più non possiede. Si riducono, si uniformano i modi di vivere e altrettanto si moltiplicano i modi di
morire.
il maestro Zigoni era stato ricoverato al “San Lazzaro” in preda ad una
febbre elevata, accompagnata da brividi e dolori muscolari: sintomatologia, probabile, dell’infezione tifoidea. Ma, trascorsa ormai una ventina di giorni dal ricovero, non si erano prodotte quelle ulteriori manifestazioni che sogliono caratterizzare il secondo stadio del male; il tumor di milza, le piccole roseole a
ondate sulle regioni addominali e quelle toraciche, tanto meno quella facies stuporosa da cui la malattia prende il nome e che rappresenta qualcosa di più e
di diverso rispetto all’espressione del volto dei poveri maestri radesi.
Di qui la decisione di sottoporre il maestro Zigoni a una prova colturale, che diede esito negativo: di un germe che corrispondesse ai connotati forniti (come si fa per i criminali) dall’eberth: lungo 0,7-2,5, estremi arrotondati,
ciliato, mobile, gram-negativo, nessuna traccia. Pure il prof. Ferro – da anni primario dell’ospedale, grazie, si diceva, alla fiducia che ispirava la sua parentela con il Direttore alla sanità della capitale - non era uomo facile a mutare opinione. era, apertamente, per il tifo e, se aveva acconsentito all’emocoltura, lo
aveva fatto soltanto a confutare l’erronea opinione dei suoi assistenti.
Con bella consequenzialità logica proclamò che la negatività dell’esame
non significava proprio un bel nulla ed era anzi conforme alle sue previsioni.
infatti lo Zigoni si trovava in uno stadio avanzato della malattia durante la quale il microbo non si fa più vedere spavaldamente in circolo (forse spaventato
dai vari prof. Ferro che lo attendono al varco); ma un clinico di esperienza sa
bene dove scovarlo, gli antri in cui si rifugia e nidifica. La milza per esempio:
poche gocce di succo splenico da estrarre mediante una piccola puntura. Per
quella piccola puntura il maestro Zigoni morì.
ora può essere che nell’economia dell’universo e fors’anche della cultura radese la perdita di Zigoni non sia stata veramente incolmabile come apparve dalla commemorazione fatta dal direttore didattico locale, ma tuttavia il suo
sacrificio scientifico al bisturi di un potere sovrano apparve, al buon senso dei
radesi, increscioso e, soprattutto allarmante; sì che fu appresa con sollievo la
notizia del trasferimento del primario a un ospedale più importante.
Capitolo VII
Prese alla gola dagli avvenimenti o, per usare il più pacato linguaggio del
Sindaco, di fronte al deteriorarsi della situazione, le autorità compresero non
esserci più salvezza nel non fare; ed ebbe inizio una vera e propria gara a provvedere.
nello stesso giorno in cui il Sindaco “stante l’eccezionalità della situazione e in attesa dei necessari accertamenti e provvedimenti da parte dell’autorità competente” disponeva la sospensione cautelare dell’acquedotto Cresci,
con motivazione che ricordava quella usata, pochi mesi prima, nei confronti
LE SALMONELLE A RADO
21
di un impiegato preso, come si dice qui, con le mani nel sacco, l’alto Commissario per la Sanità, “nel quadro dei rimedi da adottare contro il diffondersi dell’epidemia tifoidea” e “stante la comprovata inerzia dell’autorità preposta alla
vigilanza degli acquedotti della circoscrizione radese”, ordinava l’interruzione dell’erogazione dell’acqua da parte dell’acquedotto “Cresci”, mandando chi
di dovere a curare l’allacciamento con altre sorgenti non inquinate. inoltre veniva disposta la vaccinazione di tutta la popolazione: da effettuarsi a cura e
sotto la responsabilità dell’ufficiale sanitario, con vaccino che sarebbe stato posto a sua disposizione dallo stesso Commissariato.
in realtà, gli ordini commissariali risultarono più lodevoli per zelo che
per efficacia. infatti quando raggiunsero il paese, l’acquedotto era già in stato di fermo e piantonato, come un comune delinquente, da due scocciatissime guardie municipali.
Quanto all’allacciamento, furono, com’era prevedibile, le brave massaie
del paese ad effettuarlo: a mezzo di bottiglie, fiaschi, conche, mastelli e ogni
altro recipiente di cui va fiero il superstite artigianato locale: posti l’uno dietro l’altro sotto la generosa e sicura fontana di Piazza degli eroi e trascinati,
con il festoso e travolgente aiuto dei pargoli, fino alle rispettive abitazioni; per
il che, in definitiva, non era necessaria una bolla commissariale.
Restava la vaccinazione. Ma, prima cosa, si prospettava il medico condotto nonché ufficiale sanitario, non era facile convincere certi villici di sua conoscenza, arroccati nelle loro cascine di montagna, a farsi pungere le natiche,
vergini da aghi, per introdurre – e sia pur ucciso, ma vatti a fidare! – il terribile bacillo: il quale, in effetti, aveva sette vite, se ai coraggiosi che l’avevano sfidato dava certi febbroni da levar la voglia di giocherellarci.
Si delineò poi – da una telefonata del Commissario – un’ulteriore, “assorbente” difficoltà: il vaccino a disposizione si era presto esaurito. Un quantitativo adeguato era stato peraltro richiesto ad un noto laboratorio farmaceutico e si trattava solamente d’attendere.
Si attese e, anziché il vaccino, arrivò, dopo alcuni giorni, un buon quantitativo di siero che, secondo la stupefacente dichiarazione, sempre telefonica, che lo accreditava presso il medico, era pressappoco lo stesso (l’importante è muoversi, spiegava poi, confidenzialmente, il Commissario).
in questa situazione, don Sereno giustamente ritenne che non restasse
altro partito che quello di mettersi nelle mani di Dio.
era, in sostanza, quello che si stava facendo dall’inizio dell’epidemia. Ma
l’accorto sacerdote aveva una visione attiva, dinamica di quell’affidamento. innanzitutto una solenne processione con mobilitazione generale di tutti i santi, di tutti gli stendardi, di tutte le croci, di tutte le campane e di ogni altro strumento atto a richiamare l’attenzione e la benevolenza del cielo; poi una predica memorabile dall’altare maggiore con l’evocazione delle vicissitudini millenarie di Rado, contrassegnate da peste, colera, terremoti e saccheggi, afflizioni da cui il paese era poi sempre stato misericordiosamente liberato. e a questo punto il buon parroco propose e, interpretando per consenso il silenzio atterrito dei fedeli, proclamò, la consacrazione di Rado a nostra Signora della Salute; alla quale – insieme al patrono San Barbaziano che ne sarebbe stato certo ben lieto – avrebbe dovuto dedicarsi l’erigenda chiesa. ed era oltremodo opportuno iniziare subito i lavori, che richiedevano purtroppo parecchi soldi, per
cui alcune brave signore, munite di un particolare contrassegno – raffiguran-
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
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LE SALMONELLE A RADO
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
te, molto appropriatamente, la Madonna che schiaccia la testa a un serpente
– avrebbero fatto, nei prossimi giorni, il giro delle case.
Si chiudeva così, con questa nota di speranza, la sesta settimana dell’epidemia; che, del resto, cominciava già a dare qualche segno di regresso, come
se ancor prima della costruzione della chiesa e della raccolta delle offerte, il
Cielo fiduciosamente anticipasse le sue grazie.
Capitolo VIII
Batteva intanto alle porte il premio di poesia “Fidelis arca”, che si assegnava ogni anno, il 15 ottobre, festa di San Barbanziano.
La commissione giudicatrice era presieduta dal Sindaco e composta inoltre da quattro anziani letterati, i quali, tra prima e seconda rosa dei candidati, designazione del vincitore e, infine, premiazione, trovavano modo di trascorrere, nel miglior albergo del luogo, parte del dolcissimo settembre radese.
era costume dei premi letterari più importanti della Repubblica sansulpiciana che il vincitore fosse prescelto all’atto stesso del bando di concorso e
ancora prima. L’invito a partecipare alla competizione era rivolto al predestinato con tanta cortese insistenza e affettuoso incoraggiamento da costituire,
anche agli occhi del più pessimista dei poeti, un sicuro presagio di vittoria.
Si evitavano così quei patemi d’animo protraentisi per mesi e l’emozione violenta all’arrivo di un telegramma di vittoria o, addirittura, all’annunzio
in teatro: emozione della quale, si narra, morirono Filottite e Sofocle.
Questa volta il caldo invito era stato rivolto al corrispondente in Rado
dell’indipendente “Corriere del Giorno”, il più autorevole giornale di “San Sulpicio”. era stata idea felicissima del rag. Costanzi, non a caso sbocciata con l’epidemia: a trattenere quell’acuminata penna e feconda dal pezzo scandalistico
che stava certamente per partorire e a trasformarla in una sorta di pastorale
zufolo che accompagnasse il ricordo delle tradizioni e attrazioni arcadico – turistiche del paese.
Del resto, un poeta che ancora non avesse conseguito un premio letterario rappresentava, a San Sulpizio, una penosa eccezione; a cancellar la quale e l’evidente ingiustizia era disceso, non certo dall’elicona con cui non aveva alcuna dimestichezza, ma dalle alte sale del municipio, l’ottimo rag. Costanzi: che forse tanti studi non li aveva – riconosceva il vincitore in pectore ricordando, non senza rimorso, certe battute da lui dedicate al primo cittadino del
paese e alla sua grammatica – ma un gusto innato, sì, da fargli tanto di cappello.
Fu subito notata, a Rado, la grande serietà e cautela posta dal “Corriere
del giorno” nel riferire dell’epidemia; in chiaro contrasto con l’irresponsabile
gazzarra dei giornalucoli locali.
intanto nella collocazione della notizia, posta sotto la poco appariscente rubrica “nuove dalla provincia”, insieme all’emozionante racconto delle bizzarrie di un toro che aveva rovesciato ben tre bancarelle al mercato rionale, nonché, orrore, una carrozzella, fortunatamente vuota del suo minuscolo abitatore (prima d’essere affrontato da alcuni animosi e ricondotto, passata la mattana, alla vicina stalla, a ruminar sul mal fatto) e all’edificante storia di due scolari dodicenni che, avendo trovato una borsa di pelle, contenente oltre mille
LE SALMONELLE A RADO
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dollari, dimenticata dal solito distrattissimo turista sopra una panchina di Piazza degli eroi, l’avevano nientemeno restituita, tramite le guardie comunali, al
suo legittimo proprietario, che li aveva benevolmente compensati con un sacchetto di caramelle.
in secondo luogo nel titolo “alcuni casi sospetti di tifo a Rado”, che non
aveva nulla di drammatico, specie per chi a Rado non abitava e, in ogni caso,
lasciava nel lettore la ragionevole speranza che si trattasse soltanto di un sospetto, magari di giornalista in caccia estiva di notizie.
infine nel testo: che riferiva in modo generico di alcune persone colpite da alcuni sintomi ricorrenti nella febbre tifoidea, ma poneva poi fiduciosamente l’accento sulle adeguate misure prontamente adottate dalle autorità: il
che, insieme all’irrefutabile enunciazione del cronista “purtroppo ogni anno,
in questa stagione, si deve registrare qualche caso di tifo o paratifo”, aveva l’effetto di tranquillizzare prontamente i lettori – per buona parte in ferie e quindi proclivi all’ottimismo – schiudendo loro la visione di “qualcuno” tenuto funzionalmente a preoccuparsi e provvedere in mezzo a mali ricorrenti e inevitabili della vita.
e neppure i casi sopravvenuti di mortalità – che avevano costretto a malincuore a riprendere la notizia – erano valsi a mutare il responsabile atteggiamento del grande quotidiano. Rispettoso della scienza medica, che aveva ascritto i decessi a “collasso circolatorio”, l’articolista non si avventurava lungo la
scala interminabile delle cause, ma, ricordando l’ammonimento dantesco, se
ne stava fermo al primo «quia». neppure una parola sull’acquedotto e un vago
accenno alla febbre tifoidea, la cui responsabilità dei decessi era, al momento, tutta da dimostrare.
Ma ancora un problema delicato per la sensibilità del giornalista ebbe a
presentarsi a seguito della consacrazione di Rado alla Madonna della Salute.
tacere l’avvenimento sarebbe stato deplorevole, riferirlo poteva equivalere ad
ammettere lo stato d’animo e di salute del paese.
il giornalista – poeta seppe trovare anche qui la via giusta: l’annuncio della consacrazione “quale soave corollario della secolare devozione mariana del
paese”.
appariva ormai chiaro che il premio di poesia “Fidelis arca” non poteva
cadere in mani migliori: di quelle in cui, il 15 ottobre, puntualmente finì.
Guido Zavanone le salmonelle a Rado
Rosa elisa Giangoia Un libro da leggere
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UN LIBRO DA LEGGERE
UN LIBRO DA LEGGERE
Di Rosa Elisa Giangoia
nello scorso numero di questa rivista Piero Boitani,
alla fine dell’intervista che ci ha concesso, consiglia la lettura dell’opera del filosofo Francesco Calvo, scomparso prematuramente nel 2001, Cercare l’uomo – Socrate, Platone,
Aristotele, recentemente ripubblicata dalla casa editrice il
Mulino di Bologna.
L’opera aveva già nella prima edizione l’introduzione del filosofo francese Paul Ricoeur che riconosceva l’originalità e la profondità del pensiero e la perfetta conoscenza della filosofia antica, moderna e contemporanea di Francesco Calvo, proveniente da una formazione kantiana,
come allievo di emilio Garroni, ma che aveva avvertito l’inadeguatezza e la limitatezza di una filosofia ridotta ad epistemologia o a gioco linguistico. Da qui
era nato per lui l’impegno ad approfondire i classici greci e il pensiero medievale sentiti come una singolare risposta all’esigenza di senso e di ‘fondamento’, avanzata nel nostro tempo e che va ben al di là della ricerca individualistica post-romantica dei filosofi del novecento. essere invece di apparire, cercare un fondamento che non sia semplicemente un prodotto storico transeunte: cercare l’uomo, individuare la sua verità, questo è l’obiettivo dell’opera di
Francesco Calvo.
Quella di Francesco Calvo è anzitutto una scelta di realismo. infatti, come
afferma Wittgenstein nel Tractatus, in filosofia o si è realisti o si è idealisti. oggi
sembra fondamentale riprendere il discorso sul realismo, non tanto di tipo scientifico, né pragmatico, né tanto meno ingenuo, ma quello classico di realismo
metafisico, secondo cui esiste una realtà al di fuori del soggetto.
Francesco Calvo riprende appunto il discorso a partire dai tre grandi filosofi classici, fondamentali per il pensiero occidentale, non alla ricerca di approfondimenti e nuove interpretazioni, ma con l’impegno intellettuale di un filosofo che, attraverso un attento lavoro sui loro testi, crea un sistema di pensiero da
proporre all’uomo di oggi per aiutarlo a comprendere “il che cos’è delle cose”.
L’originalità di quest’opera sta innanzitutto nel proporre un’attenta interpretazione di Socrate visto come il seme intellettuale del pensiero fondato
sull’ontologia, da cui trarranno spunto Platone ed aristotele, pur in modi e con
esiti diversi. infatti il «conosci te stesso» di Socrate viene spogliato della mera
valenza etica per conferirgli un connotato metafisico, onde dar vita alla triade coscienza di sé – ignoranza – dialogo, nella ricerca del «bene per l’uomo»,
fino alla consapevolezza dell’ignoranza, come ignoranza del trascendentale,
individuato come «ciò che distoglie e solleva ogni conoscenza particolare dalla sua centralità esclusiva».
tutto questo è possibile proprio perché Francesco Calvo recupera e pone
a fondamento del suo pensiero il realismo in senso classico per cui il concetto
UN LIBRO DA LEGGERE
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di natura viene letto nel senso superiore di “principio” ed egli non teme di parlare di sostanza. in questa prospettiva l’indagare sull’uomo, su cosa debba fare
e fino a quale termine, viene portato avanti nella consapevolezza di qualcosa di
oggettivo che trascende e fonda la sfera della pura personalità individuale.
Per quanto riguarda l’etica, è opportuno che venga sfatata la leggenda che
fondatori ne siano stati gli Stoici ed in particolare Seneca che, immettendola nel
mondo romano, l’ha consegnata alla tradizione, in quanto «tutte le dottrine etiche e politiche di aristotele sono, da un punto di vista filosofico, altrettante esplicazioni fenomenologiche dell’essere dell’uomo nel suo aver-da-essere». in aristotele, infatti, l’atto legato all’aver-da-essere centra tutto sull’attuazione, condizione di disvelamento dell’essenza umana e delle sue potenzialità.
analizzando il pensiero di Platone, pur nella consapevolezza del suo intento «di filosofare sub specie Socratis», Francesco Calvo prende il suo dualismo antropologico e la conseguente differenziazione tra il corpo e l’anima (nella sfaccettatura di noùs, pnéuma psyché) come punto d’indagine sulle sue aporie per arrivare alla giustificazione della morte con l’innalzamento dell’immortalità (Fedone), che diventa legame intrinseco tra l’anima e l’oggetto assoluto.
Per l’anima l’imperativo di liberarsi dal corpo viene corroborato dall’esercizio
dialettico nella sua totalità, esperienza in cui essa percepisce la solitudine nel
colloquio con se stessa in un monismo al di sopra del dualismo, accompagnato dalla dialettica dell’éros. in questo modo il «conosci te stesso» socratico, quale unione del sé e del bene oggettivo, si arricchisce dell’esperienza del Bello,
capace di unire il momento “esistenziale” e quello “oggettivo”, grazie al potere di attrazione che sa esercitare nel cuore del desiderio.
Secondo Calvo, però, Platone non riesce ad uscire dal dualismo e in questo senso è scisso, in quanto il suo uomo ha la testa in cielo e i piedi sulla terra. Questo problema del dualismo viene risolto da Calvo con la psicologia di
aristotele che, contrariamente a Platone, rifiuta il dualismo superandolo nell’attualità: l’essenza, per così dire, si svela in atto, anche se atto e potenza sono
co-principi metafisici, in quanto la forma si può definire come la materia in atto
e la materia come la forma in potenza: è la teoria dell’ilemorfismo che unisce
forma e sostanza nell’unità dell’ente, facendo dell’anima la forma del corpo.
anche se la questione del bene per l’uomo diventa il legame tra Socrate, Platone e aristotele, per Calvo la questione della «vita buona» e dell’«agire
bene» - in base ad una corretta lettura di aristotele - non si deve ridurre ad una
semplice questione morale. infatti in aristotele non è possibile circoscrivere
il compito dell’uomo senza aver preliminarmente affrontato la difficile questione dell’ «essere-uomo» in quanto tale. Soprattutto non si può trattare dell’uomo come essere-politico, e neppure del suo statuto come «animale razionale»,
senza essersi prima confrontati con la problematica della sostanza. a questo
punto l’analisi di Francesco Calvo diventa complessa in una serrata elaborazione concettuale fino all’individuazione della sostanza dell’uomo in quell’essere che è «un essere che ha da essere», cioè del vivere nella tensione verso una
“forma” che è la realizzazione dell’uomo in quanto tale. Di qui l’etica, che si
sostanzia di un’antropologia filosofica e che si prefigge un preciso obiettivo,
per cui si differenzia nettamente dalla morale kantiana di tipo prettamente formale, tesa ad illustrare la forma della morale, ma non il suo contenuto che si
esplicita in norme morali. Per questo, secondo l’elaborazione di Calvo, l’averda-essere della sostanza uomo è il suo compito che si realizza nella «tensio-
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UN LIBRO DA LEGGERE
Rosa elisa Giangoia Un libro da leggere
ne appropriata» della potenza in cui l’ontologia si lega all’etica e alla psicologia. in queste relazioni entra in gioco la dialettica del “proprio” e del “comune” che si esprime specificatamente nell’amicizia, in cui il bene coordina l’esclusività del “proprio” e la condivisione del “comune” nella coincidenza dell’amicizia per se stessi e dell’amicizia per l’altro, in cui si realizza quel “bene” fondamentale della gioia insita nel vivere, presente già in Socrate.
Secondo aristotele, l’amicizia tratteggia una specie di modello in scala
ridotta e ridimensionata del legame politico, nel quale l’“autarchia” dell’individuo diventa modello emblematico della possibilità di realizzazione dello stato, in quanto chi realizza il bene individuale realizza nello stesso tempo quello collettivo. ed allora il cerchio si chiuderà nella convinzione che una buona
fenomenologia dell’amicizia richiede una buona conoscenza del fondamento
primo dell’uomo in base al quale si costruisce tutto il suo modo di essere. in
definitiva la pienezza umana si svela nella sua attualità e in questo il Kant della Critica del giudizio non dista molto.
Queste le linee essenziali di questo saggio, che viene ripubblicato dopo
alcuni decenni dalla prima edizione, proprio per la sua attualità dovuta alla capacità di rispondere a tante domande rimaste ancor oggi insolute.
Questa è l’originalità del libro, in contrapposizione a molte delle più recenti e accreditate posizioni filosofiche contemporanee, così diffuse anche in
alcune correnti cristiane, che tratteggiano un tommaso d’aquino quasi platonico e idealista, accomunate dal muoversi sulla coscienza di sé, dell’io, in un
circuito in ultima analisi cartesiano, incapaci di comprendere che l’io si fonda
su un sub-strato ontologico e che non crea il reale, per cui, per la piena comprensione e la completa realizzazione dell’uomo, occorre un upokéimenon, il
sostrato, la sostanza che fonda l’essere uomo contro l’idealismo della fenomenologia che centra tutto sul soggetto e sulla sua ragione soggettiva.
ORO BIRMANO
Di Milena Buzzoni
PRIMA PARTE
«Perché l’asia?….anzitutto perché era lontana, perché mi dava l’impressione di una terra in cui c’era ancora qualcosa da scoprire. Ci andai in cerca
dell’’’altro”, di tutto quello che non conoscevo, all’inseguimento di idee, di uomini, di storie di cui avevo solo letto…» Così tiziano terzani, alla fine degli
anni novanta, motiva la scelta di lavorare in questo continente, una scelta che
ne farà uno dei testimoni più significativi.
a vederla sulla carta geografica sembra una foglia sostenuta da un lungo picciolo o un animale con una lunga coda, una torpedine stesa fra Bangladesh, india, Cina, Laos, tailandia e golfo del Bengala. ad essa è di solito associata l’idea di un oriente mansueto e fiorito, pieno di dolci suoni, di inchini e
sorrisi. e invece la storia della Birmania, o meglio del Myanmar (come ci tengono a sottolineare i suoi abitanti), è quanto di più feroce si possa immaginare. il tentativo democratico del dopo-guerra, in un paese ricco di petrolio, gas,
pietre preziose, legni pregiati, con una buona università e un buon livello culturale, fu interrotto nel 1962 con il colpo di stato di ne Win. Ma la sua “via birmana al socialismo” che sarebbe passata attraverso il ripristino dei fasti precoloniali (Burma fu colonia britannica dal 1824 al 1886) sfociò in una guerra
civile che in trent’anni fece più di centotrentamila morti. La conseguenza? Distruzione delle infrastrutture e sperpero delle risorse di un paese che oggi deve
importare quasi tutto, anche perché il colpo di stato del 1988 ha visto altri bagni di sangue e ha imposto la dittatura dello SLoRC, la giunta militare socialista che ha detenuto duramente il potere fino a pochi anni fa. oggi la svolta
civile sta tentando di svecchiare il paese, ma l’istruzione è ancora insufficiente, l’importazione quasi totale (dalle moto ai longji), lo stipendio medio di circa 200 dollari al mese! e i nastri della sicurezza all’ingresso di ogni albergo e
di ogni sito fanno ancora pensare a una grinta militare che si percepisce anche nel filo spinato lasciato lì, attorno a ordinati giardini con zampillanti fontane, nelle divise che ancora presidiano i luoghi governativi, nelle torrette sparse in città. i sei milioni di yangoniani oggi vivono in una città rasserenata, attraversata da un fiume, da laghetti interrotti da prati verdi e piante fiorite e
da grandi palazzi che si sostengono uno con l’altro: il vecchio scrostato edificio coloniale vanta finestre ad arco ed eleganti edicole sulla sommità, qualche
colonna in facciata o una struttura decisamente anglosassone a mattoni rossi profilati di bianco. a questo si appoggia un palazzone squadrato irrigidito
da un’architettura ispirata al socialismo: rettangoli che si intersecano a creare finestre e balconi. Poi di colpo una casa appena restaurata: il rosso, il celeste, il verde acido rinfrescano una vecchia facciata (così l’alta Corte o il Municipio) e ancora edifici anni ’70 con profusione di vetri, spesso rotti, che denunciano la totale assenza di manutenzione!
Milena Buzzoni Oro birmano
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Milena Buzzoni Oro birmano
il traffico della rush hour è immobile. Quando riusciamo a raggiungere
la Shwedagon Pagoda il sole sta tramontando e crea un crepuscolo dorato tra
lo sfavillio delle guglie, i padiglioni, gli stupa grandi e piccoli che formano questa città-tempio dove si passeggia in mezzo ai lumini accesi lungo il perimetro, alla devozione dei fedeli inginocchiati e assorti, all’andirivieni delle donne che portano offerte o versano ciotole d’acqua sulle effigi dei sette Budda
distribuiti attorno alla grande pagoda centrale: in base al proprio giorno di nascita si sceglie la statua che lo presidia, le si offrono fiori e la si irrora. La Shwedagon Pagoda è un’onda d’oro che si alza e fa da sfondo a tutto il resto.
La parte superiore è lo stupa vero e proprio alto 98 metri e coperto da
60 tonnellate di oro puro, che si assottiglia verso il cielo. attualmente in restauro, è circondato dalle maglie sottili delle impalcature di bambù che lasciano vedere la lucentezza delle foglie d’oro appena sostituite e che dal basso, dove
stiamo camminando, risultano praticamente invisibili. La sommità si perde nello spazio e solo alcune diapositive appese a un muro mostrano il più alto, ultimo globo che porta incastonati diamanti da 50 carati ed è tutto un ricamo:
volute, alberi, fiori, pavoni, un gioiello di oreficeria! Con l’avanzare del buio sono
state accese piccole ciotole d’olio che circondano la pagoda, mentre l’oro di questi edifici crea un’atmosfera magica. Così si potrebbe immaginare il paradiso:
persino gli atei più persuasi potrebbero lasciarsi tentare da un gesto di devozione se non rivolto a una specifica divinità, indirizzato almeno a un fasto che
riverbera scintille divine!
La nostra guida locale, che ci assisterà per tutto il viaggio, è un piccolo
birmano solerte che risulterà prezioso in molte circostanze. L’unico problema
è il suo italiano sconnesso e spesso senza capo né coda, per cui seguire le sue
spiegazioni si rivelerà un’impresa ardua, nonostante gli sforzi di ciascuno di
non perdere neanche una sillaba per vedere di mettere insieme un concetto.
Ci troveremo spesso attorno a lui con gli occhi spalancati e le orecchie tese,
ma inutilmente! Lo abbiamo ribattezzato “Renzo”, storpiando il suono birmano del suo nome, ma la cosa non sembra dispiacergli.
Ceniamo in un vecchio ristorante coloniale che conserva antiche foto di
Yangon e porcellane bianche e azzurre. C’è una minestra di lenticchie, verdura fritta, pollo e pesce in umido. abbiamo fame perché l’ultimo spuntino risale all’arrivo, stamattina alle sei, prima di fiondarci a letto e recuperare la notte che avremmo perso (qui era già l’alba) con qualche ora di sonno fino a mezzogiorno. il Shangri-la Hotel è lussuoso, funziona tutto e le stanze non mancano di nulla, compresi accappatoi ed elastici per i capelli. anche stamattina
non ci faremo mancare templi e Budda. e infatti la prima tappa è la Botataung
Pagoda, una sorta di aureo labirinto formato da una serie di stanze fatte a spicchio che ne costituiscono la base. niente a che vedere con la magica atmosfera della Shwedegon ma procedere tra pareti finemente lavorate e una simbologia religiosa attraverso spazi che si aprono uno dentro l’altro crea un’indimenticabile vertigine dalla quale ci solleviamo camminando attorno al Lago Reale, il Kandawgyi, oasi di verde e pace nel centro della città. Più movimentata è
l’atmosfera del porto di Nanthida in riva allo Yangon river, con barche cariche
di gente e navi che lo percorrono. in asia si passa da luoghi affollatissimi, caotici e rumorosi con i clacson che non danno tregua a spazi meditativi dove regna il silenzio e parla soltanto la storia. Passare dal baccano del traffico, dal
brulicare di auto, motorini, biciclette, dal disordine dei marciapiedi dove affac-
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Milena Buzzoni Oro birmano
ciano con la loro merce negozi di ogni genere sotto grosse insegne colorate,
dall’andirivieni della gente che sembra convenuta tutta qui, al vuoto di certi
spazi, monasteri, giardini, pagode e persino montagne e pianure che sembrano risucchiati fuori dal tempo, è una delle contraddizioni più seducenti di questo continente. infatti, lasciato il brulichio del porto, ci infiliamo dentro la Chaukhtet-kyi Pagoda dove, in assoluto silenzio, dorme un gigantesco Budda sdraiato dall’enigmatico sorriso, le labbra rosse, gli occhi e le sopracciglia nere su
una carnagione bianco-smalto e le piante dei piedi istoriate. accondiscendente, ci osserva dall’alto della sua saggezza.
ed è vincendo un traffico a singhiozzo che arriviamo in prossimità del
nostro albergo, proprio davanti allo Scott Market ( Bogyoke Aung San ) dove
dovremmo trovare il migliore artigianato nel campo dei tessuti, delle lacche,
della giada, dei rubini, della madreperla. in realtà dopo essere stati tante volte in asia non riusciamo più a farci attrarre come le prime volte. Con gli anni
la casa si è riempita di tante cose, soprattutto oggetti di artigianato antiquario che a poco a poco hanno saturato gli spazi e la nostra voglia di comprare.
Così giriamo qua e là per i banchi senza trovare niente che ci interessi davvero e, dopo un’ora, siamo in camera. Mando qualche mail, doccia e shampoo,
sistemazione delle valigie per la partenza di domani: ore 6.
