Classe IV ginnasiale Anno Scolastico 2014-2015

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Classe IV ginnasiale Anno Scolastico 2014-2015
Odisseo,
il viaggio,
la conoscenza:
suggestioni
letterarie
Classe IV ginnasiale
Anno Scolastico 2014-2015
Ἄἔ, ῦύ
Omero


Il presente lavoro nasce dall’entusiasmo e dall’innata curiositas degli studenti della classe IV
ginnasiale del Liceo Montini, i quali, invitati alla lettura del poema omerico “Odissea”, si sono lasciati
affascinare dalla figura del protagonista ed hanno inteso approfondire una serie di tematiche che
emergono dal testo e che ancora oggi interrogano l’uomo contemporaneo.
Esso non ha la pretesa di essere esaustivo, ma vuole offrire delle suggestioni, appunto, spaziando
nella letteratura italiana e non solo, avvolgendo una sorta di filo rosso che attraversa i secoli e
sconfinando, se pur brevemente, nell’arte.
Il personaggio omerico costituisce la figura che è entrata maggiormente nell’immaginario della
cultura occidentale. Egli è l’uomo diventato emblema dell’uomo, per il quale il viaggio, inteso come
percorso di formazione che comporta rischi e conquiste, significa conoscenza e libertà, l’emblema
dell’uomo alla ricerca del suo destino attraverso l’esplorazione di mondi diversi.
Dalle parole dei diversi autori, quindi, emerge tutta la modernità dell’eroe omerico.
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Odisseo NELL'ODISSEA
IL PERSONAGGIO
Odisseo è il protagonista assoluto dell' “Odissea” nonché uno degli eroi greci più celebrati.
Egli non rappresenta solo il valore militare e l’autorità di re e di condottiero, ma un insieme di
caratteristiche legate nei tanti aspetti della vita di un uomo: un legame profondo con la famiglia e con
la propria terra d'origine, la curiosità, l'orgoglio della propria intelligenza e l'esperienza dei limiti
imposti dalla condizione umana.
Inoltre, è un “uomo di molte risorse”: l' astuzia, la tenacia e la pazienza, l’ intelligenza, l’abilità nel
parlare, il senso di responsabilità e la sete di conoscenza.
Odisseo mette in campo la sua astuzia e la sua intelligenza soprattutto nelle situazioni difficili, quando
è costretto a lottare per la sua vita o per quella dei suoi compagni.
Un esempio molto evidente è quello del Ciclope.
Una volta arrivato da Polifemo, dopo essere stato rinchiuso insieme ai compagni nella grotta del
Ciclope, Odisseo ordina ai compagni di appuntire la punta di un tronco, da utilizzare per accecare il
gigante dopo averlo fatto ubriacare; nel frattempo l’eroe fa credere al Ciclope di chiamarsi Nessuno,
in modo che, se per caso Polifemo dovesse chiamare aiuto, gli altri ciclopi penserebbero che nessuno
gli sta facendo del male e non si preoccuperebbero.
La sua sete di conoscenza invece è il motore iniziale del viaggio, perché Odisseo ha talmente voglia
di conoscere nuovi luoghi o fare nuove esperienze che rinuncia a ritornare a casa subito dopo la guerra
di Troia.
Questa traspare nell’episodio delle Sirene, in cui Odisseo, pur di riuscire a sentire il famoso e fatale
canto, tappa le orecchie ai suoi compagni con la cera e si fa legare all’albero della nave.
Odisseo però è anche un uomo che prova tanto amore sia per la sua patria che per i suoi compagni.
L’amore per la patria sarà la caratteristica che lo farà resistere ai dolori e alle difficoltà; si può notare
soprattutto nell’episodio di Calipso, quando arriva Ermes sull’isola Ogigia e vede Odisseo che,
nonostante si trovi in un’isola meravigliosa con una dea stupenda, è seduto sulla scogliera e piange
guardando l’orizzonte e sospirando la sua casa.
L’amore per i compagni è evidenziato soprattutto in due episodi, ossia nell’episodio di Circe, quando
la maga fa prigionieri i compagni e lui, piuttosto che abbandonarli, accetta di tradire la moglie con la
maga pur di riuscire a liberarli.
L’altro è l’episodio di Scilla e Cariddi, quando Scilla, il mostro a sei teste, cerca di divorare i
compagni dell’eroe e, nonostante Circe gli abbia raccomandato di non cercare di combattere contro
il mostro, lui lo fa lo stesso solo per provare a salvare i suoi compagni.
Insomma Odisseo è un eroe non per la sua forza fisica ma per la sua grande forza d’animo e la sua
intelligenza.
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IL POEMA
L' “Odissea” è un poema epico scritto tra il IX e l'VIII secolo a.C. e attribuito dalla tradizione ad
Omero, autore anche dell' “Iliade”.
Il titolo del poema significa “poema di Odisseo” e narra il travagliato ritorno in patria di Odisseo,
uno dei condottieri Achei che ha partecipato alla guerra di Troia.
L'eroe è anche noto come Ulisse.
La prima parte del poema racconta le avventure vissute dal protagonista durante il suo lungo viaggio
durato quasi dieci anni; la seconda parte narra l'arrivo del protagonista nella sua terra, Itaca, e la sua
riconquista della casa e del regno.
