TRA RES E VERBA
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TRA RES E VERBA
TRA RES E VERBA STUDI OFFERTI A ENRICO MALATO PER I SUOI SETTANT’ANNI A CURA DI BRUNO ITRI BERTONCELLO ARTIGRAFICHE isbn 88-86868-23-5 Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2006 by Bertoncello Artigrafiche, Cittadella (PD). Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Bertoncello Artigrafiche. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Claudio Gigante « ARDITE SÍ, MA PUR FELICI CARTE ». TRADIZIONE LETTERARIA, POTERE E MISTERI NELLA PASTORALE DI TASSO. UN’INTERPRETAZIONE DELL’AMINTA P 1. robabilmente nel 1573,1 in data e luogo non determinabili con certezza, ma verisimilmente in una giornata primaverile o estiva di cortigiano diporto trascorsa nell’isoletta di Belvedere sul Po, fu rappresentato l’Aminta, « favola boscareccia », come recitano molti frontespizi cinquecenteschi o, piú semplicemente, « pastorale », secondo la formula meno fortunata della princeps, apparsa sette anni piú tardi in una versione che aveva subíto nel tempo varie modifiche.2 Pier Antonio Serassi (La vita di T. Tasso, Bergamo, Stamp. Locatelli, 17902, i p. 194) indicava genericamente la primavera del 1573, legando la rappresentazione ai ritorni da Roma (dove si erano recati a rendere omaggio al nuovo papa Gregorio XIII) ai primi di marzo del duca Alfonso II e il 23 di suo fratello Luigi: l’erudito settecentesco adattava a un evento dinastico quanto asserito da Giovan Battista Manso (Vita di T. Tasso [1621], a cura di B. Basile, Roma, Salerno Editri1. L’anno si ricava da quanto Dafne dice a Tirsi, il pastore che cela la figura dell’autore: « [. . .] sei giovane ancora / né passi di quattr’anni il quinto lustro » (Aminta, a. ii sc. 2, vv. 942-43). Ma occorre dire, contrariamente alle tante ricostruzioni proposte altrove, che non si può essere sicuri che il testo sia stato rappresentato nel 1573: questo potrebbe anche essere solo l’anno di composizione. Cito dal testo a cura di B.T. Sozzi, in T. Tasso, Opere, Torino, Utet, 19743. 2. L’AMINTA / PASTORALE / DEL SIG. TORQVATO / TASSO. / ALL’ILLVSTRISSIMO ET ECCELLENTISS. / SIG. IL SIG. VESPASIANO / Gonzaga Colonna / [. . .] IN CREMONA. m.d.lxxx. / Appresso Christoforo Draconi. La definizione « Favola Boscareccia » è presente sin dalla stampa Aldina apparsa in principio dell’anno successivo; l’editore moderno, B.T. Sozzi (vd. il saggio preparatorio nei suoi Studi sul Tasso, Pisa, Nistri-Lischi, 1950, pp. 11-68), predilige l’Aldina del 1590, considerata come l’ultimo stadio di un progressivo processo correttorio (è la prima stampa che offre tutti i cori). Ma vd. ora P. Trovato, Per una nuova edizione dell’‘Aminta’, nel vol. T. Tasso e la cultura estense, a cura di G. Venturi, Firenze, Olschki, 1999, iii pp. 1003-27, che propone un’impeccabile ricostruzione stemmatica, accettando il valore fondativo dell’Aldina del ’90, quanto alla « sostanza » del testo (non per l’assetto formale), nonché L. Carpané, La princeps dell’‘Aminta’: note e precisazioni, in « Studi tassiani », lii 2004, pp. 219-25. 169 claudio gigante ce, 1995, p. 38), cioè che la favola fosse stata messa in scena « nel verno » successivo al 1572, e riteneva che Tasso l’avesse composta nel periodo di assenza del duca: ma è noto che in realtà il poeta prese parte anche lui alla missione romana (cfr. A. Solerti, Vita di T. Tasso, Torino-Roma, Loescher, 1895, i pp. 179-80). Angelo Solerti, dal canto suo (cfr. ivi, pp. 181-84), riteneva possibile, sulla scorta di documenti d’archivio tutt’altro che dirimenti, individuare una data precisa, il 31 luglio, che a molti in seguito è apparsa per lo meno insicura.3 Di recente la proposta serassiana, per quel che concerne la rappresentazione (non il tempo della composizione), è stata riabilitata da Elisabetta Graziosi, perché in sintonia con la sua tesi che l’Aminta sia stato concepito per promuovere le nozze fra Alfonsino e Marfisa d’Este.4 Ma, quanto alla data, nessuno fra questi e altri minori interventi appare veramente conclusivo: la Graziosi, fra gli indizi che le sembrano utili per riproporre il periodo individuato da Serassi, considera la presenza alla rappresentazione del card. Luigi d’Este (che già il 27 luglio « non era piú in Ferrara »: il che escluderebbe, evidentemente, la data del 31 cara a Solerti); che l’illustre prelato fosse spettatore (supporto non secondario per la sua tesi sulla dimensione engagée della pastorale) sarebbe un dato « accertato » dagli « storici ». Ma quali fonti procurano tanta certezza? La studiosa segnala in proposito la voce sul card. Luigi del Dizionario Biografico degli Italiani (Roma, Ist. Enc. It., vol. xliii 1993, pp. 383-90, a p. 387), curata da Paolo Portone, e la monografia di Vincenzo Pacifici su Luigi d’Este,5 « che però fissa la rappresentazione al 31 giugno (senza darne ragione) ». Portone non rivela, a sua volta, come si sia formato tale convinzione; e quanto al Pacifici doveva avere, pure lui, le sue difficoltà, visto che proponeva un giorno inesistente nel calendario. . . Quanto al luogo, la proposta di Belvedere fu avanzata da Solerti, che rilevò l’abitudine degli Este di ingaggiare nei mesi primaverili ed estivi degli attori per l’allestimento di testi comici da recitare sull’isoletta: l’ipotesi resta plausibile, tanto piú in considerazione di un riferimento topografico esistente nel testo (cfr. vv. 854 sgg.). Fra gli altri posti che potrebbero avere ospitato l’evento è lecito ipotizzare Palazzo Schifanoia – luogo di rappresentazione del «Sacrificio del Beccari nel 1554 », dell’« Aretusa del Lollio nel 1561 » e nel 1580 « dei Falsi pastori di Girolamo Bisaccioni » –6 e Berlriguardo, dove Eleonora d’Este passò in convale3. Vd. almeno F. Cruciani, Percorsi critici verso la prima rappresentazione dell’‘Aminta’, in T. Tasso tra letteratura musica teatro e arti figurative, a cura di A. Buzzoni, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1985, pp. 179-92. 4. Cfr. E. Graziosi, ‘Aminta’ 1573-1580. Amore e matrimonio in casa d’Este, Lucca, Pacini Fazzi, 2001, pp. 44-49 (le citaz. a p. 46). 5. Cfr. V. Pacifici, Luigi d’Este, Tivoli, Società di Storia e d’Arte in Villa d’Este, 1954, p. 39. 6. Graziosi, op. cit., p. 50. 170 un’interpretazione dell’aminta scenza l’estate del ’73 e il duca stesso vi trascorse del tempo.7 La prima rappresentazione « d’un’egloga del Tasso » per la quale esiste una testimonianza certa (una lettera di Tiberio Almerici) è quella di Pesaro del carnevale 1574.8 Non sembra che l’idea di una favola pastorale rientrasse fra gli interessi di Tasso, che non ne parla mai nei suoi numerosi scritti teorici: è direi certo che il testo, concepito e realizzato in breve tempo, sia nato su istanza della Corte (ciò che non può sorprendere, visto che il poeta era, di fatto, stipendiato essenzialmente per comporre versi): « la favola di Aminta fu abbandonata al suo destino – ha osservato Paolo Trovato –, salvo interventi marginali e distratti nel 1576-’77 e quindi (ma solo per i cori iii e iv) nel 1589-’90 ».9 Né esiste, salvo errore, fra gli scritti tasseschi un cenno, sia pure indiretto, alle teorie pastorali di Giraldi Cinzio – formalizzate nel Discorso sovra il comporre le satire atte a le scene –, diversamente da quanto avviene per la teoria sul romanzo. Il testo, bellissimo,10 fu concepito da Tasso con calcolata ambivalenza – il che spiega il fascino continuo che ha suscitato nei non pochi interpreti, tutti concordi, pur da orizzonti di lettura talora diversissimi, nel sottolineare il suo carattere “sfuggente” –: da un lato, l’Aminta perpetuava e rivoluzionava la pastorale tradizione ferrarese del « terzo genere », inscrivendosi nella linea, del resto tutt’altro che omogenea, di Giraldi Cinzio (Egle, 1545), di Agostino Beccari (Il sacrificio, 1555), di Alberto Lollio (Aretusa, 1564), di Agostino Argenti (Lo sfortunato, 1568),11 dall’altro, lo spettacolo, commissionato dalla Corte e rap7. L’ipotesi è di un biografo in genere non attendibile, F. Pittorru: cfr. T. Tasso. L’uomo, il poeta, il cortigiano, Milano, Bompiani, 1982, pp. 100-5. 8. Cfr. la lettera di Tiberio a Virginio Almerici, 28 febb. 1574, pubblicata da Solerti, Vita, cit., ii pp. 103-5. 9. Trovato, op. cit., p. 1027. 10. In un sonetto a Giovanni Antonio Vandali, Tasso avrebbe parlato di « Ardite sí, ma pur felici carte » (Rime, 834, v. 1: cito dall’ed. a cura di A. Solerti, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1898-1902). 11. Le ultime tre Favole sono riproposte nell’ed. a cura di F. Pevere, Torino, Res, 1999; per l’Egle vd. l’ed. di C. Molinari in Teatro del Cinquecento, i. La tragedia, a cura di R. Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988. Per particolari, dettagli, notizie vd. A. Solerti-D. Lanza, Il teatro ferrarese nella seconda metà del secolo XVI, in « Giornale Storico della Letteratura Italiana », vol. xviii 1891, pp. 148-85. 171 claudio gigante presentato davanti alla Corte, alludeva a personaggi e situazioni del milieu estense ancora oggi, almeno per gli aspetti piú evidenti, decifrabili. Il testo si prestava dunque a duplice lettura sin dall’inizio: e non sorprende che una parte considerevole degli sforzi interpretativi si sia diretta a “svelare” il gioco e i possibili messaggi cortigiani. Rispetto alla tradizione pastorale preesistente,12 da cui Tasso attinge per temi e situazioni, non senza cimentarsi in un uso diretto delle fonti classiche (da Teocrito a Mosco, da Virgilio a Ovidio),13 l’Aminta fu considerato dai contemporanei un testo innovatore, quando non fondativo di un nuovo genere, che avrebbe poi avuto come ideale continuatore il « non mai quanto basti favorito Pastor fido, tragicomedia pur pastorale del facondissimo e ’nsieme fecondissimo signor cavalier Guarino »:14 esprimendosi cosí alla fine del secolo, Angelo Ingegneri – uomo di teatro implicato in modo cruciale nella costituzione dei testi a stampa di Liberata e Conquistata – considerava Tasso come chi aveva avuto « in sorte di stabilire questa terza spezie di drama, prima o non ricevuta o non apprezzata od almeno non posta nella guisa in uso che s’è fat12. Su cui – dopo le pagine di G. Carducci, Su l’‘Aminta’ di T. Tasso, in Id., L’Ariosto e il Tasso, vol. xiv delle Opere, Bologna, Zanichelli, 1954, pp. 137-275 – vd. R. Bruscagli, L’‘Aminta’ di Tasso e le pastorali ferraresi del ’500, in Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a L. Caretti, Roma, Salerno Editrice, 1985, i pp. 279-318; A. Di Benedetto, L’‘Aminta’ e la pastorale cinquecentesca in Italia, in T. Tasso e la cultura estense, cit., iii pp. 1121-49; H. Grosser, ‘Aminta’: lo stile della pastorale, in Il merito e la cortesia. T. Tasso e la Corte dei Della Rovere, a cura di G. Arbizzoni, G. Cerboni Baiardi et alii, Pesaro, Il lavoro editoriale, 1999, pp. 23771. Per questa parte si può anche consultare G. Da Pozzo, L’ambigua armonia. Studio sull’‘Aminta’ del Tasso, Firenze, Olschki, 1983, pp. 99-107. Su un piano piú generale vd. M. Pieri, La scena boschereccia nel Rinascimento, Padova, Liviana, 1983, e il vol. Origine del dramma pastorale in Europa, a cura di M. Chiabò e F. Doglio, Viterbo, Centro studi sul teatro medioevale e rinascimentale, 1984. 13. Per la tradizione classica vd. M. Fittoni, Intorno all’ordito classico dell’‘Aminta’, Messina-Firenze, D’Anna, 1961; A. La Penna, Note all’‘Aminta’ del Tasso, nel vol. Omaggio a G. Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, pp. 1171-82. Di nessuno dei classici ricordati sono noti dei postillati: segnalo che Serassi possedeva un Teocrito, mai piú reperito, dov’erano « notati di sua [di Tasso] mano parecchi luoghi, ch’ei prese ad imitare, o ad emulare piuttosto, nel suo Aminta » (Serassi, La vita, cit., i p. 192). Nell’inventario dei propri libri redatto da Tasso nel 1590 (si legge in Lettere, a cura di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 18521855, iv pp. 311-13) figurano due esemplari di Teocrito in greco e uno in latino. 14. A. Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche (1598), a cura di M.L. Doglio, Modena, Panini, 1989, p. 4 (qui anche la citaz. che segue). 172 un’interpretazione dell’aminta to d’allora in qua ». È probabile che a Ingegneri interessasse richiamare – non spentasi ancora la polemica sulla liceità del « terzo genere » che aveva opposto Giasone De Nores a Battista Guarini (il primo era morto nel 1590, il secondo, negli anni in cui scriveva Ingegneri, era ancora pugnacemente attivo contro il rivale ormai a miglior vita) – il ruolo dell’Aminta quale archetipo del nuovo dramma pastorale, ma d’altra parte, ex silentio, sanciva anche la distanza del testo tassesco (e quindi della tradizione che aveva generato, Pastor fido di Guarini in primis) dalle pastorali ferraresi che l’avevano preceduto, preferendo ancorarlo al piú nobile ascendente della tragedia e in particolare alla Canace di Sperone Speroni, di cui due versi – è noto da tempo – sono riprodotti nella favola tassesca,15 che sembra imitarne, come ha rilevato Marziano Guglielminetti,16 l’alternanza « fra l’endecasillabo narrativo ed il settenario lirico (appena toccata dal Giraldi nell’Egle),17 e soprattutto la tendenza ad impostare la confessione d’amore in forme madrigalistiche ».18 Della tragedia, inoltre, l’Aminta, sull’esempio di Giraldi Cinzio, riproduce elementi strutturali qualitativi: dal Prologo – di cui Tasso avrebbe fatto a meno nel Torrismondo – con una divinità (penso in particolare al caso dell’Ippolito euripideo, che inizia con la dichiarazione di Afrodite che intende vendicarsi del figlio di Teseo dedito soltanto alla caccia) ai cori, alla funzione del Nuncio, senza dimenticare la presenza del rivolgimento o peripezia, anche se di segno op15. Si tratta del v. 161 dell’Aminta (« pianti, sospiri, e dimandar mercede »), che riproduce Canace, iv 2, v. 244, e del v. 1394 (« Oh dolente principio; ohimè, qual fine »), il cui primo emistichio è un settenario del coro dell’atto iv della tragedia (v. 10). 16. Cfr. M. Guglielminetti, Introduzione a T. Tasso, Teatro, Milano, Garzanti, 1983, pp. vii-xliii, a p. xx. Un censimento di possibili echi della Canace nell’opera poetica tassesca si deve a R. Cremante, La memoria della ‘Canace’ di S. Speroni nell’esperienza poetica di T. Tasso, nel vol. Sul Tasso. Studi di filologia e letteratura italiana offerti a L. Poma, a cura di F. Gavazzeni, Roma-Padova, Antenore, 2003, pp. 123-59. 17. Nell’Egle infatti il metro dominante è l’endecasillabo e, salvo una eccezione (a. i sc. 3), solo nei cori è introdotta l’alternanza (e la rima) col settenario. 18. Lo stesso Guarini, in una lettera poco innocente indirizzata a Speroni nel luglio 1585, attribuiva la « leggiadria » dell’Aminta all’imitazione della Canace (in Solerti, Vita, cit., ii p. 218). Ed è comprensibile che piú tardi, annotando il proprio Pastor fido, Guarini abbia minimizzato i propri debiti nei confronti dell’Aminta: vd. G. Baldassarri, Introduzione a B. Guarini, Il Pastor Fido, a cura di E. Selmi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 9-24. 173 claudio gigante posto rispetto alla tragedia. Quanto ai cori, il debito rispetto alla recente tradizione tragica (oltre alla Canace, il modello con cui fare i conti era la Sofonisba di Trissino) è stato segnalato da Daniele, anche per l’uso fra un atto e l’altro in funzione di dramatis persona (come nella scena del iii atto in cui « il coro sostiene da solo il dialogo con Tirsi »).19 Già nel teatro antico il dramma satiresco si distingueva dalla tragedia non per la struttura – si riscontra in entrambi la medesima scansione di episodi e canti corali che culmina con peripezia e scioglimento – ma per l’ambientazione (in zone selvatiche e non in città) e per i temi quali, « per esempio, il desiderio di liberazione dalla prigionia e dalla tirannia, e un vitalismo prorompente, volto alla libido sessuale e agli altri appetiti corporei ».20 La novità dell’Aminta era in primo luogo proprio questa: il recupero e la riformulazione, in una struttura unitaria, rispettosa delle norme tragiche aristoteliche, dei temi bucolici e satireschi – mescidati virtuosamente dagli autori estensi delle generazioni precedenti –, riproposti in un’atmosfera drammatica che sfiora la tragedia, senza che mai tuttavia venga meno la cornice di leggerezza dell’ambientazione pastorale. Adottando quanto piú tardi Guarini avrebbe scritto, pensando al proprio Pastor Fido, sul carattere peculiare della « tragicommedia », si può dire che l’Aminta fondesse il tragico e il comico evitando sia il « terribile tragico » che il « comico dissoluto », mettendo in scena il « pericolo » senza la morte, cambiando di segno al « rivolgimento », la peripezia, che invece d’essere, come per la tragedia, il punto di svolta che precede e annuncia la catastrofe, prelude a uno scioglimento felice.21 La duplice struttura concepita da Tasso – una lieve favola interpre19. Cfr. A. Daniele, Sull’‘Aminta’ (1985), in Id., Nuovi capitoli tassiani, Padova, Antenore, 1998, pp. 127-44, alle pp. 137-38; vd. anche Di Benedetto, op. cit., pp. 1134-36. 20. G. Zanetto, Il dramma satiresco e la rassicurazione del pubblico, premessa a EschiloSofocle-Euripide, Drammi satireschi, a cura di O. Pozzoli, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 5-15, a p. 8. 21. Vd. B. Guarini, Compendio della poesia tragicomica tratto dai duo Verati, in Id., Il ‘Pastor fido’ e il ‘Compendio della poesia tragicomica’, a cura di G. Brognoligo, Bari, Laterza, 1914, p. 231; sul tema vd. E. Selmi, nell’ed. cit. del Pastor Fido, pp. 25-34, alle pp. 32-34. 174 un’interpretazione dell’aminta tata da pastori che sono in parte trasparenti controfigure dell’autore e di altri personaggi della Corte – porta con sé in modo naturale una trama di significazioni seconde, o semplicemente di allusioni, non piú del tutto comprensibili, anche in mancanza di qualsivoglia testimonianza d’autore. Ripercorriamo brevemente la trama, considerandone il testo “definitivo” (in corsivo le identificazioni certe o probabili).22 Nel Prologo Amore – che fugge nelle selve dalla madre Venere che vorrebbe condizionarne l’azione – annuncia di essersi travestito da pastore per colpire Silvia cosí come già piagò Aminta. Nel i atto sono in scena Dafne e Silvia, quindi, con studiata simmetria, Tirsi e Aminta. Dafne, un tempo « rustica e selvaggia » vergine ninfa cacciatrice, cerca invano di convincere Silvia a concedersi al pastore Aminta. Silvia, che è al servizio di Diana come un tempo lo era Dafne, odia Aminta da quando ha appreso del suo amore né è disposta a cambiare d’avviso, anche se mostra interesse a intendere da Dafne le vicende di Elpino (il « saggio » sotto cui si cela la figura del Pigna) che, ascoltato da Batto e Tirsi (ossia Guarini, probabilmente,23 e Tasso), raccontava all’amata Licori (Lucrezia Bendidio)24 ciò che aveva udito da « quel grande che cantò l’armi e gli amori, / ch’a lui lasciò la fistola morendo » (Ariosto):25 nell’inferno vi è uno « speco » puzzolente destinato alle « femine ingrate e 22. Considero testo “definitivo” la prima stampa – l’Aldina del 1590 – che reca insieme i cinque cori e il Prologo. Non l’Epilogo (Amor fuggitivo), che appare solo nell’ed. Baldini del 1581 per essere reintrodotto nel testo nell’ed. Deuchino del 1622; non gli intermezzi stampati dal Foppa nel 1666. Concordo in questo senso con Sozzi, ed. cit., e con le riproposte di Guglielminetti, ed. cit., e di B. Basile (T. Tasso, Aminta, Il Re Torrismondo, Il mondo creato, Roma, Salerno Editrice, 1999). 23. L’identificazione di Batto con Guarini fu avanzata da Gilles Ménage nella sua edizione commentata (Parigi, A. Curbé, 1695, p. 154), vero incunabolo esegetico dell’Aminta, apparsa in occasione del primo centenario della morte di Tasso. Non certa, data la fuggevole menzione nel testo, l’identificazione è verisimile per il possibile gioco di parole fra Battista e Batto (affine, se si vuole, a Elpino-Pigna). Inoltre che Tirsi-Tasso sia associato a BattoGuarini può spiegarsi anche in virtú del precedente, comune, sodalizio nell’Accademia degli Eterei. 24. Il senhal era già in un epigramma latino del Pigna (cfr. Carducci, op. cit., p. 253) e anche Tasso ne aveva fatto uso con riferimento a lei nel sonetto etereo Aura, ch’or quinci intorno scherzi e vole (Rime, 30). Tirsi e Licori sono pure nel breve ciclo costituito da Rime, 23948 (di datazione dubbia); una Licori è anche nel tardo (1593) componimento Per deserte spelonche e pellegrine (Rime, 437). 25. Il Pigna è cortigianamente celebrato quale novello Ariosto: encomio con cui si omaggiava, oltre che il poeta-segretario di Corte, anche il difensore del Furioso nei rinomati Romanzi. 175 claudio gigante sconoscenti » (vv. 282-90).26 Anche Tirsi in passato, come ora Elpino, ha amato Licori, e ha cantato in versi la sua passione: sotto il gracile velame pastorale si adombrano i canzonieri cortigiani di Pigna e Tasso per la damigella Lucrezia.27 Nella seconda scena Aminta narra a Tirsi le proprie pene d’amore: con uno stratagemma romanzesco 28 è riuscito un giorno a essere baciato da Silvia; dopo aver visto che lei curava la puntura di un’ape di Fillide accostandole la bocca e mormorando « parole d’incanti », anche lui ha finto di essere stato punto, sulle labbra. Silvia, ingannata, lo ha baciato. Da quando, in seguito, Aminta le ha rivelato il suo amore, la ninfa lo fugge sdegnata. Aminta intravede la propria morte d’amore (secondo tradizione bucolica), tanto piú che il « saggio Mopso » – figura emblematica e misteriosa su cui dovremo tornare – gli ha profetizzato la sua « cruda ventura ». Tirsi replica che anche a lui, in procinto di recarsi nella « gran cittade in ripa al fiume » (Ferrara, v. 570), aveva ascoltato da Mopso profezie di sventura sui « cortigian malvagi » (v. 574) che vi avrebbe incontrato e sulla Corte luogo di incanti malefici: mentre vi ha trovato un « felice albergo » (v. 611), popolato da ninfe, cigni e sirene, governato da « uom d’aspetto magnanimo e robusto » (Alfonso II, v. 619), regale e cortese, e allietato dalle Muse e da Elpino (il Pigna). Da allora la « sampogna » di Tirsi ha abbandonato il tono umile per divenire « sonora, / emula de le trombe » (vv. 643-44). Mopso, invidioso, col suo maligno sguardo gli ha indotto un maleficio rendendolo per molto tempo « roco ». In termini che ci sfuggono – per il mistero che circonda la figura di Mopso – Tasso adombra il suo passaggio dalla poesia erotica alla scrittura epica.29 Tirsi si appresta ad aiutare Aminta, rincuorato. Il coro canta la felicità dell’età dell’oro, epoca di liberi piaceri e liberi amori, governata dalla legge « che natura scolpí: S’ei piace ei lice » (v. 681) e non dalle regole dell’Onore.30 26. Cfr. Ariosto, Orl. Fur., xxxiv 4-47; segnalo (non trovando tale indicazione nei commenti) che femine ingrate è nell’ott. 13, v. 2. 27. Preziosa sfragiöw è la citazione (vv. 320-22) degli ultimi tre versi del sonetto etereo a Lucrezia M’apre talor Madonna il suo celeste (Rime, 88). 