Prima di cena ancora un giro a China Town dove sembrano essersi riuniti tutti i sei milioni di abitanti di Yangon. Donne accucciate per terra davanti a vasti canestri di bambù vendono pesce, polli, carne, frutta e verdura. assaggiamo il frutto dell’albero del pane che sa un po’ di ananas ed entriamo nel
flusso di gente che percorre il quartiere. Le bici con il sidecar riescono a portare fino a sette persone, le auto ci sfiorano, i taxi suonano il clacson e il caos
è totale. Ci rifacciamo nella pace del ristorante che già nel nome esprime la sua
quiete. La House of Memory è una storica casa coloniale tutta in legno appartenuta al generale Aung San (il suo ufficio è ancora arredato) padre di Aung
San Suki. Cerchiamo di andare a letto presto perché domattina alle 7 dobbiamo essere in aeroporto. Pronti alle 6 davanti al buffet della colazione, tre quarti d’ora di pullman, chek in e alle 8 puntualissimo il decollo. L’aeroporto di Heho
è uno stanzone dove i bagagli vengono consegnati personalmente. Mentre aspettiamo le nostre valigie diamo un’occhiata ai piccoli aerei della Yangon Airways
che fanno la spola da Yangon a qui: atR72 della stessa famiglia di quelli che
cadevano come mosche e che furono ritirati dai cieli una quindicina di anni fa?
anzi direi che ne è caduto un altro proprio un mese fa a taiwan! Hanno fatto, per caso, come certi uomini della nostra politica in un’operazione d’inin-
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terrotto riciclo e rinnovato disastro? Per ora siamo atterrati, ma ci aspettano
altri spostamenti aerei! L’importante è non pensarci! Prima di raggiungere le
barche che percorreranno il lago inle fino al nostro albergo, visitiamo la scuola di un monastero dove monaci bambini e adolescenti, seduti per terra, leggono gli insegnamenti di Budda e contemporaneamente dondolano su e giù «per
non addormentarsi!», spiega la nostra guida. Si lasciano fotografare sorridenti interrompendo per un attimo la lettura. il monastero è tutto di legno intagliato, coronato da decori leggeri e sostenuto da una serie di pali che non sembrano solidissimi! È uno di quei «monasteri-bucintori votivi di regine dalla storia pazzesca, e con gusti da Casa Wittelsbach per l’intaglio virtuosistico fino
alla mania» di cui parla alberto arbasino in Passeggiando tra i draghi addormentati. Lì a fianco, in un edificio in muratura, le pareti sono bucate da una
sequenza di formelle che ospitano piccole effigi di Budda con il nome dei donatori di offerte: dalla Francia all’australia una folla di benefattori resta qui riconoscibile per sempre. tra la fine delle formelle e la volta del soffitto, vecchi
bellissimi collages di vetro rappresentano scene religiose come il funerale di
Budda o la creazione della donna, staccata da un albero e posta sulla terra (
non saprei… tra costola e albero…).
Raggiungiamo una sponda del lago dove un gruppetto di ragazzi scarica
le valigie dal pullman e le distribuisce sulle tre affilate canoe che ci porteranno
all’Inle Garden Hotel. Motorini cinesi da 24 cavalli scoppiettano a poppa sollevando una nuvola di spruzzi. Cominciamo a percorrere il lago che poco alla volta si apre davanti a noi seduti in fila indiana. Sotto il cielo nuvoloso l’Inle Lake
è una pianura di zinco macchiata qua e là da cespugli di erbe acquatiche. a differenza dei nostri laghi che, incastonati tra le montagne, danno un forte senso
del limite, questo si spande ai piedi di tenui colline per cui lo sguardo spazia in
ogni direzione senza interrompersi. villaggi di palafitte in legno ci scortano a destra e a sinistra; pescatori in piedi governano con una gamba sola le loro canoe,
appoggiando il remo al polpaccio e agguantandolo con il tallone. in questo modo
hanno le mani libere per gettare le reti o liberarle dal pesce; altre barche a motore trasportano qualche turista che ci supera e ci saluta. La velocità smuove un’aria
fresca che ci fa tirar fuori le giacche a vento e coprire le gambe con i plaid di pile
in dotazione a bordo. arriviamo al nostro albergo infilando un canale laterale bordato di piante ondeggianti. i bungalows sono casette chiare sparse per un vasto
giardino e la guest house è in fase di ultimazione. Le stanze sono enormi con vere
e proprie salles de bain dove vano doccia e vano wc sono chiusi da una paratia
e da una porta a vetri satinati. approfittiamo subito della vasca per un quarto
d’ora di immersione nella schiuma. Scopriamo anche un patio laterale con tavolo e poltrone. Ci ritroviamo alle cinque per l’escursione pomeridiana e nella hall
sotto un ampio portico troviamo alcuni ragazzi che stanno rivestendo un mobile di oro zecchino! al posto dei fogli quadrati e impalpabili che usiamo qui, loro
utilizzano dei rotoli protetti da una pellicola che viene rimossa una volta incollato l’oro sulla “missione” nera di fondo. Un lavoro comunque non facile! anche
i letti delle camere sono stati rivestiti con la stessa tecnica e nel paese delle pagode d’oro non ci stupisce!
in pomeriggio scorrazziamo su e giù per il lago visitando manifatture tessili dove da vecchi telai di legno escono sciarpe, camicie, longji creati con i filamenti del gambo dei fiori di loto di solito uniti a fili di seta che rendono più
morbido il prodotto. i tessuti di loto infatti hanno piuttosto la consistenza del
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lino grezzo e sono adatti per stoffe da arredamento o tovaglie. ancora qualche svolta tra i canali in mezzo a queste suggestive palafitte in legno di teck
con pareti di stuoie che spuntano tra i banani: alcune sono sconnesse e in rovina, altre dipinte di fresco. La loro funzione è quella di evitare l’inondazione
nel periodo dei monsoni quando si alza il livello del lago.
ecco la manifattura del tabacco che in realtà tabacco non è perché utilizzano le foglie rotonde di una pianta, le riempiono di tabacco e le arrotolano su se stesse. C’è un buon profumo mentre entriamo nella stanza dove lavorano le donne e dove una di loro ci offre impalpabili ostie dolci all’anice. Federico sono tre giorni che ha smesso di fumare approfittando della tosse e della distrazione del viaggio e non so con quali pensieri si aggiri in questo mare
di cheroot!
anche per il tempio dei gatti che saltano (in realtà oggi non saltano più
perché nessuno li ha più addestrati!), le canoe accostano a una piattaforma di
legno dalla quale si sale alla casa con qualche scalino. Budda dorati ci guardano dalle loro lignee edicole intagliate in una fitta foresta di colonne che sostengono il soffitto. ai loro piedi sonnecchia qualche gatto dal pelo corto e fitto, ma
si vede che non sono più i protagonisti del luogo come i topi del tempio indiano dove, numerosissimi, corrono su e giù con piglio da padroni. il ritorno al tramonto sulla canoa che taglia l’acqua con una lieve oscillazione induce il sonno.
il passaggio attraverso orti galleggianti dove crescono pomodori, zucchini e altri ortaggi, è un fluire nel silenzio garantito dall’acqua, da questi cuscini d’erba, da queste palafitte che, come trampolieri, fissano il lago dall’alto.
«…poi diventa laguna, come certe valli da anguille in Polesine. e si arriva a un villaggio su barene e palafitte come doveva essere venezia ai primi tempi. Sono isolette spugnose di pochi metri quadrati. Certe anche pensili o pendule come se galleggiassero su viluppi di vecchie alghe continuamente rinforzate con minuscole dighe di fango e sterpi. ortini coltivatissimi con fagioli o
piselli e altre verdure rampicanti, fra cui ci si aggira in gondolini col motorino o a remi, come in un vivaio a sentieri d’acqua… Questi producono intensivamente string beans e courgettes –cose serie- con sapori veri, pre-industriali, da ortaglia “di proprietà” d’altri tempi. Le capanne si sporgono sui bordi, con
tutta una vita intima di shampoo ai capelli di Melisende rustiche, e secchielli
per tirar su l’acqua in cucina. Panni stesi modesti e vispi, sui ballatoi; ma anche tessiture e vendite in casa di stoffette artigianali all’antica. e persino qui
un piccolo assembramento di templi e tempietti: stupa e stupini bianchi pensili in gruppo o crollanti in serie su banchi erbosi minimi, specchiandosi nel-
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le acque da tutti i lati come in un fondale di balletto russo». Questo il lago di
arbasino.
nuvole di drago, noodles conditi con verdure, pollo in umido con un buon
sughetto per condire il riso, vegetables misti, tutto scompare in pochi minuti
divorato dal prolungato digiuno. Siamo in piedi dalle 5 e se la cena alle 7 p.m.
per noi mediterranei è un po’ precoce, in compenso ci accorcia l’attesa e placa la fame prima che ci buttiamo su caramelle e torroncini che avevamo portato per i bambini locali!
oggi, giovedì 25 gennaio ci aspetta un’altra giornata lacustre, piacevole
e non faticosa.
il mercato galleggiante allestito in realtà sull’argine del fiume non è roba
da turisti e anche se tra lacche, madreperle, giade e sciarpe, si ritrova un po’
la stessa merce, c’è tutta la zona “alimentare” molto interessante: dai sacchi
di riso di svariate qualità ai polli, dagli ortaggi al pesce e persino dei parallelepipedi di gialla panissa. C’è anche un mercato del bambù : grossi pali sono
ammucchiati a fasci secondo le dimensioni e attorno a loro gruppi di uomini
discutono sulla compra-vendita.
Sulle bancarelle, qua e là, salta fuori qualche oggetto d’antiquariato e caschiamo su una scatola rotonda di lacca che, tra gli intagli, porta ancora le tracce di una vecchia doratura. Come avremmo potuto rinunciare a questo pezzettino di Birmania da aggiungere sul tavolo dei cimeli di viaggio?
La sosta pranzo indotta da un cartello in italiano “pasta fresca, gnocchi
e fettuccine” ci vede seduti su sgabelli attorno a semplici tavoli di legno in attesa dei nostri piatti che non arrivano mai. Ci alziamo e andiamo a curiosare
in cucina per vedere a che punto sono le operazioni: qui, incredibile sorpresa,
alcune donne stanno girando la manovella di una imperia dalla quale escono
filanti tagliatelle: il cartello, che aveva alimentato solo tenui speranze, in realtà era da prendere alla lettera!
anche la lavorazione dell’argento è una sosta interessante: dalla separazione del metallo alla fusione, alla lavorazione, tutto ovviamente fatto a mano
con l’ausilio di una minuscola fornace a carbone aerata da un grosso mantice.
Ma il luogo più sorprendente della giornata è il sito di Shwe Tain che raggiungiamo sempre in canoa. Scopriamo una piccola angkor riunita su una lieve collina: stupa in mattoni di tutte le dimensioni svettano con le loro guglie ad affollare questo luogo sacro che il tempo sta demolendo. i mattoni si sgretolano, le cime crollano, le aperture ornate di bassorilievi si inclinano. all’interno
le statue di imperturbabili Budda si vedono appena attraverso le aperture sghembe. Qualche stupa è stato restaurato, ma il cattivo intervento l’ha fatto diventare un’edicola nuova che stona con il contesto, qualche mattone è stato fissato con troppo cemento e noi camminiamo sui fregi rotti che anziché essere
catalogati giacciono alla mercé di chiunque.
il luogo ha il fascino muto delle rovine, amplificato dal silenzio come se
vivessero qui in un’altra dimensione, come se avessero scelto questo luogo «a
miracol mostrare». Qui, come alla Shwedegon Pagoda al tramonto e come sarà
nella piana di Bagan, aleggia una spiritualità, esasperata da tutte queste guglie
spinte verso il cielo come un’invocazione collettiva.
torniamo scendendo per un porticato che si snoda a perdita d’occhio.
Una parte delle colonne è colorata, la parte inferiore è bianca, con capitelli e
basamenti lavorati. Un’intelaiatura di legno sostiene il soffitto di lamiera che
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protegge questo viale di colonne. intanto si è messo a piovere, nonostante la
Lonely Planet garantisse un gennaio senza una goccia d’acqua! il ritorno in canoa è con piumini, pile, ombrelli aperti!
Stamattina riprendiamo le nostre imbarcazioni e lasciamo il lago che sfila ai nostri fianchi come una sciarpa velata. È grigio sotto un cielo di nuvole e
non fa certo caldo con l’aria smossa dalla velocità. Le coperte non bastano a
proteggerci e la traversata di un’ora non è un percorso piacevole. Ci aspetta il
pullman che ci porterà a Pindaya attraverso una strada che risale dolci colline coltivate: una toscana asiatica senza cipressi! Ci fermiamo quasi subito al
mercato di Heho; piove e camminiamo nel fango. anche questo è un tipico mercato locale con pochi turisti e tanti autoctoni: le donne portano asciugamani
colorati piegati sulla testa e sistemati un po’ come un cappello da torero. Proseguiamo tra alberi di teak e campi coltivati. nel locale basso e aperto dove ci
fermiamo per uno spuntino, non dovendo impastare come nel ristorante di ieri,
sono rapidissimi a portarci fumanti piatti di noodles , riso con verdure e omelette. approfittiamo per comprare qualche bulbo di orchidea nel negozio di piante attiguo. il tempo continua ad essere piovigginoso, ma cercheremo di propiziarci gli 8000 Budda riuniti nella Golden Cave, ovvero le famose grotte di Pindaya, per un miglioramento atmosferico.
Dal piccolo laboratorio di carta shan fatta con la corteccia di gelso, alzando gli occhi, vediamo spuntare dalla montagna che lo sovrasta, le guglie di innumerevoli pagode: segnano la strada per arrivare alla sommità dove si innalza quella più grande proprio in prossimità dell’ingresso della grotta alla quale
si può arrivare con due ascensori che scorrono dentro una struttura di putrelle di ferro costruita dalla Yundai. Camminiamo, come al solito scalzi, su fredde piastrelle che ci portano all’interno tra Budda dorati di tutte le dimensioni
che ci guardano da diversi livelli. Uno a fianco all’altro, uno sopra l’altro, si sovrappongono tappezzando interamente la grotta che lascia scoperta solo una
cupola scura dalla quale scendono fasci di stalattiti. il percorso per aggirare e
salire tra i Budda è stretto e tortuoso, una specie di labirinto: si sale, si scende,
si svolta e si torna indietro sempre sotto gli occhi di questa sfavillante folla.
Secondo la leggenda sette principesse che stavano facendo il bagno nel
lago di Pindaya durante una tempesta, si rifugiarono nelle grotte dove vennero imprigionate da un ragno gigante (il pin-gu) che è rimasto come simbolo della città e campeggia, enorme, ai piedi dei due ascensori.
i bungalow del Conqueror Resort che ci ospiteranno stanotte sono distribuiti in un bel giardino ingrigito dal cattivo tempo. Fa piuttosto freddo ma scopriamo con piacere gli ”scaldasonno” nel letto! in attesa della cena, decidiamo
per una passeggiata fino al lago Boutaloke che abbiamo visto dall’alto delle grotte, ma è quasi buio e alberi giganteschi creano chiazze d’ombra più fitta sul
nostro percorso. non c’è marciapiede e la strada è sconnessa. il lago è circondato da piccole luci psichedeliche tanto diffuse qui in Myanmar a imbruttire
stupa e teste di Budda. La città è un insieme di case piuttosto squallide con i
negozi sulla strada. torniamo in albergo un po’ delusi pensando che, tutto sommato, forse non valeva la pena fermarsi a Pindaya.
Milena Buzzoni Oro birmano
(continua)
Francesco Macciò VIII
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DUE POESIE
DUE POESIE
di Francesco Macciò
per Franco Croce
VIII
L’ora già curva dietro le spalle,
l’ora senza soste, senza compensi,
l’ora salata delle dune, l’ora
verticale dei patiboli,
delle maree, l’ora
torbida degli stagni, l’ora
velata dei pesci, degli approdi
lunari, l’ora che scende
indifesa a consacrare le case,
l’ora degli insonni, l’ora
che non sa né il giorno né l’ora,
l’ora che fende i botri, le zolle,
l’ora del fango, delle frane…
DUE POESIE
Un cielo curvo, terrigno,
nell’aria ferma un filo
di fumo dai gasdotti,
dai comignoli spiantati.
acqua che ristagna in putredine
come il denaro, il sangue
in cuore a Scàrpia, che affonda
tra le mani nella carne una lama,
un desiderio. Più materia…
Più materia di sogni l’acqua,
malìa di un canto,
lingua muta questa sera nel dirti
di gechi lunari sulla terrazza
fermi come noi all’agguato,
di un dio più piccolo,
più triste di noi, un dio
di alghe rugginose, di vetri
opachi contro i pali infraciditi...
Figure nere e bianche
affiorano dal lago, avanzano
pesanti nell’aria insonne
fino al centro della scena.
Quel cielo curvo e feroce...
e tu che non vuoi un altro
che ti cada tra le braccia,
nel caos di un’altra sera
come questa... (come tosca...)
(da Stanze dell’attesa)
nota
il componimento riprende in qualche modo una poesia precedente, intitolata Torre del Lago
Puccini (in Sotto notti altissime di stelle, agorà 2003, Matisklo, 2013).
Francesco Macciò X
X
35
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
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LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA.
LETTURA DI XENIA
di Marino Boaglio
in un’intervista concessa a Raffaello Baldini, Montale diceva: “nel ’63 ci
fu la morte di mia moglie. Mi venne la spinta a scrivere qualche ricordo di lei.
Sono i versi di Xenia”.1 È l’esplicita ammissione che la suite con cui il poeta ritornava ai versi dopo molti anni nasce da un’assenza e di quella assenza – decisiva e irrevocabile – si alimenta e porta il segno. i ‘doni’ all’ospite di antica
tradizione classica si trasformano così in doni funebri, offerti sul limitare tra
vita e morte, in un ‘oltretempo’ non storico e non metafisico, quindi sotto il
segno dell’enigma e della privazione di vita. il segno dell’assenza, in effetti, caratterizza tutta la grande poesia montaliana, in particolare le decisive figure
femminili che l’hanno abitata ed ispirata, da Clizia, la “messaggera accigliata”
delle Occasioni e della Bufera, fino alla ‘folle’ fanciulla di Dopo una fuga, che
fa da sigillo a Satura riprendendo alcuni temi di Xenia. negli altri casi, però,
l’assenza della donna amata si situa su di un piano di lontananza sublimante
e simbolica, concerne spazi e luoghi misurabili, non nega una possibilità di contatto ulteriore o addirittura di ritorno. Per Mosca invece si tratta di una distanza irreversibile, non percorribile all’indietro, e di un’assenza definitiva, perché
provocata dalla morte.
Quello con la moglie, quindi, si prospetta fin da subito come un dialogo in absentia tra chi è rimasto in vita e chi l’ha abbandonato lì, per un’avventura che non ha caratteri riconoscibili o punti di riferimento accertabili e che
potrebbe anche essere il labirinto della non esistenza, il nulla. È il dialogo con
un’ombra, con uno spirito che emerge dal vuoto e non ha più labbra per parlare. Ma l’assenza può essere una scelta (“Comprendo / la tua caparbia volontà di essere sempre assente”, Ex voto) e per paradosso può anche rivelarsi condizione germinale dell’essere, o almeno condizione preliminare alla ricerca della verità, se è vero – e Satura lo ribadisce in più punti – che il ‘pieno’ del mondo è in realtà un ‘vuoto’, è un coacervo indistricabile di “onore” ed “indecenza”, un “ossimoro permanente” (come Montale dirà nella Lettera a Malvolio, nel
Diario del ’71) che travolge in un magma indifferenziato ogni valore e distinzione. e allora il solo a resistere “al trapano”, al rumore assordante del presente, sarà proprio chi è fragile e sa di esserlo, non chi si crede forte e padrone
del tempo, saranno le minime e inconsapevoli “divinità in incognito” che girano “in fustagno e tascapane”, non i signori del mondo e gli artefici della storia, ovvero, per stare sul piano dei simboli, sarà il “vuoto” e non il “pieno” (ancora Ex voto: “insisto / nel ricercarti nel fuscello e mai / nell’albero spiegato,
mai nel pieno, sempre / nel vuoto”). Mosca ne è stato un esempio perfetto, in
vita non meno che in morte, e allora i doni per lei riusciranno innanzitutto alla
1
e. Montale, La poesia e il resto (1971), ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Mondadori, Milano 1996, p.1705.
LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
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celebrazione – affettuosa e un poco ironica – delle sue virtù singolari e della
sua antifrastica ‘deità’.
L’occasione ai versi è quella di una visitazione da parte della defunta, di
una sua improvvisa apparizione a fianco del poeta intento a leggere le pagine
dell’antico profeta:2 “Caro piccolo insetto / che chiamavano mosca non so perché, / stasera quasi al buio / mentre leggevo il Deuteroisaia / sei ricomparsa
accanto a me”.3 L’atmosfera è quella tipica dell’epifania, secondo un riconoscibile modus letterario: la sera (ma le ‘visite’ di Clizia avvenivano all’alba, significativamente), il buio incipiente, l’intimità della casa, la disponibilità all’ascolto da parte del poeta. il quale sta leggendo il Deuteroisaia (i capitoli 40-55 del
libro biblico conosciuto come isaia, che gli esegeti ritengono scritti da un secondo autore, probabilmente discepolo dell’isaia storico), cioè un testo di profezie e di sguardo sul futuro. Ricordiamo che in quei capitoli jahvé promette
al suo popolo la liberazione e il regno messianico (farà sgorgare sorgenti nelle terre aride, trasformerà il deserto in un nuovo eden), afferma la potenza vivificatrice della propria Parola, che compie sempre quanto desidera, a differenza dalla parola impotente dei dominatori della terra, ma soprattutto affida la missione di salvezza per l’umanità al suo servo sofferente (che i cristiani vedranno incarnato nella persona di Gesù). il “servo di jahvé” porterà giustizia e consolazione, splenderà come “luce delle nazioni”, ma verrà deriso, rifiutato, percosso e abbandonato da tutti, come l’agnello sacrificale portato al
macello. egli è un’evidente figura del giusto innocente che il mondo disprezza e irride, ma che non può sopraffare; e se per gli evangelisti ha rappresentato la ‘figura’ anticipatrice del Cristo, per Montale sembra rimandare proprio
a Mosca, alla visitatrice attesa, come indicheranno esplicitamente altri xenia (il
suo non appartenere al mondo, il suo importuno “radar di pipistrello” che smaschera le false verità) e come fanno pensare alcuni attributi del servo sofferente, che sarà non meno fastidioso per i potenti della “hellish fly” montaliana:
“egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente […] ha fatto di me una freccia aguzza” (Is. 49,2).
La lettura del Deuteroisaia richiama dunque la visitazione, e sembrerebbero esserci tutti gli ingredienti per un colloquio con la ‘revenante’, però il colloquio non avviene e l’epifania è mancata: “ma non avevi occhiali, / non potevi vedermi / né potevo io senza quel luccichio / riconoscere te nella foschia”.
Subito viene alla luce la dimensione emblematica di quell’impossibile incontro: al Montale di Xenia non interessano gli aspetti quotidiani, diaristici e realistici, come pure si è detto da più parti e che certamente possono essere stati l’occasione ai versi, bensì invece la loro elevazione sul piano figurale e paradigmatico. il “caro piccolo insetto” della consuetudine familiare si trasfor-
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
2
Montale fu un lettore assiduo dei testi biblici, vetero e neotestamentari, che non soltanto
vengono apertamente interpellati nelle raccolte più recenti, ma costituiscono le impalcature simboliche – magari occultate – di significativi testi delle Occasioni e soprattutto della Bufera (Iride,
L’orto, “Ezekiel saw the Weel…”, La primavera hitleriana).
3
Per Xenia si fa riferimento all’edizione originale di Satura, pubblicata nella collana “Lo Specchio” Mondadori nel 1971. Più tardi, in occasione della sistemazione dei libri montaliani ne L’opera in versi, per desiderio dell’autore verrà cambiato lo xenion I, 12: Il grillo di Strasburgo… sarà infatti sostituito in quella sede da La primavera sbuca col suo passo di talpa… e troverà posto alla
fine di Satura, fuori degli Xenia.
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LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
ma in ombra, in fantasma che proviene dall’oltremondo, ma ormai privato della vista, degli “occhiali”, cioè di quel “luccichio” che caratterizza l’epifania dell’oltre e ogni possibile rivelazione. il poeta conosceva bene il perché del nomignolo affettuoso “mosca” che gli amici avevano affibbiato a Drusilla tanzi –
per la leggerezza del suo procedere e per il salutare fastidio provocato dal suo
‘pungiglione’ ironico –, ma nella suite per la moglie morta non contano le vicende di ogni giorno, le note di colore, gli spunti cronachistici o romanzeschi,
bensì il loro significato profondo, metafisico: dal piano degli avvenimenti si passa immediatamente a quello degli eventi rivelatori. ecco perché l’apparizione
di Mosca si perde in una metaforica “foschia” e il poeta non può attuare il riconoscimento: il “luccichio” sarebbe il segno visibile che l’assente si fa presente, permetterebbe il colloquio con l’ombra, ma lei non porta più gli “occhiali”
per riconoscere e per farsi riconoscere, né dispone di altri strumenti di contatto (“Senza occhiali né antenne”, ribadisce l’esordio del secondo xenion). L’emergenza numinosa non è possibile perché la morte ha spento le ‘luci’ della donna, demandate a un mezzo esterno, a un oggetto-simbolo (e si pensi, per converso, al “duro sguardo di cristallo” di Clizia, più accecante del sole).
Mosca non ha neppure più “ali” (che nella lirica montaliana alludono al
volo salvifico, ma anche alla poesia), ed è dunque destituita di elementi soterici (“povero insetto che ali / avevi solo nella fantasia”, I,2), e per di più, specifica il secondo xenion, nessuna bufera si è scatenata al suo arrivo, negando
solennità (pur negativa) e tragicità all’evento potenzialmente rivelatore: “il nero
della notte, / un lampo, un tuono e poi / neppure la tempesta”.4 non la luminosità di Clizia, dunque, della messaggera angelica, ma neanche lo scatenamento della natura a introdurre una qualche presenza demonica: tutto si svolge –
anzi, non si svolge – entro una dimensione demitizzata, desublimata, indefinita, che tende al sacro ma non lo coglie (la stessa bibbia da cui legge il poeta
è “sfasciata ed anche poco / attendibile”). La miopia della moglie, che da viva
costituiva il suo vanto e il suo privilegio, rimarcandone l’inappartenenza al mondo e la veggenza di ciò che davvero è essenziale, è ormai soltanto prosaica perdita del “luccichio”, privazione dello sguardo numinoso, e si fa desolata compagna della parallela privazione della parola: “Forse che / te n’eri andata così
presto senza / parlare? Ma è ridicolo / pensare che tu avessi ancora labbra”.
i due xenia d’esordio della prima serie delineano così in modo esaustivo le modalità stinte e degradate entro cui si consuma il ritorno dai morti della donna amata. Quello che avrebbe dovuto essere un colloquio si rivela in realtà un monologo del poeta, frammentato e impotente, visitato da un fantasma
muto, non dall’affetto e dall’intimità consolatrice della moglie defunta. La confidenza è impedita, venendo a mancare ogni salda consistenza identitaria, e la
stessa “pietà di sé” si fa incerta, ambigua, come rivela lo xenion I,7, un epigramma tutto giocato sulla citazione, sul falsetto, sull’esibizione retorica (puntini
di sospensione, corsivo, parallelismi, parentetiche), come a celare sotto spesse maschere letterarie – qui il Trovatore verdiano, secondo quanto rivela l’ultimo verso: “‘Strana pietà … (azucena, atto secondo)” – l’insicurezza e lo sgo4
Un drammatico evento naturale che non si compie (se non nei modi dimidiati della contemporaneità) è presente anche in un’altra lirica di Satura, Lettera, legata al ricordo di Mosca: “Su
tutti il Potestà delle Chiavi, un illustre, persuaso / che noi fossimo i veri e i degni avant le déluge
/ che poi non venne o fu / poco più di un surplus dell’acqua alta”.
LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
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mento esistenziale, sul sottile filo tra speranza e disperazione, di chi “adora
il quaggiù e spera e dispera / di un altro … (Chi osa dire un altro mondo?)”. È
una “pietà” del tutto privata e personale, in ogni caso, per il poeta lacerato tra
il suo male di vivere, il senso della propria finitezza, e, malgrado tutto, un persistente amore per la vita. Con l’esclusione di ogni compassione storica per l’orrore del mondo e per gli uomini-automi che lo popolano e dominano, come Montale chiarirà in Satura e nelle raccolte poetiche successive. non resta al poeta
che un estremo tentativo di contatto con il caro fantasma: affidarsi al sortilegio di un segnale quasi magico stabilito con Mosca quando lei era ancora viva
per potersi ritrovare nei meandri del ‘dopo’: “avevamo studiato per l’aldilà /
un fischio, un segno di riconoscimento. / Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo” (Xenia, I,4). “Senza saperlo”, dice
il poeta, perché il confine tra vita e morte è sempre più labile ed enigmatico,
in quanto immanenza e trascendenza non sono nettamente separabili, come
Montale sapeva fin dai tempi lontani degli Ossi di seppia e della frequentazione di Boutroux e dei contigentisti francesi. al riguardo, viene in mente la chiusa epigrafica di quel vero capolavoro che è La casa dei doganieri, nelle Occasioni: “ed io non so chi va e chi resta”,5 dove tra la ragazza che è entrata nel
labirinto ed il poeta che è rimasto al di qua, nella casa di confine, non solo non
c’è più il “filo” di una memoria comune e risultano confusi i termini del rapporto, ma non si può neanche più sapere con precisione “chi va” e “chi resta”,
chi è vivo e chi è morto. il Montale di Xenia si trova in questo territorio non
giurisdizionale, ai confini tra vita e morte, dove la visitatrice dell’aldilà potrebbe anche essere solo un inganno della mente e l’attesa del poeta un sogno o
un’illusione. Ma, in ogni caso, il “segno di riconoscimento” studiato con tanto
affetto e pudore si perde nel nulla, non può funzionare, anzi fa da suggello alla
non-comunicazione, ad indicare un’apocalisse asettica e silenziosa, definitiva.
il desiderio di re-incontrare la moglie defunta in qualche luogo dell’oltremondo, sia pure in forme parziali o consuete o per intermittenze del cuore (“il desiderio di riaverti, fosse / pure in un solo gesto o un’abitudine”, I, 3),
rimane lettera morta e si deve dunque indirizzare verso il recupero del passato. il ‘dialogo’ prende così i connotati di una protratta consuetudine rievocativa di gesti, di momenti, di situazioni, di parole. Si tratta di un dialogo sul
filo della memoria, che è in realtà la più strenua difesa dell’identità profonda
dei due e che, paradossalmente, mostra come a tenere ancora legato alla vita
il poeta sia proprio lei, che viva non è più. il ricordo della moglie morta diventa così per Montale un ‘varco’ memoriale, pur umile e domestico, e in quanto
tale riesce a riattivare il colloquio, altrimenti impossibile. Soltanto, bisogna praticare altre strade, trovare inediti modi di comunicazione, “tener altro viaggio”,
come Dante smarrito nella “selva oscura”. e sarà un viaggio di immobilità, come
spesso nel novecento, un ‘moto immobile’ di conoscenza e decifrazione quasi metapsichica delle voci quotidiane del mistero: “Mi abituerò a sentirti o a decifrarti / nel ticchettìo della telescrivente, / nel volubile fumo dei miei sigari
/ di Brissago” (I, 8). La parola di Mosca era “stenta e imprudente” (faticosa, pre-
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
5
in un’annotazione a Le revenant, di Satura, Montale individua “l’autentico smarrito” non
in chi se ne è andato, ma nel superstite, cioè in se stesso, “smarrito da te che sei morta” (L. Greco,
Montale commenta Montale, Pratiche edizioni, Parma 1980, p.54).