OMERO E LA QUESTIONE OMERICA
Secondo la tradizione l' “Odissea” fu scritta, come l' “Iliade”, da Omero, il leggendario poeta che
sarebbe vissuto tra il IX e l'VIII secolo a.C.
La “questione omerica” non riguarda solamente la discussione sul fatto che sia o meno esistito un
poeta di nome Omero, ma anche l'attribuzione dei due poemi ad un unico autore.
Già nell'epoca Ellenistica, i filosofi espressero dubbi sul fatto che i poemi potessero essere opera dello
stesso autore ed ipotizzarono che solamente l' “Iliade” fosse stata scritta da Omero.
La questione venne messa da parte per secoli, ma il dibattito si riaccese verso la metà del Seicento,
quando l'abate francese D'Aubignac sostenne che i poemi erano una composizione di canti distinti
l'uno dall'altro e che Omero non era mai esistito.
Questa posizione poi fu ripresa dal filosofo italiano Gian Battista Vico.
Da allora gli studiosi di letteratura antica si divisero in due posizioni:
•
Gli UNITARI che sostenevano che i due poemi sono opera di un unico autore, il quale li
avrebbe scritti rielaborando materiali di una lunga tradizione orale.
A sostenere questa ipotesi ci sono la somiglianza della struttura e la continuità di argomento.
•
I SEPARATISTI che sostenevano la tesi opposta, sottolineando le differenze tra i due poemi.
Alcuni aspetti dell' “Odissea”, infatti, suggeriscono che sia stata scritta in un’ epoca più tarda.
Questa questione rimane ancora oggi irrisolta.
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L’eroe modello della tensione umana al sapere
Cicerone, De finibus honorum et malorum V, XVIII, 48-49
XVIII. [48] Tantus est igitur innatus in nobis cognitionis amor et scientiae, ut nemo dubitare possit
quin ad eas res hominum natura nulla emolumento invitata rapiatur. [49] [Ut] mihi quidem Homerus
huius modi quiddam vidisse videatur in iis, quae de Sirenum cantibus finxerit. Neque enim vocum
suavitate videntur aut novitate quadam et varietate cantandi revocare eos solitae, qui
praetervehebamtur, sed quia multa se scire profitebantur, ut nomine ad earum saxa discendi cupidi
tate adhaerescerent. Ita enim invitant Ulixem.
Dunque, è così innato in noi il desiderio di imparare e di conoscere, che nessuno può dubitare che la
natura dell’uomo ne è attirata senza il richiamo di alcun vantaggio materiale […] Sicché sono
convinto che Omero intendesse una cosa di questo genere, quando compose l’episodio del canto delle
Sirene. L’impressione, infatti, è che esse solevano attirare i naviganti non con le voci carezzevoli o
con la novità e la varietà del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, sicché gli uomini
restavano attaccati ai loro scogli per desiderio di conoscenza. In questo modo, infatti, attirano Ulisse.
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L’eroe modello di virtù e di sapienza
Orazio, “Epistole”, I, 2, 17-20
[…] quid virtus et quid sapientia possit,
utile proposuit nobis exemplar Ulixen,
qui domitor Troiaemultorum providus urbes,
et mores hominum inspexit, latumque per aequor,
dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa
pertulit, adversis rerum inmersabilis undis.
[…] simbolo ed esempio del potere della virtù sugli uomini, Ulisse, che fu il vincitore di Troia, il
savio, che conobbe molte città e costumi di uomini, e navigò per tanta distesa di mare, attraverso tante
pene, in cerca del ritorno, per sé e per i suoi, e non doveva affondare tra i marosi del mondo nemico.
COMMENTO
Orazio e Cicerone descrivono il re di Itaca come un uomo assetato di conoscenza, Ulisse è il
viaggiatore per antonomasia, il prototipo dell’uomo occidentale, continuamente alla ricerca di sé
stesso e del sapere.
Cicerone interpreta l’episodio dell’incontro con le Sirene come metafora dell’innato desiderio degli
uomini si imparare; esse infatti non attirano Ulisse con la dolcezza del loro canto, ma gli promettono
la conoscenza.
Orazio descrive il protagonista dell’Odissea come un uomo di straordinaria virtù e intelligenza, che
ha sopportato le difficoltà della vita per ottenere la saggezza.