28. Tratto da Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio: vd. Il romanzo antico greco e latino, a cura di Q. Cataudella, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 384-85; del romanzo esisteva una versione italiana parziale di Ludovico Dolce (1546) e una integrale di Francesco Angelo Coccio (1550). 29. Vd. del resto Rinaldo, i 2-6, dove già si prospetta il passaggio dalla « lira in tromba » e dal « rozzo stil » al « maggior carme ». Non diversamente Sannazaro, nei panni del pastore Sincero, segna il passaggio all’epica (« piú sonora tromba ») di Titiro-Virgilio, erede di Pan e del « pastore siracusano » (Teocrito), implicitamente candidandosi come degno successore (vd. Arcadia, x, a cura di F. Erspamer, Milano, Mursia, 1990, pp. 168-70). 30. Il tema del conflitto fra Onore e Amore era già in Rinaldo, x 18-22, e torna nella Gerusalemme (vd. piú avanti, n. 65). 176 un’interpretazione dell’aminta Nel ii atto la scena è dapprima occupata dal Satiro, che in un lungo monologo lamenta che Silvia rifiuti il suo amore e manifesta l’idea di violentarla, sorprendendola nel luogo dove lei fa il bagno. Nella seconda scena dialogano Dafne e Tirsi; la ninfa rivela a Tirsi che ha sorpreso Silvia specchiarsi nelle acque dell’« isoletta » « là presso la cittade » (vv. 854-55); gli suggerisce quindi di far recare Aminta nei pressi del fonte di Diana dove Silvia fa il bagno con « le belle membra ignude » (v. 934): qui potrà sorprenderla e trarre gli sperati diletti. Dafne lascia inoltre intendere a Tirsi – che non passa « di quattr’anni il lustro » –31 che è disposta a offrirgli il suo amore. Ma Tirsi ha già sofferto per Licori e ora non pensa piú all’amore: ora vive nell’« ozio », quell’otium fecondo di « canto » che gli ha concesso « colui che Dio qui può stimarsi » (v. 995). È il culmine della dimensione cortigiana del testo, in un plurimo gioco di specchi: Tirsi-Tasso riecheggiando Titiro-Virgilio celebra da par suo il duca Alfonso, divinizzato in guisa augustea. Nell’ultima scena (il secondo è l’unico atto ad averne tre) Tirsi spinge Aminta a recarsi nel luogo del bagno, lasciandogli intendere che la ninfa vuole concedersi a lui per « furto »; Aminta, riluttante, accetta. Il coro canta la potenza d’Amore, che nessun filosofo può spiegare: « Amor, degno maestro / sol tu sei di te stesso » (vv. 1156-57). Nella prima scena del iii atto Tirsi trafelato narra al coro un evento terribile: udita la richiesta d’aiuto di Dafne, Aminta si è precipitato verso Silvia, legata nuda dal Satiro a un albero con i suoi stessi capelli e in procinto di essere violentata: Aminta lo ha messo in fuga con i suoi dardi e poi, « tutto modesto » (v. 1260), ha iniziato a slegare l’amata che tuttavia, appena libere le mani, lo ha respinto (« Pastor, non mi toccar: son di Diana; / per me stessa saprò sciogliermi i piedi », vv. 1286-87) ed è fuggita. Tirsi teme che Aminta abbia allora dato seguito al suo proposito d’uccidersi. Nella seconda scena, Dafne impedisce ad Aminta di uccidersi con il suo dardo; giunge Nerina che annuncia loro la (creduta) morte di Silvia: racconta che la ninfa, rivestitasi grazie a lei, era andata a cacciare nel bosco di elci in sua compagnia. Silvia ha inseguito un lupo, seguita a sua volta da Nerina, piú lenta. Quando costei è giunta nella selva, ha scorto a terra il dardo il Silvia e poco piú lontano il velo che le cingeva i capelli, quindi sette lupi « che leccavan di terra alquanto sangue / sparto intorno a cert’ossa affatto nude » (vv. 1404-5). Aminta fugge per uccidersi. Il coro, in soli nove versi, biasima la morte: è solo l’amore che può dare fama immortale. Nella prima scena dell’atto iv Silvia racconta a Dafne la sua disavventura: ha visto un branco di lupi intorno a una preda uccisa di fresco; un lupo che in precedenza era stato colpito da lei l’ha inseguita, nella fuga il velo « intorno al cri31. Tasso nel 1573 aveva 29 anni. 177 claudio gigante ne / si spiegò in parte, e giva ventilando, / sí ch’ad un ramo avviluppossi » (vv. 1514-16); per non interrompere la sua fuga Silvia si è sciolta dal velo e si è messa in salvo. Dafne le racconta che Aminta è corso a uccidersi alla notizia della sua creduta morte; Silvia s’intenerisce e prova pietà che « messaggiera è de l’amore » (v. 1603). Nella seconda scena Ergasto, che svolge il ruolo di « Nuncio », dà notizia della morte di Aminta: è stato testimone del suo suicidio per amore dall’alto di una rupe. Silvia chiede a Dafne di cercare le spoglie di Aminta per seppellirle e pensa poi, anche lei, di morire. Il coro, in dodici versi, celebra Amore che vince anche la Morte.32 L’ultimo atto presenta una sola scena: Elpino narra al Coro il felice scioglimento della vicenda. Camminava in compagnia di Tirsi, ragionando « di colei che ne l’istessa rete » amorosa avvolse entrambi (v. 1900), quando hanno visto cadere dall’alto Aminta; la sua caduta non è stata mortale, perché attutita da una rete di rami e di erbe. Viene chiamato il medico, Alfesibeo (forse Girolamo Brasavola),33 e nel frattempo giungono Dafne e Silvia, che si scioglie in pianti sul corpo di Aminta creduto morto; ma il pastore si risveglia: si va a chiamare Montano, padre di Silvia, perché acconsenta al matrimonio. Il coro in diciannove versi chiede, in prima persona singolare, ad Amore che la ninfa da lui (da Tasso?) amata gli conceda rapidamente i suoi favori « dopo brevi preghiere » (v. 1989), senza dover attendere a lungo come è avvenuto ad Aminta. Altri materiali fanno parte della piccola galassia testuale dell’Aminta. In primo luogo l’Epilogo (forse aggiunto in seguito, forse poi rifiutato, forse del tutto indipendente), ideale continuazione del Prologo, elegante parafrasi dal primo idillio di Mosco (già imitato da piú autori, come Sannazaro e Giraldi Cinzio in due epigrammi latini), dov’è rappresentata Venere che cerca il figlio Amore. Vi sono quindi quattro « intermedi » o intermezzi, che non compaiono mai nelle stampe cinquecentesche e che Sozzi definí « totalmente avulsi, per il senso, dal conte32. Il coro corrisponde alla prima stanza della canzone per le nozze di don Cesare d’Este e Virginia dei Medici avvenute nel febbraio 1586 (vd. Rime, 1263, vv. 1-12). In passato si riteneva che Tasso avesse riutilizzato per l’occasione i versi della pastorale; persuasivamente Trovato, op. cit., p. 1008, considera « estremamente improbabile – a norma del galateo cortigiano – che gli stessi versi potessero circolare anche precedentemente », mentre piú verisimile gli pare l’ipotesi inversa. 33. È identificazione proposta da Ménage: potrebbe ben essere che Tasso abbia voluto qui celebrare il medico di Corte (imparentato col Pigna), anche se Brasavola non era il solo a praticare « la medica arte » in Ferrara (notizie su di lui in Diz. Biogr. It., cit., vol. xiv 1972, pp. 52-53, voce di G. Gliozzi). 178 un’interpretazione dell’aminta sto »:34 ciascuno di pochi versi (si va dagli undici ai tredici), sono in realtà connettibili con l’azione scenica dell’Aminta. Nel primo, Proteo paragona l’« arte onde notturna scena / cangia l’aspetto » (vv. 3-4), ossia la scenografia, da lui escogitata, all’arte d’amore che trasforma gli amanti « in tante guise » (v. 5). Il secondo è un elogio del matrimonio. Il terzo dà la parola agli dèi celesti per l’occasione attratti « in questa bella imago / del teatro del mondo » (vv. 6-7). L’ultimo, attraverso le parole del dio Pan, invita al sonno i « mesti amanti » e le « donne liete ». 2. Aminta è un nome di pastore (compare anche nel piú tardo Rogo amoroso) che Tasso aveva letto nel settimo degli Idilli di Teocrito e nelle Bucoliche di Virgilio; già in qualche caso era stato utilizzato in testi moderni: ad esempio nel Palmerino di Ludovico Dolce o, per citare un testo prossimo alla favola tassesca, nel Sacrificio di Beccari; un Aminta pastore dialogava inoltre con Fileno in un’ecloga di Baldassarre Taccone,35 testo che però difficilmente poteva essere noto a Tasso. Si tratta in ogni caso di un nome maschile che nelle intenzioni del poeta (come poi nel Pastor fido) non doveva celare alcuna ambiguità.36 Tirsi, il personaggio con cui l’autore si è messo in scena, è un pastore forestiero giunto alla Corte estense: situazione che pare ricalcare, non solo per ragioni onomastiche (per le quali si potrebbero evocare ancora i numi Teocrito e Virgilio), il motivo dell’ecloga eponima di Castiglione recitata alla Corte di Urbino nel 1506 (che, comunque, per il rispecchiamento fra personaggi in scena e personaggi di Corte è 34. Sozzi, Studi sul Tasso, cit., p. 25. 35. Cfr. Carducci, op. cit., p. 173. 36. Come ritiene invece la Graziosi per dare corpo alla sua tesi che in Aminta si raffiguri il tredicenne Alfonsino d’Este, un adolescente in quanto tale non ancora nel pieno della virilità. . . La questione, in termini lessicali, era stata affrontata già dal Ménage e dal Fontanini, che avevano rilevato l’uso in testi posteriori del nome Aminta come personaggio femminile. Non mi sembra probante la presenza di « un’Aminta al femminile », anzi un’Amminta, in un componimento di Nicola Degli Angeli apparso a stampa proprio nel 1573 (Graziosi, op. cit., p. 98), mentre assai piú interessante è il titolo di un’altra pastorale ferrarese, Le pompe funebri overo Aminta e Clori del filosofo Cesare Cremonini, stampata con dedica a Alfonso II nel 1590. Segnalo, oltre a quanto già detto, che un Aminta sovrano macedone s’incontra nelle Storie di Erodoto, volgarizzate, com’è noto, dal Boiardo. 179 claudio gigante un precedente significativo). Anche gli altri nomi della favola appartengono alla tradizione bucolica, cui l’autore è ampiamente debitore per temi, situazioni e soluzioni formali. Pure la ricercata duplicità di senso aveva precedenti imitati nell’Aminta: dalle ecloghe virgiliane a quelle trecentesche di Dante, Petrarca e Boccaccio (quest’ultimo anche nella forma in volgare del poema pastorale: il Ninfale fiesolano), al romanzo pastorale ancora di Boccaccio (l’Ameto) e soprattutto di Sannazaro, la cui Arcadia resta per l’Aminta, malgrado le notevoli differenze metriche, formali (il prosimetro) e strutturali, il precedente piú notevole di parlar coverto pastorale.37 Una lettura di primo grado, attenta soprattutto alla lettera del testo, al riuso raffinato di fonti classiche e moderne, alla purezza del dettato e al meccanismo “a orologeria” della trama (il carducciano « portento ») è possibile, perché anche per Tasso, di formazione aristotelica, vale quel che Castelvetro osservava commentando la Commedia dantesca; cioè che « l’allegoria non è da commendare né da ricevere per buona, dove il senso letterale non ha stato ». Un percorso del genere consente di seguire i temi messi in scena nella partitura del dramma, sintetizzabili in cinque punti: l’amore pastorale, il mito edonistico dell’età dell’oro, il mondo della Corte, l’azione del satiro, la creduta morte dell’amante. La vicenda, e in modo particolare gli eventi drammatici delle morti presunte di Silvia e Aminta, è quasi interamente raccontata piú che rappresentata (al punto, com’è stato tante volte osservato, che Aminta e Silvia mai insieme sono sulla scena), secondo un precetto aristotelico discusso dalla pubblicistica del tempo (si ricordi la lunga polemica sulla Canace di Speroni),38 che si ritrova limpidamente anche in Orazio (Ars poetica, vv. 179-88). Gli amori pastorali coinvolgono quasi tutti i personaggi del dram37. Vd. in partic. Sannazaro, Arcadia, ed. cit., xi 7, p. 194 (a proposito dell’ecloga x, vv. 49 sgg.). 38. Cfr. Aristotele, Poet., 1453b 1-4: « Ciò che ispira paura e pietà può prodursi come effetto dello spettacolo, ma può anche prodursi semplicemente dal sistema degli eventi, e questo è preferibile, e caratterizza un poeta migliore ». Cito dalla trad. it. di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998. 