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LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
caria, e insieme critica, feroce), eppure era l’unica di cui il poeta potesse appagarsi, ma ora non può più risuonare sulle labbra di una morta, ha perso suono e vitalità (“Ma è mutato l’accento, altro il colore”), per cui non restano che
segnali di comunicazione volubili e insicuri. Per aggirare le “ombre che si nascondono / tra le parole” e “sono / l’essenza della memoria” (come Montale
dirà in Botta e risposta III), il poeta dovrà abituarsi a percepire una realtà più
“stenta” e umile, sciogliendo gli enigmi della quotidianità per leggervi quella
trama segreta che il mondo non coglie e non considera. Cambiare atteggiamento, dunque, accettare l’inversione dei ruoli, passando dalla parola detta (anche
di quella poetica) all’ascolto dei minimi senhals (magari proprio l’eco della parola “stenta e imprudente” di Mosca) che possano provenire dall’oltre per via
di inattesi e sorprendenti recuperi memoriali.6 Per far questo, basterà prendere ispirazione proprio da Mosca, dalla sua oscura vitalità di ‘insetto’, la cui incipiente cecità la predisponeva all’ascolto (per il tramite delle “telefoniste, / le
tue amiche di sempre”, I, 3), come recita epigraficamente lo xenion I, 9: “ascoltare era il solo tuo modo di vedere. / il conto del telefono s’è ridotto a ben poco”.
La svolta dal dialogo impossibile sul limitare tra vita e morte alla ripresa e riconsiderazione delle forme di una memoria condivisa segna lo sviluppo semantico e stilistico della suite: ne viene un discorso unitario, compatto,
sviluppato in due serie di quattordici testi ciascuno, in cui ricordi, pensieri e
minimi gesti concorrono a formare una costellazione di eventi ampia quanto
coerente, mentre il tono memoriale, affettuoso e confidenziale, ma in certe impuntature scherzoso e persino sarcastico, trasferisce l’antilirismo fondamentale di Satura su di un registro più elevato e scelto, di rinnovato sublime d’en
bas. i tratti del canzoniere familiare e privato non si fermano mai a una forma diaristica o cronachistica e assumono una misura classica. opportunamente, richiesto di una testimonianza in occasione della pubblicazione di Satura,
vittorio Sereni parlò per gli Xenia di “classicità del privato, dell’intimo”, in cui
“il mito personale può diventare mito oggettivo o, se si preferisce, pubblico”.7
e farsi emblema, si può aggiungere, ovvero allegoria di una condizione di “decenza” non arresa alla storia e al degrado della contemporaneità. La protagonista è Mosca – non il poeta –, che non ha gli “occhi d’acciaio” di Clizia-iride
bensì “pupille offuscate” e “radar di pipistrello”, ma che trova un sicuro riscatto personale nel coraggio stesso di sopravvivere, di resistere agli eventi e all’“alluvione” delle cose, riservandosi come ‘missione’ umile e dimidiata il disvelamento di quella coincidentia oppositorum che i cantori del progresso vorrebbero negare. e fa questo a prezzo dell’incomprensione e della derisione del mondo, ovviamente, secondo la nota opposizione di origine cristiana del sapere negato ai sapienti e concesso agli umili:
6
Maria antonietta Grignani, lavorando sulle minute, ha dimostrato come Montale avesse improntato il suo lavoro di correzione dello xenion I, 8 proprio in questa direzione, dal primitivo “Di
poco, quasi nulla, ormai mi appago. / Mi abituerò a parlarti / col ticchettìo della telescrivente, / con
le volute lente del mio sigaro / di Brissago” al progressivo “Mi abituo ad ascoltarti” fino al definitivo “Mi abituerò a sentirti o a decifrarti” (M. a. Grignani, ‘Xenia’: appunti per uno studio dei materiali elaborativi, su “Strumenti critici”, n.25, ottobre 1974, pp.356-357).
7
La testimonianza di vittorio Sereni, insieme con quelle di Sergio Solmi e di Maria Corti, andò
in onda il 2 aprile 1971 nella trasmissione “Piccolo Pianeta letterario” del terzo Programma Radiofonico e venne riportata nella rivista “L’approdo letterario”, n.53, marzo 1971, alle pagine 110-112.
LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
il testo si regge su un duplice contrasto: tra il poeta e Mosca, legati insieme da una protratta fedeltà e dal confidente ‘contagio’ dell’abitudine (il cimurro è una malattia contagiosa che colpisce i cani giovani e i cavalli), e tra Mosca e “gli altri”, il mondo di fuori, gli “ingenui” che si credono “furbi”. il loro
limite è di fermarsi alle apparenze, di giudicare senza conoscere: scorgono nella donna soltanto la miopia e le frequentazioni mondane, scambiano le parole di lei con il “blabla / dell’alta società”, con la futilità delle chiacchiere e dei
riti alto-borghesi, individuano in lei quell’inconsistenza del reale che in realtà
sono loro stessi ad incarnare. Sono i tronfi eroi delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, presi nella rete a strascico della storia ma illusi di esserne fuori e di tenerla in mano: “Gli altri, nel sacco, si credono / più liberi di lui”,
dirà Montale dell’“ectoplasma / d’uno scampato” che non si è accorto della sua
libertà e di conseguenza non ne è “particolarmente felice” (La storia). Ma Mosca è ben consapevole di chi siano i veri ‘prigionieri’, e con la sua ironica saggezza (il suo sesto senso “infallibile”, il suo “radar di pipistrello”), li può smascherare uno ad uno. e non inganni l’apparente bassezza del paragone con il
topo volante: non solo per il consueto rovesciamento cristiano, che sta alla base
dell’antifrastico sublime di Xenia, ma più ancora perché la donna e il pipistrello hanno il privilegio di ‘vedere’ “anche al buio”, come soltanto Dio può fare.
Qui Montale rovescia un fortunato topos medievale, scolastico e dantesco,8 del
pipistrello quale allegoria della naturale incapacità dell’intelletto umano di comprendere le realtà divine e riconduce implicitamente l’occhio del pipistrello a
quello – in quegli autori opposto – dell’aquila che sostiene la luce del sole, cioè
di Dio. L’umiltà di Mosca è dunque immediatamente accostata alla sua sapiente e non rassegnata veggenza, che ribalta del tutto l’immagine di povero “insetto miope” che ne hanno gli altri, suoi inconsapevoli “zimbello”. La cifra più
vera della sua figura poetica è dunque il rovesciamento: la sua parola “così stenta e imprudente” è la sola lingua possibile della verità in un mondo dominato
8
nel Convivio, Dante scrive che, come “per le pupille del vispistrello”, “non altrimenti sono
chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro
corpo” (Dante, Il Convivio, a cura di F. Chiappelli ed e. Fenzi, in Opere minori di Dante Alighieri,
Utet, ii, torino 1986, p.115); e nell’ultimo canto dell’Inferno fornisce a Lucifero “grand’ali” di pipistrello, individuando in quell’animale demoniaco il principio del Male. al riguardo, si vedano i saggi di a. Gagliardi, L’aquila e il pipistrello (in Ulisse e Sigieri di Brabante: ricerche su Dante, Pullano,
Catanzaro 1992, pp.81-100), e M. Chiariglione, Il “vispistrello” del ‘Convivio’ (II, IV, 16-17) e dell’Inferno (XXXIV, 46-52), su “Campi immaginabili”, nn.46-47, 2012, pp.39-55.
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
(xenion I, 5)
41
42
LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
dalla confusione babelica dei linguaggi o dall’afasia, la sua cecità fisica apre la
via alla visione del profondo (come avviene per l’omero “mendico e cieco” dei
Sepolcri e il Leopardi dell’Infinito), la sua mancanza di ambizioni letterarie rivela la chiara consapevolezza che importante non è scrivere, ma vivere: “non
hai pensato mai di lasciar traccia / di te scrivendo prosa o versi. e fu / il tuo
incanto – e dopo la mia nausea di me. / Fu pure il mio terrore: di esser poi /
ricacciato da te nel gracidante / limo dei neòteroi”, dice lo xenion I, 6. Come
Bobi Bazlen, amico e confidente del poeta, anche Mosca non ha lasciato dietro di sé traccia di parole scritte, resistendo alla tentazione della gloria letteraria e così smascherando sia la società moderna del rumore e della “balbuzie”, sia anche, più in profondo, ogni residua illusione nel valore comunicativo della poesia. Si tratta di un evidente spunto autocritico, che Montale, il quale pure non ha mai veramente creduto al valore demiurgico della parola, svilupperà soprattutto nelle altre sezioni di Satura, dove sarà chiaro che la parola poetica non può più ambire – se mai l’ha fatto – a un parlare “per intero” (alla
lingua oracolare, del sacro e della verità) e deve rassegnarsi a un “mezzo parlare” (Incespicare), consapevole dei suoi limiti e dei suoi ridotti statuti.
Mosca preferisce davvero vivere, sia pure con la coscienza della precarietà, piuttosto che ‘vivere’ di letteratura, cioè non vivere. a Lisbona, mentre
il marito viene celebrato con i massimi poeti lusitani, lei spicca per il divertito humour di clown palazzeschiano: “Per nulla impressionata io ti vedevo piangere / dal ridere nascosta in una folla / forse annoiata ma compunta” (II, 10).
È il suo modo bizzarro di resistere alle mistificazioni, ai riti mondani del successo, e fa pendant con la sua capacità di ‘mordicchiare’ il mondo, di non negarsi alla realtà, anzi di assumerla in sé, “se anche / in dosi omeopatiche” (II,
7). La sua quindi non è una resa al regno dell’indeterminato, bensì l’esatto contrario: non dandosi più possibilità di fughe nel solipsismo né di cenacoli di happy few, l’unico modo ancora praticabile di resistere al mondo è proprio quello di assumerlo in piccole dosi per rimanerne fondamentalmente immuni. anche questa è un’“astuzia” di colei che sapeva trarre “incredibili agnizioni” (II,
4) dalle apparenze più comuni (il telefono e le telefoniste, gli “ombrelli smarriti”, il risotto meneghino) come dagli ambienti più distinti e lussuosi, subito
smascherati quali luoghi della fatuità mondana e del vuoto anonimato (si pensi ai grandi alberghi dell’élite europea, dal Saint james di Parigi dove “non amano / i clienti spaiati” alla “falsa Bisanzio” veneziana del Danieli). e che aveva
il coraggio di guardare dietro, non solo davanti a sé, per decifrare i messaggi
dell’ombra, dei dubbi e delle incertezze, della parte oscura di ciascuno di noi,
dato che “è possibile, / lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi” (I, 13).
ecco perché a comprenderla sono “solo persone inverosimili”, figure-ombre o personaggi eccentrici emersi da ambienti lontani, indistinti, che alla sua
morte svaniranno nel nulla, perdendosi in una voce soffocata al telefono o in
meccanici ripetuti gesti di cortesia. Come capita al dottor Cap, l’avvocato di Klagenfurt, “quello che manda gli auguri” (II, 2), che però attende troppo a venire in visita; o a “Celia la filippina” (II, 11), che dopo “un’infinità di tempo”, anche lei troppo tardi, infine si fa viva “da Manila o da altra / parola dell’atlante” per avere notizie della signora. Mosca appare in questi frangenti come l’oggetto assente – ma ben presente, nella memoria – della conversazione tutta reticenze ed esitazioni tra il poeta e i suoi patetici ospiti, la cui quête va incontro alla delusione. Si tratta di ‘ectoplasmi’ fuori del mondo e della storia, as-
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solutamente improbabili, vivi soltanto in un loro tic coattivo ed estemporaneo,
però fedeli alla ‘chiamata’: a loro è toccato un giorno lontano di riconoscere
la divinità in incognito che hanno incontrato per caso, su un torpedone di ischia
o in un altro punto dell’atlante, quali antifrastici re magi senza corona e senza stella cometa. Quel segno, però, si è poi dissolto con il venir meno di Mosca, la cui morte porta con sé, inevitabilmente, anche la sparizione dei suoi fedeli: il signor Cap, che infine è venuto, alla notizia “resta imbambolato, / pare
che sia una catastrofe anche per lui. tace a lungo, / farfuglia, s’alza rigido e
s’inchina. Conferma / che manderà gli auguri”. Celia s’informa per telefono,
voce lontana da uno spazio vuoto, e dinnanzi alle patetiche reticenze del poeta (“Credo stia bene, dico, / forse meglio di prima”, “Forse più di prima, ma …
/ Celia, cerchi d’intendere …”) si scioglie in un balbettio e tronca la conversazione, scomparendo per sempre (“una balbuzie / impediva anche lei. e riagganciò di scatto”). Della loro fedeltà rimangono un farfuglio e una balbuzie, poi il
silenzio. Con la sparizione dei fedeli, e in particolare dell’ultimo, il poeta, si realizzerà anche l’eclissi delle memorie.
altro destino è riservato agli oggetti-ricordo, testimoni di una lunga consuetudine affettiva e quindi in qualche modo totemici, magici. È il caso emblematico dell’infilascarpe dello xenion II, 3, “il cornetto di latta arrugginito” dimenticato al Danieli e finito probabilmente nel Canalazzo. Per gli altri era soltanto un “pezzaccio di latta”, inadatto al lussuoso albergo veneziano, e la cameriera Hedia, scrupolosa, se n’era certo sbarazzata per proteggere l’onore degli illustri ospiti: “C’era un prestigio (il nostro) da salvare / e Hedia, la fedele,
l’aveva fatto”. Ma per il poeta e per la moglie quell’oggetto richiamava invece
una complicità di affetti, era un oggetto-ricordo denso di significati memoriali (“L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe”). Un vero senhal identitario, ‘protettivo’, dal significato tutto interno all’idioletto della tribù – nessun valore generale, certo, nessun segno di salvezza collettiva, ma, del resto, l’“hellish fly”
Mosca non è la “cristofora” Clizia-iride –, eppure disprezzato dal mondo come
un’inutile cianfrusaglia. nella prosa di Auto da fé che illumina questi versi, L’uomo nel microsolco (1962), Montale annotava come spesso possa accadere che
“un oggetto insignificante diventi per noi un concentrato di passato, assumendo così una funzione di totem”,9 che nessun oggetto moderno, pur tanto più
bello e funzionale, potrà mai sostituire. nel racconto la funzione sacrale del
“magico e muto olifante arrugginito” era collegata al solo poeta, ma in Xenia,
significativamente, viene a concernere entrambi, accomunati dal ‘sapere’ ciò
che gli altri non sospetterebbero neppure, perché schiavi delle apparenze, dei
“similori” e degli “stucchi” (del peggio che simula il meglio, come si dirà in Satura) del loro albergo veneziano. È il solito rovesciamento di prospettive e di
valori che caratterizza i doni del poeta superstite per l’ospite defunta – sparita dal mondo, ma ben viva nelle memorie comuni, nei piccoli oggetti quotidiani e nei riti della loro ‘salvezza’ privata, oltre che nei suoi segreti, impenetrabili anche alla lunga consuetudine del poeta.
Ci sono rivelazioni e scoperte, infatti, che nessuno può condividere con
lei, neppure chi, dandole il braccio, abbia sceso insieme a lei “milioni di sca-
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e. Montale, L’uomo nel microsolco, in Auto da fé, ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, cit., p.281.
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Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
le”. Sono le “incredibili agnizioni” dello xenion II, 4, che Mosca rivela nei luoghi ‘infernali’ della natura e della storia, “uscendo dalle fauci di Mongibello /
o da dentiere di ghiaccio” (significativamente: dal fuoco e dal ghiaccio, che erano già gli elementi distintivi di Clizia, che di nome faceva irma Brandeis). esse
non concernono solo l’“astuzia” dell’intelligenza o l’arguzia del motto di spirito (il “piccolo insetto” amava deformare i nomi dei conoscenti e trarne imprevisti e bizzarri significati), ma il senso stesso dell’esistenza. Con le pupille pur “tanto offuscate” e la forza della debolezza Mosca scende dentro il magma del reale per demistificarne la tronfia insignificanza e illuminarne gli aspetti disumananti; e lo fa con mitezza e oltranza, portando insieme la carezza e
la spada: “Così eri: anche sul ciglio del crepaccio / dolcezza e orrore in una sola
musica”. Se Clizia esercitava la missione salvifica del visiting angel che nel volo
numinoso della sua “frangia d’ali” compone i contrasti, Mosca rappresenta invece l’antilogica dell’ossimoro, l’impossibilità di una definizione univoca della realtà e la coscienza della coincidenza degli opposti: qui per la compresenza in lei di “dolcezza e orrore”, nello xenion I, 14 per la sua consapevolezza
dell’identità dei contrari (il “moto” che è la “stasi”, il “vuoto” che è il “pieno”).
il suo, in fondo, è un “crudele e persino incongruo angelismo” (Forti),10 come
rivela l’ultima strofa dello xenion II, 12: “ti piaceva la vita fatta a pezzi, / quella che rompe dal suo insopportabile / ordito”, dalla banale e spessa rete della quotidianità. Per essere davvero se stessi bisogna uscire dalla trama ingannevole dei giorni, dal “paretaio”, dove, come Montale aveva scritto in limine a
Satura, non si può essere certi del proprio volto (“il male / è che l’uccello preso nel paretaio / non sa se sia lui o uno dei troppi / suoi duplicati”, Il tu). e per
uscirne non ci si può esimere dagli strappi dolorosi (“muoversi / è uno strappo”, spiegherà Verso il fondo, nel Diario del ’71), dalle lacerazioni, dall’unghiata predatoria dei falchi, i signori dell’aria e della “vita fatta a pezzi” in “una zuffa di piume soffici”.
L’agnizione segreta di Mosca è quella stessa dei bambini, “teneri e feroci”, che vivono senza troppe remore (“non hanno / amor di Dio e opinioni”),
“s’infilano / negl’interstizi più stretti” e non si curano della differenza che c’è
“tra un corpo e la sua cenere”, tra la vita e la morte (Un mese tra i bambini).
ed è simile alla saggezza antifrastica della ‘folle’ ragazza protagonista della suite Dopo una fuga, “animale innocente / inconsapevole / di essere un perno e
uno sfacelo, un’ombra / e una sostanza, un raggio che si oscura” (Il primo gennaio). anche Mosca è portatrice della duplicità e disponibile allo smascheramento e alla ‘distruzione’. ne sono una prova evidente, per il poeta, i suoi apocalittici scoppi di risa, importuni e imprudenti non meno delle sue parole: “Ricordare il tuo pianto (il mio era doppio) / non vale a spenger lo scoppio delle
tue risate. / erano come l’anticipo di un tuo privato / Giudizio Universale, mai
accaduto purtroppo” (xenion I,11). Più che di svago o di divertimento, le sue
sono risa di giudizio e di condanna (un giudizio definitivo, inappellabile, come
quello di Dio nell’ultimo giorno),11 che svelano lo svilimento dei cuori e mar-
10
M. Forti, Eugenio Montale. La poesia, la prosa di fantasia e d’invenzione, Mursia, Milano
1973, p.375.
11
“il riso della protagonista degli Xenia […] è l’epifania del Deus ludens, interpretata in senso decisamente apocalittico” (G. Barberi Squárotti, Satura, satira e altro, 1972, in Gli inferi e il labirinto, Cappelli, Bologna 1974, p. 262).
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cano la distanza tra il “caro piccolo insetto”, umile e veggente, e il mondo degradato e cieco dell’apparenza. attraverso di esse, soprattutto, si esprime quella “gaia scienza” che Montale ha posto a fondamento di Satura in un’intervista di Mario Miccinesi; “L’‘irridente rifiuto’ non è il motivo principale del libro;
tutt’al più è la punta compiaciuta, e secondaria, di una certa gaia scienza che
è poi una conquista, un premio di consolazione per la tarda età raggiunta”.12
Questa “gaia scienza”, basata sulla logica antidialettica, ribalta ironicamente
la scala dei valori mondani e dei giudizi accreditati, ne svela il fondamento paradossale ed è “un’attitudine spirituale antica in Montale, che ora si manifesta
per viam negationis come, nel cielo di Clizia-iride, si sublimava in forma numinosa” (Marchese).13
Se la “cristofora” aveva ricevuto dall’alto la missione di comporre gli opposti, Mosca sa che, al di là delle singole evenienze, gli opposti sono tali soltanto in apparenza e convergono tra loro, anzi finiscono per coincidere gli uni
con gli altri, e allora il modo più consapevole per far fronte alla terribile rivelazione sarà un umorismo dolente e arguto, che sappia trascrivere nei termini di una realtà bassa e dimidiata anche gli interrogativi più inquietanti: come
quello sulla salvezza e sulla dannazione. ne fanno fede gli xenia II, 6 e II, 8, da
leggersi in sinossi, in cui l’allusione ai destini ultraterreni dell’inferno e del Paradiso è mediata da due vini valtellinesi che portano il medesimo nome. Dice
il primo: “il vinattiere ti versava un poco / d’inferno. e tu, atterrita: ‘Devo berlo? non basta / esserci stati dentro a lento fuoco?’”. Gli fa eco il secondo: “‘e
il Paradiso? esiste un paradiso?’ / ‘Credo di sì, signora, ma i vini dolci / non li
vuol più nessuno’”. È chiaro che il registro comico e scherzoso è solo un rivestimento, che non cela ma anzi svela il “nòcciolo /duro” (Un mese tra i bambini) che gli sta sotto. C’è in questi versi un pudore a dire apertamente le cose
decisive, per cui all’autore sembra preferibile ricorrere al falsetto, alla parola
faceta e meno impegnativa. Si parla d’altro, ma per parlare dell’Altro. e il gioco, ironico e dolente, riesce: la cornice mondana non inficia bensì esalta il dialogo teologico-metafisico, che si impone per via di allusioni e di citazioni. il perno del discorso sta infatti nell’implicito slittamento di significato dall’inferno
quale nome di un vino rosso della valtellina all’inferno esistenziale di tutti i
giorni (“L’inferno che si ripete” di Götterdämmerung), in cui la stessa Mosca
non può vivere senza angoscia; e sta nella parallela destituzione di significato del concetto di Paradiso, cioè del tramonto della metafisica dalla scena e dai
discorsi del mondo, perché “i vini dolci / non li vuol più nessuno”. il dialogo
con il “vinattiere” sembra arrendersi al bizzarro e al fantastico, ma in effetti
è gnomico-sentenzioso ed allegorico: la donna, “atterrita”, condivide la sofferenza degli uomini (si ricordi Ballata scritta in una clinica, nella Bufera, lontano modello degli Xenia, in cui Mosca è assediata dall’“emergenza” della malattia e dall’incombere minaccioso dell’“altra emergenza”, la morte) e per un momento sembra deprecare da sé il calice della passione (“Devo berlo?”), ripetendo nella forma desublimata e parodistica della modernità le parole di Gesù nell’orto del Getsemani. L’umiltà e persino la banalità del racconto riescono di con-
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12
e. Montale, Il Montale di ‘Satura’ (1971), ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, cit., p.1702.
13
a. Marchese, Montale. La ricerca dell’Altro, Messaggero, Padova 2000, p. 281.
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Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
tinuo alla sublimazione dei significati, per cui l’aneddoto si fa parabola e il “caro
piccolo insetto” allegoria del Cristo sofferente e tormentato.
Ma sempre, lungo i 28 brevi testi di Xenia, dietro ogni episodio di apparente ovvietà o uno spunto stravagante stanno in agguato, con i loro inquietanti interrogativi, il dubbio esistenziale e l’emergenza metafisica. Si pensi alle preghiere bislacche e strambe di Mosca, che nello xenion I, 10 il poeta rivela al prete, dopo la morte di lei, in un dialogo ai limiti dell’assurdo che termina con una
postuma assoluzione: “‘Pregava?’ ‘Sì, pregava Sant’antonio / perché fa ritrovare / gli ombrelli e altri oggetti / del guardaroba di Sant’ermete’. / ‘Per questo solo?’
‘anche per i suoi morti / e per me’. / ‘È sufficiente’ disse il prete”. Si tratta, con
tutta evidenza, di stravaganze da donnicciola, come poi, nello xenion II, 9, l’avversione, ai limiti del morboso, per le suore e per le donne in lutto: “Le monache e le vedove, mortifere / maleodoranti prefiche / non osavi guardarle. Lui stesso che ha mille occhi, / li distoglie da loro, n’eri certa”. Sono forme di religiosità abbassata e superstiziosa, di fobie e di credenze paganeggianti, che, a conferma della coincidentia oppositorum di cui Mosca è figura, si trovano a coesistere in lei con il coraggio dell’esistenza e con la sfida metafisica. e infatti nel primo testo le preghiere di Mosca riguardano anche i propri defunti ed il poeta, nella piena assunzione del suo duplice compito di pietosa custode delle memorie
familiari e di consolatrice di chi le sopravvive; e nel secondo il fastidio per le monache e le vedove funge da innesco grottesco e retorico per introdurre il tema
del sacro e parlare di Dio, sia pure in preterizione: “L’onniveggente, lui … perché tu, giudiziosa, / dio non lo nominavi neppure con la minuscola”.
Siamo in presenza di una religiosità volutamente dimessa, spoglia, inquieta, che si muove tra un’amara ironia sull’aldilà (la scherzosa diatriba sull’esistenza o meno del Paradiso) e un dichiarato agnosticismo quando il sospetto della trascendenza potrebbe farsi più urgente al cuore e alla mente. È un tema
spinoso che, ben oltre le pratiche più o meno superstiziose, attinge allo scandalo della vita e della morte e alla sostanziale innominabilità di Dio, perché il
Dio di Satura è prossimo al Deus absconditus della teologia protestante radicale del novecento, da Barth a Bonhoeffer. Un Dio che è assenza o almeno lontananza, metafora di una mancanza o di uno smarrimento, da nominare soltanto con la minuscola – anzi, da non nominare neppure, come insegnava la
“giudiziosa” Mosca al suo incerto discepolo (il “povero nestoriano smarrito”
di Iride, nella Bufera). eppure è proprio questo dio rimpicciolito e stravolto il
“punto” vitale, ineludibile, per colei che pure guardava con nonchalance e con
freddo distacco all’esistenza (con “le sue fiere / di vanità e ingordige” e le sue
“cancrene universali”: le guerre, le malattie, la fame) e alla sua fine (“La morte non ti riguardava”, malgrado la lunga sequela di morti familiari): “Una tabula rasa; se non fosse / che un punto c’era, per me incomprensibile, / e questo punto ti riguardava”, conclude con grande forza assertiva lo xenion II, 1.
Mengaldo14 ha identificato questo “punto” nella verità di cui Montale parla in
Tempo e tempi (“la sola verità che, disvelata, / viene subito espunta da chi sorveglia / i congegni e gli scambi”), ed è identificazione corretta, ma ancora par14
“La verità è dunque la cosa anteriore ed assente, si celebra negativamente nel vuoto che
è il pieno e che ‘anche al trapano / resiste’ (Ex voto), è un niente, forse accaduto, che può essere
tutto” (P. v. Mengaldo, Primi appunti su ‘Satura’,1972, poi in La tradizione del Novecento, Feltrinelli, Milano 1975, p. 340).
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ziale. Più completa è l’analisi di agosti: “ora il ‘punto’ è, qui, Dio, cui è dedicata l’ultima lirica del volume: L’Altro. Per il poeta, Dio è, dunque, l’“altro” (è
“incomprensibile”); per la protagonista, è invece punto centrale e comprensivo della totalità delle cose”.15 infatti non la riguardano la vita e la morte, che
variano tra loro per pochi segni, come mostrano i testi proemiali della prima
parte di Xenia, ma la ‘riguarda’ Dio, nel duplice senso che le importa, le interessa, ma anche che la ri-guarda, cioè la guarda nuovamente, ex novo, la scruta con il suo occhio “onniveggente”, la identifica, fino ad infonderle un poco
della sua forza visiva, prestando alle sue pupille “tanto offuscate” il debole “luccichio” di un paio di occhiali e un infallibile “radar di pipistrello”.
Mosca è fondamentalmente figura del divino, nel modo antifrastico e stravolto solo concesso alla contemporaneità, entro una teologia negativa di cui,
appunto, ‘fa fede’ per paradosso proprio l’antilogica della compenetrazione dei
contrari. nel mondo dell’“ossimoro permanente” che permea ogni aspetto dell’esistenza, anche la salvezza non può che essere ossimorica. Per questo gli Xenia vanno visti alla luce di Botta e risposta I, la lunga poesia che apre Satura
(dopo Il tu, che le fa da epigrafe) e che con il suo radicale antistoricismo fornisce la chiave di lettura dell’intero volume. alla donna “asolante” che gli chiede di “sospendere / l’epoché” e di abbandonare una posizione politico-ideologica di disimpegno non più giustificato dai tempi, il poeta risponde tracciando le linee di un’autobiografia che è anche la desolata biografia di mezzo secolo di storia italiana, segnata prima dalla dittatura fascista (le “stalle d’augìa”,
rinchiuse entro “bastioni d’ebano, fecali”) e poi da una liberazione soltanto apparente e fittizia: per l’italia, in cui nulla è mutato nella sostanza (“Che senso
aveva quella nuova / palta? e il respirare altre ed eguali / zaffate? e il vorticare sopra zattere di sterco?”), come per lo stesso Montale, per il quale la “prigionia” si è fatta esistenziale ed ontologica (“Ma ora / tu sai tutto di me, / della mia prigionia e del mio dopo; / ora sai che non può nascere l’aquila / dal
topo”). ecco perché l’ottica di Satura non è semplicemente comica o moralistica, come di norma avviene nel genere satirico, ma è quella apocalittica del ‘dopo’
l’alluvione (quella causata dallo “stravolto alfeo” di Botta e risposta I e, più ancora, quella contemporanea del consumismo, dello sperpero indifferenziato,
dell’inquinamento universale), quando detriti e scorie hanno ormai soffocato
ogni cosa entro una fetida palude. ed è questa, a ben vedere, l’ottica stessa di
Xenia, il cui ultimo testo fa dell’alluvione fiorentina del 1966 la figura allegorica del naufragio generale dell’io e delle cose. Certo, negli Xenia il grottesco
e la satira e l’aperta parodia hanno ancora uno spazio molto ristretto, ma questo non per diversità di condizioni oggettive (il ‘fuori’ vi fa irruzione e determina un diffuso prosaicismo, come nelle altre sezioni di Satura), bensì per la
strenua resistenza ancora operata dalla figura poetica di Mosca, la cui umiltà
di comportamenti e di parole non va divisa dall’elevazione figurale e dall’innalzamento simbolico che rappresenta. L’“insetto miope” e senza “ali” è infatti l’ultima possibile incarnazione della donna soterica e consolatrice, e allora
proprio l’abissale distanza che separa Mosca dalla “messaggera accigliata” Cli-
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15
S. agosti, Forme trans-comunicative in ‘Xenia’, in Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Rizzoli, Milano 1972, p. 199.