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GLI AUTORI
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino, nei pressi dell' attuale Frosinone, da agiata
famiglia equestre; compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro
sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso e dei due Scevola. Strinse con Tito Pomponio
Attico un' amicizia destinata a durare per tutta la vita. Nell' 81, o forse anche prima, debuttò come
avvocato e nell' 80 difese la causa di Sesto Roscio ( accusato di Parricidio ), che lo mise in conflitto
con autorevoli esponenti del regime sillano . Tra il 79 e il 77 si allontanò da Roma ( forse per paura
di rappresaglie dopo il grande successo della sua orazione a difesa di Roscio ) ed effettuò un lungo
viaggio in Grecia e in Asia dove studiò filosofia e retorica. Al ritorno sposò Terenzia, dalla quale
nacquero Tullia ( che Cicerone appellò affettuosamente " Tulliola " ), nel 76, e Marco, nel 65. Nel 75
fu questore di Sicilia e nel 70 sostenne trionfalmente l' accusa dei Siciliani contro l' ex governatore
Verre, accusato di truffa e di empietà; con questa esperienza Cicerone si guadagnò fama di oratore
principe. Nel 69 fu edile, nel 66 pretore e diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo
poteri straordinari per la lotta contro il re del Ponto Mitridate, facendo così gli interessi degli equites,
che venivano ostacolati nel loro lavoro di esattori delle imposte da Mitridate, ma nello stesso tempo
tutelando anche i suoi stessi interessi, accattivandosi la simpatia del ceto equestre. Nel 63 fu eletto
console e soffocò in modo duro la congiura di Catilina, che aveva cercato di salire al potere in modo
illegale e di stravolgere la res publica: in quest' occasione compose le quattro “Catilinarie”, con le
quali svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella
competizione elettorale: esse, con i loro toni veementi, minacciosi e carichi di pathos, possono essere
considerate il suo capolavoro consolare. Dopo la formazione del primo triunvirato, cui Cicerone
guardava con preoccupazione perché riteneva che potesse essere insidiosa per l' autorità senatoria, il
suo astro iniziò a decadere: nel 58 dovette recarsi in esilio, con l’ accusa di aver messo a morte senza
processo i complici di Catilina e la sua casa venne rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi rientrò
trionfalmente nel 57. Nel 52 Clodio , acerrimo nemico di Cicerone, rimase ucciso e questo fatto pesò
su Milone, il diretto rivale di Clodio; Cicerone assunse le difese di Milone componendo la “Pro
Milone”, una delle sue opere meglio riuscite. Nel 51 fu governatore di Cilicia, pur avendo accettato
a malincuore di allontanarsi da Roma. Allo scoppio della guerra civile ( 49 a.C. ) aderì con scarso
entusiasmo alla causa di Pompeo; dopo la sconfitta di quest' ultimo ottenne il perdono da Cesare.
Negli anni successivi divorziò da Terenzia e si risposò con la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale
tuttavia divorziò dopo pochi mesi. Nel 45 morì la figlia Tullia e in quegli anni iniziò la composizione
di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo teneva distante dalle vicende
politiche. Nel 44, dopo l' assassinio di Cesare, tornò alla vita politica e cominciò la lotta contro
Antonio; pronunciò le “Filippiche” per indurre il senato a dichiarargli guerra e a dichiararlo nemico
pubblico; sono orazioni in cui serpeggia l' odio, dove Antonio viene presentato come un tiranno
assoluto, un ladro di denaro pubblico, un ubriacone. Ma la manovra politica di Cicerone era destinata
a fallire. Con un brusco voltafaccia, Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato e strinse un accordo
con Antonio e un altro capo cesariano, Lepido. Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui
nome venne inserito nelle liste di proscrizione. Fu raggiunto dai sicari presso Formia, dopo che aveva
intrapreso un tentativo di fuga, ai primi di dicembre del 43.
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Quinto Oràzio Flacco nacque a Venosa nel 65 a. C. da padre libertinus, come egli stesso dice, e fu
educato a Roma, dove ebbe come primo maestro Orbilio; compiuti i vent'anni si recò ad Atene, a
completare gli studî retorici. Prima o dopo questo viaggio fu forse in Campania, dove venne in
contatto con il circolo epicureo di Filodemo, in cui compì l'esperienza filosofica che rimase
fondamentale nella sua vita e certamente subì anche l'influsso del poema di Lucrezio. In Atene aderì
al mondo dei giovani romani che vi studiavano e alle idee repubblicane e anticesariane tra loro diffuse;
perciò, dopo l'uccisione di Cesare, militò sotto Bruto come tribunus militum. Dopo Filippi rinunciò
all'idea repubblicana, che rimase per lui solo un ricordo e un sogno della giovinezza. Dalla delusione
morale e politica gli derivò una sottile amarezza che gli rimase poi sempre. Per vivere si adattò al
mestiere di scriba questorio, mentre proseguiva nell'approfondimento della pratica poetica già prima
iniziata. Studiò la diatriba stoico-cinica, i poeti giambici greci, Ipponatte e Archiloco, e in genere la
poesia lirica ellenistica classica e alessandrina. Incontratosi con Virgilio, giunto a Roma dopo
l'esproprio del suo podere mantovano, nel 38 fu da questo e da Vario presentato a Mecenate, con il
quale strinse un'amicizia decisiva per la sua vita. Lo seguì nel viaggio a Brindisi l’anno successivo
per il rinnovo dell'accordo fra Ottaviano e Antonio. Ritornato a Roma, divenne il centro del circolo
poetico che si raccoglieva intorno al potente consigliere di Augusto e Mecenate, comprendendo la
natura schiva dell'amico, gli fece dono, nell'anno 31, di una villa in Sabina, che fu il rifugio e la
consolazione di tutta la vita di Orazio. Tra la Sabina e Roma egli visse poi sempre e, come egli stesso
aveva predetto, non si allontanò dall'amico carissimo neppure nella morte; morì infatti a Roma pochi
mesi dopo Mecenate, il 27 novembre dell’8 a.C, e fu sepolto sull'Esquilino presso il tumulo di lui.
Tra le sue opere si ricordano gli “Epodi”, le “Odi”, le “Satire” e le “Epistole”.