180 un’interpretazione dell’aminta ma: oltre Aminta e Silvia, Tirsi e Elpino (e forse anche Batto) sono o sono stati coinvolti nell’amore per Licori che, a sua volta, ricambia castamente la passione di Elpino (a. i sc. 2, vv. 305-7); Dafne offre i suoi favori a Tirsi, il Satiro cerca a modo suo di concupire Silvia. . . Restano fuori, a parte Amore in abiti pastorali (che in ogni caso è inseguito dalla madre Venere), i due nunzi di sventure per buona sorte non consumate, Nerina e Ergasto, e i personaggi – con l’eccezione del Satiro – che esistono solo attraverso le evocazioni di chi è in scena: il sinistro Mopso, il medico Alfesibeo, il « dio ». Al di là dei riferimenti cortigiani, che anche su questo punto risultano oggi fatalmente sfumati (verisimilmente anche Dafne poteva essere identificabile per il pubblico di Corte), l’Aminta rivela da tale prospettiva un legame forte con la tradizione pastorale antica e moderna; anche se non risiedono in Arcadia, ma nelle « selve » estensi (dove si proietta l’ombra protettrice e al contempo dominatrice del « dio » Alfonso II), i pastori cantano, amano e si disperano come da tradizione bucolica;39 Silvia è dedita alla caccia, difende la propria verginità consacrata a Diana (insidiata da un pastore e da un satiro) e fa il bagno nuda, come avviene nel dramma satiresco moderno, di cui la favola pastorale è cortigiana evoluzione. Si considerino, a tal proposito, le affinità con l’Egle di Giraldi Cinzio (« satira » in cinque atti intervallati da altrettanti cori, introdotta come l’Aminta da un Prologo di Amore): la ninfa eponima ha scoperto grazie a Sileno l’amore; prima era una fedele di Diana e passava il tempo a cacciare e a bagnarsi nelle fonti. Il suo racconto (a. ii sc. 1) coincide (a parte Sileno) con quanto Dafne racconta di sé a Silvia in principio dell’Aminta: Dafne cerca di persuadere Silvia all’amore, la stessa cosa Egle si ripromette di ottenere dalle ninfe di Diana; Dafne è disposta, a suo modo a fin di bene, a suggerire ad Aminta (attraverso Tirsi) come possedere Silvia con l’inganno (e la violenza), cosí come Egle è complice di Satiri e Fauni per catturare con astuzia le ninfe ritrose. Sullo stesso 39. Concordo con quanto scrive La Penna, art. cit., p. 1180: « La scena dell’Aminta, pur collocata nella pianura padana, resta in Arcadia come quella del Sannazaro », e con lui non ritengo, diversamente da tanta parte della critica, che la differenza geografica abbia un’incidenza di peso sull’ordito. 181 claudio gigante piano possono collocarsi i consigli di Tirsi ad Aminta (e prima di Dafne a Tirsi), relativi all’audacia necessaria per possedere Silvia (prenderla con la forza mentre fa il bagno), e il dialogo nell’Egle tra il Fauno e il Satiro (a. ii sc. 2, vv. 555-62): S. F. S. [. . .] i’ non avrei usato tanti rispetti com’usar tu vuoi: ove pericol è che ti sia tolta cosa che ti sia cara, biasimato non sarai unqua a porlati in sicuro. La tropp’audazia torna spesso in danno. Et il troppo temer fa perder spesso quel ch’aver si potrebbe [. . .]. Si consideri infine la scena finale della « satira » giraldiana, dove le ninfe, per non lasciarsi catturare da Satiri e da Fauni, si tolgono le vesti, i cui lembi rimangono nelle mani, per il resto vuote, degli sfortunati amatori: un episodio che – anche al di là di fonti comuni – sembra ancora echeggiare nella scena tassesca di Silvia inseguita dal lupo. Non sono i soli riscontri possibili, e il ventaglio si allargherebbe ulteriormente considerando in analoga prospettiva le altre pastorali ferraresi (fra l’altro Tasso poté assistere alla rappresentazione dello Sfortunato di Argenti, nella primavera del 1567),40 e in modo particolare – co40. Nello Sfortunato, che pure presenta episodi che superficialmente possono far pensare all’Aminta (vd. ad es. il finale cedimento di Dafne a Sfortunato, dopo che questi ha minacciato di uccidersi con un dardo: di suicidi mancati è piena la tradizione in senso lato pastorale, « ma rade volte poi segue l’effetto » [Aminta, a. iii sc. 1, v. 1314]), palese è la ricerca del facile effetto di riso, attraverso il ricorso a una comicità “bassa” e senza pretese; allo stesso tempo il testo imita alla meno peggio le tirate di misoginia dell’Orfeo di Poliziano e i tradizionali canti dei pastori su amori sventurati (ove piú che Virgilio o addirittura Teocrito il modello pare ancora una volta, soprattutto, Sannazaro). Analoga facile ricerca di effetti comici si riscontra nell’Aretusa di Lollio, che traspone in Arcadia una tipica situazione da commedia: un padre a cui sono stati sottratti i figli in tenera età, l’amore di Licida per Aretusa (che ignora di essere sua sorella), la finale agnizione che sistema ogni cosa. . . Bruscagli, op. cit., ha parlato a questo proposito di « un aristocratico scrutinio » da parte di Tasso « delle persone ammesse alla favola: nella distribuzione del cast vengono cancellate tutte le parti di caratterista, e nessun capraio o pastore d’armenti verrà piú a interporre i suoi lazzi d’avvinazzato o i suoi giochi rusticani alle smanie erotiche dei pastori e delle ninfe » (p. 291). 182 un’interpretazione dell’aminta me già indicava (esagerando) Battista Guarini – il Sacrificio di Beccari (dove si incontra Erasto, pastore innamorato di una ninfa ritrosa, Callinome; un Satiro coi consueti appetiti che, oltre a restare a bocca asciutta, è pure malamente schernito; il pastore Turico che libera l’amata Stellinia. . .): 41 quel che qui interessa non è un panorama cronologico, del resto già tentato da altri in varie sedi spesso sulle orme delle memorabili pagine carducciane, quanto suggerire uno sfondo comune – ma davvero nulla piú – tra l’Aminta e i testi coevi di genere. E l’eccezionalità della pastorale tassesca emerge proprio in rapporto alla “normalità” e “topicità” del tessuto narrativo, per il quale Tasso abbandona le catene di pastori plebei che amano, non riamati, delle ninfe che a loro volta amano, non riamate, altri pastori (caratteristica propria delle pastorali ferraresi precedenti, poi ripristinata in forme piú raffinate nel Pastor fido)42 per elaborare un ordito limpido e breve,43 che prevede un solo scioglimento felice, dove i pastori hanno dismesso – con la significativa eccezione del Satiro – i panni da commedia e hanno riacquistato il tono sociale della tradizione bucolica alta (come si doveva in un contesto favoloso i cui attanti sono, in parte, controfigure di personaggi di Corte). 3. Il motivo dell’età dell’oro, diffusissimo in testi classici e moderni, era parte del genere bucolico sia antico che moderno (si pensi, per limitarci agli archetipi delle due tradizioni, a Virgilio e a Sannazaro): nel 41. Come già notava Carducci, op. cit., p. 209, il frontespizio della stampa (Ferrara, De Rossi, 1555) reca per la prima volta la definizione di « favola pastorale »: un elemento che ha contribuito, già nelle pagine di Guarini, a ritenere il Sacrificio l’archetipo di un nuovo genere. 42. Per questo punto vd. Bruscagli, op. cit., pp. 285-92. 43. Manso, Vita, cit., p. 39, scrive che « ad altri » il testo « parve assai brieve », ma che ciò avvenne per « volontà del duca Alfonso ». Si sa che il biografo napoletano volentieri trovava giustificazioni ai presunti difetti di Tasso o di sue opere e che per la stagione ferrarese del poeta lavorava in genere di fantasia non disponendo di informazioni di prima mano. Ma se anche si ritiene che per l’occasione egli parlasse con cognizione di causa, desta stupore che la sua frase possa essere stravolta in questi termini: « Del resto la precisa volontà del duca ebbe modo di manifestarsi anche nell’ideazione della favola. Fu Alfonso II, secondo quanto riferisce il Manso, che volle breve il quinto atto interferendo direttamente nella stesura fino a provocare le censure degli intendenti » (Graziosi, op. cit., pp. 46-47). 183 claudio gigante coro dell’atto i, oltre alla filigrana ovidiana (Met., i 89-112) e alle note sensuali di provenienza catulliana (« Amiam, che non ha tregua / con gli anni umana vita, e si dilegua. // Amiam, che ’l Sol si muore e poi rinasce: / a noi sua breve luce / s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce », vv. 719-23),44 Tasso, attraverso il celebre motto « che natura scolpí: S’ei piace, ei lice » (v. 681), pure di ascendenza classica,45 canta l’età perduta della libertà erotica di fronte alle leggi della civiltà e del costume, formalizzate in una sola parola chiave, l’Onore. Se l’attacco può essere ricondotto ai ricordati versi di Ovidio, è pur vero che i miti della terra gravida di messi senza lavoro e della primavera perenne lí cantati sono nel coro dell’Aminta come posti fra parentesi e ridimensionati (e anzi addirittura “negati”) di fronte alla celebrazione dell’eros perduto: O bella età de l’oro, non già perché di latte sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco; non perché i frutti loro dier da l’aratro intatte le terre, e gli angui errâr senz’ira o tosco; non perché nuvol fosco non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; né portò peregrino o guerra o merce a gli altrui lidi il pino; ma sol perché quel vano nome senza soggetto, quell’idolo d’errori, idol d’inganno, quel che dal volgo insano 44. Cfr. Catullo, Carm., v 4-6. 45. Cfr. Elio Sparziano, Antoninus Caracalla, x 1-2: « Interest scire quemadmodum novercam suam Iuliam uxorem duxisse dicatur. Quae cum esset pulcherrima et quasi per neglegentiam se maxima corporis parte nudasset dixissetque Antoninus “Vellem, si liceret”, respondisse fertur: “Si libet, licet: an nescis te imperatorem esse et leges dare, non accipere?” » (estendo il riscontro proposto da Basile, ed. cit., ad loc.). E vd. anche Dante, Inf., v 56 (« che libito fe’ licito in sua legge »), riferito a Semiramide. 184 un’interpretazione dell’aminta onor poscia fu detto, che di nostra natura ’l feo tiranno, non mischiava il suo affanno fra liete dolcezze de l’amoroso gregge; né fu sua dura legge nota a quell’alme in libertate avvezze, ma legge aurea e felice che natura scolpí: S’ei piace, ei lice.46 Carducci, ironizzando di fronte all’ammirazione per il coro professata dal Crescimbeni, scriveva che « è ispirato elementarmente da un’elegia di Tibullo (3a del ii libro) »:47 ma si commetterebbe un grave torto nei riguardi di Tasso lasciando passare un’idea del genere. Tibullo canta il tradimento della fanciulla Nemesi che ha seguito in una casa di campagna, allettata dalle ricchezze, un ex-schiavo, un parvenu: come Apollo per amore di Ameto divenne pastore, cosí il poeta latino si dice disposto, pur di vederla, a divenire un contadino. Il suo desiderio di abbracciare per amore la povertà, opposto al comportamento dell’amata, si traduce in un’invettiva contro il tempo presente, l’età del ferro, in cui a essere celebrata non è piú Venere bensí la cupidigia (praeda), madre di molti mali. Di fronte a ciò Tibullo si augura un ritorno dei prisci mores: glans alat et prisco more bibantur aquae: glans aluit veteres, et passim semper amarunt; quid nocuit sulcos non habuisse satos? Tunc, quibus aspirabat Amor, praebebat aperte mitis in umbrosa gaudia valle Venus; nullus erat custos, nulla exclusura dolentes ianua; si fas est, mos, precor, ille redi. ............................... Horrida villosa corpora veste tegant.48 46. Aminta, i 656-81 (sono le prime due strofe del coro); miei i corsivi, salvo l’ultimo. 47. Carducci, op. cit., p. 241. 