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zia (il modello per antonomasia della visiting angel) testimonia del naufragio
irreparabile delle speranze montaliane. in realtà, dalla Bufera a Satura non è
mutata la funzione della figura femminile, né sono cambiati significativamente i suoi attributi (gli effetti riduttivi concernono più le caratteristiche esteriori che non le qualità profonde). Quelle che sono radicalmente cambiate sono
le coordinate storiche ed esistenziali entro cui dovrebbe svolgersi l’opera della ‘salvatrice’, e quindi il suo esito.
Se l’iter salvifico di Clizia seguiva uno sviluppo ascensionale, dal contingente al divino, per poi riversarsi sul mondo (o almeno sui fedeli) per redimerlo, il percorso di Mosca sembra piuttosto rovesciarsi all’ingiù e non uscire dai
limiti del contingente, proprio come quello di un povero angelo che abbia “ali”
“solo nella fantasia” (non possa volare) e debba fare i conti con “il nero della
notte” (I, 2). È il destino delle minime “divinità in incognito” che popolano i versi di Satura e degli ultimi libri di Montale, prima fra tutte l’“angelo nero” della lirica omonima, vero e proprio alter ego di Mosca (e della poesia):16 “o piccolo angelo buio, / non celestiale né umano, / angelo che traspari / trascolorante difforme / e multiforme, eguale / e ineguale, nel rapido lampeggio / della tua incomprensibile fabulazione”. operatori di furtivi e misteriosi miracoli, ignoti al mondo, per lo più inconsapevoli e “ignari / della loro parvenza”,
questi antifrastici e quotidiani messaggeri del sacro si fanno presenti nella discontinuità del tempo e nei minimi interstizi del reale, sempre a rischio di esaurimento e di una prossima scomparsa, ma in realtà più duraturi dei secoli della storia (“Gli angeli resteranno inespungibili / refusi”, Laggiù). Proprio come
la protagonista degli Xenia, che neanche la morte fisica ha potuto stroncare nelle sue significazioni profonde.
La presenza, e poi l’assenza – non meno rivelatrice – di Mosca, col recupero memoriale di cui si è detto, concorrono insieme a definire anche la condizione esistenziale del poeta, che in lei, e nel suo contrastato destino, si riconosceva fin dai tempi della Bufera (“ed io mi volsi e lo specchio / di me più
non era lo stesso / perché la gola ed il petto / t’avevano chiuso di colpo / in
un manichino di gesso”, Ballata scritta in una clinica ). Un rispecchiamento critico, ma insieme pieno di affetto e di confidenza, che nasce dalla comune ricerca identitaria e dall’incertezza delle radici: “Ho appeso nella mia stanza il
dagherròtipo / di tuo padre bambino: ha più di un secolo. / in mancanza del
mio, così confuso, / cerco di ricostruire, ma invano, il tuo pedigree. / non siamo stati cavalli, i dati dei nostri ascendenti / non sono negli almanacchi”, apre
lo xenion II, 13. L’immagine centenaria del padre di Mosca non serve però a ricostruire ascendenze familiari credibili, come il ritratto infantile di lei (“la bimba scarruffata che mi guarda / ‘in posa’ nell’ovale” dello xenion I, 13) nulla può
rivelare della precoce morte del fratello Silvio e del suo destino di fallimento
(“Scrisse musiche inedite, inaudite, / oggi sepolte in un baule o andate / al màcero”). tali oggetti ‘artistici’, che pure dovrebbero essere primarie espressioni di identità e di poesia (si tratta di due ritratti) rimangono un inerte e muto
rispecchiamento del passato, in quanto – non ‘toccati’ dalla mano epifanica di
16
“La poesia, con il suo linguaggio pieno di ombre e di non detto, è una delle forme di infrazione della necessità che domina il reale, il corrispettivo del miracolo rappresentato da angeli
visitatori, che solo il poeta può intravedere tra i disguidi del possibile” (e. Gioanola, Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive, jaca Book, Milano 2011, p. 355).
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Mosca – non possono trasformarsi in talismano, in oggetto-simbolo disvelatore di senso, come avviene invece per l’infilascarpe arrugginito smarrito al Danieli. Chi vive non sa di vivere e non riconosce i propri antenati, loro non guardavano ad una discendenza; e, in più, trovarsi in vita non è ancora esistere: “Coloro che hanno presunto / di saperne non erano essi stessi esistenti, / né noi
per loro”. nel tempo svilito della contemporaneità come nel succedersi delle
generazioni regnano dunque la confusione, la solitudine, la non conoscenza,
e anche i ricordi sono soggetti a una drammatica entropia in un tempo di dubbia fedeltà e memoria, ma la sconvolgente presenza-assenza di Mosca ha tracciato un segno che permane riconoscibile, un “solco […] inciso”, indelebile, come
la trottola di Palio prima di spuntare il suo “perno”: “eppure resta / che qualcosa è accaduto, forse un niente / che è tutto”, conclude infatti lo xenion II, 13,
rilanciando in extremis quella coincidenza degli opposti che è un tipico senhal della presenza di Mosca e, per suo tramite, di Montale stesso, in cui la coscienza del “male di vivere” convive leopardianamente con un disperato amore per la vita.
Lungo questa strada, decisivo è stato proprio il magistero da “divinità
in incognito” della moglie morta. Lo conferma lo xenion I, 14: “tu sola sapevi
che il moto / non è diverso dalla stasi, / che il vuoto è il pieno e il sereno / è
la più diffusa delle nubi”. Questa consapevolezza, e la “gaia scienza” che lei
ne aveva tratto, la rendono l’interlocutore privilegiato dei versi di Xenia, pur
scritti nel segno della sua assenza. Ma, come si è detto, la sua irrimediabile lontananza nella morte è per chi è rimasto un’assenza-presenza, una realtà enigmatica eppure tangibile, vera. Se Mosca non ha più sembianze umane riconoscibili continua tuttavia ad esistere, e a lei ‘appartiene’ ciò che il poeta ha scritto per lei e con lei:17 “Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. /
Ma s’era tua era di qualcuno: / di te che non sei più forma, ma essenza”. i critici, opportunamente “depistati” (si ricordi Il tu che apre Satura), non se ne possono accorgere, prigionieri di formule stereotipate, ma Mosca, con le sue “incredibili agnizioni”, lo sa da sempre. Come sa che sapere non vuol dire non soffrire, ma anzi, semmai, soffrire di più, condividere anche la sofferenza degli
altri, facendosene dimostrazione ed exemplum, fino quasi a portarla su di sé
in una lunga via crucis che per suprema ironia si compie nelle forme dell’immobilità più completa e nella paralisi: “Così meglio intendo il tuo lungo viaggio / imprigionata tra le bende e i gessi. / eppure non mi dà riposo / sapere
che in uno o in due noi siamo una sola cosa”. La solitudine dell’individuo rimasto abbandonato dal suo angelo, dello ‘spaiato’ in vita, può farsi ancora unità e confidenza con la donna morta, ma soltanto nella dimensione malcerta dei
ricordi e senza più il ‘materno’ sostegno di lei, quindi con un surplus di inquietudine e di paura.
L’inquietudine delle memorie verrà ribadita nel testo conclusivo di Xenia, dove, a lenitivo delle sofferenze del poeta, ancora una volta ritornerà la
funzione consolatrice e vitale della moglie morta, esemplata nel suo “coraggio”
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invero, prendendo spunto da una lirica del Diario del ’72, Quel che più conta (“e salutiamo con umiltà gli iddii / che ci hanno dato una mano durante il nostro viaggio, / veneriamo i loro
occhi, i loro piedi / se mai n’ebbero, i doni che ci offersero”), ci si potrebbe spingere anche oltre: e
se gli Xenia fossero non i doni a Mosca, bensì i doni di Mosca, e l’ospite ‘visitato’ dal dono fosse
quindi il poeta stesso (“l’autentico smarrito” di Le revenant), rimasto nello spazio-tempo precario
tra vita e morte?
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LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
non arreso alle più terribili avversità. Costruito su un’ampia allegoria tragicogrottesca, lo xenion II, 14 parla infatti di una catastrofe naturale, l’alluvione di
Firenze del novembre 1966, ma la assume quale esempio emblematico di una
condizione storica e personale di precarietà e di deiezione: “L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, / delle carte, dei quadri che stipavano / un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto […] Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura / di nafta e sterco”. Senza far distinzioni tra preda e preda, la furia delle acque ha travolto ogni cosa nella sua opera distruttrice: i mobili e gli effetti personali, i libri più preziosi (“le sterminate dediche di Du Bos, / il timbro a ceralacca con la barba di erza, / il valéry di alain, l’originale / dei Canti orfici”)
e le inutili “cianfrusaglie” (ovvero “la poesia e la fogna”, per dirla con un verso di Dopo una fuga). Montale si serve ancora dell’elencazione ellittica, suo tipico modus sintattico, oggettuale e ‘realistico’, che qui si fa subito enumeración caótica, elenco stravolto di oggetti (e quindi di valori) diversissimi tra loro
e mescolati alla rinfusa, senza più alcuna gerarchia. il discorso finisce quindi
per assumere una chiara funzione demistificante nei confronti dei Du Bos, dei
valery, dei Pound, dei Campana, cioè proprio di quella costellazione di cultura e di poesia nuove, coraggiose e non provinciali, che l’autore degli Xenia aveva contribuito tanti decenni prima a valorizzare e a diffondere in italia. L’unico criterio distintivo che ancora possa valere – nel mondo dell’amalgama indistinto e della “focomelia concettuale” (Lettera a Malvolio) – è quello della resistenza disperata al conglomerato alluvionale, alla “morsura di nafta e sterco”, e sotto questo punto di vista non c’è possibile distinzione, di pregio o di
destino, tra l’‘alto’ e il ‘basso’, tra il comune pennello da barba e i rari “marocchini rossi” (i preziosi volumi dalle rilegature di cuoio): “Certo hanno sofferto / tanto prima di perdere la loro identità” ed essere ridotti a poltiglia, cioè
al “pack” d’apertura, che in Auto da fé Montale aveva usato spregiativamente
per indicare la cultura di massa.18 Così, con la loro “identità” precaria ed assediata, questi oggetti possono diventare lo specchio veritiero dell’io del poeta,
incerto di esistere ed esposto al dissolvimento del tempo e della storia: “anch’io sono incrostato fino al collo se il mio / stato civile fu dubbio fin dall’inizio. / non torba m’ha assediato, ma gli eventi / di una realtà incredibile e mai
creduta” (e, a rinforzo, si legga il verso d’apertura dello xenion II, 7: “non sono
mai stato certo di essere al mondo”). inoltre, il protagonismo esasperato degli oggetti e la connessa difficoltà dell’autore ad assumere un punto di vista
ordinatore e giudicante evidenziano ancora di più la crisi del soggetto e della
poesia. Ritornano quindi, in un contesto affatto diverso, degradato e scatologico, il tema dell’identità mancata e il problematicismo degli Ossi di seppia (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”) e
delle Occasioni, a conferma di una costanza di motivi e di pensiero, piuttosto
che di una frattura, tra le prime raccolte montaliane e Satura.
i miasmi della natura e della storia (dove significativamente lo “sterco”
di dantesca memoria si accompagna alla “nafta” della società moderna) non hanno però l’ultima parola, nello xenion in questione e dunque nell’intera sezio18
“Sarebbe assurdo attendersi che quando il pack del collettivo abbia toccato il massimo
grado di solidità l’idea stessa di un’arte individuale, o addirittura di un’arte, non suoni come irrimediabilmente oltraggiosa” (e. Montale, Variazioni IV, in Auto da fé, ora in Il secondo mestiere. Arte,
musica, società, cit., p.179).
LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
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ne. nell’explicit, infatti, di contro alle alluvioni storiche e metastoriche si leva
alto il “coraggio” di Mosca, come strumento di comprensione e di resistenza
al mondo e come appoggio diretto, strettamente privato, al poeta: “Di fronte
ad essi il mio coraggio fu il primo / dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo”.
È un coraggio agonistico, quello della donna, che si irradia sugli sparsi ‘fedeli’, un rifiuto nuovo dell’epoché che non significa compromesso con le ideologie (ottimistiche) del mondo, ma invece sfida, ironia, presa di distanza, sguardo dal di fuori, cioè demistificazione delle illusioni mondane e metafisiche e
della stessa letteratura.19 e che vuol dire soprattutto coscienza del dolore, della sofferenza dell’esistenza, come il “caro piccolo insetto / che chiamavano mosca” ha insegnato con la sua testimonianza (letteralmente: il suo martirio) al
perplesso “cane fedele e incimurrito” che pensava di condurla nei giorni della vita e in realtà ne veniva condotto. il coraggio della donna, come d’obbligo
per una compiuta imitatio Christi, tocca poi il culmine nel momento supremo
del morire, quando Mosca avrebbe più bisogno di ricevere consolazione ed aiuto e invece è lei a darne: “Ma tu dicesti solo / ‘prendi il sonnifero’, l’ultima /
tua parola – e per me” (xenion I, 12). La sua ultima parola è per il poeta che rimarrà solo, senza angeli custodi più o meno in incognito, e significativamente è una parola di preoccupazione e di affettuoso conforto per lui che resta,
non per sé stessa che va.20 La dissolvenza fisica non implica il venir meno degli affetti, dei solchi tracciati insieme, delle memorie condivise, anche se ormai l’inventario dei ricordi si accampa nel vuoto universale del ‘dopo’ e se ciò
che l’altra persona ha pensato nei suoi ultimi istanti rimarrà per sempre ignoto anche a chi con lei abbia condiviso il linguaggio intimo e confidenziale dell’amore (e ne è un esempio l’elencazione protratta di cose e personaggi che potrebbero essere riapparsi a Mosca “allora”: un elenco ai limiti del crittogramma per il lettore, escluso dall’idioletto della coppia).
Ma se il coraggio appartiene alla donna, e soltanto per transfert affettivo si è in parte esteso al “povero nestoriano smarrito”, questo coraggio se ne
può andare insieme a lei, alla sua definitiva scomparsa, e lasciare il poeta attonito e impotente, inerte di fronte a quanto ancora gli rimane da vivere. Da
solo con se stesso e con le sue dolenti e luminose memorie, come racconta lo
xenion, II, 5, che per l’umile ‘sublimità’ delle immagini e l’allusiva nonchalance con cui viene riproposto il topos della vita come viaggio è certamente una
delle prove più significative della suite:
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“ancora una volta la donna diventa simbolo della resistenza, come ieri al fuoco ustorio
della storia, così oggi all’alluvione. Ma ora non si dà più salvezza nello splendore e nell’elevatezza
di una luce tutta intellettuale, né nella sacralità dell’arte; si dà solo possibilità di ‘durare’ acquattandosi negli spiragli o negli interstizi e affidandosi a un ‘coraggio’ e a una sapienza da ‘insetto’.
Sta affondando l’ipotesi del privilegio e del primato della poesia” (R. Luperini, Storia di Montale, Laterza, Bari 1986, p.222).
20
L’occasione allo xenion I, 12 è rintracciabile in un’intervista ad achille Millo risalente al
1968: “Che cosa pensa la gente quando muore? Forse pensa a cose insignificanti, bazzecole, bagatelle, argomenti di nessun interesse che, dimenticati nella memoria, in quel momento vengono in
mente. / Che cosa ha pensato, morendo, mia moglie? Forse si è ricordata di un mese che passammo a Strasburgo […] in realtà lei disse una cosa che nella poesia si legge all’ultimo verso. Una cosa
molto gentile, molto cara. Si vede che lei sapeva di andarsene, e pensava che questo fatto doloroso mi avrebbe sconvolto” (e. Montale, A vent’anni sapevo soltanto ciò che non volevo, 1968; ora in
Il secondo mestiere. Arte, musica, società, cit., pp. 1679-1680).
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
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LA PRESENZA-ASSENZA DI MOSCA. LETTURA DI XENIA
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
La metafora del viaggio dell’esistenza è rinnovata nel viaggio a due, in
cui lui conduce la moglie nella realtà visibile e fattuale (“dandoti il braccio”, cioè
sostenendola, accompagnandola), però è lei a guidarlo oltre le apparenze, perché è l’unica dei due ad avere “vere pupille”, che, benché stanche ed “offuscate”, siano tuttavia esercitate allo svelamento degli inganni del mondo (per il Montale di Satura vedere è sempre un disoccultare, uno “svelare”, come dice L’Arno a Rovezzano). La forza di Mosca nasce proprio dalla sua consapevole e riconosciuta debolezza: siamo al consueto rovesciamento di prospettive, attuato secondo l’exemplum del ribaltamento biblico, per cui Dio ha scelto l’umile
per confondere i potenti e chi è cieco per guidare coloro che si illudono di vedere. Ma nello xenion II,5 la figura del rovesciamento opera più in profondità
ancora ed attiene alla funzione stessa della figura del ‘viaggio’, dall’Odissea in
poi. Per l’Ulisse omerico (come, sia pur in tutt’altro contesto culturale e religioso, anche per quello di Dante) il viaggio è la trascrizione in termini di realtà della ricerca del vero e della sete di conoscenza, mentre il viaggio di Mosca
e di Montale (richiamato in sineddoche dal “milione di scale”) si presenta piuttosto come una discesa ripetitiva e faticosa, uno slittamento senza soluzione
di continuità e senza meta. È un viaggio che non conduce da nessuna parte se
non all’ingiù – e cioè alla morte – e che, per di più, subisce una costante deformazione riduttiva anche a riguardo delle sue condizioni di svolgimento, fino
alla mimesi del banale quotidiano con i suoi prosaici inghippi e le sue “trappole”, con le “coincidenze” da non mancare e le “prenotazioni” obbligate prima di partire.
non di un’alta avventura dunque si tratta, di una decisiva ricerca di senso, bensì della più grigia coazione a ripetere, del lento precipitare nell’entropia di un tempo avvolgente, soffocante, non più nemmeno misurabile (“è stato breve il nostro lungo viaggio”). L’abbrivio ai versi viene dall’immagine, consueta alla società dei consumi, delle “scale automatiche dei templi di Mercurio” (le scale mobili dei grandi magazzini), affollate da una moltitudine di “cadaveri in maschera” (Gli uomini che non si voltano), ovvero dalla nuova umanità degradata che “crede / che la realtà sia quella che si vede”. Si tratta dell’ennesima ripresa, ora sistematicamente abbassata di livello, di immagini e di
tono, del mito platonico della caverna, già adombrato dal giovane Montale in
Forse un mattino andando (“Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto /alberi case colli per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me
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ne andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”). Ma mentre negli Ossi di seppia l’atteggiamento del poeta era stato di rivendicazione
orgogliosa del proprio isolamento e di sfida non arresa alla prigione della necessità, all’“inganno consueto” del mondo come rappresentazione, in nome della poesia e di un antifrastico “miracolo” (la scoperta del “nulla”), negli Xenia
e in Satura, con la lontananza definitiva di Mosca e il conseguente ispessirsi
dell’opacità del mondo, delle sue false apparenze (“tutto / è per il meglio e inutile”), sono subentrati la stanchezza, la disillusione e un definitivo scoramento. “Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo”, chioserà amaramente l’autore in Prima del viaggio, a conferma della chiusura a carapace del mondo contemporaneo e a definitivo sigillo di un’avventura poetico-intellettuale nata da un’esistenza che in realtà forse non è mai stata vissuta (come, con il distacco dell’ironia, sembrerebbe insinuare la logica nullificante del Notaro, proprio in conclusione del libro: “il notaro ha biffato le lastre / dei miei originali. / tutte meno una, me stesso, / già biffato all’origine
/e non da lui”).
Marino Boaglio La presenza-assenza di Mosca. Lettura di Xenia
Luigi De Rosa In un giardino ligure dopo la pioggia
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UNA POESIA
UNA POESIA
di Luigi De Rosa
IN UN GIARDINO LIGURE DOPO LA PIOGGIA
anche gli steli più trasparenti
godono, tremando, della frescura
che ha intriso la terra,
moscerini impazziti danzano a mezz'aria
sullo sfondo celeste del cielo
che si fonde, laggiù, col mare,
chiocciole misteriose
spuntano su muri gocciolanti,
rorido muschio, lombrichi,
foglie di fico a marcire al suolo
dopo i giorni dell'opulenza,
fiori dalle tinte miracolose,
inconsciamente felici
di esistere...
e io, alla quotidiana
tastiera del computer
tra un mare di fogli e di libri,
rimango consciamente affascinato,
ancora e sempre, ad ammirare
questo caleidoscopio interminabile
della natura. e penso
al perché di tutto questo,
all'Umanità sempre in guerra,
alla lotta perenne e al trionfo
apparente del Male,
al mistero degli infiniti
Universi,
alla pace dolcissima dell'anima
fuori del tempo,
per l'eternità.
TRE POESIE
di Giusi Verbaro
Nell’assenza mi ritrovo creatura di passione,
giacché la mia anima è passionale
e l’assenza è il paese dell’anima.
Marina Cvetaeva
IN SONNO
NOI DIVISI DALL’UNO ALL’ALTRO GRIDO
Un attimo soltanto: visibile e invisibile
si fondono nel giro di uno sguardo.
e tutto è già compiuto: il vissuto e il sognato
non hanno più confini.
arrivi con un treno che porta tutti i fiati
della notte. La città ti sorprende lucida nella pioggia,
nell’armonia perfetta delle linee.
Un arno liquefatto separa le due sponde:
noi divisi dall’uno all’altro grido
fino all’arrivo intrepido del giorno.
Giusi verbaro IN SONNO. Noi divisi dall’uno all’altro grido
TRE POESIE
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Giusi verbaro La città lunare - Il fiore rosso
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TRE POESIE
LA CITTÀ LUNARE
Forse era solo un sogno
ma mi perdevo cieca nella città lunare.
e chiedevo di te senza risposte.
era una strada ignota
che passanti scontrosi traversavano muti
rispondendo al mio grido senza suono
con cenni silenziosi.
il cielo di un chiarore lattescente: un azzurro
disfatto tra rari cirri bianchi. ti cercavo chiamandoti.
Soffocava la voce
la pena di incontrarti prima che un raggio acceso
arrivasse improvviso
a incendiare le quinte della scena
mentre bruciava la città lunare.
IL FIORE ROSSO
… d’improvviso ti vedo. Ma sei così remoto
da perderti nel vento.
C’è un’ombra densa, attorno,
quasi di nebbia molle. Rincorrerti?
Fermarti? Ma ti defili rapido
dal richiamo, dal sogno… Poi, prestigiatore indocile,
tiri fuori dal nulla un fiore rosso.
Me ne fai dono con un gesto muto.
Mi risveglia dal sonno un profumo di rose
appena colte. Morbida di rugiada, la frescura dei petali
nel cavo delle mani.
UNA POESIA
di Antonio De Marchi Gherini
ANGELI IN FIAMME
Lo vedo che la mia giovinezza finisce
e sognare di me mi è più difficile.
Giuseppe Conte
tu sai come il pensiero a volte strabordi
oltre la linea di confine della memoria
o galoppi come cavallo pazzo
incontro al futuro
e se ti fermi a guardare allora vedi
che ciò che resta è soltanto ombra
e silenzio vago, parole diafane
leggere come piume nella bufera.
tu dici domani… e un velo d’ombra
ti copre gli occhi, domani
nessuno ci ricorderà.
Memento homo quia pulvis es
et in pulverem reverteris
e tutto cadrà
nell’indistinto Lete dell’oblio.
Siamo soltanto filigrane d’anime evanescenti
schiacciate contro il muro della vita.
angeli in fiamme
che non hanno mai spiccato il volo
e un cereo pallore
s’insinua sui nostri volti.
antonio De Marchi Gherini Angeli in fiamme
UNA POESIA
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PROSPEZIONI
Guido Zavanone Una poesia sussurrata
PROSPEZIONI
di Giuliana Rovetta, Luigi Martellini, Floriano Romboli, Paolo Tietz e Guido Zavanone
UNA POESIA SUSSURRATA
di Guido Zavanone
È uscita recentemente, nei preziosi “libriccini da collezionista” di LietoColle, una
plaquette di versi singolare. Parliamo di
Una sillaba sussurrata di elena Bartone.
tutti i poeti, confessatamente o meno,
hanno degli “ascendenti”, dai quali poi
si distaccano progressivamente come avviene dei figli nei confronti dei padri.
Con questo libro la Bartone rende esplicito riconoscimento del suo debito nei
confronti di Cesare Pavese, ma esprime
pure la sua gratitudine, il suo amore per
il poeta delle Langhe. al punto da far precedere ogni sua poesia da un testo di Pavese cui liberamente s’ispira.
Si prenda, ad esempio, la pagina che
apre la raccolta e si leggano i versi di Pavese: «tu eri la vita e le cose / in te desti
respiravamo / sotto il cielo che ancora è
in noi. / non pena, non febbre allora, / non
quest’ombra grave del giorno / affollato
e diverso. o luce, / chiarezza lontana, respiro / affannoso, rivolgi gli occhi / immobili e chiari su di noi. / È buio il mattino
che passa / senza luce dei tuoi occhi.»
ed elena risponde: «Primavera noi /
quando / -nell’arcobaleno dei ricordi- /
coglievamo l’aroma del pesco, / una vitalità di spuma sommersa / nello sguardo del cielo.» Dunque un coro a due voci,
direi; quella della nostra poetessa, rispettosamente sommessa, “sussurrata”, ma
ben avvertibile.
in entrambi i poeti c’è il senso doloroso del
tempo che passa, della vita come perdita,
come disfatta, della solitudine insuperabile dell’uomo, dell’incomunicabilità.
Si leggano questi versi della Bartone:
«Quest’anno è un morso di limone / acer-
bo, una candela che sa di cera vecchia,
/ il singhiozzo che divide in due la gola,
/ un ventaglio afono, richiuso alla voce.
/ Quest’autunno è una stanza senza
luce.» e, altrove: «Così scorre il nostro
tempo migliore: / nell’inutilità dell’attimo, nel voltarsi / quando la mia voce
chiama, ma tu / non la senti…»
vi è tuttavia resistente, nella nostra poetessa, il mito «della poesia che salva, / che
muta l’ordine scomposto / delle cose, le
fa mute eppure / colme, ansanti.»
La breve raccolta (di circa venticinque pagine, intramezzate da belle fotografie di
Carlo tarsia, a commento puntuale dei
versi) è bastevole per mostrarci l’originalità del mondo poetico qui rappresentato, insieme con la ricchezza e arditezza delle immagini, la tecnica raffinata e
la musica intima che l’accompagna.
Si esce dalla lettura coinvolti, con il desiderio di gustare altri versi della poetessa, di approfondire la conoscenza di questo così personale poein. e allora appare quanto mai opportuna la lettura o rilettura delle precedenti raccolte, tra
cui, per fermarci all’ultimo decennio,
L’ora blu (Helicon arezzo 2006); Palme
di velluto (Calabria letteraria, Catanzaro 2009) e Arcobaleni lunari (ivi, 2011)
con l’acuta e partecipe prefazione di Giovanna Romanelli.
La lettura di queste opere, unitamente a
quella ora recensita, è quanto mai suggestiva perché ci permette di seguire uno
dei percorsi poetici più interessanti e
coinvolgenti e il travaglio di un’anima tra
l’ombra e la luce «nel proseguire disperso dei giorni».
elena Bartone, Una sillaba sussurrata, LietoColle, Faloppio, (Como) 2014, € 7,50.
L’autrice pone al centro del suo discorso narrativo le vicissitudini di un giovane medico – che è poi stato suo padre , figlio a sua volta di un medico condotto e nativo di Montauro, piccolo centro
del Catanzarese.
L’angusta e sperduta provincia meridionale costituisce lo sfondo iniziale della
vita estremamente varia e davvero avventurosa del dottor Pellegrino Pellegrini, per
nulla disposto ad accettare l’immobilismo
di un ambiente dominato da un’arcaica
economia agricola e pronto a dare forme concrete al sogno di evasione irresistibilmente alimentato dalle condizioni
sociali e morali-culturali della provincia
profonda, che fortemente avverte l’attrazione della grande città e soprattutto coltiva intensamente il fascino delle terre
lontane, predilige il profilo seducente dell’oriente misterioso e la prospettiva affascinante di esperienze straordinarie al
di là del mare.
il lavoro letterario di Rosa Galli Pellegrini, francesista autorevole e traduttrice
affermata, si basa su fatti realmente accaduti, eppure l’impressione di una viva
passione per i costumi esotici, per le meraviglie architettoniche, per le bellezze
artistiche di remoti paesi rimane viva nel
lettore, anche come conseguenza dell’inclinazione al descrittivismo che diffusamente caratterizza queste pagine.
nel testo si nota altresì il gusto dell’intreccio complicato, che si obiettiva nella giustapposizione e quindi nell’intersecazione di distinti filoni narrativi - ad
esempio le vicende del dottor Pellegrini,
il quale da Parigi, dove è emigrato subito dopo la laurea, si trasferisce in argentina, poi a Chicago, per tornare in seguito in italia, richiamato al fronte con lo
scoppio della prima guerra mondiale, e
passare successivamente, alla fine del
conflitto, a Costantinopoli; e la storia di
valentine, sua futura compagna e infine
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moglie, figlia di monsieur antoine, proprietario di un piccolo calzaturificio a
istanbul - e specificamente nel piacere
evidente di raccontare tanti diversi avvenimenti.