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Dante, “Inferno”, XXVI
Testo
Parafrasi
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Rallegrati, Firenze, perché sei così famosa da
percorrere il mare e la terra, e il tuo nome è
conosciuto persino all'Inferno!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini, tali che
a me viene vergogna e tu certo non acquisti
onore.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai di qua da picciol tempo
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
Ma se vicino al mattino si fanno sogni veritieri,
di qui a poco tempo tu riceverai il castigo che
tutte le città, anche quelle piccole come Prato, ti
augurano.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’più m’attempo.
E se anche accadesse già, sarebbe comunque
tardi. Potesse allora succedere, dal momento che
è inevitabile! Quanto più invecchierò, tanto più
questo castigo mi sarà insopportabile.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;
Noi ci allontanammo e il maestro risalì su quelle
rocce che, prima, ci avevano fatti impallidire a
scendere, e mi portò con sé;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
e proseguendo lungo la via solitaria, il piede non
poteva avanzare senza l'aiuto delle mani tra gli
spuntoni e le schegge della roccia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Allora provai dolore, e lo provo anche adesso
pensando a ciò che vidi, e tengo a freno il mio
ingegno più del solito affinché non agisca senza
la guida della virtù; così che, se un benigno
influsso astrale o qualcosa di più importante (la
grazia divina) mi hanno dato il bene, io stesso
non me lo sottragga.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’é vendemmia e ara;
Quante sono le lucciole che il contadino, quando
si riposa sulla collina nella stagione (estate) in
cui il sole tiene meno nascosta a noi la sua
faccia, nell'ora (la sera) in cui la mosca lascia il
posto alla zanzara, vede giù nella valle dove egli
vendemmia e ara;
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di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
altrettante fiamme risplendevano nella VIII
Bolgia, come io vidi non appena fui là da dove il
fondo era visibile.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
e nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
E come colui (Eliseo) che si vendicò con gli orsi
vide il carro d'Elia che partiva, quando i cavalli
si levarono alti nel cielo, e non lo poteva seguire
con lo sguardo senza vedere altro che la fiamma,
che saliva su come una nuvoletta:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
così sul fondo della Bolgia si muove ciascuna
fiamma, in modo tale che nessuna mostra
l'anima nascosta all'interno, e ogni fiamma cela
un peccatore.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
Io stavo sopra il ponte, proteso per vedere al
punto che, se non mi fossi aggrappato a una
sporgenza rocciosa, sarei caduto in basso senza
essere urtato.
E ’l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
E il maestro, che mi vide così attento, disse:
«Dentro quei fuochi ci sono delle anime; ognuna
è fasciata dalla fiamma che la avvolge».
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
Io risposi: «Maestro mio, ora che ti ascolto ne
sono più certo; ma avevo già intuito che fosse
così e volevo chiederti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».
chi c'è dentro quel fuoco la cui punta è biforcuta,
tanto che sembra levarsi dal rogo funebre dove
Eteocle fu messo col fratello (Polinice)?»
Mi rispose: «Là dentro sono puniti Ulisse e
Diomede, e sono dannati insieme come insieme
commisero i loro peccati;
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
e nella loro fiamma espiano l'inganno del
cavallo di Troia che aprì la porta da cui uscì il
nobile seme dei Romani.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
Vi è punito anche l'imbroglio per cui Deidamia,
anche se è morta, ancora si rammarica di
Achille, e si sconta anche il furto del Palladio».
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego e
ripriego, che ’l priego vaglia mille, che non mi
facci de l’attender niego fin che la fiamma
Io dissi: «Se essi in quelle fiamme possono
parlare, maestro, ti prego con insistenza e ti
prego ancora, così che la preghiera valga per
mille, che tu non mi neghi di aspettare che
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cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi quella fiamma a due punte venga qui; vedi che
piego!»
mi piego verso di essa dal desiderio!»
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
E lui a me: «La tua preghiera è degna di grande
lode, e perciò io la accetto; ma dovrai tenere a
freno la tua lingua.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’é fuor greci, forse del tuo detto».
Lascia parlare me, dal momento che so bene
quello che vuoi; infatti essi, essendo stati greci,
potrebbero essere restii a rivolgerti la parola».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
Dopo che la fiamma fu giunta nel punto in cui al
mio maestro parve opportuno il tempo e il
luogo, lo sentii parlare in questo modo:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco quando nel
mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
«O voi che siete in due dentro una sola fiamma,
se ho acquisito meriti nei vostri confronti
quand'ero vivo, se ho acquisito meriti grandi o
piccoli presso di voi quando, sulla Terra, scrissi
gli alti versi, non andate via; ma uno di voi
(Ulisse) racconti dove è andato a morire in un
viaggio senza ritorno».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
La punta più alta di quell'antica fiamma
cominciò a scuotersi mormorando, come quella
colpita dal vento;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse:
quindi, volgendo la cima da una parte e
dall'altra, come una lingua che parlasse, gettò
fuori la voce e disse:
«Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me
più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì
Enea la nomasse,
«Quando mi allontanai da Circe, che mi tenne
più di un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea
desse questo nome al promontorio,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
né la tenerezza per mio figlio, né la devozione
per il mio vecchio padre, né il legittimo amore
che doveva fare felice Penelope poterono
vincere in me il desiderio che ebbi di diventare
esperto del mondo, dei vizi e delle virtù degli
uomini;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
ma mi misi in viaggio in alto mare solo con una
nave e con quei pochi compagni dai quali non
fui abbandonato.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Vidi entrambe le sponde del Mediterraneo fino
alla Spagna, al Marocco e alla Sardegna, e alle
altre isole bagnate da quel mare.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
Io e i miei compagni eravamo vecchi e deboli
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quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che
l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
quando giungemmo a quello stretto (di
Gibilterra) dove Ercole pose le colonne, limite
oltre il quale l'uomo non deve procedere: a
destra avevamo Siviglia, a sinistra Ceuta.