48. Tibullo, Eleg., ii 3 68-76. Cito dal texte établi par M. Ponchont, Paris, Les Belles Lettres, 1950; i puntini indicano una lacuna nel testo di estensione non determinabile. 185 claudio gigante Tibullo invoca una semplicità di vita (le ghiande e l’acqua contrapposte al grano e al vino simboli della civiltà) che è quanto Dafne, in principio dell’Aminta, rivolgendosi a Silvia e discutendo della sua passione per i « diporti » venatorî, ritiene essere proprio di un’« insipida vita » (a. i sc. 1, vv. 108-16): Insipidi diporti veramente, ed insipida vita: e, s’a te piace, è sol perché non hai provata l’altra. Cosí la gente prima, che già visse nel mondo ancora semplice ed infante, stimò dolce bevanda e dolce cibo l’acqua e le ghiande, ed or l’acqua e le ghiande sono cibo e bevanda d’animali, poi che s’è posto in uso il grano e l’uva. L’età dell’oro celebrata nel primo coro non può avere nulla in comune, mi sembra pacifico, con il ritorno ai costumi primitivi, che sono anzi disprezzati: Tibullo e Tasso alludono a due diverse accezioni di età aurea. Fra i due testi vi è un solo punto veramente comparabile, la libertà di amare, ma lo è soltanto in superficie: il poeta latino canta il tempo mitico in cui, quando Amore soffiava, il piacere poteva essere colto in un’ombrosa valle (un motivo che, insieme all’avidità muliebre, ha un’interessante ripresa nel Roman de la rose)49 e nessun guardiano impediva agli amanti dolenti di varcare una soglia; ma è un rimpianto che nasce perché la propria fanciulla è chiusa in una casa di campagna inaccessibile. Fondandoci sulla conoscenza che Tasso aveva degli idilli del corpus Theocriteum, diffuso nel Cinquecento in varie traduzioni latine,50 si può 49. Cfr. Guillaume de Lorris-Jean de Meun, Le Roman de la Rose, vv. 8341-459 (sono nella parte composta da Jean): in partic. i vv. 8341-56 per l’interesse per il danaro, i vv. 8435-58 per i giochi d’amore, le « karoles » e il molle ozio all’ombra protettiva di alberi e foreste (vd. l’ed. a cura di A. Strubel, Paris, Librairie Générale Française, 1992). 50. Non conosciamo quale testo Tasso leggesse e postillasse (cfr. n. 13): fra le versioni latine circolanti nel Cinquecento ricordo quelle di Helius Eobanus Koch von Hagelhausen, dello Stephanus, del Veit, di Andrea Divo di Capodistria (di cui il poeta conosceva certamente la traduzione omerica), del Trimaninus, tutte a stampa piú di una volta. 186 un’interpretazione dell’aminta proporre un accostamento con l’Idillio xii, dove, di là dal motivo pederotico, l’autore immagina che l’unione con il suo amato possa dai posteri essere associata all’età dell’oro, « quando con amore si ricambiava amore » (v. 16); in Teocrito non si fa cenno né alla semplicità del vivere né alla spontanea nascita di messi né alla pacifica comunione dei beni: elementi che da Esiodo a Platone ad Arato e nella tradizione successiva (Virgilio, Ovidio, Seneca. . .) connotavano abitualmente l’idea di età aurea; nel mondo greco sembra che una visione sub specie erotica dell’età dell’oro fosse, come evinco da un’indicazione del Gow,51 del tutto eccezionale, trovandosi soltanto nella vita del filosofo Cratete ateniese (un contemporaneo di Teocrito) scritta da Diogene Laerzio.52 Nell’Aminta Tasso attua un recupero della concezione erotica di Teocrito dell’età dell’oro – l’Idillio xvi, anche se privo di particolari aspetti bucolici, rientrava in senso lato nell’alveo della letteratura pastorale – inscrivendosi in una tradizione minore che trascurava gli aspetti escatologici, encomiastici e in senso lato “primitivistici” del mito: motivi che invece – sulla falsariga virgiliana o dantesca, a seconda dei casi – tornano in Tasso, con scarsa convinzione, in versi encomiastici o sacri. Si deve a Gustavo Costa – autore di un importante profilo del tema dell’età aurea da Dante a Leopardi –53 il merito di aver segnalato lo scarto del Tasso aminteo rispetto alla tradizione dominante del mito, pur senza porlo in relazione con Teocrito. Lo stesso studioso segnalava due importanti precedenti in Sannazaro e Tansillo. Il primo, in una delle piú famose ecloghe dell’Arcadia, la sesta, « dà un contributo decisivo al processo di mondanizzazione della leg51. Theocritus, Edited with a translation and commentary by A.S.F. Gow, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1950, ii p. 225. 52. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, iv 21-22 (vd. l’ed. a cura di M. Gigante, RomaBari, Laterza, 19874, i pp. 144-45). Racconta Diogene che Cratete fu « auditor simul amatorque » di Polemone, e che i due si amarono talmente da vivi, condividendo « eadem studia », che furono poi sepolti insieme. Arcesilao, che aveva scelto di far parte della loro scuola, li definiva dèi o « aurei seculi reliquias »: se non vado errato, qui l’accezione è un po’ diversa, perché Diogene pone piuttosto in rilievo il valore della concordia unito a quello della filosofia. Cito dalla versione latina di Ambrogio Traversari, piú volte stampata ai tempi di Tasso, nell’ed. Lugduni, Apud haered. Seb. Gryphi, 1559, p. 166. 53. G. Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Roma-Bari, Laterza, 1972. 187 claudio gigante genda dei Saturnia regna »;54 il pastore Opico canta, con Serrano che fa da spalla, la decadenza del mondo, offuscato da avarizia e latrocini, mentre un tempo, come suo padre gli raccontava quando lui era giovane, dominavano la pace, la sicurezza, la primavera perenne, la comunanza di beni. Ai motivi ricordati, che sono parte del repertorio classico sul tema, Sannazaro aggiunge quello dell’amore: Ov’è ’l valore, ov’è l’antica gloria? U’ son or quelle genti? Ohimè, son cenere, de le qual grida ogni famosa istoria. I lieti amanti e le fanciulle tenere givan di prato in prato ramentandosi il foco e l’arco del figliuol di Venere. Non era gelosia, ma sollacciandosi movean i dolci balli a suon di cetera, e ’n guisa di colombi ognor basciandosi. Oh pura fede, oh dolce usanza vetera! Or conosco ben io che ’l mondo instabile tanto peggiora piú, quanto piú invetera.55 L’ultimo verso fu forse imitato da Tasso nel secondo atto (« Il mondo invecchia, / e invecchiando intristisce », vv. 891-92), anche se è possibile un ricorso autonomo alla fonte comune, Orazio (Carm., iii 6 45). Piú rilevante – e credo mai notato – mi sembra il nesso fra i vv. 105-7 dell’ecloga e i vv. 682-84 del coro: « Allor tra fiori e linfe / traen dolci carole / gli Amoretti senz’archi e senza faci ». Ma quel che conta è marcare la distanza profonda tra il passo dell’Arcadia e il coro tassesco: Sannazaro inserisce sí l’amore nel canto dell’età perduta, ma si tratta di un eros casto, legato all’immagine di tradizionale purezza della colomba56 (e in fondo anche la mancanza di gelosia può essere interpretata in questo quadro). Il coro dell’Aminta è, al contrario, un inno spregiudicato alla gioia dei sensi («S’ei piace, ei lice»), che solo per mio54. Ivi, p. 69. 55. Sannazaro, Arcadia, ed. cit., ecl. vi, vv. 100-11. 56. Cfr. Petrarca, Canz., clxxxvii 5; Tr. Cup., iii 90. Nell’Aminta l’amicizia di Silvia e Aminta prima della scoperta dell’eros è paragonata alla « compagnia » di due « tortorelle » (v. 412). 188 un’interpretazione dell’aminta pia può essere ascritto (e quante volte è avvenuto da parte di acritici assimilatori di luoghi comuni!) a una concezione platonica dell’amore. La felice anarchia del messaggio, dissimulata in un testo apparentemente innocente, fu sottolineata dalla gelida palinodia che, com’è noto, Battista Guarini compose per l’atto iv del Pastor fido: identico per schema metrico e per rime, il testo di Guarini sostituisce alla formula tassesca un inno all’Onestà sancito dalla formula antifrastica «Piaccia, se lice». Riscrivendo e a suo modo correggendo il coro tassesco, Guarini esprimeva una reazione, che non può essere considerata una mera gara poetica, all’« utopia erotica » dell’Aminta.57 Un’altra indicazione importante di Costa, piú peregrina di quella sannazariana, riguarda, come accennavo, Luigi Tansillo. Il poeta venosino, morto nel 1568, benevolmente citato da Tasso nel Nifo e nel Discorso sulla gelosia,58 era autore di un poemetto osceno in ottave, il Vendemmiatore, che ebbe vasta risonanza anche prima di andare in stampa nel 1534. L’intuizione di Costa è notevole, ma la scelta del testo di riferimento, l’edizione a cura di Francesco Flamini,59 gravemente purgata,60 gli ha impedito di rintracciare le ottave che sono davvero prossime ai versi dell’Aminta. Si leggono nella stampa del 1549 (24 5-27 6):61 Onore e castità son ciancie e nughe, trovate da color che potean meno, perché con le paure e coi rispetti, coprisser l’altrui forze e i lor difetti. Ne l’età d’or, quando la ghianda e ’l pomo 57. Cfr. N. Borsellino, « S’ei piace, ei lice ». Sull’utopia erotica dell’‘Aminta’, in « Filologia e Critica », xxiii 1998, pp. 144-54. 58. Per altre testimonianze vd. Serassi, La vita, cit., ii p. 252. A interferenze liriche e madrigalesche dei due poeti è dedicato il bel saggio di R. Pestarino, Tansillo e Tasso, o della sodezza, nel vol. Sul Tasso, cit., pp. 533-59. 59. Napoli, Biblioteca napoletana di Storia e Letteratura edita da B. Croce, 1893. 60. Le stanze in questione, cosí come molte altre, sono ritenute da Flamini interpolate: non è questo il luogo per discuterne la paternità, ma gli argomenti addotti dal filologo mi sembrano influenzati in modo decisivo dalla sua pruderie e dal desiderio di salvare la “moralità” del poeta. Va da sé che se anche i versi non fossero di Tansillo, conta che come tali furono stampati e ristampati nel Cinquecento. 61. In Vinegia, appresso Baldassarre Costantini, al segno di S. Giorgio, m.d.xlix; ed. riprodotta da G. Raya, Catania, Libr. Tirelli, 1928, da cui cito. 189 claudio gigante era del ventre uman lodevol pasto, né femina sapea, né sapea uomo, che cosa fosse onor, che viver casto; trovò debil vecchion, da gli anni domo, queste leggi d’onor, che ’l mondo han guasto: sazio del dolce, già vietato a lui, volle dar legge a le dolcezze altrui. Non avea il mondo allor né mio né tuo, fiera semenza ond’ogni mal nascesse: potea darsi a piú d’uno, a piú di duo, onorevol donna, senza altrui interesse: perché non avendo uom, che nomar suo, non si potea doler, ch’altri il togliesse; né gian mai di piacer donne digiune, poi ch’ogni cosa era tra lor comune. Fean palese a lor voglia uomini e donne quel che secreto a pena or si conclude: non eran veli ancor, non eran gonne, onde il bel corpo e l’aureo crin si chiude: il fianco, come il volto, e le colonne del bel giardin d’Amor si vedean nude.62 Dei versi di Tansillo è importante rilevare – in prospettiva della pastorale tassesca – che l’età dell’oro è associata alla libertà erotica, e che le « leggi d’onor » sono contrapposte alle « dolcezze » dell’amore; notevole, inoltre, è l’omaggio alla nudità delle donne prive di « veli » simile a quello che si legge nella terza strofa del coro dell’Aminta (vv. 689-92): la verginella ignude scopria sue fresche rose, ch’or tien nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude. 62. Segnalo che nelle ottave 34-35 Tansillo canta l’amore di animali e piante in termini molto simili al discorso di Dafne nei vv. 212-55 dell’Aminta: antecedente da considerare, tanto piú che i commenti offrono rinvii (a parte l’ovvio calco petrarchesco del v. 222) piuttosto generici. Altre proposte sulle fonti di questi versi ora in A. Corsaro, Per una rilettura dell’‘Aminta’, in Id., Percorsi dell’incredulità. Religione, amore, natura nel primo Tasso, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 169-209, alle pp. 179-85, che pure ha posto l’accento sul Vendemmiatore. 