La scrittrice rivela comunque una sapienza compositiva non comune, che
consente l’interrelazione armonica dei
campi di narrazione realizzata anche
grazie alla scioltezza accattivante di un linguaggio contrassegnato di frequente da intonazioni ironiche; ma è il fondamentale
tratto storico ad assicurare coesione culturale e organicità strutturale all’opera, che
a buon diritto può essere definita “romanzo storico”, e non solo per la fitta trama
di riferimenti storico-politico-militari che
la sottendono e la animano, bensì specialmente per le modalità di organizzazione
del plot romanzesco che rinviano alle consuetudini statutarie del genere. vi è spazio per l’invenzione fantastica e la rielaborazione artistica, pur nell’àmbito di
un’attenzione accurata e rigorosa al quadro storico ricostruito su fonti rappresentate da altri libri (spesso libri di storia ), dalle memorie familiari di Rosa Galli e in particolare dai fogli ingialliti di appunti, da pagine di diario o vecchi contributi giornalistici del dottore.
e’ inoltre connaturale a tale genere letterario la regola del “narratore onnisciente”, il quale gestisce con perizia e intelligente duttilità il sistema dei personaggi, sovrastandone o amministrandone
con sicurezza le dinamiche.
Se ciò di certo avviene pure in questo libro, l’onniscienza della narratrice non è
però assoluta e, riguardo al “perché” di
taluni accadimenti, essa non sa dare spiegazioni e con saggia cautela sospende il
giudizio, forse facendo propria la concezione del già citato monsieur antoine, secondo cui il cammino degli uomini, se talora appare governato da una razionalità positiva, più spesso sembra diretto da
una forza misteriosa, travolgente e indecifrabile che s’impone agli individui e che
egli chiama kismet, destino.
Floriano Romboli Doktor Bey: una storia
DOKTOR BEY: UNA STORIA
di Floriano Romboli
PROSPEZIONI
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PROSPEZIONI
Giuliana Rovetta Memorie e suggestioni dell’Appennino Emiliano
tale convinzione risulta incompatibile
con atteggiamenti ispirati a dogmatismi
altezzosi e intolleranti, fanatici e discriminatori.
infine la stessa inesauribile curiosità del
“signor dottore” (Doktor Bey) Pellegrini
(“Di sua natura il dottore era portato a
occuparsi di tutti e di tutti amava stare
a sentire le storie…”, pag.126 ), oltre a
concretizzarsi in atti di generosa disponibilità professionale e umana e nella costante attenzione alle varietà linguistiche
considerate quali sedi preziose di creatività e di peculiarità culturali, si risolve
nell’invito inequivoco all’apertura intellettuale e alla pacifica, salutare integrazione fra popoli e civiltà differenti.
Rosa Galli Pellegrini, Doktor Bey, Giovane Holden edizioni, Massarosa (Lucca),
2013, pp.198, € 13,00.
MEMORIE E SUGGESTIONI
DALL’APPENNINO EMILIANO
di Giuliana Rovetta
Un non lungo trasferimento in una rumorosa Fiat 514 guidata dall’autista, da Bologna verso un borgo dell’appennino emiliano dove trascorrerà una breve vacanza, rappresenta per il professore universitario fresco di pensione angelo Ruffini, scienziato di fama, l’occasione di riflessioni tutt’altro che peregrine sulla lunga esperienza di ricercatore, sulla vita
personale e sul momento storico che fa
da cornice a questa piccola, emblematica storia. Siamo nel 1929, mese di luglio.
Periodo cruciale, in cui si sono dispiegati gli effetti della “rivoluzione” fascista:
lasciati ai margini delle carriere gli indifferenti e i poco convinti, incanalato il sapere accademico verso fini utilitaristici,
introdotte a forza misure sconcertanti
sull’italianizzazione dei cognomi altoatesini e istriani, l’italia vive in una temperie che ha eletto a regola l’intimidazione e il sopruso. anche nel territorio di Baragazza, il paese di campagna che acco-
glie l’illustre villeggiante con la discretissima moglie, si sono verificati, come in
tutta la vallata, episodi drammatici che
hanno impresso negli animi segni non rimarginabili, mentre la lotta “Rossi contro neri” ha prodotto zone di ombra e
ambiguità, fra condanne eccessive che alludono a regolamenti di conti e misteri
appena intaccati da incerte rivelazioni.
nel pacato e vigile resoconto di questo soggiorno, ambientato nei luoghi di cui l’autore è originario, Genco dipana criticamente uno snodo emotivo legato a un grave
scontro occorso anni prima tra aggressori fascisti e militanti socialisti, indotti
questi ultimi da una presunta provocazione a un sanguinoso quanto involontario gesto di reazione. nel chiarire questi trascorsi attraverso scene frammentarie e dialoghi accennati a mezza voce fra gli interessati, l’autore rende via via più esplicita
l’istanza di approfondimento degli eventi politici avanzata dal protagonista, nel corso di una narrazione che si colloca a mezza via tra biografia e romanzo storico.
Si comprende come, preso dai suoi studi, il luminare bolognese avesse inizialmente riservato alle vicende esterne un
“infastidito disinteresse”, pur deprecando gli atti di violenza del nascente fascismo, per poi accomodarsi di buon grado, come tanti altri, nelle parvenze di un
ritrovato ordine pubblico. L’occasione
della vacanza, in una dimensione inusuale che lo esime dai riti della quotidianità, consente all’illustre studioso comportamenti spontanei adatti ai ritmi del luogo e suscita la sua curiosità su dinamica e moventi dei fatti accaduti nel 1921,
da collocare poi in una più vasta lettura e decifrazione del fenomeno storico
in atto. intorno al medico Ruffini campeggiano diverse figure che integrano
l’ossatura del racconto. Dall’arciprete al
maresciallo, dal nobile del luogo al direttore della cassa rurale, dall’allievo prediletto giunto in visita, fino al medico
condotto con la fama di dongiovanni, tutti portano una testimonianza costrutti-
Roberto Genco, L’ultima villeggiatura,
Pendragon, Bologna, pp. 143, € 14,00.
LA DONNA DI MARMO
di Luigi Martellini
“il volto di Margherita di Brabante fu per
me, nell’infanzia, la rivelazione della bellezza nell’arte. avevo nove anni, quan-
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do vidi per la prima volta la ricostruzione del monumento funebre che Giovanni Pisano aveva scolpito per lei, nelle sale
del Palazzo Bianco a Genova, dove mio
padre mi aveva portato una domenica
mattina. incontrare il suo luminoso ed intenso sguardo di marmo mi aprì alla
comprensione che, al di là della bellezza delle persone, di quella dei paesaggi
e dei fiori, c’era la bellezza della creazione artistica. il suo sguardo mi fece uscire dall’infanzia e mi arricchì di una
nuova consapevolezza, che andò via
via crescendo, per cui negli anni tornai
tante volte ancora a Palazzo Bianco a rivedere quel gruppo marmoreo, e poi al
Museo di Sant’agostino, dove, negli
anni Settanta del novecento, trovò definitiva sistemazione”.
Con questo incipit Rosa elisa Giangoia,
poetessa genovese caratterizzata da un
forte sentimento religioso, introduce il
suo recente volumetto intitolato Margaritae Animae Ascensio. Di questa donna del Medioevo, divenuta immortale soprattutto per il monumento funebre
del Pisano, data in sposa a enrico vii di
Lussemburgo (sono i tempi dell’alighieri) e del suo viaggio attraverso l’europa
inseguendo un ideale di vita e di società per andare a morire a Genova, e farsi così da donna di carne donna di marmo per vivere per sempre, la Giangoia
traccia un lungo quadro biografico che
ne ripercorre il ruolo politico, la sua devozione, l’idea coltivata col marito di un
impero universale (si ricorderà lo stesso Dante) in europa per “garantire la pace
e governare con giustizia e temperanza”
nel periodo dei Guelfi e dei Ghibellini, della Crociate, vicina a vari Pontefici, tra Domenicani e Francescani, col suo essere
misericordiosa e piena di pietas e di caritas cristiane verso i bisognosi, gli ammalati, i poveri.
Scrive la Giangoia nell’explicit conclusivo: “Quando nel 1950 fu riaperto Palazzo Bianco, il gruppo di Margherita fu collocato su una putrella, in una efficace col-
Luigi Martinelli La donna di marmo
va alla raffigurazione di un microcosmo
di provincia ben delineato nelle sue
non sempre ovvie caratteristiche: se
l’arciprete, pur senza essere “fascista professo”, sembra inclinare verso un pieno
consenso al Duce (che ha stretto e siglato da pochi mesi i Patti Lateranensi), il
maresciallo a capo delle locali forze dell’ordine non nasconde il suo diverso
orientamento fino a deplorare, sommessamente, il comportamento violento di “questi che stanno al Governo”.
La coloritura intensa del romanzo è
data da una serie di immersioni in rituali e ricorrenze di un passato vicino e lontano al tempo stesso, collegati a festività, sagre e celebrazioni stagionali, nella
genuina semplicità degli incontri conviviali e festivi, nello scambio d’opinioni
in forma ora franca, ora ruvida, ora sfuggente, nella presa di coscienza su temi
che sembrano fatti apposta per non conciliare gli animi: ne è un esempio la corsa al progresso che si esprime nella costruzione in galleria della nuova linea ferroviaria a fronte dell’insalubrità e insicurezza degli operai al lavoro proprio in
quel cantiere sotterraneo.
Luogo in qualche modo archetipo di una
provincia solidale e remota, Baragazza rivive nella rappresentazione delle ore di canicola campestre, nel protrarsi delle ombre vespertine, nei sentieri in collina dove
si opera una correlazione tra paesaggio
agreste e riflessioni personali. a questa dimensione, che è quella di un’intimità che
si ribalta entro la cornice storica, l’uso appropriato e non insistito del dialetto aggiunge il valore di un’espressività struggente.
PROSPEZIONI
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PROSPEZIONI
Luigi Martinelli La donna di marmo
locazione ideata da Franco albini, per poter essere osservato da diversi punti di
vista. È in marmo, alto circa un metro e
mezzo, purtroppo non integro, e rappresenta Margherita sollevata per le braccia
da due angeli-diaconi, che l’aiutano nell’ascensione in Paradiso, il giorno del risveglio dei morti alla fine dei tempi. […]
Molto effficace ed intensa è la resa della spinta trascendentale verso il Divino
che traspare dal volto della donna. Margherita viene così proietta in una dimensione ideale e spirituale di bellezza”.
La Giangoia drammatizza il tutto e colloca la scena a Genova, nella chiesa di San
Francesco in Castelluccio, dove un gruppo di fedeli oranti staziona davanti alla
tomba di Margherita di Brabante nella
cappella principale del coro, a sinistra
dell’altar maggiore: qui vengono dislocati i “Personaggi”, ovvero Margherita di
Brabante, tebaldo Brusati (Signore di Brescia trucidato durante l’assedio quando
enrico vii entrò in città con le sue truppe), Primo angelo, Secondo angelo, virtù Cardinali (Fortezza, Giustizia, Prudenza, temperanza), Primo Fedele, Secondo
Fedele, terzo Fedele, Quarto Fedele, altri Fedeli oranti, Diavoletto (nascosto dietro la tomba e quasi coscienza ammonitrice che ogni tanto balza fuori e alla fine,
scomparsi nel buio Margherita, gli angeli e le virtù, resta fermo in mezzo alla scena con un gesto sconsolato di disappunto per sparire poi anche lui nel buio).
Quale lo scopo di questa ricostruzione
storica della vita di Margherita e quindi
di arrigo vii (con la sua crudeltà: “chi non
sa farsi amare vuol farsi temere / se non
si pentirà / l’alto seggio in Paradiso non
avrà” fa dire la Giangoia al Diavoletto),
nell’italia delle fazioni, delle città (…Firenze) e della Chiesa? Perché la ristrutturazione in forma di prosa poetica
con l’inserimento delle “figure” segnalate? il modello di virtù di Margherita, alla
quale la Giangoia riconosce il ruolo terreno di conforto e di carità, doti che della sfera terrestre si sono ormai trasferi-
te alla sfera celeste, indica di certo, nella figurazione allegorica dei due angeli
che soccorrono la donna emergente dal
sepolcro in procinto di essere condotta
“dinanzi all’altissimo”, con efficace suggestione, un itinerario di fede.
Sono sì rintracciabili echi danteschi della
visione che il poeta aveva della monarchia
e dei fatti contemporanei della sua Firenze, ma anche quelli dell’ascensione di Beatrice in Paradiso e con essi il messaggio che
la Giangoia vuol trasmettere: la traccia di
Dio nella storia, la guida del vangelo, pregare per i nemici, la speranza in Dio, credere nel futuro, la fiducia verso la vita, avere la fede, un ideale di pace e di concordia. tutto questo ha origine da un ricordo collocato tra l’infanzia e l’adolescenza,
una visione custodita nell’inconscio, una
speranza lontana nei ricordi, i misteri del
tempo. “Spie” linguistiche, in tale senso,
come i lemmi: memoria, eterno, gloria,
oblio, segreto, sogni, notti… il destino col
suo disegno, certificano il percorso religioso dell’autrice.
Chi non ricorda la poesia sepolcrale di
un Foscolo e di un Leopardi o le poesie
di Sarcofaghi (negli Ossi di seppia)
dove Montale ammira le sculture istoriate nei bassorilievi? Su questa scia, troviamo allora le riflessioni della Giangoia sulla tomba dentro la quale si nasconde la
religiosità di una vita ultraterrena, e la
scultura che esalta nel suo classicismo
la bellezza dell’arte con la sua perfezione contro l’imperfezione terrena (si
veda Keats). Ma soprattutto si pensi all’immobilità della vita e di un corpo nella tomba e nella raffigurazione scultorea
(bloccata dal marmo) ed alla stessa vita
in movimento verso l’alto nell’altro viaggio verso l’eternità. illusione (tutta montaliana) nella staticità della raffigurazione pietrificata nel tempo o nella tensione di liberarsi per staccarsi dal mondo
e andare verso…qualcosa? Per proseguire il viaggio? Falsa apparenza in quanto
tutto resta tragicamente e in realtà fermo? La drammatica scena si anima e dal-
MA CHI È ARRIVATO PRIMA
IN AMERICA?
di Paolo Tietz
il saggio L’America dimenticata di Lucio
Russo, studioso di Storia della Scienza,
pone degli interrogativi davvero interessanti a cui cerca di dare delle risposte, sia su
basi storico-letterarie che scientifiche, anche se non sempre completamente soddisfacenti, ma almeno molto… intriganti!
il problema generale che inizialmente lo
studioso pone riguarda la questione se
le diverse civiltà si siano evolute separatamente o se, invece, la storia dell’umanità sia un’unica vicenda ricca di connessioni, con momenti di evoluzione ed altri di involuzione. nell’ambito di queste
complesse problematiche Russo illustra la convinzione, ormai ampiamente
condivisa, della totale assenza di contatti tra l’america e gli altri continenti, prima della scoperta di Colombo, divenuta di fatto il fondamento dell’idea che le
civiltà umane avrebbero seguito tutte indipendentemente le stesse linee di sviluppo. Ma successivamente lo studioso
mette in crisi questa consolidata teoria
portando un’ampia serie di tracce di antichi possibili contatti tra il mondo mediterraneo e il continente americano, tracce rilevabili nel mondo degli indigeni
americani, come quelle che si potrebbero trovare nel PopolVuh, antico codice
Maya, in cui si parla di uomini bianchi
forse venuti dal mare, a cui si possono
aggiungere la presenza, in america, all’epoca della conquista, di varietà di galline di origine asiatica, ben diverse da
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quelle importate dagli Spagnoli, o i modellini precolombiani con finti raggi
nelle ruote. Ci sono, però, anche tracce
archeologiche nel nostro mondo classico, che lasciano molti dubbi, come le diverse raffigurazioni in opere scultoree e
pittoriche romane di ananas, frutto senz’altro allora ignoto.
Russo, però, percorre anche un altro itinerario di ricerca, quello di individuare in
un’ampia serie di testi greci e latini tracce di memorie di viaggi oltre le mitiche colonne d’ercole verso mete lontane. Queste tracce, modificatesi nel corso del
tempo allontanandosi sempre più dall’esperienza originale, sarebbero, secondo lo studioso, almeno in parecchi casi,
relitti di conoscenze possedute da popoli diversi dai Greci e dai Romani, cioè da
alcuni di quei popoli mediterranei, la cui
cultura sarebbe stata cancellata in seguito alle conquiste romane e in particolare
agli avvenimenti del 145 – 146 a.C., che
avrebbero determinato un vero e proprio
collasso culturale, con lo spegnersi dei
principali focolai di cultura, alessandria
in primo luogo. inoltre con la distruzione di Cartagine sarebbe andato perso tutto quello che poteva essere stato il patrimonio culturale, non solo di quel popolo, ma anche dei Fenici, con il conseguente restringersi degli orizzonti geografici.
Ma, facendo indagini in un altro ambito,
quello della geografia matematica, si può
arrivare a conclusioni molto più interessanti.
La geografia matematica si sviluppò nel
mondo greco con l’affermarsi nel iv secolo della concezione di una terra sferica. Sarà nella seconda metà del iii secolo eratostene di Cirene, direttore della Biblioteca di alessandria, a determinarne le dimensioni (lunghezza dei meridiani e dell’equatore) con un metodo
teorico-sperimentale di cui non si è mai
perduta memoria sin oggi. il calcolo portò ad un valore di 252.000 stadi, stadio
che per comune accordo degli studiosi
era pari a circa 157 metri (l’autore nel te-
Paolo tietz Ma chi è arrivato prima in America?
l’ordinarietà di una tomba, simbolo
mortuario di fine (quella che si vede), si
sdoppia in una dimensione altra che (invisibilmente e in modo misterioso) trascende e sembra che alla Giangoia, che
osserva il gruppo marmoreo, non resti
che una preghiera, una solitaria e silenziosa preghiera di fronte al destino ed
alla morte. Per non dimenticare.
PROSPEZIONI
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PROSPEZIONI
Paolo tietz Ma chi è arrivato prima in America?
sto ritrova questa corrispondenza anche
con un suo particolare procedimento). ne
risultano circa 40.000 Km, che è la lunghezza dei meridiani oggi assunta per il
nostro pianeta.
assieme alle dimensioni della terra,
eratostene stimò anche quella del mondo abitato (ecuméne), che fu sempre pensato nella civiltà ellenistica come meno
esteso (al limite pari) di metà dell’emisfero settentrionale (adeguamento alla
‘sfericità’ della precedente concezione di
una terra piatta, con i continenti circondati dall’oceano).
eratostene valutò l’ampiezza totale dell’ecumene in 77.800 stadi lungo il parallelo di atene (circa 38° nord - come oggi
determinati). Questa ampiezza, come aumentata poi da ipparco di 26.000 stadi
per un totale di 103.800, comporta una
lunghezza dell’equatore di poco superiore a quella di eratostene, equivalendo
dunque a circa 180° fra i suoi meridiani
estremi, occidentale orientale. L’estremità orientale era assunta in corrispondenza della capitale cinese (Xi ‘an?) e
quella occidentale ben oltre le Colonne
d’ercole (probabilmente con riferimento alle ‘isole Fortunate’).
nella geografia di eratostene, e poi anche di ipparco, il grado di meridiano o d’equatore - aveva dunque una lunghezza di circa 700 stadi= 252000/360.
Dopo il collasso culturale del ii secolo fu
tolomeo (ii secolo d.C.) a riprendere compiutamente la tradizione della geografia
matematica, dopo altri geografi/astronomi. Ma nella geografia di tolomeo la lunghezza del grado di meridiano -o equatore- è pari a soli 500 stadi, risultando
così le dimensioni della terra ridotte nel
rapporto 500/700, circa 0,71; le distanze fra diversi luoghi registrate a suo tempo da eratostene rimanevano però invariate, in quanto tolomeo, assumendo
sempre l’ampiezza dell’ecumene pari a
180°, dilatava le longitudini (lui per pri-
mo fece di esse pieno uso) nel rapporto
inverso 1,4 (circa 1/0,71).
Ma come mai la terra si rimpicciolì?, questo il problema che l’autore si pone. tutto per lui dipende da una diminuzione
della grandezza dell’ecumene, sempre
però lasciato pari a 180° di longitudine;
dando per scontato che non ci fossero
allora nuove informazioni tali da far spostare il meridiano orientale (‘cinese’), non
resta che ipotizzare, secondo l’autore,
che il meridiano occidentale, per eratostene/ipparco ben oltre le Colonne d’ercole, fosse stato da tolomeo portato in
corrispondenza delle isole Canarie. e questo perché antiche conoscenze sulle
isole Fortunate, identificate dall’autore
con le Piccole antille, e probabilmente visitate più volte dai Fenici di Cadice, si erano perse definitivamente con l’annientamento della punica Cartagine.
Lucio Russo sviluppa questa ipotesi a
fondo, derivandone una serie di ulteriori conseguenze che la confermano, anche se il suo argomentare risulta parecchio complesso.
il testo esaminato, che è in seconda edizione, include una postfazione dell’autore con la quale lo stesso può rispondere a diverse critiche e osservazioni ricevute, alcune anche indubbiamente
malevole.
in conclusione, una lettura ardua, ma stimolante.
[nota: in effetti, con i dati oggi disponibili, la
distanza fra le Piccole antille e le Canarie risulta in circa 45° di longitudine; dunque 45x700 =
31500 stadi all’equatore, con una riduzione conseguente delle dimensioni della terra di 31500x2
= 63000 stadi (assumendo sempre l’ecumene ampio soltanto 180°), e di conseguenza percentualmente (252000 – 63000)/252000 = 0, 75 ( 75%,
valore prossimo a 71%, il coefficiente di riduzione di tolomeo)].
Lucio Russo, L’America dimenticata,
Mondadori education, Milano 2013, pp.
282, € 18,00.
CRITICA
di Flavia Motolese
Le opere di Karl-Heinz Hinz nascono da un interesse ontologico verso i processi misteriosi ed insondabili della creazione. I suoi lavori si
intrecciano con diversi ambiti disciplinari artistici: la scultura, la fotografia, la grafica e la pittura, ma all’origine della sua ispirazione artistica è sempre il tentativo di ricreare nel microcosmo il macrocosmo.
Il pensiero che sottintende la sua produzione deriva dalla consapevolezza di quel continuo processo di mutazione che agisce su ogni essere vivente. La terra è una massa informe in continuo movimento, le
leggi della fisica e della chimica insieme al caso generano o modificano incessantemente nuove strutture. L’uomo, inserito in questo contesto, diventa solo una presenza marginale nell’immenso respiro dell’eternità del cosmo, non è in grado di percepire i grandi cambiamenti che lo circondano perché la dimensione del tempo è per lui incommensurabile, ma, percepito questo abisso, può cercare di ricondurlo in
scala alla propria finitezza.
Senza titolo, 1992, fotografia analogica, 40x50
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
FERMARE L’ISTANTE
KARL-HEINZ HINZ
65
CRITICA
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
66
Senza titolo, 1992, fotografia analogica, 40x50
La semplicità, solo apparente, dei suoi lavori è resa tale dalla capacità di sintesi
estrema, raggiunta attraverso lo studio e
la ricerca, con cui Hinz è in grado di rappresentare l’essenza delle cose oltre il velo
dell’apparenza. Questo dato di radicale
essenzialità che assume tutta la sua
opera è una conquista effettuata grazie
ad un’operazione di sottrazione che rispondesse all’esigenza di cogliere in primis le strutture fondamentali dell'essere. La pratica di Hinz propone segni e figure come forma pura, secondo una
dialettica di evidenza e riflessione che
sembra non potersi disgiungere dalla ricerca del fondamento.
Suggestiona la sua sobrietà estetica, la raffinatezza esecutiva e compositiva, carica di forti contrasti e accenni lirici. Il risultato finale è ottenuto attraverso un
procedimento di scarnificazione, volto a
raggiungere un perfetto equilibrio tra forma ed essenza. Soggetto prediletto di
molte delle sue fotografie sono le strutture rocciose, simbolo per l’artista della
distanza incolmabile tra l’uomo e il tempo: anche ciò che appare immutabile, subisce continui cambiamenti; il qui e ora
non è che un’illusoria transitorietà, la fotografia non può cogliere altro che
un’istantanea del costante mutamento
che condiziona la nostra esistenza.
L’obiettivo si sofferma sulle stratificazioni della materia, risultato del sovrapporsi delle ere. La fotografia travalica i suoi
confini, si fa scultura sondando i residui
nascosti dell’ombra, scavando la materia
per mettere in risalto i giochi chiaroscurali che la attraversano. Pietre che sono
sculture, la materia rappresenta se stes-
CRITICA
67
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
Senza titolo, 1992, fotografia analogica, 40x50
Senza titolo, 1992, fotografia analogica, 40x50
Senza titolo, 1992, fotografia analogica, 40x50
Senza titolo, 1992, fotografia analogica, 40x50
CRITICA
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
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Senza titolo, 1993, tempera su tela, 90x90
sa, in tutta la sua potenza e nella forma
pura trova la sua massima espressione.
Una celebrazione delle forme immobili
che si rivela autentico desiderio di raggiungere la verità come l’esplorazione sistematica della combinazione tra “il casuale” e ciò che invece è preordinato o voluto, attendendone gli esiti imprevedibili. Le sue opere fotografiche fermano e
condensano il risultato momentaneo e accidentale di un singolo istante, testimonianza dello scorrere del tempo.
Espressione di un rigoroso equilibrio formale, la fotografia cattura quella tensione
interna al soggetto/oggetto, chiave di lettura per l’enigma dell’esistenza. L’apparizione di una determinata immagine nello
spazio di rappresentazione è un accadimento che comprende sempre elementi di incertezza sul risultato. Lo scatto tenta di instaurare un collegamento tra la trascendenza di cui possiamo avere consapevolezza,
un’intuizione di quell’alterità a cui sembra
tendere tutta la sua produzione artistica.
CRITICA
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Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
Corrugamenti, 1993, tempera su tela, 78x94
Senza titolo, 1993, tempera su tela, 65x84
CRITICA
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
70
Senza titolo, 1998, tempera su tela, 68x68
Da qui scaturisce un continuo studio sulla materia, sulla luce, sulle dinamiche manifeste della creazione. Il progetto delle
sculture effimere coniuga l’interesse di
Hinz per la materia plastica e la fotografia: piccole sculture temporanee fatte con
materie semplici come carta, alluminio o
sabbia vengono utilizzate come soggetti
delle fotografie per poi essere subito distrutte. Il loro breve arco esistenziale è documentato solo dallo scatto fotografico,
successivamente elaborato in digitale.
Questo ulteriore passaggio conferisce
alla fotografia un aspetto similare a quello di un’opera grafica: l’artista evidenzia
i contrasti luci/ombre, l’intersecarsi delle linee di contorno, colora o cancella dei
dettagli. Elemento determinante diviene
proprio il segno, non semplice medium
per trasmettere un’immagine, ma ritmo
della composizione, schema ricorrente che
riconduce ad un’unica matrice d’origine,
lo stesso che ritroviamo nella pittura. I dipinti di Hinz, caratterizzati da una narra-
CRITICA
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Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
Sculture effimere, 2012, fotografia ed elaborazione digitale, 55x45
CRITICA
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
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Sculture effimere, 2012, fotografia ed elaborazione digitale, 55x45
CRITICA
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Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
Sculture effimere, 2012, fotografia ed elaborazione digitale, 55x45
Fermare l’istante. Karl-Heinz Hinz
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CRITICA
zione scarna, che conferisce solennità,
creano una sorta di gioco speculare con
la fotografia, richiamandone nelle forme
e nei colori, i soggetti: le rocce, le cromie
naturali della terra, i valori tonali del bianco e nero, le superfici percorse da increspature e corrugamenti. La maestria e la
perizia quasi chirurgica con cui dipinge
determinano l’illusione di guardare non
opere pittoriche, ma fotografiche.
Anche, le grafiche e i monotipi diventano
strumento espressivo perfetto della genealogia del divenire: l’immediatezza del ge-
Senza titolo, 2014, monotipo, 15x20
sto che delinea e definisce, l’elemento di
casualità che sempre interviene nel processo creativo, così come in quello dell’esistenza. L’astrazione della composizione sottende a quel fluire ininterrotto che annulla la
distanza tra soggetto e oggetto, l’opera d’arte testimonia il momento nel suo farsi mediante il segno impresso. L’eloquenza minimale del binomio bianco nero, con sporadiche concessioni al colore, richiama
l’estetica lirica e contemplativa di alcune
opere di Hsiao Chin, tratteggiando la personale grammatica del mondo di Hinz.
BIOGRAFIA
Karl-Heinz Hinz nasce nel 1935 nella città tedesca di Amburgo. Dopo una
carriera interamente dedicata al marketing, abbandona, negli anni Settanta, il suo lavoro per assecondare la sua grande passione per l’arte in ogni
sua forma.
Artista poliedrico, studia ebanisteria e scultura del legno a Wiesbaden e,
una volta trasferitosi a Genova, apre negli anni Ottanta, proprio dietro a
Palazzo Ducale, un laboratorio di restauro e progettazione di mobili.
Grazie alla continua sperimentazione dei linguaggi espressivo-artistici si
avvicina al mondo della scultura lignea e in ardesia e approda infine alla
pittura e alla fotografia. È questo ultimo suo grande amore che lo porta
nel 2007 a pubblicare “Vicoli” (edito da Fratelli Frilli), un inedito volume
in cui l’autore esprime il suo personale rapporto con i suggestivi caruggi di Genova.
Oggi, nella Val Fontanabuona presso il suo atelier a Ognio, la ricerca artistica di Karl-Heinz Hinz prosegue verso filoni sempre nuovi, sperimentando l’attenzione per i materiali conosciuti, tecniche fotografiche, pittoriche e di stampa insolite ma sempre molto attuali.
Oltre alla partecipazione a numerose mostre nel capoluogo ligure e a Milano, molte delle opere dell’artista tedesco sono esposte in collezioni private in Germania e negli Stati Uniti.
Sculture effimere, 2012, fotografia ed elaborazione digitale, 45x55
Karl-Heinz Hinz
KARL-HEINZ HINZ
Biografia
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Due parole con... Eugenio Carmi
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CRITICA
DUE PAROLE CON... EUGENIO CARMI
di Mario Napoli
Eugenio Carmi (Genova il 17 febbraio 1920), fin dagli anni Cinquanta,
è tra i maggiori esponenti dell’astrattismo italiano. Nei primi due decenni con la pittura informale e dalla fine degli anni Sessanta nel rigore delle forme geometriche, che svilupperà progressivamente nel corso dei decenni successivi.
La maggior parte delle sue opere è su tela, ma importanti nel suo percorso artistico sono le carte, i lavori in ferro, le latte, i multipli e le sculture. Ha realizzato due opere cinetiche con una delle quali, la SPCE, è
stato invitato alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966.
Dal 1956 al 1965 è responsabile dell’immagine per l’industria siderurgica Cornigliano-Italsider. Carmi porta in fabbrica l’arte contemporanea, coordinando importanti operazioni visive e culturali, ed è responsabile di tutta l’immagine coordinata dell’azienda.