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi
ch’è del rimanente, non vogliate negar
l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza
gente.
Dissi: "O fratelli, che siete giunti all'estremo
ovest attraverso centomila pericoli, non vogliate
negare a questa piccola veglia che rimane ai
vostri sensi (ai vostri ultimi anni) l'esperienza
del mondo disabitato, seguendo la rotta verso
occidente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Pensate alla vostra origine: non siete stati creati
per vivere come bestie, ma per seguire la virtù e
la conoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
Con questo breve discorso resi i miei compagni
così smaniosi di mettersi in viaggio, che in
seguito avrei stentato a trattenerli;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
e volta la poppa a est, facemmo dei remi le ali al
nostro folle volo, sempre proseguendo verso
sud-ovest (a sinistra).
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
La notte ormai mostrava tutte le costellazioni del
polo australe, mentre quello boreale era tanto
basso che non emergeva dalla linea
dell'orizzonte.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
La luce dell'emisfero lunare a noi visibile si era
già spenta e riaccesa cinque volte (erano passati
circa cinque mesi), dopo che avevamo intrapreso
il viaggio, quando ci apparve una montagna (il
Purgatorio) scura per la lontananza, e mi sembrò
più alta di qualunque altra io avessi mai vista.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Noi ci rallegrammo, ma l'allegria si tramutò
presto in pianto: infatti da quella nuova terra
nacque una tempesta che colpì la nave a prua.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
La fece girare su se stessa tre volte, in un
vortice; la quarta volta fece levare in alto la
poppa e fece inabissare la prua, come piacque ad
altri (Dio), finché il mare si fu richiuso sopra di
noi».
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COMMENTO
Nel XXVI canto dell’Inferno, Dante presenta il personaggio di Ulisse, mitico eroe greco, nell’ottava
bolgia, condannandolo come consigliere fraudolento perché ha usato la sua astuzia ingannando
l’uomo, come nell’inganno del cavallo di Troia, facendo credere ai Troiani che fosse un regalo in
segno di resa.
Insieme ad Ulisse condanna anche Diomede per aver profanato una statua sacra per i Troiani e per i
due questo subiscono insieme la pena, bruciando in fiamme alte quanto la loro statura, che sfigurano
il loro corpo; infatti Dante quasi non li riconosce. Dante appena li vede è desideroso di parlare con
loro, ma Virgilio preferisce essere lui a parlare. Così Ulisse inizia a raccontare la storia della sua vita,
facendo vedere molto chiaramente che il suo desiderio di conoscere era maggiore di quello di ritornare
in patria, per quanto lo volesse.
La frase celebre che Ulisse rivolge ai suoi compagni :”Fatti non foste a viver come bruti, ma per
seguire virtute e canoscenza” ci fa capire ancor meglio che Ulisse aveva una capacità oratoria
eccezionale, perché con poche parole riesce a convincere i propri compagni ad andare verso l’ignoto,
dove nessun uomo era riuscito ad arrivare; ma ciò costò la vita di tutti.
Un altro aspetto importante del carattere di Ulisse evidente nella “Divina Commedia” è il desiderio
di conoscenza: dopo aver esortato i compagni ad andare avanti nel viaggio, riesce a superare le
“colonne d’Ercole” che all’epoca erano i confini del mondo e per questo Dante lo punì.
LA DIVINA COMMEDIA
La “Commedia” — titolo originale dell'opera: successivamente Giovanni Boccaccio attribuì
l'aggettivo "Divina" al poema dantesco — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più
importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della
letteratura universale. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 e la continuò nel resto della
vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava. Il poema è diviso in tre libri, o Cantiche,
ciascuno formato da 33 canti; ogni canto si compone di terzine di endecasillabi. La “Commedia”
tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla poesia didattica
medievale, ma intrisa di una spiritualità cristiana nuova che si mescola alla passione politica e agli
interessi letterari del poeta. Si narra di un viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà, compiuto dal
poeta stesso, sotto la guida della ragione e della fede.
LA VITA DI DANTE ALIGHIERI
Dante è nato in Italia, nella città di Firenze, il 22 Maggio nel 1265 ed è morto il 14 Settembre del
1321 a Ravenna. Quando aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma,
figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni. Da Gemma, Dante
ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. L'evento più significativo della sua giovinezza, secondo il suo
stesso racconto, fu l'incontro con Beatrice, la donna che amò ed esaltò come simbolo della grazia
divina, prima nella “Vita nuova” e successivamente nella “Divina Commedia”. A Firenze fu
profondamente influenzato dal letterato Brunetto Latini, che compare come personaggio nella
“Commedia”. Iniziò l'attività politica nel 1295, iscrivendosi alla corporazione dei medici e degli
speziali. Venne accusato di baratteria e condannato in contumacia prima a un'enorme multa e poi a
morte. Iniziò così l'esilio (nel quale furono in seguito coinvolti anche i figli), che sarebbe durato fino
alla morte, anche se lui cercherà molte volte di rientrare nella città natale.