190 un’interpretazione dell’aminta Il riferimento di Tansillo alla semplicità dei pasti è in tale ottica puramente esterno. Elementi simili si trovano altresí, come ancora Costa ha segnalato, nella canzone di Tansillo Vedendo il saggio Apollo 63 e, piú prevedibilmente, in capitoli berneschi di Della Casa e Mauro, già accostati da Ménage e Fontanini al coro tassesco.64 Mi sembra immaginabile che un’indagine sulla poesia comico-realistica possa allargare notevolmente i termini di confronto: ma il punto non è cercare una fonte precisa e univoca per il coro, che probabilmente non esiste, quanto mettere a fuoco la complessa operazione poetica che Tasso ha realizzato: perché se ha sfruttato un campionario di immagini e di espressioni di provenienza “bassa”, estranee ai piani alti della tradizione bucolica (e meglio attinenti, paradossalmente, alle pastorali ferraresi di Lollio o Argenti), le ha riformulate depurandole dagli accenti plebei e dal tono da burla. Il primo coro dell’Aminta è un inno malinconico – antifrasticamente può ricordare le invettive dantesche contro il deterioramento dei costumi delle donne fiorentine (Par., xv 97-129) – che è giusto leggere come un canto di una forza espressiva che travalica i confini della favola e della scena a cui era destinato;65 ha un legame tenue con l’azione drammatica (al punto che ci può chiedere se Tasso non contravvenga a un noto precetto oraziano: Ars poetica, vv. 193-95), che sembra 63. Si legge ora in L. Tansillo, Il canzoniere edito ed inedito, a cura di E. Pèrcopo (1926), rist. con aggiunta di un secondo tomo stabilito sulle carte autografe di E. Pèrcopo, a cura di T.R. Toscano, Napoli, Liguori, 1996, i pp. 224-29 (Poesie pescatorie e morali, canz. xvi, pastorale i). 64. Testi che sono ricordati e in parte citati anche da Corsaro, Per una rilettura dell’‘Aminta’, cit., pp. 190-96. Sul Tansillo, essenzialmente sui versi indicati da Costa, si sofferma anche D. Chiodo, Il mito dell’età aurea, in Id., T. Tasso poeta gentile, Bergamo, Centro di Studi tassiani, 1998, pp. 43-97, alle pp. 47-48. 65. Da un punto di vista tematico, ma con valenza puramente narrativa, si è già accennato che il motivo del conflitto fra Onore e Amore è presente sia nel Rinaldo sia nella Liberata, nell’episodio di Erminia – indecisa se uscire o non di notte per recarsi da Tancredi ferito (Lib., vi 70-78) – che al momento della scrittura dell’Aminta era già da tempo composto; in forme diverse il motivo coincide addirittura con il nodo tragico del Torrismondo. Analogo discorso vale per i versi del coro di esortazione all’amore che riecheggiano (in un complicato gioco di rimandi in piú direzioni) le ottave del giardino di Armida del xvi del poema. 191 claudio gigante essere in armonia con la definizione che in pagine piú tarde il poeta avrebbe dato del coro tragico: « è quasi un curatore ozioso e separato e per l’istessa ragione parla piú altamente il poeta in sua persona, e quasi ragiona con un’altra lingua, sí come colui che finge d’esser rapito da furor divino sovra se medesimo ».66 In altre parole, come avrebbe osservato Manzoni (pur ritenendo che i cori dell’Aminta, « massime il primo », spirassero « l’immoralità piú grossolana »), per Tasso, nel solco della migliore tradizione drammaturgica, il coro è il luogo « donde mostrarsi e parlare in persona propria » per « manifestare i suoi propri sentimenti ».67 Il legame, sottile ma importante, del coro con il resto della favola riguarda due punti: il tema delle corti e il monologo del Satiro; ne parleremo piú avanti (vd. parr. 4-5). A questi si può aggiungere, dal punto di vista della coerenza rappresentativa (o anche semplicemente narrativa), il nesso con i versi del Prologo in cui Amore in abiti pastorali annuncia il proprio arrivo nelle selve, stanco di agire nelle corti; versi che possono essere messi in relazione con l’invito nel coro all’Onore ad abbandonare le selve, a liberare Amore e Natura da lui soffocati, e a trasferirsi nelle corti (donde, dunque, Amore è fuggito; vv. 710-18): Ma tu, d’Amore e di Natura donno, tu domator de’ Regi, che fai tra questi chiostri che la grandezza tua capir non ponno? Vattene, e turba il sonno a gl’illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa viver ne l’uso de l’antiche genti. 66. Discorsi del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 198 (il passo, già nei giovanili Discorsi dell’arte poetica, ivi, p. 42, ma solo intuitivamente in relazione al coro). Vd. anche gli Estratti dalla ‘Poetica’ del Castelvetro pubblicati da G. Baldassarri, in « Studi tassiani », xxxvi 1988, pp. 93-127: il par. 38, a p. 122. 67. Si legge nella sezione dei cosiddetti Materiali estetici confluita nella Prefazione al Conte di Carmagnola (dove però cade il riferimento all’Aminta); cito da A. Manzoni, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1993, ii p. 1644. 192 un’interpretazione dell’aminta Nel primo coro il poeta è al di sopra del dramma e comunica in modo privilegiato con gli spettatori (o i lettori): il conflitto fra Amore e Onore, fra naturalità della passione e codice di comportamento, è legato idealmente all’universo della Corte – da immaginare in ogni caso come committente e spettatrice – assai piú che alle vicende pastorali di Aminta e Silvia. Il coro del secondo atto (Amore, in quale scola), inno ad Amore che può ricordare (non per riprese puntuali ma per l’idea) il famoso ,Ervw aäniökate maöxan dell’Antigone,68 è la prosecuzione, su un altro piano, dello stesso discorso: qui, attraverso la dichiarazione d’inadeguatezza di ogni filosofia d’amore – avrebbe potuto fornire forse qualche spunto in piú di riflessione a quanti hanno visto nell’Aminta una sorta di manifesto della concezione platonica dell’amore (le oraziane « socratiche carte », la cui lettura vale assai meno di quanto può apprendersi da « due begli occhi », vv. 1176-77) –, l’autore celebra la “naturalità” e l’“istintività” del desiderio.69 Che l’idea fosse per Tasso tutt’altro che passeggera è provato, oltre che da un breve ciclo “pastorale” di sonetti giovanili (i protagonisti sono Fillide, Tirsi, Aminta. . .),70 dalla presenza del motivo dell’invito al piacere associato a « l’antica e senza fren libera gente » dei « secoli de l’oro » che si legge nel canto xv della Liberata, dove sono descritte le peccaminose lusinghe del giardino di Armida: versi che nel 1573 erano con ogni probabilità già stati scritti.71 Ma nell’ideologia del poema eroico il canto del piacere può essere affidato solo a creature malefiche che tentano di distogliere i 68. Cfr. Sofocle, Antigone, vv. 781-805. Daniele, Sull’‘Aminta’, cit., p. 138, suggerisce pure un confronto con il coro Amor, che nei leggiadri alti pensieri della Sofonisba di Trissino (vd. Sofonisba, vv. 1418-67, in Teatro del Cinquecento, cit.). 69. Gli altri tre cori, di brevissima estensione, sono invece un’esplicita riflessione sugli avvenimenti della favola. 70. Vd. Rime, 362-69, in partic. 364, vv. 5-8: « Ben face al mondo ed a se stesso oltraggio / chi con leggi d’onore invidia e toglie / i diletti del senso: oh, non t’invoglie / d’imaginata gloria un falso raggio »; 366, vv. 5-8: « Godiamo amando, e un dolce ardente zelo / queste gioie notturne in noi rinnove; / tema il vulgo i suoi tuoni, e porti altrove / fortuna o caso il suo fulmineo telo »; 368, vv. 5-6: « facciam, godendo, in terra un paradiso; / e viviam lieti i bei fioriti giorni ». 71. Cfr. Lib., xiv 62-64, xv 62-64, xvi 14-15 (per la citaz. cfr. xv 63 4-5; seguo il testo di L. Caretti, Milano, Mondadori, 19792). 193 claudio gigante crociati dal loro dovere, laddove i primi due cori dell’Aminta (e massimamente il primo, per parafrasare Manzoni) sono un canto sciolto dal peso di qualsivoglia sovrastruttura. 4. Il motivo della Corte è di primaria importanza: non mi riferisco soltanto ai luoghi dov’è esplicitamente ricordata – e in modo particolare al controverso episodio di Mopso – ma alla circostanza che l’Aminta nasceva per la Corte e nel contempo della Corte era un favoloso riflesso. Gioco cortigiano e specchio ustorio di inquietudini, la favola pastorale di Tasso ha conosciuto due modi distinti di ricezione: il primo ha riguardato il solo universo estense, capace di decifrare ogni allusione e di sorridere con convinzione dietro a battute e canti libertini travestiti da innocenza pastorale; il secondo coinvolge e ha coinvolto, con gradi, nel corso dei secoli, non omogenei di consapevolezza, il pubblico estraneo al microcosmo della Ferrara del tempo. Detto ciò, non è il caso di dimenticare che l’Aminta è una magnifica favola in versi di un autore letteratissimo e per giunta ferrato come pochi in questioni di poetica: non può, e soprattutto non deve, essere ridotto a una pista cifrata con relativa caccia al tesoro di un’unica chiave interpretativa; “sovrainterpretare” può essere un errore, ma “subinterpretare”, come talora è avvenuto, sarebbe imperdonabile. L’ambiguità dell’Aminta è destinata a restare tale, come in un testo ermetico; non si tratta di trovare un significato per ogni segno – che vorrebbe dire ridurre il testo a una dimensione monosemica che non gli è propria – ma di accettarne la natura volutamente sfuggente. Vi sono informazioni che Tasso non si limita a suggerire, ma che addirittura impone: Tirsi, Licori, Elpino sono figure su cui l’autore non vuole nascano dubbi. È il testo stesso che offre elementi, finanche minuziosi, per identificarli, e non certo per caso. Lo stesso può dirsi per il dio, per l’« uom d’aspetto magnanimo e robusto »: omaggio dovuto al duca e d’altra parte poeticamente autorizzato dal precedente virgiliano. Trascurando le comparse (Batto, Fillide, Alfesibeo, Nerina), per le quali l’identificazione poteva essere ipotetica e ininfluente, dato il loro statuto, già per il pubblico estense, si può all’àmbito dei personaggi di Corte ragionevolmente annettere anche Dafne, i cui 194 un’interpretazione dell’aminta duetti con Tirsi potevano essere il riflesso di consuetudini il cui grado ci sfugge. Al pubblico di Corte – che fossero gli spettatori della misteriosa Prima di Ferrara, se, come credo, vi fu, o gli ascoltatori di una lettura recitata del testo (ipotesi mai presa in considerazione, eppure plausibile, se si considerano le letture al cospetto del duca dei canti della Gerusalemme) o, infine, semplicemente, i lettori privilegiati di carte manoscritte in un primo momento a circolazione ristretta – era proposta una favola pastorale che oltre a omaggiare, come d’obbligo, Alfonso II, giocava sia con il segretario di stato, il Pigna – debitamente incensato (addirittura celebrato come novello Ariosto, circondato dalle Muse), ma nel contempo rappresentato nei panni dell’autore di versi amorosi per la damigella di Eleonora d’Este, Lucrezia Bendidio –,72 sia con il Tasso stesso, autore di rime per Lucrezia che tutti conoscevano, sia con la dama, moglie di Paolo Machiavelli e, a quel che si legge, « amante di Luigi [d’Este] e oggetto, pare, anche dei desideri di Alfonso II »,73 sia infine con Dafne, di chiunque si trattasse. L’omaggio al padrone della città-stato si fondeva con una piccola rete di riferimenti alle galanterie di Corte, che costituisce la superficie godibile del testo. Come ogni favola che si rispetti, non mancano i cattivi. E, tanto per essere chiari, vi è pure un lupo che attenta alla bella cacciatrice. Oltre a lui, è in scena il Satiro (con impulsi bestiali e fattezze piú o meno umane) ed è evocato Mopso. In termini diversi entrambi rappresentano valori antitetici rispetto alla Corte. Il piú pericoloso è Mopso, perché veste i panni del « saggio » (v. 548), epiteto che è concesso solo a Elpino (ben tre volte: vv. 274, 1318, 1858), ed è dunque di apparenze e modi rispettabili. È un dotto « ch’intende il parlar de gli augelli / e la virtú de l’erbe e de le fonti » (vv. 550-51), come dice Aminta, a cui Tirsi risponde (vv. 552-59): 72. I versi del Pigna per Lucrezia formano la raccolta Il ben divino, giunta alle stampe solo nel secolo scorso: vd. l’ed. a cura di N. Bonifazi, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1965. Sugli amori del Pigna e Lucrezia vd. Solerti, Vita, cit., i pp. 168-72. 