Magia, 2008, acrilici e vernice su juta, 80x80
CRITICA
77
Due parole con... Eugenio Carmi
Un cerchio si interroga e ci interroga, 2010, acrilici, collage e vernice su juta, 100x80
In quel periodo il ferro e l’acciaio diventano per lui un forte stimolo artistico: nel
1958 Gillo Dorfles organizza la sua prima mostra personale alla Galleria Numero di Firenze con gli smalti su acciaio.
Dal 1960 realizza opere in ferro e accia-
io saldati (tra le quali la serie Appunti sul
nostro tempo) e dal 1964 le latte litografate. Sono anni di numerose amicizie artistiche e intellettuali (Victor Vasarely, Umberto Eco, Max Bill, Konrad Wachsmann,
Furio Colombo, Ugo Mulas, Kurt Blum,
Due parole con... Eugenio Carmi
78
CRITICA
Emanuele Luzzati, Flavio Costantini…) e
di importanti collaborazioni artistiche. Nel
1963 fonda la Galleria del Deposito che,
con i multipli (1967-1969) intende proporre un’arte seriale accessibile a un pubblico più vasto. Dal 1971 vive a Milano.
Dagli anni ’80 tra le sue tele compare la juta
che anticipa il successivo ritorno alla dimensione materica. L’evoluzione della sua
arte, con rigore e coerenza, è in continua
e graduale evoluzione. Sempre attraverso
un astrattismo geometrico, le sue forme archetipiche si avvicinano sempre più al rapporto con la spiritualità, attraverso, però,
una materia più sensuale e naturale.
Il fabbricante d’immagini – così si definisce lui stesso – è negli anni recenti in
dialogo continuo con la natura, rappresentata dalle sue leggi matematiche.
Il teorema di Pitagora, la sezione aurea
sono le sue chiavi per entrare nella natura e celebrarla. Con un’ulteriore capriola: le forme geometriche sono adesso molto più materiche e si riallacciano così alle
sue opere informali degli anni '50 e '60,
come in un dialogo circolare.
Membro dell’Alliance Graphique International, è considerato ancora oggi come
uno degli innovatori del linguaggio grafico degli anni cinquanta e sessanta.
Nel corso dei decenni la costante quotidiana della pittura nel suo studio non è mai
solo un fatto puramente personale. Mentre negli anni ‘50 e ‘60 il suo lavoro artistico è spesso strettamente collegato ad avventure e iniziative nel mondo dell’industria e della cultura, nei decenni successivi Carmi si concentra soprattutto nel lavoro nel suo studio, che nel frattempo ha trasferito a Milano nel 1971. Rimane, però,
sempre in collegamento col mondo e con
gli altri - collaboratori o altri artisti e intellettuali internazionali - ha spesso un ruolo trainante di catalizzatore di talenti. E sul
mondo Eugenio Carmi non manca mai di
intervenire. Prima di tutto con la sua arte,
ma anche con la parola, la presenza attiva in convegni e conferenze internazionali e attraverso l’insegnamento. Dall’amici-
zia e collaborazione con Umberto Eco nascono tre favole per bambini - tradotte poi
in tutto il mondo - e Stripsody, opera che
deve la sua unicità alla profonda sintonia
artistica e umana tra lui, Eco e Cathy Berberian. Nei decenni ha esposto le sue opere in numerosissime personali in Italia e all’estero. Suoi lavori fanno parte delle collezioni di musei e istituzioni in Italia, Germania, Gran Bretagna, Polonia, Stati Uniti.
Biografia tratta dal sito ufficiale
http://www.eugeniocarmi.eu/
Fotografia di Eugenio Carmi di Ferdinando Scianna
È solito definirsi un fabbricante di immagini, il
termine “fabbricante” demistifica l’arte e la
riporta a livello di sforzo popolare. Cosa vorrebbe rimanesse del suo lavoro e qual è,
secondo Lei, il ruolo dell’artista nella società
contemporanea?
Io mi definisco fabbricante di immagini
per essere più vicino agli artigiani che
purtroppo stanno scomparendo. Il ruolo
dell’artista è sempre stato quello della
ricerca della bellezza. Nella società contemporanea tale ruolo è in crisi perché
l’economia sta prendendo il sopravvento.
CRITICA
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Due parole con... Eugenio Carmi
Geometria inquieta, 2010, acrilici e vernice su juta, 60x60
Un ricordo di Felice Casorati, che è stato suo maestro. Come crede abbia influenzato la sua arte?
Ricordo sempre Felice Casorati che
oltre ad essere un bravissimo maestro
era un uomo d’altri tempi. Ho sempre
stimato la sua pittura, le sue lezioni
hanno influenzato la mia arte per un
tempo molto limitato. Poi ho preso la
mia strada.
Dal 1956 al 1965 è stato responsabile dell’immagine per l’impianto siderurgico dell’Italsider,
che cosa ha rappresentato per lei?
Il mio compito di responsabile dell’immagine dell’Italsider è stato per me molto
importante, con la fortuna di un rapporto
continuo con il Direttore Generale Gianlupo Osti che era una delle rare persone,
nel campo dell’industria, amanti della cultura. La sua impostazione era olivettiana,
sottolineava che un’industria oltre ai prodotti deve produrre cultura. Questo è
stato un punto fondamentale che mi ha
permesso di occuparmi dell’immagine
dell’Italsider, ancora oggi citata come
esempio.
CRITICA
Due parole con... Eugenio Carmi
80
Il triangolo di Pitagora, 2013, acrilici, collage e vernice su juta, 25x25
La fondazione della Galleria del Deposito è nata
dalla volontà di creare una realtà nuova che
diffondesse il gusto del bello, il suo motto era
“dobbiamo fare qualcosa di nuovo”. Da cosa
scaturiva quest’esigenza?
La Galleria del Deposito è nata a Boccadasse quando era stato messo in affitto
un ex deposito di carbone. Lo affittammo col desiderio di creare bellezza
e di trasmetterla ad un pubblico nuovo.
Il Deposito è in assoluto la prima realtà italiana
a produrre e immettere nel mercato i Multipli,
come nacque l’idea?
La nostra attività era quella di produrre
oggetti d’arte a basso costo per permettere ad un pubblico più modesto, ma
amante della cultura, di poter acquistare
multipli e serigrafie a un prezzo accessibile. Mobilitammo artisti famosi, italiani
e stranieri, che accettarono con entusiasmo di offrire alla Galleria del Deposito
progetti senza chiedere compenso.
Secondo Lei, oggi che cosa ci vorrebbe a
Genova per fare qualcosa di nuovo?
Genova ha fatto molti progressi da quel
tempo. Per citare un esempio il progetto
di Renzo Piano per il porto è stato l’inizio di un’idea nuova della città.
CRITICA
Come nascono le sue opere: dalla visione di
un’immagine o dalla volontà di rendere in immagine un’idea?
Le mie opere nascono dal desiderio della
bellezza che fa parte del mio modo di
lavorare. Non si tratta di rendere in immagine un’idea, ma l’immagine nasce dal
mistero della mente.
La finestra sul mondo, 2013, acrilici, collage e vernice su juta, 70x70
Genova negli anni ’60 - ’70 ha scritto alcune
delle pagine più importanti della storia dell’arte.
Ci racconti di questa straordinaria esperienza.
Negli anni sessanta in tutto il mondo
c’era una grande fioritura dell’arte, ma
Rievocando anche la collaborazione e l’amicizia
con Umberto Eco, qual è oggi il rapporto tra
immagine e parola grafica, intesa come forma
prima ancora che come fonema?
La collaborazione e l’amicizia con
Umberto Eco dura da oltre cinquant’anni.
Per esempio, su sua iniziativa sono nate
le tre favole da lui scritte e naturalmente
le mie illustrazioni in genere anticonformiste, come è tutta la mia vita.
Due parole con... Eugenio Carmi
Le contraddizioni del nostro mondo, 2010, acrilici,
collage e vernice su juta, 50x50
Genova non brillava per eventi che avevano a che fare con l’arte contemporanea. In quegli anni, che nei miei ricordi
sono gli anni della grande speranza in un
mondo migliore, io con grande passione
mi occupavo, insieme ad altri amici, di
dare una sveglia a Genova. Allora ero responsabile dell’immagine dell’Italsider al
cui aspetto ho dato un’impostazione innovatrice.
Per la rivista mensile dell’Italsider, avevo mobilitato gli amici artisti sia italiani che stranieri, i più famosi nel mondo
dell’arte, chiedendo a loro l’immagine di
una loro opera da pubblicare in copertina. Ciò era una grande novità: le copertine della rivista Italsider, diretta da Carlo Fedeli, sembravano a tutti quelle di una
rivista d’arte piuttosto che d'informazione aziendale.
Gli anni sessanta del secolo scorso sono i
più belli che io ricordo, perché il mondo
ci dava l’impressione di un grande progresso e ci dava la speranza che esistesse
un miglioramento duraturo nella situazione del mondo. Poi tutto è cambiato e
dalla speranza si è passati alla coscienza
che il genere umano è sempre agitato da
lotte fra stati e fra persone che creano
tensione fra paesi e fra persone.
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Il continente Emilio Villa
82
CRITICA
IL CONTINENTE EMILIO VILLA
Mostra al Museo della Carale
dal 6 giugno al 12 luglio 2015
di Adriano Accattino
“e celebro l’etimo corroso dalle iridi fonetiche, l’etimo immaturo, l’etimo colto, l’etimo negli spazi avariati, nei minimi intervalli, nelle congiunzioni, l’etimo
della solitudine posseduta, l’etimo nella sete e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!”
E. Villa Linguistica dalla raccolta di poesie E ma dopo, 1950
L'opera di Emilio Villa è stata realmente una personalissima celebrazione dell'etimo, come egli stesso dichiara in questi suoi versi, portata avanti con precisione e indeterminatezza allo stesso tempo, con sofferenza e con estrema libertà. L'opera poetica, artistica e critica, che l'autore ha voluto mantenere a margine rispetto alla cosiddetta ufficialità culturale, sta vivendo un momento di grande interesse presso studiosi e appassionati. L'evento Il continente Emilio Villa al Museo della
Carale di Ivrea ne è un esempio.
La mostra celebra un evento di grande importanza, l'acquisizione da parte del Museo della Carale Accattino di un importante archivio dedicato a
Villa raccolto da Aldo Tagliaferri, principale studioso e amico del poeta
e artista. Tagliaferri ha seguito e accompagnato Villa dal 1969, raccogliendo e conservando manoscritti e documenti (anche inediti) donatigli dal
CRITICA
poeta e dai suoi amici o acquisiti singolarmente nel tempo.
Il Museo della Carale e la città di Ivrea non
giungono impreparati a questa impegnativa acquisizione. Nel 1973 Ivrea ospitò un
Festival di poesia di grande risonanza, Poetiche, al quale presero parte tutti o quasi
tutti i poeti visivi italiani. Nel 2008 venne
fondato il Museo della Carale Accattino,
centro di ricerca e archivio per la poesia
sperimentale e visiva.
Il materiale raccolto nel Fondo Villa
comprende una vasta tipologia di carte:
si va dai libri (molte sono le edizioni originali, alcune realizzate con artisti come
Burri, Turcato, Nuvolo, Castellani, Bonalumi, Parmiggiani, Costa, Pomodoro) ai cataloghi, riviste, grafiche, documenti (con
un ampio corpus di fotografie, lastre, articoli, fotocopie); ai manoscritti e dattiloscritti (testi letterari, note, progetti, tavole, appunti, traduzioni) sciolti oppure
contenuti in cartelle, taccuini, block-notes, lettere e cartoline (come quelle di Burri, Manzoni, Duchamp e Matta).
Disegno dedicato al tema del Labirinto, inizio anni '80
Il continente Emilio Villa
Disegno dedicato a Neldina mia, anni '70
Il fondo comprende inoltre una vasta raccolta di cataloghi e pieghevoli con articoli di presentazione degli artisti. Tuttavia
l’elemento più importante è costituito
dalle numerose poesie scritte a mano su
frammenti di carta di ogni tipo, che testimoniano la centralità dell'aspetto visuale
dell'opera scritta di Villa. L’ambizione
estetica si nota al primo sguardo, le carte
di Villa sono vere e proprie tavole visive,
cioè non più solo pagine, ma composizioni apprezzabili alla vista, senza necessità
di lettura. Questo effetto è determinato dalla particolare disposizione delle parole nello spazio, dall’uso di inchiostri di colore diverso, dal movimento impresso dallo spostamento delle frasi, dalla disseminazione
di macchie, correzioni, frecce, dalle sovrapposizioni di parole o lettere. Così la pagina di Villa appare come un campo movimentato dalla passione sicuramente estetica che la rende completa e autonoma già
di per sé. I testi poetici di Villa, poi, si rac-
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Il continente Emilio Villa
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CRITICA
colgono intorno a parole icona come Sibylle, Labirinti, Trou, Mottetti, Taroc, Demoni, Zodiac. Altro elemento centrale della
complessità dei suoi scritti è costituito dal
linguaggio nuovo che crea di continuo. L’invenzione di parole può trovare ragione nella sua conoscenza di molte lingue di cui alcune in uso ed altre morte. Questo effetto linguistico espansivo è anche sostenuto dall’insofferenza di regole grammaticali e sintattiche: Villa pratica la libertà nella scrittura ed obbedisce esclusivamente
al proprio istinto. Da questo atteggiamento derivano sia un'offerta abbondante di termini e vocaboli sia, talvolta,
un’oscurità di comprensione nei modi
tradizionali, ma l'aspetto principale è
l’apertura linguistica e l’efficacia espressiva, che seguono canoni sconosciuti. Dallo
spiazzamento linguistico e dal coinvolgimento visuale e sonoro che i testi villiani
producono, si genera un effetto emozionale che, se proprio non coincide, almeno rasenta la poesia.
L’archivio si struttura in più sezioni critiche: la vita di Villa (sempre caratterizzata
da un particolare anticonformismo che ha
investito l'intera sua opera), l'attività culturale e critica accanto ad alcuni importanti artisti impegnati a riformare la pittura
del Secondo Dopoguerra come Afro, Bonalumi, Burri, Capogrossi, Dorazio, Lo Savio,
Manzoni, Mirko, Novelli, Rotella, Schifano,
Turcato; l'Emilio Villa poeta, l'artista e le relazioni con l'ambito della poesia
visuale...tutti argomenti contenuti nel preziosissimo fondo, che appare come un microcosmo tutto da scoprire, studiare, condividere.
Per completare lo sguardo su Villa, Adriano Accattino e Lorena Giuranna propongono, perquest’anno una mostra delle carte
manoscritte di Villa e una tavola rotonda
a cui parteciperanno alcuni tra i principali studiosi e appassionati di Villa. L'evento si pone come un primo appuntamento
proposto per mettere in luce la complessa e affascinante figura di artista, poeta e
uomo di cultura che è stato Emilio Villa.
BIOGRAFIA DI VILLA
Emilio Villa nasce il 21 settembre 1914
ad Affori (Milano). Inizia gli studi al seminario di Seveso, e tra il 1933 e 1936 frequenta l’Istituto Biblico di Roma dedicandosi allo studio del sumero e della filologia semitica antica. Intraprende una traduzione della Bibbia a cui si dedicherà per
tutta la vita. Nel 1934 pubblica a Bologna
la sua prima raccolta di poesie “Adolescenza” scritta tra i sedici e i venti anni.
Arruolato dalla Repubblica di Salò, si nasconde in Toscana ospite dello scrittore
e critico d’arte Samminiatelli. Verso la fine
del 1943 torna a Milano, dove vive in clandestinità. Tra il 1951 e 1952 si trasferisce in Brasile dove collabora con Pier Maria Bardi, fondatore del Museo di Arte Moderna di San Paolo.
Tornato a Roma si occupa di critica d’arte e collabora a numerose riviste. Con Gianni De Bernardi e Mario Diacono fonda la
rivista Ex della quale usciranno tra il
1961 e 1968 cinque numeri. Dagli anni Settanta in poi assistiamo a un progressivo
e sostanziale isolamento di Villa dal mondo letterario e artistico, nonostante la posizione attribuitagli di maestro del variegato universo della poesia visiva e la circolazione occasionale nel mercato di suoi
“oggetti di poesia” a cui corrisponde una
intensa e febbrile attività plurilinguista (italiano, latino, greco, portoghese, provenzale e in particolare francese) fino all’ictus
del 1986 che gli impedirà di parlare e scrivere. Il 14 gennaio 2003 muore in solitudine in un ricovero per persone anziane
situato nei pressi di Rieti.
CRITICA
Emilio Scanavino (Genova, 28-02-1922 - Milano, 28-11-1986)
di Francesco Magnanego
Emilio Scanavino nasce a Genova il 28 febbraio del 1922. Il padre Sebastiano è teosofo e la madre, Maria Felicina Sterla, è fervente cattolica. Queste due culture determineranno in seguito il conflitto interiore, che caratterizza la personalità e l’espressione dell’artista.
Nel 1934 frequenta la scuola magistrale di Genova e nel 1938 il Liceo
Artistico Nicolò Barabino, dove diventa allievo di Mario Calonghi, figura di grande stimolo culturale e dove avviene la sua prima formazione: paesaggi e soggetti umili sono le opere realizzate fino alla fine
degli anni Trenta, che Scanavino presenterà nel 1942 nella mostra personale presso il Salone Romano di Genova. Nello stesso anno si iscrive alla Facoltà di Architettura dell’Università di Milano, ma nel 1943 è
chiamato alle armi e deve abbandonare gli studi.
Nel dopoguerra si sposa con Giorgina Graglia, conosciuta durante gli
anni del liceo; lavora come disegnatore tecnico presso l’amministrazione comunale di Genova e aderisce al clima di rinnovamento culturale e artistico della sua città. L’atelier dove vive e lavora è sopra le
mura dello Zerbino. Nelle tele di questo periodo ricorrono moduli linguistici di declinazioni espressionista.
Nel 1947 Scanavino si reca per la prima volta a Parigi dove soggiorna
qualche tempo e, accanto ai critici, incontra i poeti e gli artisti, Edouard Jaguer, Wols, Camille Bryen. L’esperienza parigina si rivelerà fondamentale nel suo percorso stilistico, in particolare per gli echi del postcubismo che assimila e interpreta in chiave personale fin dal 1948,
quando espone alla Galleria l’Isola di Genova. Alle suggestioni della
lezione di Picasso verso la fine del decennio Scanavino avverte anche
l’influenza delle contemporanee esperienze astratte. Nel 1949 nasce
il figlio Sebastiano.
Nel 1950 alla XXV Biennale di Venezia espone Soliloquio musicale e
suscita l’attenzione della critica. Nello stesso anno riceve ex aequo il Primo Premio alla V Mostra regionale genovese. Si dedica completamente alla pittura, affermandosi da questo momento in avanti nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale.
Nel 1951 s’inaugura una mostra personale alla Apollinaire Gallery di Londra. Conosce Philip Martin, Eduardo Paolozzi e Francis Bacon: le opere
di quest’ultimo in particolare lasciano in Scanavino un segno profondo.
Ad Albisola, in Liguria, frequenta il laboratorio di ceramica di Tullio
d’Albisola, dove incontra e stringe amicizia con Fontana, Dangelo, Baj,
Dova, Crippa, Jorn, Appel, Corneille del gruppo Cobra, Matta, Lam. Accanto agli artisti incontra e frequenta Jaguer e Verdet, che Scanavino
ha già conosciuto a Parigi dove continua a tornare anche per brevi viag-
Omaggio a Emilio Scanavino
OMAGGIO A EMILIO SCANAVINO
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Omaggio a Emilio Scanavino
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CRITICA
gi fino al 1958. In questo periodo incontra e conosce anche Carlo Cardazzo, destinato a diventare nel giro di poco
tempo il suo attento e lungimirante
mercante.
Nel 1952 è titolare della cattedra di disegno e figura presso il Liceo Artistico
di Genova. Il critico Guido Ballo e i galleristi Le Noci, Schwarz e Gastaldelli si
interessano alla sua ricerca. Nasce la figlia Paola.
Nel 1953 gravita intorno al gruppo milanese degli spazialisti, che ha come punto di riferimento la Galleria del Naviglio,
senza mai aderire ufficialmente agli intenti del movimento, e sarà inserito nel
volume di Giampiero Giani Spazialismo: origini e sviluppi di una tendenza
artistica, pubblicato nel 1956.
Nel 1954 Scanavino è nuovamente invitato a esporre alla XXVII Biennale di Venezia, partecipa al primo degli Incontri
Internazionali della ceramica, organizzati ad Albisola da Jorn.
Nel 1955 riceve il Premio Graziano. La
poetica dell’informale si delinea nel segno e nella materia. Scanavino entra in
contatto con Peppino Palazzoli della
Galleria Blu, sensibile alle più contemporanee ricerche della poetica dell’Informale europeo.
Nel 1956 Scanavino alterna il soggiorno
parigino a brevi viaggi a Londra, dove incontra di nuovo Eduardo Paolozzi, del
quale diventa amico; mentre più tardi,
nel 1958 quando Scanavino è a Parigi, frequenta Bertini e Dova coi quali vede Corneille, Poujet e lo stesso Jaguer.
É in questi anni, più precisamente
nel 1957, che avviene l’incontro anche
con un giovane critico, che sarà uno degli studiosi dell’Informale italiano ed Europeo, Enrico Crispolti, con cui Scanavino terrà un importante carteggio (cfr. R.
Ferrario, Scanavino/Crispolti. Carteggio
1957-1970, Silvana Editoriale, 2006).
Dal carteggio emergono l’attualità della
poetica del segno e della materia di Scanavino e il confronto del suo linguaggio
Rituale, 1952
pittorico con l’informale di matrice europea, in particolare con la lezione di
Wols e con le suggestioni di Bacon e di
Paolozzi.
Nascono in questo periodo i primi Rituali e gli Alfabeti senza fine, i temi che ricorrono nella pittura di Scanavino: il segno si fa protagonista sulla tela di un racconto ritmato, di un tempo sospeso, di
pieni e vuoti di presenze suggestive, evocate nell’ombra dello studio o nella natura di Calice Ligure, dove, alla fine degli anni Sessanta, Scanavino sposterà il
suo studio per alcuni periodi dell’anno.
Nel 1957 Scanavino realizza anche il bassorilievo per il Genio Civile di Imperia,
esempio del dialogo e della costante verifica che Scanavino attua fra pittura,
scultura, ceramica e arti applicate e
ravvisabile nella coeva produzione di oggetti in ceramica, vasi, formelle e nelle
sculture (cfr. G.Graglia Scanavino, G.M.
Accame, Scanavino. La scultura 19521980, Documenti dell’Archivio Scanavino, Edizioni Aspasia, Bologna, 2004).
Nel 1958 è invitato alla XXIX Biennale di
Venezia riceve il Premio Prampolini e al
X Premio Lissone (Premio acquisto per
l’Ecce Homo, 1956-1957). Si trasferisce con la famiglia a Milano e
inizia un rapporto esclusivo con Cardazzo. Conosce Gianpiero Giani, Gillo Dorfles, Roberto Sanesi, Franco Russoli e
Alain Jouffroy.
CRITICA
Alfabeto senza fine, 1957
nista alla Biennale di Venezia con una
sala personale in cui espone grandi tele,
accompagnate in catalogo da un saggio
di Guido Ballo.
Nel 1970 riceve il Gran Premio alla Biennale di Mentone.
Nel 1971 si trasferisce per qualche tempo a Roma ed è invitato alla Biennale di
San Paolo del Brasile insieme con Alik Cavaliere: i due artisti realizzano l’operainstallazione Omaggio all’America Latina, un grande retablo in omaggio ai martiri per la libertà dei popoli latinoamericani composto da nove pannelli di legno
dipinti a olio con innesti di sculture in
bronzo, argento e alluminio. I pannelli,
suddivisi in 156 riquadri secondo l’iconografia degli alfabeti senza fine di
Scanavino, riportano ognuno il nome di
un martire per la libertà misteriosamente scomparso e la cui documentazione
anagrafica è stata ritrovata da Cavaliere
e Scanavino nei registri degli archivi dei
consolati di San Paolo. L’opera venne cen-
Omaggio a Emilio Scanavino
Nel 1960 è invitato alla XXX Biennale di
Venezia con una sala personale. Vince
il Premio Spoleto, ilPremio Sassari, il Premio Valsesia e il Premio Lignano.
Nel 1962 acquista una casa a Calice Ligure e la trasforma in atelier.
Nel 1963 riceve il Premio La Spezia.
Nel 1966 Scanavino è invitato di nuovo
alla XXXIII Biennale di Venezia con con
una sala personale: vince il Premio Pininfarina.
Nel 1968 risiede a Calice Ligure, dove si stabiliscono molti altri artisti che formano intorno al maestro una piccola comunità.
Nel clima di ritorno alla figurazione Scanavino partecipa alla rassegna Possibilità di Relazione (L’Attico, Roma, 1960) e
le due edizioni di Alternative Attuali
(L’Aquila, 1962-1965) con le quali Crispolti cerca di fare il punto sulla situazione
di “superamento dell’informale” grazie a
una oggettivazione delle forme.
Nel 1965 Scanavino espone alla Quadriennale e nel 1966 è di nuovo protago-
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CRITICA
Omaggio a Emilio Scanavino
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Sacrificio, 1962
gica. La mostra, modificata in alcuni punti, è itinerante in Italia, a Venezia a Palazzo Grassi e a Milano a Palazzo Reale.
Nel 1976 Scanavino alterna la sua attività artistica tra Parigi e l’Italia.
Tra il 1979 e il 1980 espone alla Galerie
Matthias Fels di Parigi e a Palazzo Massari a Ferrara. Negli anni Ottanta partecipa alle mostre dedicate alla pittura degli anni Cinquanta e Settanta.
Tra il 1984 e il 1985 si svolge una sua
mostra personale a Firenze al Palazzo dei
Congressi e a Tours, presso il Chateau de
Tours.
Muore a Milano il 28 novembre del 1986.
Biografia tratta dal sito ufficiale
www.archivioscanavino.it
Il grande artista inglese Graham Sutherland, che ebbe tra i suoi allievi Francis Bacon, dopo aver visto alcuni quadri
di Scanavino, scrisse: “ora che ho visto
le sue opere avrei voglia di distruggere
tutte le mie.”
Bastone di Dio, anni Settanta
surata per il soggetto “di natura politica e quindi extra artistica”; tornato in Italia il “retablo” diventò simbolo di libertà, richiesto da istituzioni pubbliche, da
galleristi e dagli studenti della Facoltà di
Architettura dell’Università Statale di Milano per la manifestazione con Giorgio
Gaber. Oggi - grazie al restauro del
2003 dovuto alla collaborazione tra i rispettivi archivi degli artisti e l’accademia
di Belle Arti di Brera – l’opera è esposta
al Museo della Permanente di Milano.
Lungo gli anni Settanta Scanavino trascorre periodi sempre più lunghi nella sua casa
di Calice Ligure; il suo segno si semplifica e si raccoglie in griglie o architetture geometriche, che preludono a una riflessione
sull’oggettivazione della pittura.
Nel 1973 la Kunsthalle di Darmstadt gli
dedica una vasta e approfondita antolo-
Non è solo per la stima e ammirazione
nei confronti di Scanavino se ho citato
Sutherland all’inizio di questo mio scritto. L’artista inglese passò la maggior par-
La porta, 1974
CRITICA
L’uovo, appunto.
La tematica dell’uovo non è certo nuova nell’arte e nel corso dei secoli questa forma
così bella e perfetta ha avuto molteplici significati simbolici. Ne abbiamo uno degli
esempi più celebri nella Pala Montefeltro
di Piero della Francesca custodita a Brera.
Ma l’uovo non necessariamente significa nascita e non necessariamente racchiude un dolce pulcino, come ci insegnò, già
in tempi non recenti, Bosch.
In Scanavino, questo tema può rientrare, a mio avviso, nell’ambito dell’astrattismo simbolico (sempre che di astrazione si tratti) dove l’uovo diventa appunto pretesto e simbolo per narrare il
male esistenziale del nascere o addirittura del non-nascere; della sofferenza del
feto (o della pupa). L’embrione nell’uovo sanguina (muore?) prima ancora di venire alla luce. Così l’uovo diventa
icona di vita non vissuta, stroncata sul
nascere o prima ancora, abortita.
Il Simbolismo astratto deve essere visto
però solo come una delle molteplici
chiavi di lettura dell’opera dell’artista genovese. Un’altra chiave può essere la sua
contrastata religiosità. Già nella biografia si è parlato della forte fede cattolica
della madre e della Teosofia paterna. Un
animo sensibile e analitico come il suo,
non poteva certo rimanerne indifferente. Se poi aggiungiamo il periodo storico nel quale l’artista opera, ecco che la
religione, la presenza o il rifiuto di
un’entità sovrannaturale, non poteva
non inserirsi prepotentemente nelle tematiche pittoriche. È così che già negli
anni 50 nascono le crocifissioni, i fili spinati, - evidente riferimento alla corona di
spine- i “bastoni di Dio”, i Sacrifici.
Il male di vivere montaliano diventa in
Scanavino ricerca introspettiva prima che
espressiva. Il tentativo di rappresentarlo in immagini interiori, di scavare ossessivamente nel suo interno fino a “conoscere” il Dolore.
Non bisogna dimenticare che Già da bambino Scanavino conobbe il Dolore. Una
Omaggio a Emilio Scanavino
te della sua indagine pittorica a scandagliare l’inconscio umano ricercando nelle forme della natura le immagini evocative del Dolore psichico. Molte opere dedicò al tema delle spine sia in nature morte quasi surreali sia nelle più figurative
Crocifissioni. Ecco che allora Sutherland
si può definire forse l’unico vero precursore di Scanavino. O per meglio dire, Scanavino involontariamente raccoglie, dalle tematiche dell’inglese, lo spunto per
le Sue personalissime ricerche.
È infatti dalla natura che Scanavino inizia a trovare sensazioni ed emozioni che
poi tradurrà in temi ricorrenti ( la porta, i bastoni, gli alfabeti, l’uovo) per tutta la durata della sua vita, arrivando a forme sempre più rarefatte ed essenziali
dove non solo i segni, le graffiature, le
trame hanno voce e significato, ma anche, e sopratutto, in alcuni emblematici casi, i Vuoti. Quei Vuoti, anzi, hanno
spesso più importanza dei segni. Così avviene che le trame, i legacci, le surreali
“corde” si avviluppino, senza intervento umano, ad un vuoto, possa questo essere un cerchio, un’ apparente porta o più
semplicemente un “buco” indefinito. Al
di là della trama è il Vuoto, quello vero,
assoluto: il Buco Nero, che tutto assorbe e annulla. Si vedano soprattutto le opere dei primi anni 70. Qui Scanavino non
ha più bisogno, come Fontana, di andare al di là della tela, perché quel nero totale ci dice che al di là della tela non c’è
niente, oltre la trama c’è solo il Nulla!