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Suddivisione dell’Inferno nella “Divina commedia”:
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Ugo Foscolo, “A Zacinto”
Nè più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
Del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’inclito verso di Colui che l’acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse?
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
Parafrasi:
Non toccherò mai più le sacre rive
dove il mio corpo di fanciullo giacque
oh mia Zacinto, che ti specchi nelle onde
del mare della Grecia, dal quale Venere nacque già donna,
e rese feconde quelle isole col suo primo sorriso,
per cui cantò delle tue limpide nubi e della tua vegetazione,
colui che, cantò i viaggi per mare voluti dal Fato
e l’esilio in mille luoghi diversi,
in virtù delle quali, Ulisse, celebre per la fama dalle sventure sopportate,
infine baciò la pietrosa isola di Itaca.
Oh Zacinto, mia terra materna,
tu invece non avrai altro che questo canto scritto da tuo figlio,
perché il destino ha stabilito per me
una sepoltura senza lacrime delle persone care.
COMMENTO
“A Zacinto” è stata scritta nel 1803 a Milano. Il sonetto è dedicato all'isola di Zante dove Foscolo
nacque. Il tema principale è l'esilio e la nostalgia della terra natale. Nel primo tratto l'esilio non sembra
rattristarlo, si abbandona ai ricordi della sua patria e la descrive affettuosamente.
Il poeta in seguito paragona la sua condizione a quella di Ulisse, che però fu più fortunato di lui perché
riuscì a rimettere piede sulla sua petrosa Itaca, mentre Foscolo è condannato ad una “illacrimata
sepoltura”, cioè dovrà morire da solo, esiliato, senza che nessuno dei suoi cari venga a piangere sulla
sua tomba.
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L’AUTORE
Niccolò Ugo Foscolo nacque a Zante (anticamente chiamata Zacinto) nel 1778 dove trascorse la sua
infanzia. Nel 1972 si trasferì a Venezia dove si dedicò a studi letterari e filosofici.
Nel 1797, a causa delle sue idee rivoluzionarie, fu costretto a trasferirsi a Bologna, dove si arruolò
nelle truppe della Repubblica Cispadana. Nel 1808 gli fu assegnata la cattedra di eloquenza
all'Università di Pavia. Napoleone non gli andava molto a genio e dopo la sua caduta fu invitato a
collaborare con il nuovo governo, ma preferì l'esilio (1815 prima in Svizzera, poi in Inghilterra).
Morì a Londra nel 1827. Per lui l'uomo si trovava a vivere sulla terra al pari di tutti gli altri elementi
naturali, destinato a vivere nel nulla eterno la sua esistenza travagliata. La vita non può essere altro
che il continuo tendere a una felicità irraggiungibile. Ma da questo Foscolo avverte una aspirazione
che possa dare un significato all'esistenza: i valori di verità, giustizia, bellezza, libertà e patria.
La poesia è il suo modo per esprimere questi valori e svolge la funzione di rendere eterni gli ideali.
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Giovanni Pascoli, “Ultimo viaggio di Ulisse”
LIBRO XIV
CALYPSO
E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all’isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all’orlo
carica d’uve la pampinea vite.
fosca intorno le crescea la selva
ontani e d’odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno,
né dio né uomo, vi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose ale, e dai buchi
soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando,
presso la vampa d’olezzante cedro,
stupì, frastuono udendo nella selva,
e in cuore disse: – Ahimè, ch’udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell’onda
un qualche dio, che come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz’orma come il vento,
sui prati molli di viola e d’appio?
Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo so, da quando
l’uomo che amavo, rimandai sul mare
al suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie? –
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell’antro,
tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell’uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
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all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più!
COMMENTO
Pubblicato per la prima volta nel volume dei Poemi Conviviali (1904), L’ultimo viaggio di Ulisse,
suddiviso in canti come l’Odissea, per un totale di 1211 versi, racconta l’ultimo periodo della vita di
Odisseo: dopo essere tornato ad Itaca e aver vissuto per nove anni nella sua isola sognando
continuamente il mare, l’eroe omerico decide di abbandonare la sua casa, la moglie, la terraferma
dove presto lo raggiungerà la morte, per riprendere il viaggio, insieme ai suoi vecchi marinai, che da
tempo aspettano il momento di salpare. Questo ultimo viaggio, però, avviene sotto il segno della
disillusione: Odisseo ripercorre rotte già battute, ma non incontra più Polifemo e i ciclopi, Circe o il
canto delle Sirene, tanto da pensare che tutte le avventure trascorse siano soltanto il frutto della sua
immaginazione. Incontrerà solamente la dea Calipso: il cadavere di Odisseo, dopo il definitivo
naufragio, sarà infatti trasportato dalle onde presso la sua grotta, in un’isola lontana e solitaria.