73. Graziosi, op. cit., p. 35 (e vd. Solerti, Vita, cit., i pp. 173-76). In generale cfr. anche A. Solerti, Ferrara e la Corte estense nella seconda metà del secolo decimosesto. I discorsi di Annibale Romei gentiluomo ferrarese, Città di Castello, Lapi, 1900. 195 claudio gigante Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso c’ha ne la lingua melate parole, e ne le labra un amichevol ghigno, e la fraude nel seno, ed il rasoio tien sotto il manto? Or su, sta di bon core, che i sciaurati pronostichi infelici ch’ei vende a’ mal accorti con quel grave suo supercilio non han mai effetto. È un dotto borioso, come denota il « grave suo supercilio », che incarna, ai limiti della caricatura, la figura dell’ipocrita: sorride in modo amichevole e falso, pronto a colpire alle spalle e, all’occorrenza, a pronunciare profezie di malaugurio. A ben vedere, si tratta di un dotto messo alla berlina, il cui sapere, se davvero è tale (è difficile misurare in profondità il paragone implicito con l’Eleno virgiliano, che conosceva « volucrum linguas » e che, in piú, però, azzeccava i pronostici: Aen., iii 361), è per lui occasione di assumere un contegno ridicolo. Petrarca, in pagine che Tasso probabilmente conosceva, scriveva che nessuno considera ormai chi siano stati i grandi filosofi antichi – eloquenti e dal tratto gentile –, ma si onorano piuttosto dei noiosi dall’aria severa: « Sic iam sola philosophantis infantia et perplexa balbuties, uni nitens supercilio atque oscitans, ut Cicero vocat, sapientia in honore est ».74 È dunque quello di Mopso il ritratto di un pedante noioso, un uomo dappoco (come l’omonimo pastore dell’ottava ecloga virgiliana), che, forse per invidia, parla male di un luogo invece magnifico, la Corte, cercando di persuadere Tirsi a cambiare strada (vv. 577-603): va su l’avviso, e non t’appressar troppo ove sian drappi colorati e d’oro, e pennacchi e divise e foggie nove; ma sopra tutto guarda che mal fato o giovenil vaghezza non ti meni al magazzino de le ciancie: ah, fuggi, fuggi quell’incantato alloggiamento. [. . .] 74. F. Petrarca, De sui ispsius et multorum ignorantia, ii 15: cito dall’ed. a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1999, p. 184. 196 un’interpretazione dell’aminta Quivi le mura son fatte con arte, che parlano e rispondono a i parlanti: né già rispondon la parola mozza, com’Eco suole ne le nostre selve, ma la replican tutta intiera intiera: con giunta anco di quel ch’altri non disse. I trespidi, le tavole e le panche, le scranne, le lettiere, le cortine, e gli arnesi di camera e di sala han tutti lingua e voce: e gridan sempre. Quivi le ciancie in forma di bambine vanno trescando, e se un muto v’entrasse, un muto ciancerebbe a suo dispetto. La strategia retorica adottata è quella – già sperimentata a quest’altezza cronologica – che nel quarto canto della Liberata è utilizzata per il concilio infernale: lí una cornice di scarsa credibilità circonda la figura di Plutone in modo da rendere prive di peso, e in ogni caso ben contestualizzate, le gravissime accuse lanciate contro Dio e i crociati; qui avviene qualcosa di analogo: a Mopso, un personaggio presentato come superbo e odioso, sono attribuite frasi oltraggiose di segno opposto ai sentimenti di gratitudine provati da Tirsi, che ha sperimentato quanto « felice » sia l’« albergo » e quanto « magnanimo » chi vi regna.75 È qui che Tirsi-Tasso ha iniziato il suo canto epico, subendo le capacità malefiche di Mopso (vv. 644-49): Udimmi Mopso poscia; e con maligno guardo mirando affascinommi: ond’io roco divenni, e poi gran tempo tacqui: quando i pastor credean ch’io fossi stato visto dal lupo, e ’l lupo era costui. 75. Nei versi si avverte un curioso mélange fra linguaggio comico (vd. Ariosto, I Suppositi, a. i sc. 1: « [Nutrice:] – Credo che in casa nostra sino le lettiere e le casse e gli usci abbiano li orecchi –. [Polinesta] – E bigonciuoli e pentole l’hanno similmente – »; ma è luogo tipico della tradizione comica: cfr. Daniele, Sull’‘Aminta’, cit., p. 142) e tono da invettiva (che riecheggia uno dei sonetti antiavignonesi di Petrarca: « Per le camere tue fanciulle e vecchi / vanno trescando, e Belzebub in mezzo / co’ mantici e col foco e co li specchi », Canz., cxxxvi 9-11). 197 claudio gigante Anche Tirsi, come avviene a Silvia, riesce a sopravvivere alle insidie di un lupo. Un dilemma secolare circonda la figura di Mopso. A partire dal commento di Ménage – che raccolse senza accogliere (parafraso il gioco di parole di Carducci) un parere di « Giovan Capellano », ossia Jean Chapelain, il famoso prefatore dell’Adone –76 si è avanzato il nome di Sperone Speroni, con cui Tasso, dopo il discepolato patavino, ebbe rapporti difficili: sarebbe dunque lui non solo ad avere invidiosamente sconsigliato a Tasso di andare a Ferrara, ma ad aver formulate critiche tali al poema di Goffredo da riuscire per qualche tempo a rendere l’autore, per lo scoraggiamento, metaforicamente muto. Il dato che l’episodio di Mopso manchi nelle prime stampe del testo (affiora per la prima volta nella seconda Aldina del 1581) per poi apparire in modo intermittente nelle edizioni che precedono l’Aldina del ’90, è stato allora spiegato da Sozzi con il « vario volgere degli umori del Tasso nei confronti dello Speroni »77 e legato alle vicende della revisione della Gerusalemme, di cui il padovano fu aspro censore. Piuttosto diffusa, a tal proposito, è l’idea che la prima rappresentazione dell’Aminta fosse priva dell’episodio come di parte o di tutti i cori:78 ma in realtà, in mancanza di autografi, la questione resta aperta. E va da sé che l’altalenante assenza dell’episodio di Mopso – presente peraltro nei manoscritti piú antichi della favola del 1577 e ’79 –79 si può spiegare con ragioni di cautela, che riguardano il personaggio alluso, forse, o – come ritengo – con l’argomento dei versi. L’ipotesi Speroni sembra calzante con l’occhio alla tormentata revisione del poema epico, ma si scontra con altri elementi: in primo luogo, come si diceva, non è provabile che l’episodio mancasse dall’inizio; in secondo luogo, come ha rilevato Daniele, ancora in lettere del 1576, 76. Cfr. Ménage, ed. cit., pp. 188-89 (e vd. Carducci, op. cit., pp. 246-47); quanto al Chapelain, la sua Lettre ou discours [. . .] sur le poème d’Adonis si legge oggi nell’ed. a cura di G. Pozzi, Milano, Adelphi, 19882, i pp. 11-45. 77. Sozzi, Studi sul Tasso, cit., p. 45. 78. È la tesi di Solerti, Vita, cit., i p. 185, poi molte volte replicata. 79. Per una nuova ricognizione, dopo lo studio di Sozzi vd. Trovato, op. cit. 198 un’interpretazione dell’aminta Tasso sembra, se non in sintonia, in rapporti cordiali con il vecchio maestro.80 Mi sembra, tuttavia, che le altre identificazioni proposte siano al paragone meno plausibili: si è infatti ritenuto che Mopso debba raffigurare un personaggio di Corte e si sono formulate ipotesi correlate a tale assunto. Il già ricordato Chapelain, sempre per bocca del Ménage, aveva avanzato anche il nome di Francesco Patrizi,81 autore parecchi anni dopo del Parere in difesa dell’Ariosto (e contro Tasso): ma la candidatura non ha nessuna motivazione né risulta che all’epoca il filosofo fosse un nemico di Tasso. Fontanini, non disposto « per modo veruno » ad acconsentire né a Speroni né a Patrizi, pensava si trattasse del Pigna, arrivando a dubitare della identificazione – davvero indubitabile – di costui con Elpino.82 Solerti, seguendo un suggerimento di Ménage, connetteva il « grave » « supercilio » di Mopso con la lettera indirizzata da Tasso a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, nel pieno tempestoso 1578, dove il poeta parla di un « cattivo consigliero » di Alfonso II che con « la severità del ciglio filosofico » si è guadagnato fama di sapiente e ha congiurato in Corte contro di lui, e riteneva di conseguenza che Mopso potesse essere Antonio Montecatini, filosofo e dal 1575 (morto il Pigna) nuovo segretario ducale, col quale persuasivamente Serassi aveva identificato il « nemico ».83 Ora, a parte che il « ciglio filosofico » è modo di dire antico e diffuso, è improprio stabilire un’equazione di riferimenti tra testi cosí diversi quali una lettera privata e una favola pastorale: si tratta di una coincidenza che, come ha osservato Bruno Basile, non prova nulla.84 Ma soprattutto è difficile sbarazzarsi – che si consideri Patrizi, il Pigna o 80. Vd. Daniele, T. Tasso e S. Speroni, cit., p. 184, e Lettere, cit., nn. 53 e 68. 81. Ménage, ed. cit., pp. 188-89. 82. Fontanini, Aminta difeso e illustrato, cit., pp. 375-76. 83. T. Tasso, L’‘Aminta’ annotata per cura di A. Solerti, Torino, Paravia, 1901, p. 195 (per l’interpretazione della lettera vd. Serassi, La vita, cit., i p. 261). L’ipotesi di Solerti è stata di recente rilanciata da D. Chiodo, Il « supercilio » di Mopso non cela Speroni: alle radici di un equivoco, con qualche riflessione, in « Giornale Storico della Letteratura Italiana », vol. clxxvii 2000, fasc. 578 pp. 273-82. 84. Vd. l’ed. Basile cit., p. 40. Basile, come la gran parte dei commentatori moderni, propende per la tradizionale identificazione con Speroni. 199 claudio gigante Montecatini – di un dato testuale piuttosto ingombrante: Tirsi racconta che – desideroso di rendersi dove « siede la gran cittade in ripa al fiume » (v. 570), cioè a Ferrara, giusta lo stilema ariostesco –85 ne ha fatto « motto » con Mopso, che gli ha descritto la città e la Corte nei termini che sappiamo. È proprio l’estraneità di Mopso che permette all’autore di lasciargli pronunciare giudizi cosí pesanti. Mopso è l’escluso invidioso che, costretto a restare fuori le mura, ne parla male. Se si vuole identificare a ogni costo Mopso con qualcuno, il suo profilo deve essere quello di un estraneo al mondo estense; estraneo, ma non al punto da non poterne parlare: fra i candidati proposti Speroni – che qualche anno dopo, nel 1576, brigava invano per essere assunto a Ferrara –86 è l’unico che presenta questi tratti. Esiste un’ipotesi diversa, fondata su un presupposto diverso, che non credo sia mai stata avanzata e verso la quale propendo: Mopso può essere l’incarnazione di un “tipo” (l’escluso invidioso, cattivo consigliere, ipocrita e maledico) che non corrisponde a nessuno in particolare. In tale ottica le parole del personaggio sarebbero state censurate in alcune stampe per il loro contenuto e non per la persona a cui sono attribuite. Che Tirsi-Tasso prenda le distanze da lui, accusandolo di averlo reso muto (potere che, secondo un luogo comune bucolico, era proprio dei lupi), è d’altronde naturale e anche un po’ sospetto: con la maschera di Mopso Tasso ha messo in scena il lato oscuro della Corte, teatro di intrighi e di « ciancie », luogo di uno splendore apparente che si rivela una terribile illusione, primo controcanto che il testo offre dell’età dell’oro (« Ciò che diamante sembra ed oro fino, / è vetro e rame; e quelle arche d’argento / che stimeresti piene di tesoro / sporte son piene di vesciche bugge », vv. 587-90). Ser85. Come osserva Basile, ed. cit., che rinvia a Fur., iii 34 2: « la bella terra che siede sul fiume ». 