Poi, negli ultimi anni, le trame si diradano, si aprono, lasciando intravvedere alcune luci, spesso diafane, a volte più vive,
oserei dire più “positive”, quasi a dichiarare un desiderio di credere ancora, o forse solo una speranza. Mai quindi quei
neri avranno mera funzione di sfondo.
Anche le figure geometriche non assumono quasi mai solo ruolo di sostegno ai cordami, ma spesso sono strutture simboliche esse stesse, siano queste bastoni, scale, croci o più semplicemente cerchi, quadrati od ovali.
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CRITICA
Omaggio a Emilio Scanavino
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Crocifissione, 1979
CRITICA
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Omaggio a Emilio Scanavino
L'uovo, 1985
paralisi alle gambe lo costrinse all’immobilità per parecchio tempo. Un trauma infantile non da poco che sicuramente lo
costrinse anzitempo a vedere la vita in
modo diverso rispetto ad un altro adolescente. Ma invece di fuggire, di evadere, Scanavino ha bisogno di capire, di indagare per cercare -inutilmente- di comprendere. Eppure...
Ricerca inestinguibile e cosciente dell’impossibilità di un traguardo, un completamento, ma comunque necessaria e ineluttabile, laddove forse una razionalità non
stimolata, non spinta dall’atto eroico dell’Artista, avrebbe desistito da tempo.
Una ricerca che, da esistenziale – Se in
Montale “era il rivo strozzato” in Scanavino sono i nodi di corda fatti dai contadini per aggiustare una palizzata, i gro-
vigli di filo spinato, gli intrecci di vimini, le rocce spaccate della sua Liguria che
lui fotografava come in un taccuino di appunti – una ricerca, dicevo, che da esistenziale diventa psichica e psicoanalitica. Scanavino è forse l’unico grande artista non figurativo che ha scavato così
a fondo nella psiche umana.
Ma davvero era non-figurativo? Opere
come le porte, gli insetti, le montagne,le
uova o i pani, lo stesso Autoritratto del 58,
non si possono considerare non-figurative tout-court. O non era forse allora un surrealista? E gli alfabeti, i grovigli?
Il suo primo “alfabeto senza fine” è del
‘57. Ne seguiranno altri, fino agli anni 80.
ma perché? “la geometria è un illusorio
controllo della vita.” scriveva Scanavino.
Questi ordinati e precisi quadretti rac-
Omaggio a Emilio Scanavino
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CRITICA
chiudono, o cercano di farlo, una babele di crittogrammi indecifrabili. Il dolore, il tormento, l’angoscia, ma anche la
gioia, l’allegria, non sono sentimenti
descrivibili a parole e quelle “lettere” che
l’artista prova a incasellare, a decifrare,
ne fuoriescono ineluttabilmente per
un’anarchia che è loro propria così
come il segno tracciato dalla mano non
è più controllabile dalla mano stessa. Lo
stesso Scanavino annotava : “non si fanno segni se non sono essi a farsi, non si
creano immagini se non sono immagini
loro stesse”. E ancora “ciascuno di questi ideogrammi corrisponde ad un istante innominato del pensiero, e non significa, letteralmente, che questo istante: la
traccia unica di questo istante” .
Nel 56 Montale pubblica “La bufera”, nel
‘66 “Xenia” e nel ‘71 “Satura”. L’ ermetismo
viene consacrato col Nobel a Quasimodo
nel ‘59 e a Montale stesso nel ‘75. Tra il ‘60
e il ‘62 esce sugli schermi La trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni.
Ascritto un po’ a forza, anche forse per
relazioni e ragioni anagrafiche, alla corrente Informale, pur rimanendo legato da
grandi amicizie con esponenti di questa,
Scanavino ne prende in qualche modo le
distanze già dalla metà degli anni 50, cercando, ma l’aveva già trovata prima, una
sua personale impronta.
A volte qualcuno ha voluto avvicinarlo
agli ideogrammi orientaleggianti di Mathieu, o al gesto nervoso di Hartung, ma
Scanavino è diverso. È diversa la sua scrittura segnica.
Scanavino è Scanavino.
E basta.
Se Capogrossi ebbe come compagni di
viaggio e seguaci artisti come Sanfilippo
e Accardi o Castellani ebbe Bonalumi,
pure grande amico di Lam, Matta, Jorn,
Corneille, Crippa , Dova, Scanavino è solo,
come Fontana. Introverso? Si, probabilmente, ma anche per questo, forse, profondo come solo lui ha saputo essere.
La sua sola unica vera compagna di vita
è stata, la sua grande moglie Giorgina
che, vissuta nell’ombra di questa “ingombrante” figura artistica, dopo avergli
per anni preparato sulle tele le basi geometriche sulle quali l’artista avrebbe tracciato e scavato le sue inconfondibili
“tramature”, ha proseguito, dopo la prematura morte del marito, la promozione, la divulgazione, la preziosissima e
precisissima archiviazione delle sue
opere. Emilio Scanavino non godrebbe
ora della fama che giustamente possiede (ma ne meriterebbe molta di più) senza la sua amata Giorgina. Chi ha avuto
il privilegio di conoscerla sa quanto ci sia
del vero in quello che scrivo.
N.d.a.
Il presente articolo è stato scritto precedentemente alla scomparsa della Signora
Giorgina Graglia Scanavino, avvenuta il 1° marzo di quest’anno. La signora Giorgina fece quindi in tempo a leggerlo e a darmi il parere favorevole che riporto.
“Egregio Sig. Magnanego,
il testo che lei ha scritto è denso di pensiero, belle osservazioni e mi ha reso felice perché lei ha capito il lavoro di Scanavino.
La ringrazio e la saluto cordialmente.
Giorgina Scanavino “
Il 17 marzo presso i giardini antistanti la stazione Brignole a Genova è stato dedicato un viale al maestro Emilio Scanavino.
A S P E T TA N D O L A B I E N N A L E D I G E N O VA
Si sta avvicinando uno degli eventi più importanti del calendario di SATURA: la BIENNALE di GENOVA. Proprio così, questo 2015, vede esordire la galleria SATURA nell’ideazione e organizzazione di una Biennale tutta genovese, che si svolgerà dal 4 al 18 luglio 2015.
L’idea, ispirata a quella di Venezia di coinvolgere diverse sedi espositive, è nata a seguito del grande successo delle precedenti cinque edizioni che SATURA ha organizzato all’interno dei suoi spazi presentando oltre 1.100 artisti provenienti da più di 30 paesi. La BIENNALE di
GENOVA grazie anche al patrocinio di Regione Liguria, Comune di Genova, Città Metropolitana di Genova e Camera di Commercio, estende l’esposizione sul territorio cittadino, interessando come location,
oltre Palazzo Stella, Palazzo della Borsa, Galata Museo del Mare, Museo di Sant’Agostino, Palazzo Doria Spinola, Palazzo Lomellino.
L’obiettivo è creare una manifestazione di grande rilievo che raggiunga un pubblico sempre più ampio e in grado di attrarre l’attenzione culturale nazionale, accrescendo lo status di Genova nel
mondo dell’arte contemporanea come ambiente vivace e all’avanguardia. Rappresenterà una vetrina d’eccellenza della scena contemporanea, in cui troveranno
spazio tutte le principali
forme di espressione artistica visiva: pittura, scultura,
Aspettando la Biennale di Genova
ASPETTANDO
LA BIENNALE DI GENOVA
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A S P E T TA N D O L A B I E N N A L E D I G E N O VA
Aspettando la Biennale di Genova
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fotografia e installazioni. La Biennale diventerà uno degli appuntamenti principali per l’arte contemporanea a Genova e animerà
la città con un ricco programma
di eventi, non solo espositivi,
per offrire agli artisti ed ai visitatori opportunità di incontro e confronto sui principali temi dell’arte e della cultura.
Il progetto deriva dall’approccio
del Presidente e direttore artistico Mario Napoli, incentrato sul
fare attivo che ha caratterizzato
i ventun’anni di attività dell’Associazione Culturale SATURA. Lavoro, costruzione di eventi e proposte di qualità sono il modo migliore per portare l’arte contemporanea a contatto con il pubblico. SATURA crede nell’importanza del
concetto di multimedialità che si
concretizza attraverso le tante
proposte multidisciplinari: corsi
di scrittura creativa, disegno, fotografia, ma anche di comunicazione, presentazioni letterarie,
performance ed eventi musicali.
A S P E T TA N D O L A B I E N N A L E D I G E N O VA
Aspettando la Biennale di Genova
La sua programmazione
in continua espansione, è
sempre più rivolta ad instaurare collaborazioni con
l’esterno per offrire opportunità a giovani artisti
emergenti. Si collocano in
quest’ottica gli appuntamenti fieristici in tutta Italia, tra cui l’immancabile
ArteGenova e Photissima
Art Fair. Infatti, si è da
poco inaugurata con successo l’edizione di Venezia
che si svolge nel meraviglioso Chiostro dei Frari in
concomitanza alla 56^
Biennale di Venezia e che
coinvolgerà la galleria genovese fino alla fine di ottobre. Seguiranno il 20°
Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea – SATURARTE 2015, presenza ormai consolidata nel calendario espositivo della galleria e l’esclusiva edizione
milanese di Photissima Art
Fair all’interno della prestigiosa location di Superstudio Più di Via Tortona.
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Erica Campanella. Mitica umanità
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VETRINA
ERICA CAMPANELLA
MITICA UMANITÀ
di Andrea Rossetti
Tratto pungente nell'arte di Erica Campanella è quell'approccio mentale che la porta ad una figuratività del “fare e disfare”, costruendo
l'immagine e lasciando che questa stessa si sfaldi con senso d'infinità nell'apologia mitologica, quanto post-divinatoria, dell'essere umano. Essere la cui spiccata socialità/individualità è oggetto di una figurazione bella, perfetta, e sempre condizionata dalla sua indiscutibile
natura sentimentale.
Figurazione come influente oggettività,
sconfinante a tratti
nell'iperrealismo. Ed
evidentemente incapace di bloccarsi lì, visto che il lavoro della
Campanella si mostra
più indirizzato ad ordinare termini “oltrefigurativi”. Un mantra per l'artista, ciò
che da solo presiede
una percezione delle
immagini perpetuamente in oscillazione
tra composizione e
decomposizione, buttandosi sul manierismo dei volumi serpentinati e sulla iperstoricità del metallo
(rame, ottone, similoro) come supporto
coagulante per studiati dinamismi cromatico-chiaroscurali.
Essere psicologicamente nell'immagine,
inserirvi un'ineccepibile pratica di gesto in
cui l'olio si apre ad
espansione, fino a
PENSIERO, 2011, olio su rame, 120x90
VETRINA
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Erica Campanella. Mitica umanità
Dea Madre. DEMETRA, 2011, olio su similoro, 90x57
prodursi in un'artificiosa assenza, ad una
perdita di consistenza che sia quanto mai
“sconveniente” in rapporto alla fisicità
incontrovertibile dei suoi personaggi.
Anti-accademismo campanelliano, una
selezionata sintassi visiva che nei rivoli di pittura colante stabilisce il valore della sua modernità, e si mescola quindi agli
accenti post-modernisti di un genere ritrattistico ancora ben riconoscibile, nonché portabandiera nell'uso “accademico”
dell'olio. È forse proprio nell'incontro tra
moderno e post-moderno che il senso
della pennellata trova la sua più bella vivacità di gesto, raggiungendo una padronanza del mezzo pittorico misurata anche dai sottilissimi segni appunti e incisi a stesura ancora fresca, insostituibile peso espressionista, preminenza di una
gravità morale che entra violentemente
nell'immagine, scorticandola con incondizionata forza di volontà.
Dea Figlia. PERSEFONE, 2011, olio su similoro, 90x57
REFLECTION 1, 2014, olio su tela, 50x40
Mario Agrifoglio. Black light e Bauhaus
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VETRINA
MARIO AGRIFOGLIO
BLACK LIGHT E BAUHAUS
di Flavia Motolese
Andare oltre le apparenze, potrebbe essere questo il messaggio di Mario Agrifoglio. Artista innovatore e geniale che ha dedicato alla ricerca e alla sperimentazione tutta la sua vita; una personalità rara che
si è discostata da ogni assunto preordinato in materia artistica per trovare la sua personale via nella concezione stessa che sta alla base del
fare Arte. Una profonda indagine del reale e dell’insieme di regole che
dominano la cultura occidentale l’ha spinto a elaborare e sottoscrivere nel 1976 il “Manifesto del Compensazionismo” con cui ridefinì la
concezione della realtà. Una teoria complessa, in antitesi con l’ideologia monoteista imperante, che afferma l’esistenza di due entità fondanti con caratteristiche opposte, il caldo puro e il freddo puro, dalla cui fusione è stato generato l’universo. La sua pittura è l’oggettivazione di questo pensiero, ogni dipinto di Agrifoglio, anche se in scala e limitato, è la dimostrazione della compresenza della luce bianca
calda e della luce nera fredda che, unendosi, generano la varietà della realtà. Desideroso di trovare un linguaggio espressivo che rispondesse alla sua urgenza di andare oltre una pittura fine a se stessa, basata sulla convenzionalità della raffigurazione realistica, approda ad
una pittura che trova una soluzione di continuità tra la fenomenologia del sensibile, la componente estetica e quella contenutistica. L’artista pone al centro del suo sistema il colore come entità autonoma
in grado di definire armonicamente lo spazio e di creare luce.
Traendo spunti dalle ricerche visive e ottiche dei costruttivisti e della Bauhaus e grazie ad uno studio approfondito delle teorie del colore e della fisica della luce, lavora sul rapporto spazio-forma, colore-
Multiplo differenziato, 1987, tecnica mista, 90x90
VETRINA
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Mario Agrifoglio. Black light e Bauhaus
Multiplo differenziato, 1987, tecnica mista, 90x90
luce. L’utilizzo di esposizione a luce nera,
quale parte integrante dell’ideazione e
della fruizione delle opere pittoriche, è
conseguenza diretta delle sue elaborazioni teoriche. Ad una prima fase sperimentale in cui la resa di materiali luminescenti e fosforescenti era casuale, è seguita
una fase in cui Agrifoglio ha dominato
pienamente le variazioni cromatiche e il
metamerismo. L’esaltazione del difetto
metamerico non persegue, attraverso dialettiche cromatiche, fini estetici, ma è una
dichiarazione d’intenti: impegno nella ri-
cerca, distanza da posizioni statiche, superate, che permettano la riproducibilità. Le opere di Agrifoglio sono la raffigurazione dell’armonia del tutto, pure
forme geometriche definite dai rapporti del potenziale elettromagnetico del colore. La sublimazione dello spazio reale attraverso figurazioni essenziali è
strettamente correlata alla ricerca del fondamento insito in tutte le cose e restituisce un’interpretazione inedita delle infinite possibilità e combinazioni che
decodificano l’interiorità e l’esteriorità.
Realtà fisica e realtà apparente, 1986, tecnica mista, 90x90
Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
ANDANDO PER MOSTRE
Belle Haleine - L’odeur de l’art
Basilea si conferma una delle capitali
mondiali della cultura attraverso
l’innovativo progetto in più mostre
articolate negli anni dal caleidoscopico
Museo Tinguely sul rapporto tra i cinque
sensi dell’uomo e la loro rappresentazione
nell’arte. La prima della serie, che va oltre
l’usuale forma di fruizione artistica
attraverso la vista, tratta l’intrigante
fenomeno dell’odore (vox media
dall’accezione positiva e negativa) su
un’area di più di 1200 mq attraverso
installazioni multimediali, sculture, video,
dipinti, oggetti, opere concettuali, disegni,
fotografie e incisioni di artisti dal 20°
secolo a oggi con un salto (nella sala di
apertura) nel 16° e 17° tramite opere
Belle Haleine, Ernesto Neto
allegoriche come i vari e divertenti olandesi
De Reuk (L’odore). Seguono artisti
fondamentali del ‘900 quali Marcel
Duchamp con la celebre Air de Paris, Man
Ray, Carlo Carrà… fino ai più recenti come
di Wanda Castelnuovo
Sissel Tolaas (norvegese di nascita, tedesca
d’adozione tra i maggiori esperti mondiali
di odori) anche scienziata, chimica e
linguista, un vero e proprio naso che con
The FEAR of Smell - the Smell of FEAR (La
PAURA dell’Odore – l’Odore della PAURA)
induce ad analizzare il rapporto tra paura,
odore e disgusto.
Particolarmente affascinante Mentre niente
accade/While nothing happens (2008) di
Ernesto Neto (Rio de Janeiro 1964), artista
brasiliano che ammalia con le sue sinuose
forme astratte floreali e organiche
dall’inebriante profumo speziato: in ogni
involucro trasparente in lycra cinque spezie
macinate (pepe, cumino, chiodi di
garofano, zenzero e curcuma) e sabbia
danno una forte stimolazione olfattiva,
cromatica e visiva.
Scopo dell’esposizione è indagare se
ponendo il sottovalutato e trascurato senso
dell’olfatto come centro della percezione si
può ampliare il concetto di arte attraverso
nuove forme di sperimentazione creativa:
un’intrigante mostra di arte connotata da
un profluvio di odori da annusare e da
approfondire anche durante le iniziative ad
hoc create dal Museo per grandi e piccoli.
↪ Basilea/CH: Museo Tinguely, Paul SacherAnlage 1
11.00 – 18.00 da martedì a domenica
Fino al 17 maggio 2015
Biglietto mostra: intero frs 18, ridotto frs
12, gratuito fino a 16 anni
Informazioni: tel. 0041 61 6819320,
www.tinguely.ch
Dolci trionfi e finissime piegature
Sculture in zucchero e tovaglioli
per le nozze fiorentine di Maria de’ Medici
Un salto di oltre quattro secoli riporta ai
fasti del sontuoso e opulento banchetto
tenutosi a Palazzo Vecchio la sera del 5
ottobre 1600 per le nozze fiorentine di
Maria de’ Medici con il re di Francia Enrico
IV ricordate dal preciso pennello di Jacopo
da Empoli in Matrimonio di Maria de’
Medici. La rievocazione di tale evento - che
dati i temi trattati gode del patrocinio di
Expo 2015 - rilevantissimo dal punto di
vista storico, politico e diplomatico (non
ANDANDO PER MOSTRE
Leone (da Giambologna)
solo per i Medici) è resa possibile anche
grazie al testo ricco di superlativi e
aggettivi celebrativi lasciato da
Michelangelo Buonarroti (pronipote del più
famoso Michelangelo), architetto e regista
della festa cui concorrono l’architetto
Bernardo Buontalenti per l’allestimento
della tavola regia e di quelle degli ospiti, gli
scultori Pietro Giambologna, Pietro Tacca e
Gasparo Mola e il grande pittore Jacopo
Ligozzi, autore di una magnifica credenza a
forma di giglio di Francia utile a presentare
agli ospiti gli oltre 2000 oggetti del tesoro
mediceo.
Una festa indimenticabile che all’epoca ha
vasta eco con spettacoli, musiche…
sculture - alte più di un metro che paiono
di ghiaccio su una tavola innevata e che in
zucchero fuso e modellato riproducono
capolavori - opere d’arte fragili ed effimere
ancorché vere realizzate con l’ausilio dei
detti scultori e di artigiani (come
dimostrano conti autografi e fatture
originali) e con inamidati tovaglioli di lino
dalle virtuosistiche piegature. Oggi grazie
alla manualità di Sarah e Giacomo Del
Giudice che nella loro Fonderia a Strada in
Chianti hanno operato nel preciso rispetto
delle tecniche di fusione tradizionali e alle
splendide piegature di tovaglioli del
maestro Joan Sallas si possono ammirare
fantastiche realizzazioni come l’austero
Leone (in zucchero) dal Giambologna e il
magico Castello (da Mattia Giegher,
Doni Preziosi
Immagini e oggetti dalle collezioni museali
La singolare mostra, attingendo alle
variegate collezioni museali del maestoso
Castello del Buonconsiglio - nato come
fortezza nella prima metà del 13° secolo e
ingentilito nel 16° da una loggia e dal
rinascimentale Magno Palazzo con
ambienti ornati da splendidi affreschi mette in luce attraverso numerose opere,
alcune esposte e pubblicate per la prima
volta, antiche storie e abitudini sociali
relative al dono dal Trecento all’Ottocento
sia in ambito familiare, sia nel rapporto con
gli altri.
Numerosi manufatti pregiati e oggi inusuali
appartenenti alle arti applicate (oggetti in
porcellana, ceramica, vetro, avorio e
argento), dipinti, incisioni e tessuti sono
analizzati sia per il loro valore artistico
intrinseco, sia quali simboli del ‘dare,
ricevere e ricambiare’ tra spontaneità e
doveri sociali quando non strumenti
importanti nei delicati rapporti diplomatici
tra dinastie regnanti e casate
aristocratiche. Icona della mostra le
eleganti Tre Grazie in alabastro, opera di
Giovanni Insom (Casez 1775 – Firenze
1855), trentino con una sua bottega nella
capitale del Granducato visitata nel 1842
dal conte Matteo Thun che acquista quale
souvenir da riportare in patria un
composito centrotavola (molto di moda
soprattutto nel ‘700) di cui le Grazie fanno
parte.
Nel percorso si ammirano doni d’amore,
nuziali, familiari tra cui il prezioso Calice
con giovane coppia in vetro lattimo
(inventato a metà ‘400 dal vetraio Angelo
Barovier) di Murano, forzieri, cassoni dotali
Andando per mostre
Trattato delle piegature, 1629), esempi tra
gli altri della volontà di stupire come la
credenza ricostruita in cui scorrono a video
immagini dei tesori medicei.
↪ Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti,
Piazza Pitti 1
8.15 - 18.50 da martedì a domenica (ultimo
ingresso ore 18.05). Lunedì chiuso
Fino al 7 giugno 2015
Biglietto: intero € 13.00, ridotto € 6.50
Informazioni e prenotazioni: 055 294883,
www.dolcitrionfi.it
Catalogo Sillabe Editore
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ANDANDO PER MOSTRE
Andando per mostre
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Tabacchiera a forma di testa di carlino
intagliati, eleganti cofani da viaggio,
raffinate medaglie, posate e ancora
galanterie come delicati ventagli,
tabacchiere: nuova moda del Secolo dei
Lumi tanto preziosa da costituire dono
regale insieme alle raffinate raspe da
tabacco, oggetti ambiti nell’alta società
come la simpaticissima Tabacchiera a
forma di testa di carlino (razza canina
ricercata dalla nobiltà europea tra ‘600 e
‘700). E ancora doni nefasti, tentazioni che
possono indurre al male, per finire con
quelli dei Pastori, dei Re Magi e sacri.
↪ Trento: Castello del Buonconsiglio, Via
Bernardo Clesio 5
9.30 – 17.00 da martedì a domenica
Fino al 3 maggio 2015
Biglietto mostra e Castello: intero € 8.00,
ridotto € 5.00/4.00, gratuito fino a 15 anni
Informazioni: tel. 0461 233770/492829,
www.buonconsiglio.it
Catalogo: Castello in Mostra Editore
Alberto Ghinzani
Una linea lombarda
Nata nell’ambito del progetto triennale di
collaborazione artistica e culturale
“Scambio di collezioni Milano-Bellinzona” promosso dal Municipio di Bellinzona per il
tramite del Museo Civico di Villa dei Cedri e
dal Museo della Permanente di Milano l’intrigante mostra in un ambiente simbolo
del legame tra le terre lombarde e quelle
ticinesi racconta il percorso artistico e
culturale di Alberto Ghinzani (Valle
Lomellina/PV 1939), uno dei protagonisti
più rappresentativi della scultura italiana
contemporanea, evidenziando alcune
stagioni produttive meno conosciute, ma di
grande pregnanza.
Formatosi al corso di scultura di Marino
Marini presso l’Accademia di Brera,
Ghinzani soggiorna a Parigi grazie a una
borsa di studio e comincia a esporre in
Italia e all’estero seguendo un percorso che
lo porta a sperimentare nuovi materiali e a
riflettere sul suo rapporto con la natura e
sulla sua appartenenza a una cultura e a
una storia lombarda. L’attività ferve alacre,
tra l’altro è anche docente a Brera,
aumentano consensi, successi,
riconoscimenti, premi e commissioni di
opere pubbliche (tra cui Il tempo sulla
soglia al Mart di Rovereto) anche di
carattere religioso mentre raggiunge
un’essenzialità nel linguaggio in sintonia
con quello del paesaggio lombardo come
indica l’icastica definizione “Una linea
lombarda”.
L’antologica con una quarantina di sculture
di diverse dimensioni (oltre a sette opere
su carta a evidenziare i legami tra disegno
e scultura) mostra la capacità dell’artista di
rendere le figure sempre più assottigliate,
incisive e liricamente lievi, quasi sospese e
fluttuanti nello spazio.
Sull'acqua, 1976
Tra le opere presenti tutte degne di
citazione sono molto affascinanti Grande
stendardo, bronzo del 1974, che evoca le
bandierine di preghiere mosse dal vento
sulle aride montagne del Tibet e Sull’acqua,
un raffinato bronzo del 1976, in cui la linea
ridotta all’essenziale acquista una
ANDANDO PER MOSTRE
La storia ai piedi
3000 anni di scarpe
Il Museo del Giocattolo - il più grande
d’Europa con più di 6000 oggetti esposti
tra cui 2500 orsi (la più numerosa
collezione al mondo di orsacchiotti
d’epoca) sito in pieno centro di Basilea in
uno storico edificio ristrutturato - propone
una singolare esposizione, rara nel suo
genere, dedicata alla scarpa, oggetto
utilissimo di uso quotidiano e adoperato ab
antiquo.
Tabacchiera a forma di testa di carlino
Grazie alla collaborazione con il
Northampton Museums and Art Gallery che in Inghilterra dispone di una collezione
di 12.000 scarpe storiche, la più vasta al
mondo - più di 220 paia raccontano 3000
anni di moda delle scarpe la cui finalità non
è solo protettiva del piede a tutte le età,
ma risponde anche a una funzione estetica
e sociale indicando l’appartenenza a un
gruppo e costituendo anche oggi una sorta
di status symbol e comunque accessorio di
moda importantissimo.
La più antica scarpa esposta risale al 1000
ca. a.C. e viene dall’antico Egitto dove solo
i faraoni possono indossare sandali dalla
lamiera d’oro o d’argento, i funzionari e i
sacerdoti calzarne normali mentre il popolo
è scalzo. Man mano che le calzature si
diffondono sono soggette a leggi rigorose
tra cui quelle ‘suntuarie’ contro l’estremo
lusso e a periodi sono prodotte senza
distinzione tra destra e sinistra con grave
nocumento per la salute e lo sviluppo del
piede. Al di là della varietà dei modelli per
le classi altolocate, il vero sviluppo delle
forme si ha da quando a inizio ‘900 si
vanno accorciando i vestiti, cosa che mette
in maggiore risaldo i piedi.
Un mondo - che va di pari passo con la
storia - ampio, complesso, affascinante e
poco conosciuto che fa comprendere come
le forme di scarpe che indossiamo abbiano
una relazione con il passato per cui i notri
piedi trasportano un po’ di storia e che
sviluppa l’estro degli artigiani e anche degli
artisti tanto che una trentina ha messo a
disposizione le proprie creazioni ispirate
alle scarpe: originali i sandali confezionati
con quattro forchette e un cucchiaio,
quanto a comodità…
↪ Basilea, Giocattolo Mondo Museo,
Steinenvorstadt 1
10.00 - 18.00 tutti i giorni
Fino al 6 aprile 2015
Biglietto: intero Frs7, ridotto frs 5
Informazioni e prenotazioni: 041 (0)61
2259595, www.giocattolo-mondo-museobasilea.ch
Catalogo Sillabe Editore
La nascita di MAGNUM
Il nuovo Museo del Violino, espressione
dell’antico legame della città di Cremona
con il mondo della liutera, ospita
un’esaustiva mostra con circa 120
fotografie che raccontano gli esordi della
celebre agenzia fotografica “Magnum
Photos Inc”, nome che si ispira al formato
grande delle bottiglia di vini pregiati e con
cui il 22 maggio del 1947 è iscritta nel
registro delle attività editoriali. Ipotizzato
da Robert Capa durante la guerra civile
spagnola, il progetto Magnum si realizza
dopo alcuni incontri con i futuri soci presso
il ristorante del Museum of Modern Art di
New York.
Andando per mostre
tridimensionalità materica stimolando la
fantasia a soffermarsi sull’ampio tema del
viaggio.
↪ Bellinzona/CH: Monte San Michele,
Castelgrande (Sala Arsenale e Corte
Interna)
10.00 – 18.00 da lunedì a domenica
Fino al 21 giugno 2015
Biglietto mostra: intero frs 15 (€ 12.00),
ridotto frs 7.50 ( € 6.00), famiglia frs 20
(€16)
Informazioni: tel. 0041 (0)91 8252131,
www.bellinzonese-altoticino.ch
Catalogo: Skira Editore
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
Alla base della cooperativa, divenuta
importante riferimento nel mondo del
fotogiornalismo, la tutela del lavoro dei
fotografi grazie al fatto che gli stessi
diventano proprietari dei negativi,
decidono collettivamente e propongono
ciascuno i propri lavori alle testate oltre a
controllare i testi delle didascalie legate
alle foto di cui è vietata qualsiasi
manipolazione.
David Seymour Magnum Photos
Ai fondatori sono riservate specifiche aree:
ad Henri Cartier-Bresson è assegnato
l’Oriente, a David Seymour l’Europa, a
William Vandivert l’America, a George
Rodger il Medio Oriente mentre Capa ha
libertà di azione in tutto il mondo.
Dopo “prima di Magnum”, un incipit
dedicato a Robert Capa, nato a Budapest da
famiglia ebrea, con sue testimonianze su
varie guerre nel mondo, la mostra presenta
il reportage di Capa sulla faticosa nascita
dello Stato di Israele, quello George Rodger,
nato nel Regno Unito, sulla tribù dei Nubas
in Sudan fotografati con icastica corporeità,
quello del francese Henri Cartier-Bresson
sull’India con le ultime fotografie scattate a
Gandhi prima dell’assassinio (gennaio
1948) e quello di David Seymour ‘Chim’,
originario di Varsavia e di famiglia ebraica,
che racconta il lungo e doloroso
dopoguerra con particolare attenzione ai
melanconici e dolenti orfani di guerra non
senza qualche immagine di serenità come
quella dei Seminaristi negri che giocano a
pallavolo sotto il cupolone in Vaticano.