Il brano riportato, che chiude il poema, racconta l’arrivo del corpo di Odisseo all’isola di Calipso e si
conclude con una riflessione che condensa l’angoscia esistenziale di Pascoli e che recupera la
massima del pessimismo radicale, già presente in testi classici e nel Leopardi del Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia. La massima, messa in bocca a Calipso, afferma che per l’uomo sarebbe
meglio non nascere e restare per sempre nel nulla, piuttosto che conoscere la lacerazione della morte.
L’AUTORE
Nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Il padre, amministratore di una vasta tenuta agricola dei
principi Torlonia, fu assassinato per essersi opposto al brigantaggio che allora era molto diffuso nella
regione. Pascoli allora aveva dodici anni e si trovava a studiare nel collegio dei padri Scolopi a Urbino.
Poco dopo gli moriranno anche la madre, una sorella e due fratelli. Questi lutti, soprattutto quello del
padre, segnarono profondamente la sensibilità del giovane.
Nonostante ciò egli poté proseguire gli studi al liceo di Rimini e poi dal '73, con una borsa di studio
vinta dopo un esame sostenuto alla presenza del Carducci, poté iscriversi alla facoltà di Lettere
dell'Università di Bologna. Qui si avvicinò agli ambienti del socialismo emergente di Andrea Costa,
e si iscrisse all'Internazionale socialista. Privato della borsa di studio per aver partecipato a una
manifestazione contro il ministro dell'Istruzione allora in carica, visse in grande miseria e per ben
cinque anni (dal 1875 al 1880) fu costretto a interrompere gli studi. Nel '79 venne coinvolto nelle
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agitazioni che seguirono alla condanna a morte dell'anarchico che attentò alla vita del re Umberto I a
Napoli: arrestato, restò in carcere per più di tre mesi.
Il carcere fu un'esperienza che lo segnò, interiormente, in maniera decisiva. Decise di abbandonare
l'attività politica e di laurearsi; con l'aiuto del Carducci ottenne la cattedra di latino e greco al liceo di
Matera. Successivamente si trasferì a Massa, ove si riunì a due sorelle, di cui una resterà con lui tutta
la vita; poi passò a Livorno, dove rimase sette anni. Nel corso di questi anni, per aumentare il magro
stipendio si dedicò a vari incarichi intellettuali e a lezioni private.
Nel '91 pubblicò il suo primo volumetto di poesie, Myricae, che resta la sua opera più famosa (l'altra
è Canti di Castelvecchio del 1903), mentre l'anno seguente vinse il primo premio al concorso
internazionale di poesia latina ad Amsterdam (lo vincerà per altre 12 volte!). La sua fama di latinista
gli permise nel '95 di abbandonare l'insegnamento liceale per quello universitario. Diventò docente
di latino e greco a Bologna, poi di latino a Messina fino al 1903. Nel 1906 ottenne la cattedra di
letteratura italiana dell'ateneo bolognese, lasciata vacante dal Carducci. Morì nel 1912, per un cancro
all'addome, a Bologna; venne sepolto a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, paese in cui
nel '95 si era comprato una casa.
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Gabriele D’Annunzio, “LAUDI DEL CIELO”
Alle Pleiadi e ai Fati
Gloria al Latin che disse: «Navigare
è necessario; non è necessario
vivere». A lui sia gloria in tutto il Mare!
O Mare, accenderò sul solitario
monte che addenta e artiglia te (leone
sculto da qual Ciclope statuario?)
un salso rogo estrutto col timone
e la polèna della nave rotta,
che ha la tortile forma del Tritone.
Il ricurvo timon per cui condotta
fu la nave nell'ultima procella
con la barra tra l'una e l'altra scotta,
la divina figura onde fu bella
contra il flutto la prua sotto il baleno
della nube che vinto avea la Stella,
ardere voglio avverso il Mar Tirreno,
l'ornamento superbo e il rude ordegno,
le Pleiadi invocando al ciel sereno.
Crepiterà nel fuoco il salso legno,
su la cervice del leon proteso;
e taluno vedrà di lungi il segno
insolito e dirà: «Qual mano acceso
ha il rogo audace? Quale iddio su l'erte
rupi nel cuore della fiamma è atteso?».
Non un iddio ma il figlio di Laerte
qual dallo scoglio il peregrin d'Inferno
con le pupille di martìri esperte
vide tristo crollarsi per l'interno
della fiamma cornuta che si feo
voce d'eroe santissima in eterno.
«Né dolcezza di figlio...» O Galileo,
men vali tu che nel dantesco fuoco
il piloto re d'Itaca Odisseo.
Troppo il tuo verbo al paragone è fioco
e debile il tuo gesto. Eccita i forti
quei che forò la gola al molle proco.
L'àncora che s'affonda ne' tuoi porti
non giova a noi. Disdegna la salute
chi mette sé nel turbo delle sorti.
Ei naviga alle terre sconosciute,
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spirito insonne. Morde, àncora sola,
i gorghi del suo cor la sua virtute.
Di latin sangue sorse la parola
degna del Re pelasgo; e il sacro Dante
le diede più grand'ala, onde più vola.
Re del Mediterraneo, parlante
nel maggior corno della fiamma antica,
parlami in questo rogo fiammeggiante!
Questo vigile fuoco ti nutrica
il mio vóto, e il timone e la polèna
del vascel cui Fortuna fa nimica,
o tu che col tuo cor la tua carena
contra i perigli spignere fosti uso
dietro l'anima tua fatta Sirena,
infin che il Mar fu sopra te richiuso!