86. Come si evince da Lettere, cit., nn. 66 e 84, i pp. 169 e 215 (la prima al Gonzaga, la seconda allo Scalabrino, risp. del 24 apr. e del 29 lug. 1576): vd. inoltre Solerti, Vita, cit., i pp. 227-29, e Daniele, T. Tasso e S. Speroni, cit., p. 184. Non si può escludere che il desiderio di acquisire prestigio divenendo cortigiano estense (un’ambizione in fondo naturale per un letterato della vicina Padova) fosse piú antico della prima attestazione esplicita nell’epistolario tassesco. 200 un’interpretazione dell’aminta gio Zatti ha in proposito parlato, in termini convincenti, di « tecnica del contrappunto », che « rende ambiguo ogni encomio e reversibile ogni smentita, sortendo effetti di relativizzazione ideologica [. . .]; al colto edonismo della Corte estense si contrappone la società corrotta descritta da Mopso ».87 Piú che essere l’antitesi di Tirsi, Mopso ne è la controfaccia (cosí come il Satiro non è altro, in fondo, che la proiezione degli inconfessabili desideri di Aminta): è l’altra maschera dell’autore, quella non ufficiale e non “imposta” dal testo, che celebra e condanna la Corte di delizie e sofferenze. 5. Mopso è un estraneo bilioso, un Manfurio cattivo, ma dalle apparenze rispettabili e ingannatrici. Il Satiro è un altro genere di “diverso”: è rozzo e brutto, è povero (a differenza dei suoi omologhi nelle pastorali precedenti),88 è tutto istinto. È un decaduto, affine al Plutone della Liberata,89 che non sublima i propri istinti, ma li segue, privo com’è del filtro della civiltà e, dunque, della Corte. Il suo è il secondo controcanto, dopo quello di Mopso, alla visione “aurea” del mondo dei pastori: « e veramente il secol d’oro è questo, / poiché sol vince l’oro e regna l’oro » (vv. 780-81).90 Escluso dalla ricchezza, privo di bellezza, disdegnato per il suo aspetto ferino (opposto ai « tenerelli » effeminati che popolano le selve), il Satiro è tuttavia l’unico che può ricorrere alla violenza senza provare vergogna, anzi con l’aria di rivendicare un diritto (vv. 795-805): Ma perché in van mi lagno? 91 Usa ciascuno quell’armi che gli ha date la natura 87. S. Zatti, Natura e potere nell’‘Aminta’, nel vol. T. Tasso quattrocento anni dopo, a cura di A. Daniele e F.W. Lupi¸ Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997, pp. 11-24, a p. 15. 88. Vd. Bruscagli, op. cit., pp. 291-301, nonché O. Garraffo, Il satiro nella pastorale ferrarese del Cinquecento, in « Italianistica », xiv 1985, pp. 231-48. 89. Cfr. Aminta, vv. 762-66: « Questa mia faccia di color sanguigno, / queste mie spalle larghe, e queste braccia torose e nerborute, e questo petto / setoso, e queste mie velate coscie / son di virilità, di robustezza / indicio [. . .] », e Lib., iv 7. 90. Reminiscenza ovidiana, com’è noto: « Aurea sunt vere nunc saecula: plurimus auro / venit honos, auro conciliatur amor » (Ars amandi, ii 277-78). 91. Anche in questo caso è proficuo un riscontro col Plutone della Liberata (iv 11 1 e 16 1). 201 claudio gigante per sua salute: il cervo adopra il corso, il leone gli artigli, ed il bavoso cinghiale il dente; e son potenza ed armi de la donna bellezza e leggiadria; io, perché non per mia salute adopro la violenza, se mi fe’ Natura atto a far violenza ed a rapire? Sforzerò, rapirò quel che costei mi niega, ingrata, in merto de l’amore. Si sa che Tasso a modo suo riforgiava una figura che aveva già calcato le scene pastorali ferraresi, divenendo nella favola di Beccari un violento velleitario destinato allo scacco. Come si è già detto, nell’Egle di Giraldi Cinzio il Satiro difende, dialogando con il Fauno, l’opportunità della violenza sessuale negli stessi termini con cui Tirsi (e prima di lui Dafne) cerca di giustificare l’atto di forza. Aminta, non ostanti svenevoli smancerie, si lascia convincere da Tirsi a tentare di sorprendere Silvia mentre nuda fa il bagno. Il Satiro è piú lesto ed è già al lavoro: ha legato Silvia e si appresta a possederla. L’arrivo di Aminta (e di Tirsi, voyeur discosto che assiste alla scena per poi raccontarla al pubblico) segna il fallimento del piano del Satiro. Silvia, slegata in parte da Aminta, lo respinge sprezzantemente e va via. Il Satiro rappresenta il lato oscuro, demoniaco, di Aminta: è pronto a mettere in pratica, salvo problemi di forza maggiore, quello che il pastore appena osa desiderare. Grazie alla sua condizione di estrema prostrazione – povero, emarginato e solo – il Satiro si rende promotore di quei diritti indifendibili che con sottigliezze e giri di parole sono difesi dallo stesso Tirsi, la controfigura ufficiale dell’autore, mentre persuade Aminta a sorprendere Silvia: « Perché dunque non osi oltra sua voglia / prenderne quel che, se ben grava in prima, / al fin, al fin le sarà caro e dolce / che l’abbi preso? » (vv. 1100-3). Ha osservato Maria Luisa Doglio, in forme che chi scrive condivide pienamente: « il Satiro [. . .] potrebbe persino celare, in un effetto di ulteriore sdoppiamento, una voce polemica rude, “bassa” – in contrappunto a quella piú “alta”, allusiva e ammiccante affidata a Tirsi – per esprimere un disagio impossibile a dirsi apertamente da parte di Tirsi, maschera del 202 un’interpretazione dell’aminta Tasso ».92 Come Plutone arringando i suoi demoni denuncia la prepotenza di Dio, in termini accettabili, per i tempi, solo perché espressi da « il gran nemico de le umani genti » (Lib., iv 1 3), cosí il Satiro contesta le regole della civiltà93 e della repressione degli istinti, a suo modo intonando anche lui un sincerissimo e coerente S’ei piace, ei lice. Quanto detto dovrebbe contribuire, almeno è quel che spero, a sfatare il mito di una stagione “armoniosa” di Tasso seguita da una “folle” e disordinata: nell’Aminta i germi dell’inquietudine, della rivolta sono già lí, insieme a una complessità di sentimenti in odore di conflitti (reali, non psicotici) tutt’altro che risolti. 6. È stato piú volte osservato che l’Aminta è una tragedia mancata:94 Aminta tenta il suicidio e si salva fortunosamente, Silvia, pentita, votata ormai alla morte (« dimostra / d’esser disposta a l’ultima partita », commenta il Nuncio: vv. 1825-26), trova invece stordito, ma vivo, il pastore; dalle morti annunciate si arriva all’annuncio del matrimonio. La peripezia non approda a una catastrofe bensí a uno scioglimento lieto: ma il movimento del testo verso l’esito tragico mancato trasmette una sensazione di inquietudine, di « ambigua armonia »,95 che in forme e sensibilità diverse è stata tante volte rimarcata dalla critica. Com’è noto, Tasso ha ricalcato la favola ovidiana di Piramo e Tisbe (Met., iv 55-166), che il padre aveva da par suo messo in versi, salvo mutarne il finale: Piramo, credendo, dopo aver raccolto il suo velo insanguinato, che l’amata Tisbe sia stata sbranata da una leonessa, di92. M.L. Doglio, Origini e icone del mito di T. Tasso, Roma, Bulzoni, 2002, p. 21. Spostando l’attenzione dall’autore al pubblico, Zatti, Natura e potere nell’‘Aminta’, cit., p. 20, vede nel Satiro « la figura per eccellenza della rimozione, l’unica in cui nessuno dei cortigiani potrebbe identificarsi e che invece incarna il desiderio frustrato di tutti ». 93. Una lettura “politica” del ruolo del Satiro, ideologicamente affascinante anche se solo a tratti condivisibile, si deve a E. Fenzi, Il potere, la morte, l’amore, in « L’immagine riflessa », iii 1979, pp. 167-248. Difficilmente sottoscrivibile è l’ipotesi di Graziosi, op. cit., pp. 109-18, che il Satiro dell’Aminta sia allusione a qualcuno dei numerosi « Satiri ferraresi » di Corte. 94. Vd. soprattutto G. Bàrberi Squarotti, La tragicità dell’‘Aminta’, in Id., Fine dell’idillio. Da Dante a Marino, Genova, Il Melangolo, 1978, pp. 139-73; nonché Id., Prodromi del tragico tassiano, in T. Tasso e la cultura estense, cit., iii pp. 941-55. 95. L’espressione è stata coniata da Da Pozzo per il suo studio cit. 203 claudio gigante sperato si uccide; Tisbe, trovato morto Piramo, si toglie la vita con lo stesso pugnale.96 Nel caso dell’Aminta, siamo di fronte a un’evoluzione del tema: non la morte è causa di morte, ma la creduta (non avvenuta) morte di Aminta è causa potenziale (non effettiva) della morte di Silvia. Il tema della “creduta morte” aveva nel Cinquecento conosciuto una rielaborazione destinata a straordinaria fortuna (da Matteo Bandello al Romeo and Juliet di Shakespeare), la Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti di Luigi da Porto, pubblicata, morto l’autore, intorno al 1530: ma in questi casi da una morte fasulla si passa a due morti vere. L’antecedente della soluzione narrativa dell’Aminta, come segnalavo anni fa,97 si legge nel solo libro godibile e leggero, il terzo, dell’Italia liberata dai Goti, dove Trissino, narrando l’amorosa storia di Giustino e Sofia,98 rimodula il tema non limitandosi a un generico lieto fine, ma destinando i protagonisti alle nozze. Da potenziale congegno di morte l’equivoco, in Trissino come in Tasso, è il preludio per il matrimonio. Racconta Elpino (vv. 1878-86): una dolente imagine di morte gli recò vita e gioia. Egli [Aminta] or si giace nel seno accolto de l’amata ninfa, quanto spietata già, tanto or pietosa; e le rasciuga da’ begli occhi il pianto con la sua bocca. Io a trovar ne vado Montano, di lei padre, ed a condurlo colà dov’essi stanno; e solo il suo 96. Un’analisi del « nucleo » ovidiano dell’Aminta si deve a La Penna, art. cit., pp. 1172-74, e a C. Scarpati, Tasso, i classici e i moderni, Padova, Antenore, 1995, pp. 75-104. 97. Nel cap. su Trissino (pubblicato in prima versione nel 1998) del mio libro Esperienze di filologia cinquecentesca. Salviati, Mazzoni, Trissino, Costo, il Bargeo, Tasso, Roma, Salerno Editrice, 2003, partic. pp. 69-76. 98. In breve: Giustino (nipote di Giustiniano), imbarcatosi per Durazzo, dove l’attende Sofia, fa naufragio insieme al suo equipaggio, ma si salva. Sofia lo crede morto e beve del veleno; Giustino, salvato dal medico Elpidio, decide di finire la sua vita accanto all’amata che ritiene morta; ma anche lei è salvata da Elpidio: i due si recano al Palazzo imperiale per essere uniti in matrimonio. L’argomento diede materia al Giustino di Metastasio (Napoli, Muzio, 1717). 204 un’interpretazione dell’aminta volere è quel che manca, e che prolunga il concorde voler d’ambidue loro. Coronamento del lieto fine, il matrimonio è l’epilogo naturale della vicenda (il « desiato fine » degli amori è una costante delle favole pastorali: dal Sacrificio allo Sfortunato senza dimenticare il Pastor fido) che ha indotto a immaginare che l’Aminta sia da interpretare come un auspicio per nuove nozze di Alfonso II (da poco, morta Barbara d’Austria, era rimasto vedovo per la seconda volta) o per quelle dei giovanissimi Alfonsino e Marfisa d’Este.99 In realtà, crediamo che l’Aminta, come tutti i grandi testi della nostra letteratura, non sia da appiattire su un “messaggio” da decifrare e svelare. La pastorale tassesca è il frutto felice di un periodo creativo straordinario – sono gli anni in cui Tasso porta a compimento la Gerusalemme – che davvero non esige giustificazioni o spiegazioni esterne. 99. Sono le tesi di Da Pozzo, L’ambigua armonia, cit., p. 270, e del libro della Graziosi, cit. 205 questo volume di studi offerti a enrico malato è stato composto con il carattere ‘dante’ e impresso a cittadella (padova) da bertoncello artigrafiche novembre 2006