↪ Cremona: Museo del Violino, Piazza
Marconi 5
10.00 – 19.00 da martedì a domenica
Fino all’8 febbraio 2015
Biglietto mostra: intero € 6.00 (con il
Museo del Violino € 11.00), ridotto € 4.00
Informazioni: tel. 0372 808804,
www.mostramagnumcremona.it
Catalogo: Silvana Editoriale
Mascherato. Magia delle maschere
Nella vivace cittadina di Svitto, adagiata tra
il Lago dei Quattro Cantoni e il piccolo
Lago di Lauerz e capoluogo dell’omonimo
Cantone - cuore antico della
Confederazione Elvetica - il “Forum della
storia svizzera di Svitto”, locale sede del
Museo Nazionale Svizzero, oltre a ricordare
le radici di questa terra composita e fiera,
ospita un’intrigante mostra che porta il
visitatore nell’affascinante, incantato,
meraviglioso e antico mondo delle
maschere e contraddice la falsa fama di
seriosità di tale popolazione.
Fenomeno universale, presente in tutte le
culture, ha interessato l’uomo che da
sempre le indossa per cerimonie rituali,
funerarie, sul palcoscenico, a carnevale…
Le maschere assolvono dunque diverse
funzioni: divertenti o bruttissime e
volutamente spaventose hanno un effetto
magico su grandi e piccini, nascondono il
viso e consentono di trasformarsi e di
assumere un’altra identità, proteggono,
rendono anonimi o provocano liberando
forze ed emozioni.
La mostra, allestita come una scenografia
teatrale per evidenziarne l’aspetto magicomistico, propone oltre un centinaio di
esemplari di maschere facciali senza i
costumi (presenti comunque in filmati e
foto a fine percorso): un modo per
approfondire questo fenomeno
antropologico ricco di fascino e charme
analizzato a cominciare da diverse regioni
elvetiche legate al carnevale quali Svizzera
centrale, Lötschental, Svizzera orientale e
naturalmente Basilea fino a testimonianze
extraeuropee, africane e giapponesi.
Esposte per la prima volta le maschere
Fritschi e Fritschene del 1762 provenienti
dalla Corporazione dello zafferano di
ANDANDO PER MOSTRE
Chrottni e Gatto
Lucerna. Divertenti quelle grottesche e
digrignanti dell’ex Turmmuseum di Svitto e
tra le altre la maschera Chrottni, caricatura
di una donna troppo curiosa vicino alla
quale una maschera di Gatto in legno pare
confermare il detto “Curioso come un
gatto”.
Il visitatore stimolato da tanti impulsi può
indossare alcune maschere in un atelier
destinato alla sperimentazione… e
divertirsi.
↪ Svitto (Schwyz): Forum Schweizer
Geschichte Schwyz, Hofmatt,
Zeughausstrasse 5
11.00 – 17.00 da martedì a domenica
Fino al 6 aprile 2015
Biglietto mostra: intero frs 10, ridotto frs 8
Informazioni: tel. +41 (0)58 4668011,
www.nationalmuseum.ch/i/schwyz
Medardo Rosso
La luce e la materia
Nell’elegante e neoclassica Villa Reale
(opera dell’architetto Leopoldo Pollack,
allievo di Giuseppe Piermarini, e dal 1921
sede della Galleria d’Arte Moderna),
un’importante mostra monografica celebra
Medardo Rosso (Torino 1858 – Milano
1928), scultore innovativo e cosmopolita che grazie a una geniale interpretazione
tecnica e poetica della materia ha
raggiunto fama internazionale - e
competente e appassionato fotografo le cui
foto in esposizione ne evidenziano la
funzione integrante l’arte scultorea.
Bambina ridente
e facendosi conoscere non senza
controversie. Fondamentale l’incontro
sentimentale e professionale con la critica
olandese Etha Fle, si moltiplicano viaggi e
riconoscimenti e nel 1922 ritorna a Milano.
In mostra numerose le opere provenienti
da musei e collezioni di tutto il mondo
affiancando le 15 di proprietà della GAM,
oggi rinnovata, offrono un percorso
affascinante e imperdibile: il ridente
Birichino, il Sagrestano comicamente
Andando per mostre
Trasferitosi nel 1870 con la famiglia a
Milano, si distingue per l’abilità nel disegno
e frequenta l’Accademia di Brera
rivelandosi un contestatore ed elaborando
la teoria della “scultura impressionista”.
Verista e poi scapigliato, arriva a una nuova
concezione caratterizzata dalla ricerca
dell’impressione fugace dell’essere e
comincia a farsi conoscere in Italia e in
Francia dove si trasferisce dopo la
separazione dalla moglie (che gli impedisce
di vedere l’amato figlio Francesco
riavvicinatosi da adulto) e dove, pur
ammalatosi di diabete, grazie all’aiuto di
Henri Rouart lavora alacremente
distinguendosi per i suoi metodi di fusione
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
derisorio, la Ruffiana impietosamente
realistica, la Portinaia melanconicamente
assopita (tutti in versioni diverse), la
gioiosa Bambina ridente in cera su gesso,
Henri Rouart suo sostenitore e collezionista
e l’Ecce puer, ritratto di Alfred William,
figlio di Emile Mond, erede di una dinastia
di ricchi industriali di origine ebraica,
rivelatore della “purezza in un mondo
banale” come dichiarato dall’artista.
↪ Milano: GAM Galleria d’Arte Moderna,
Via Palestro 16
14.30 – 19.30 lunedì, 9.30 – 19.30
martedì, mercoledì, venerdì, sabato e
domenica, 9.30 – 22.30 giovedì
Fino al 31 maggio 2015
Biglietto mostra: intero € 12.00, ridotto €
10.00; + collezioni GAM intero € 14.00,
ridotto € 11.00 (tutti con audioguida
inclusa)
Info: tel. 02 54914,
www.mostramedardorosso.it
Catalogo: 24 ORE Cultura
Palma il Vecchio
Lo sguardo della bellezza
Nelle rigorose ed eleganti sale della GAMeC
di Bergamo più di 30 opere provenienti da
importanti collezioni pubbliche e private
italiane e internazionali celebrano un
grande artista Iacopo Nigreti - detto Palma
il Vecchio (Serina/BG 1480 ca. – Venezia
1528) non perché sia divenuto tale, ma per
essere vissuto prima di un omonimo
pronipote, pittore peraltro campato a lungo
- studiato a fondo per gli esiti raffinati della
sua arte, ma mai rappresentato tramite una
mostra antologica. La grande esposizione
di Bergamo, che coinvolge il territorio in un
progetto di più ampio respiro, ne evidenzia
l’alacre attività sia nella propria terra
natale, sia a favore di committenti
veneziani di alto rango.
Nato in Val Brembana, già esperto nell’arte
del dipingere si trasferisce a Venezia dove
esegue l’Assunzione della Vergine per la
Scuola di Santa Maria Maggiore e altri
lavori di soggetto religioso tra cui il
magnifico Polittico di Santa Barbara
proveniente da Santa Maria in Formosa a
Venezia, entrambi in mostra. Venuto a
contatto tra gli altri con Bellini, Carpaccio,
Albrecht Dürer e con il coetaneo Lorenzo
Lotto, che gli sarà amico, arricchisce le
sue tematiche eseguendo dal 1515 ritratti
femminili dalla sensualità raffinata e
seducente e dalla bellezza idealizzata
ancorché elegantemente opulenta tanto
da divenire immediatamente famosi e
ambiti anche per il fascino armonioso
delle vesti (dai tessuti dettagliati con
mirabile precisione) seriche, morbide e
ampie creando l’ideale della proporzione
femminile del tardo Rinascimento. Tra le
sue splendide e poetiche opere, tutte da
‘delibare’, si ricordano il Ritratto di donna,
detta La Bella dallo splendido incarnato
Ritratto di donna detta La Bella, Museo ThyssenBornemisza, Madrid
luminoso e quasi morbido e dalla
femminilità misteriosa, il Ritratto di poeta,
cosiddetto “Ariosto” dalla notevole
bellezza esteriore e interiore e l’Incontro
di Giacobbe e Rachele: una sorta di
rappresentazione topografica con
montagne, pastori, animali, chiesette
solitarie e prati dei luoghi natali cui sarà
sempre legato.
↪ Bergamo: GAMeC, Via San Tomaso 53
9.00 – 19.00 da lunedì a giovedì; 9.00 –
20.00 venerdì, sabato, domenica e festivi
Fino al 21 giugno 2015
Biglietto GAMeC: open € 14.00, intero €
12.00, ridotto € 10.00/9.00
Informazioni: tel. 035 0930166,
www.palmailvecchio.it
Catalogo: Skira Editore
ANDANDO PER MOSTRE
Fabbrica di birra (Modello in legno)
quotidianamente in parecchi modi al tempo
dei Faraoni e coltivati in grandi quantità: di
molti il catalogo presenta le relative schede
botaniche.
Singolare l’abilità mostrata nel Collare
costituito da bellissimi fiori di perline di
ceramica con parti vegetali autentiche
implementate nei materiali durevoli e
interessante anche dal punto di vista degli
usi alimentari il Modello in legno di una
fabbrica di birra del Medio Regno (19801760 ca. a.C.) con uomini al lavoro che
faticano mostrando come all’epoca si
producesse la preziosa bevanda.
Di raffinata fattura la scultura bronzea con
il ‘bambino-sole’ del VI-IV secolo a. C.
accanto al fiore di loto a simboleggiare
l’dea della rinascita quotidiana del sole.
↪ Basilea: Antikenmuseum Basel, St. AlbanGraben 5
10.00 – 17.00 da martedì a domenica
Fino al 29 marzo 2015
Biglietto mostra: intero frs 15, ridotto frs
13/5
Informazioni e prenotazioni: 0041 (0)
612011212, www.antikenmuseumbasel.ch
Catalogo: Antikenmuseum Basel und
Sammlung Ludwig Editore
San Sebastiano
Bellezza e integrità nell’arte tra
Quattrocento e Seicento
Nel Castello di Miradolo, antica dimora del
1600 ristrutturata in stile neogotico verso
il 1866 - incastonata in un ricco e
rigoglioso Parco Storico - recuperata
dall’abbandono e restituita agli antichi
splendori dalla Fondazione Cosso che l’ha
inserita tra i patrimoni storico-culturali di
una zona nel Medio Evo attraversata dalla
strada romea, una singolare mostra ha per
soggetto San Sebastiano, uno dei martiri
del Cristanesimo divenuto protettore
contro la peste nell’Ile de France durante
l’epidemia del 1348.
Nato e cresciuto nella fede cristiana a
Milano, si trasferisce a Roma e intrapresa la
carriera militare fino a diventare tribuno
della Prima Corte della Guardia Imperiale,
Sebastiano è accusato di essere cristiano
anche per avere compiuto un miracolo e
indotto numerose conversioni. Condannato
a essere trafitto da frecce, è creduto morto,
ma curato dalla nobile Irene guarisce.
Ambendo al martirio, proclama la propria
fede di fronte all’imperatore Diocleziano
che lo fa flagellare a morte e gettare nella
Cloaca Massima affinché il corpo non possa
Andando per mostre
Il Regno dei fiori
La rinascita nelle tombe dei Faraoni
Il Museo delle Antichità di Basilea presenta
“Il Regno dei fiori. La rinascita nelle tombe
dei Faraoni” (“Blumenreich. Wiedergeburt in
Pharaonengräbern”), intrigante e
coinvolgente mostra tra archeologia, arte e
botanica con oltre 100 reperti originali - tra
cui sarcofagi finemente decorati con pitture
di fiori - che mettono in luce la conoscenza
del mondo vegetale e il suo utilizzo anche a
livello simbolico da parte degli antichi Egizi.
L’analisi parte dalla straordinaria riscoperta
nel 2011 di 16 Ornamenti floreali nei
magazzini sotterranei dell’Università di
Zurigo durante uno spostamento del
deposito di Botanica. Si tratta di
decorazioni floreali trovate su mummie
regali (XVIII e il XIII secolo a.C), scoperte nel
1881 a Tebe in un grande nascondiglio di
mummie, dal botanico tedesco Georg
Schweinfurth responsabile della
conservazione di tali antichi fiori di cui ha
inviato campioni oltreché a Zurigo anche
ad altri Istituti europei. Tale vicenda ha
permesso di identificare fiori, piante e frutti
utilizzati dagli Egizi per accompagnare
l’anima nell’aldilà pensando che
possedessero una particolare virtù
rigenerante utile per la vita dopo la morte.
Vengono messe in luce le qualità di piante
e fiori come papyrus, loto, sicomoro, foglia
di palma, uva, melograno… utilizzati
107
ANDANDO PER MOSTRE
Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto €
8.00/3.00
Informazioni: tel. 0121 502761,
www.fondazionecosso.it
Catalogo: Skira Editore
Andando per mostre
108
Rubens, S. Sebastiano curato dagli angeli
essere sepolto, massimo castigo per un
cristiano pensando in tale modo di privarlo
della possibilità di risorgere.
Venerato quale santo il 20 gennaio, è il
terzo patrono di Roma e dal Rinascimento
è rappresentato come un Apollo ispirandosi
a una leggenda secondo cui sarebbe
apparso in sogno come un efebo al
vescovo di Laon. Gli artisti lo raffigurano
come un bellissimo giovane nudo trafitto
da frecce senza tenere conto della
successiva flagellazione.
I 45 capolavori pur con iconografia simile
con il santo appoggiato a un tronco e
trapassato da frecce variano per estro,
sensibilità e genialità: Crivelli, Perugino,
Tiziano, Raffaello dalla straordinaria
finezza esecutiva, Andrea della Robbia con
la stereotipata terracotta invetriata, Rubens
con San Sebastiano curato dagli angeli,
tenere creature celesti che gli porgono i
primi soccorsi e il Guercino lo
rappresentano, alcuni con più versioni, ma
sempre in modo seducente.
↪ San Secondo di Pinerolo/TO: Castello di
Miradolo, Via Cardonata 2
14.00 – 18.00 giovedì e venerdì, 10.00 –
18.30 sabato, domenica e lunedì
Fino all’8 marzo 2015
Andy Warhol sul comò
Opere della Collezione Rosetta Barabino
La sobria ed elegante dimora neoclassica
immersa nel verde e prospiciente dall’alto il
mare - donata nel 1951 dalla famiglia
Croce al Comune di Genova e diventata nel
1985 sede museale - è ritornata pro
tempore residenza privata corredata da
mobili di design per ospitare un centinaio
di opere della Collezione (mai mostrata in
pubblico) di Rosetta Barabino (1918-1986),
moglie di un farmacista genovese
appassionata cultrice d’arte contemporanea
insieme al figlio minore Maurizio. Grazie a
tale passione la Barabino ha visitato
gallerie e mostre d’arte contemporanea
collezionando numerose opere che in una
casa dimostrano una vitalità particolare e
raccontano come negli anni ’60 e ’70
Genova nonostante la conclamata
‘chiusura’ sia stata centro di un
collezionismo d’avanguardia aperto verso il
Minimalismo americano considerato
simbolo di modernità. Tutto ciò ha
stimolato il mercato artistico genovese e
galleristi come Gian Enzo Sperone mentore
della Collezione.
Sala di lettura
Una settantina sui cento artisti italiani e
internazionali (Carl Andrè, Cy Twombly,
Dan Flavin, Robert Morris, Joseph Beuys,
Cindy Sherman, Takashi Murakami, Ettore
Spalletti, Ai Wei Wei, Fischli & Weiss…)
posseduti dalla famiglia evidenzia il
ANDANDO PER MOSTRE
proiezioni di diapositive: opere che
integrano storia dell’arte e del design,
scoperte scientifiche e questioni
economiche ed ecologiche generate dalla
globalizzazione.
↪ Genova: Museo di Arte Contemporanea
di Villa Croce, Via Jacopo Ruffini 3
11.00 – 19.00 da martedì a domenica,
lunedì chiuso. La biglietteria chiude un’ora
prima
Fino al 5 luglio 2015
Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto €
6.00/3.00
Info: tel. 010 580069/585772,
www.villacroce.org
Catalogo: Marsilio Editore
SaturARTE 2015
20° CONCORSO NAZIONALE D’ARTE CONTEMPORANEA
GENOVA, PALAZZO STELLA 05 – 16 SETTEMBRE 2015
DEADLINE 10 LUGLIO 2015
Giunto alla sua ventesima edizione, il Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea SaturARTE
si conferma appuntamento ormai consolidato nell’ambito della promozione e dello sviluppo
della ricerca artistica e punto di riferimento nel panorama artistico ligure e nazionale. La costante attenzione della critica, la qualità e l’impegno organizzativo oltre che l’alto livello di partecipazione lo rendono anno dopo anno un appuntamento di prestigio. Il concorso, patrocinato
da Istituzioni pubbliche e private, vuole essere un momento d’incontro oltre che riflessione
tra artisti, critici e pubblico interessato agli eventi culturali; un’occasione per allacciare nuovi
contatti nel comune interesse per l’arte. La rassegna si svolgerà come sempre nella splendida
cornice di Palazzo Stella, che vanta una superficie espositiva di oltre 500 mq. L’inaugurazione
come ogni anno coinciderà con la Notte Bianca genovese.
REGOLAMENTO: Art. 1 Destinatari del concorso - Il concorso è rivolto ad artisti di tutte
le nazionalità operanti in Italia nelle discipline di: PITTURA e FOTOGRAFIA. Art. 2 Tecniche,
formato e tema - Ciascun artista può partecipare con UNA SOLA OPERA, in piena libertà stilistica e tecnica (tempera, olio, inchiostro, acrilico, vinile, acquerello, grafite, collage, fotografia, ecc.) e su qualsiasi supporto (tela, carta, legno, ferro, plastica, ecc.). Le dimensioni sono
libere purché dentro le misure massime di cm. 100x100. Il tema è libero. Art. 3 Come partecipare - È necessario inviare una fotografia a colori per posta elettronica in formato jpeg 300
dpi (preferibilmente) o per posta ordinaria di dimensioni non inferiori a cm. 12x18 e non superiori a cm. 24x30 o tramite CD. Il modulo di partecipazione, la fotografia e la ricevuta dell’avvenuto pagamento ed eventuale materiale documentario/biografico dovranno pervenire
entro il 10 luglio 2015 a: SATURA art gallery, Piazza Stella 5/1 - 16123 Genova o all’indirizzo
di posta elettronica [email protected] Il modulo di partecipazione è scaricabile dal sito www.satura.it oppure può essere richiesto presso la segreteria del premio. [...]
PER CONSULTARE IL BANDO COMPLETO VISITARE IL SITO www.satura.it
Organizzazione Generale: SATURA art gallery
Associazione culturale – centro per la promozione e divulgazione delle arti
Riferimenti telefonici: 010.246.82.84 cell. 338.291.62.43 / 366.59.28.175
SATURA GENOVA https://www.facebook.com/saturagallery
Andando per mostre
particolare ‘fiuto artistico’ di Rosetta
Barabino che rimasta vedova riesce a
portare avanti la farmacia, i tre figli e la
passione che spesso la induce a scegliere
opere solo attraverso le immagini come
accaduto per Andy Warhol di cui rifiuta
uno dei tre Chairmain Mao ordinati su
catalogo per acquistare poco dopo
Jacqueline.
Elegantissimo l’angolo della soleggiata ‘Sala
di lettura’ con un trittico fotografico - che
riproduce uno sgabello fatto con tessuto
jeans, un manico di scopa e monete fuori
corso - dal valore simbolico di Simon
Starling, artista inglese che produce
sculture, fotografie, installazioni, film,
109
I libri di Elena Colombo
110
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
I LIBRI
di Elena Colombo
IL GATTO VENUTO DAL CIELO
Takashi Hiraide
Einaudi, 132 pp., 18€
L’esperienza letteraria di
Takashi Hiraide nasce dalla
poesia ed è figlia dell’haiku,
con la sua sensibilità tutta
nipponica per lo scorrere delle
stagioni. Nel mutare dei colori
del giardino, vediamo il
volgere del calendario, insieme
alle trasformazioni nella vita
dei protagonisti e al loro
rapporto con la gattina Chibi.
Il primo pensiero va al muto
dialogo amicale tra uomo e
animale che ritroviamo anche
in “Honeymoon” di Banana
Yoshimoto, dove si denota
anche lo stesso tipo di
riflessione filosofica
sull’esistenza, sulla caducità
della vita e sulla volubilità
della realtà che ci circonda.
Tuttavia qui lo stile delicato e
calligrafico che riporta al
Romanzo dell’Io di Sôseki
Natsume sposta l’accento
verso l’interiorizzazione
dell’elemento naturale, non
solo per la caratterizzazione
del personaggio felino – tanto
ben delineato da risultare
tangibile – ma anche per la
relazione con il paesaggio,
grazie alla delimitazione di
uno spazio e alla costruzione
di confini ipotetici (che
l’energia vitale è in grado di
trascendere). Non si tratta solo
di una dimensione sospesa,
perché il quartiere e la strada
sono intimamente connessi
all’attualità: alla morte di
Hirohito, che segna la chiusura
di un’epoca, allo scoppio della
bolla economica, che coincide
con la fine delle illusioni. Ecco
spiegata la visione del “vicolo
fulmine”, analogo allo stretto
sentiero dietro alla casa di
“L’Uccello che Girava le Viti del
Mondo” di Haruki Murakami –
che condivide anche l’uso
simbolico dei gatti come
presenza silenziosa e
misteriosa, calda e
indipendente, terrena, ma
anche spirituale.
LAST DAYS OF CALIFORNIA
Mary Miller
Clichy Edizioni, 262 pp., 14€
Con il suo esordio in “Last
Days of California”, Mary
Miller riscrive la tradizione
statunitense del road novel
che partiva dalla beat
generation; e lo fa con uno
stile che comunica tutta
l’urgenza della fragilità
contemporanea. In viaggio
dall’Alabama alla California
per assistere alla Seconda
Venuta di Cristo, una famiglia
di credenti attraversa
l’America che porta ancora i
segni di una crisi, che ormai è
una condizione endemica e ha
contaminato non solo i
rapporti economici di forza,
ma anche le relazioni umane.
Il riferimento religioso, che
sulle prime ricorda il contesto
rurale di Flannery O’Connor, si
ricopre qui della patina
dell’era televisiva. Il viaggio è
momento di formazione in cui
gli incontri lasciano immagini
lampo e aprono diverse
possibilità incompiute,
nell’illusione di una
connessione virtuale continua
che si risolve in una bolla di
solitudine. Jess s’interroga su
se stessa e sulla giovinezza,
scoprendo la sessualità e
mettendo in discussione un
sistema che mostra le sue
crepe ideologiche oltre la
facciata di propaganda e
gadget. I principi morali
scompaiono di fronte al
bisogno di affermarsi contro il
vuoto di monotoni scenari
interiori e le apparenze sono
l’unica cosa davvero
importante in un mondo di
motel, fast-food e mall. Ci si
sposta in una geografia di
non-luoghi e, come Elise,
adolescente semi-anoressica
rimasta incinta con
indifferenza, si passa il tempo
tra svaghi inutili e cibo finto.
Persino la fine imminente è
una trovata che non porta a
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
NONNADICIANNOVE E IL SEGRETO
DEL SOVIETICO
Ondjaki
Il Sirente, 160 pp., 15 €
Ondjaki è una delle migliori
voci della letteratura lusofona
africana insieme ala poetessa
Ana Paula Tavares, con la
quale intrattiene
un’amichevole
corrispondenza. Il suo nome
d’arte vuol dire letteralmente
“Colui che affronta delle
sfide”. In questo si concentra
la trama del nuovo romanzo
dell’autore angolano, che
incanta il pubblico italiano con
una lirica sociale piena di luce,
capace di rievocare i panorami
e il calore di Luanda. Si sente
la magia di un realismo
ecologico caro agli autori di
lingua portoghese – si pensi
per esempio a “Tieta do
Agreste” di Jorge Amado – ma
anche l’ironia amara che
inquadra la Storia di Paesi
ancora giovani con l’approccio
del capoverdiano Germano
Almeida. In “NonnaDiciannove
e il segreto del Sovietico” ci
sono gli anziani depositari di
significati, ma i protagonisti
sono i bambini della Praia do
Bispo, minacciata dalla
costruzione di un mausoleo in
onore del politico e scrittore
Agostinho Neto, primo
Presidente democratico
dell’Angola. I sovietici sbarcati
sulla spiaggia per il progetto
sono come alieni, formiche
azzurre con le loro divise, le
giacche pesanti nonostante il
clima e la parlata stramba.
Come in passato, l’invenzione
è ancora in primo luogo
linguistica, soprattutto nella
crasi tra parole e nella fusione
dell’idioma accademico con i
termini di uso locale al quale
si aggiungono naturalmente i
profumi e i colori della cucina
tipica e i ritmi dei balli
tradizionali. Non si deve però
immaginare uno spazio fuori
dal tempo, perché non si ha la
fissità del presente
etnografico, quanto piuttosto
la creazione fiabesca di un
contesto fittizio, ricco di
personaggi memorabili, ma
verosimili.
PÉTRONILLE
Amélie Nothomb
Voland, 115 pp., 14€
“Pétronille” è un libro
difficilmente classificabile
nell’universo di Amélie
Nothomb perché si pone
all’incrocio tra le due
dimensioni della scrittrice
belga: da un lato la finzione e
dall’altro l’autobiografia.
Siamo di fronte al racconto di
un’amicizia straordinaria tra
l’autrice e la
lettrice/romanziera Pétronille
Fanto, enfant terrible delle
librerie parigine e compagna
di bevute, che si trasforma in
un suo doppio o in una sorta
di nemesi (in cui si riconosce
Stéphanie Hochet). La
degustazione di champagne è
un tema ricorrente nei
romanzi di Amélie, ma qui
trova una collocazione diversa,
più didascalica che fascinosa;
e l’intera vicenda dà questa
sensazione. Rispetto ai
precedenti successi editoriali
della nostra protagonista,
“Pétronille” è meno organico.
Qui vengono offerti molti
spunti interessanti e quadri
suggestivi che disegnano una
mappa di imprese folli,
ognuna delle quali
meriterebbe un
approfondimento: il viaggio
nel deserto del Sahara,
l’intossicazione da farmaci, la
roulette russa alla ricerca
dell’autodistruzione, o
l’intervista fallimentare con
Vivienne Westwood; tuttavia
nessuno di questi è sviluppato
fino in fondo, resistendo
tenacemente alla nuova moda
della letteratura francofona
che da qualche anno pare
orientata al romanzo-fiume.
Anche lo stile, pur restando
quello consueto (scorrevole e
punteggiato di riferimenti),
manca dello slancio impresso
solitamente da qualche
aforisma indimenticabile. Il
lettore affezionato archivierà il
libro con un misto di
I libri di Elena Colombo
nulla, prospettando solo
l’inizio di un triste ritorno alla
polverosa normalità di un
panorama già conosciuto.
111
I libri di Elena Colombo
112
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
benevolenza e di rimpianto
per un talento che, questa
volta, non sboccia del tutto,
come sottaciuto.
SONNO
Haruki Murakami
Einaudi, 77 pp., 15 €
Spesso siamo tentati di
trattare i libri secondo un
metro di quantità/prezzo.
“Sonno” è un racconto che
sfata una volta per tutte
questa visione materialistica
da supermercato e ci
restituisce il piacere della
lettura profonda, unito a
quello dell’osservazione. Poco
a poco la protagonista smette
di dormire (o almeno questo è
ciò che lei percepisce). La notte
è un’estensione della vita, uno
spazio privato nel quale
riprendere il contatto con se
stessa e riscoprire parti del
passato che parevano
lontanissime, mentre il giorno
diventa una finzione
meccanica dedicata alla
routine famigliare accanto a
un figlio e a un marito, che si
trasforma in una figura
indefinita. Le sensazioni e i
limiti sembrano ampliarsi, ma
in realtà la donna precipita in
un vortice sempre più chiuso,
in un’atmosfera claustrofobica
che culmina nell’ultima scena,
mozzafiato e incompleta.
Haruki Murakami ama
indagare sul confine tra sogno
e realtà; e – mentre l’inventiva
britannica di Coe dava
spiegazioni mediche alla
questione – il giapponese
preferisce la via metaforica di
“Alice”, uscendo dagli schemi
classici per trovare nuove
formule. Qui le suggestioni si
arricchiscono grazie alle
illustrazioni della tedesca Kat
Menschik che mostra la
proiezione del corpo in una
dimensione mentale. La
disegnatrice del “Frankfurt
Allgemaine Zeitung” lega la
grazia di Marumiyan a simboli
tipici a Frida Kahlo in un
universo onirico, ma anche
collegato agli eventi esterni,
spogliandoli del colore e
sposando l’eleganza della
bicromia blu/ argento in un
effetto patinato che
un’edizione meno curata non
avrebbe saputo rendere.
TERRE DELLA MEMORIA
Felisberto Hernández
La Nuova Frontiera, 175 pp., 16€
La raccolta “Terre della
Memoria” è un excursus nella
produzione letteraria di
Felisberto Hernández, che va
dal 1942 fino alla
pubblicazione postuma del
racconto “Terre della
Memoria” (1966). Qui
ritroviamo tutti i temi cari a
uno degli autori più
importanti del modernismo
ispanoamericano, che il lettore
italiano ha già conosciuto
grazie a “Nessuno Accendeva
le Lampade” e “Ortensie”.
Siamo ancora immersi nella
suggestione che rende gli
oggetti vivi quanto le persone
e gli animali e inserisce i
movimenti in un universo
privo di spazio. Ci
interroghiamo sulla natura
delle cose, sulla loro forma e
sul significato della realtà che
percepiamo, ma qui l’impianto
è più filosofico che onirico e la
costante musicale – che ha
sempre segnato la sensibilità
narrativa dello scrittore
/pianista uruguayano – è
l’accompagnamento ideale in
un percorso che recupera
frammenti di ricordo ed
episodi del passato,
intrecciandoli al presente per
creare piani sfalsati. Lo
sguardo di bambino si
mescola a quello adulto,
consentendo una proiezione
autobiografica tridimensionale
che va dall’infanzia ai
turbamenti amorosi, fino agli
incontri che aprono a
Hernández nuovi orizzonti
compositivi. Ne esce un
quadro sincero e imperfetto,
che comprende sia
l’esperienza diretta sia la
supposizione. Rispetto ai
precedenti libri, si nota un
approccio più ponderato e una
costruzione raffinata del testo
che, se a volte è sinonimo di
vero lirismo, in altri casi
rallenta la comprensione e
sottrae freschezza alla pagina.