COMMENTO
Nelle “Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, Maia o Lode della vita” D’Annunzio narra di
Ulisse, in particolare si riferisce all’episodio in cui l’eroe attraversa le Colonne d’Ercole, sfidando gli
dei. Riesce a creare con la ricerca di parole ad effetto la tempesta che violenta inghiotte la barca, “la
prua sotto il baleno della nube”. Parla di un rogo in cui “crepiterà il salso legno” e in seguito si
collega all’immagine dell’inferno dantesco, dove Ulisse è eternamente avvolto dalle fiamme.
Negli ultimi versi infine si rivolge proprio a lui, chiamandolo re del Mediterraneo.
Questo passo delle “Laudi del cielo” fa parte del primo dei cinque libri delle laudi (Maia, Elettra,
Alcyone, Mereope e Asterope), di circa ottomila versi. Qui D’Annunzio non utilizza uno schema fisso,
ma scrive in versi liberi. Il poema è la trasfigurazione di un viaggio reale dell’autore in Grecia; le
terribili città moderne, i cui “mostri” diventano entità mitiche alle quali inneggiare, e aspetti
industriali come il capitale, le macchine ecc. possono essere indirizzati a fini eroici.
GABRIELE D’ANNUNZIO
Nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia medio-borghese. Studia al collegio Cicognini di prato, uno
dei più prestigiosi d’Italia, quindi si stabilisce a Roma dove si iscrive alla facoltà di Lettere. Qui
collabora a diversi periodici e diventa in breve tempo una figura di spicco della vita culturale e
mondana. Grande risonanza hanno la fuga e il seguente matrimonio con una giovane duchessa che
gli darà tre figli.
Nel 1889 pubblica il suo primo romanzo, Il piacere, ricco di risvolti autobiografici.
A causa del suo amore per il lusso è costretto a indebitarsi, così, nel 1891, per sfuggire ai creditori, si
allontana da Roma e si trasferisce a Napoli. Cambia più volte residenza. Dal 1898 ha un’intensa
relazione con la celebre attrice Eleonora Duse in una villa a Firenze; poi, travolto da nuovi debiti,
dopo il sequestro della villa nel 1910, emigra in Francia.
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Torna in Italia nel 1915, si dichiara fervente interventista e si impegna personalmente in spericolate
azioni belliche. Terminata la guerra, deluso dalle condizioni di pace sottoscritte dall’Italia, con alcuni
volontari marcia sulla città di Fiume e la occupa fino al 1921, quando le truppe inviate dal governo
italiano lo costringono ad abbandonarla. Si ritira a Gardone, sul lago di Garda, nella residenza da lui
denominata il “Vittoriale degli italiani”, che trasformerà nel museo della sua vita e delle sue imprese.
Qui muore nel 1938, dopo un lungo periodo d’isolamento.
D’Annunzio è lo scrittore che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, maggiormente
influisce sulla letteratura e sul costume del tempo. La sua poetica è l’espressione più appariscente del
Decadentismo Italiano, anche se sembra coglierne solo modi e forme, senza approfondirne le
tematiche più intime.
Nelle sue opere troviamo così gli aspetti più evidenti del movimento: l’estetismo (esaltazione della
bellezza e dell’arte, che diventano valori unici e supremi), il superomismo (culto esagerato della
personalità, che porta l’individuo a elevarsi sopra le masse), il sensualismo (abbandono alle
suggestioni dei sensi e dell’istinto).
Nel linguaggio va alla ricerca della parola raffinata, che ha lo scopo di persuadere e affascinare,
utilizzata più per il suono che per il significato, ma spesso manca la profondità dei sentimenti.
D’Annunzio ha lasciato una notevole quantità di opere letterarie, che coprono un arco di circa
cinquant’anni di attività. Ricordiamo qui le più importanti.
I ROMANZI: Il piacere (1889), L’innocente (1892), Il trionfo della morte (1894).
LE TRAGEDIE: La città morta (1897), La figlia di Jorio (1904).
LE RACCOLTE POETICHE: Le laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi e la raccolta
poetica Alcyone, nella quale sono racchiuse alcune tra le più belle composizioni di D’annunzio, come
La sera fiesolana, La pioggia nel pineto, I pastori.
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Guido Gozzano – E Ulisse piombò nell'Inferno
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yach
t
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes…
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele…
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi…
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
- Non si può vivere senza
danari, molti danari…
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! -
Viaggia viaggia viaggia viaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo…
viaggia viaggia viaggia viaggia per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia…
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno. E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora...
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PARAFRASI
Il Re di Tempeste era un tale
che vivendo diede cattivo esempio d’infedeltà maritale, visse a bordo
d’un yacht
andando con lieti compagni
sulle spiagge più frequentate dalle famose cocottes…
Già
vecchio, un giorno rivolse le vele verso il tetto,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte
fedele… Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni come si vive tra
noi…
Ma né la dolcezza del figlio, né le lacrime, né la pietà
del padre, né il debito di amore per la
sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi
compagni cercando fortuna in America…
- Non si può vivere senza soldi, molti soldi… Miei cari
compagni, considerate la vostra semenza! -
Viaggia viaggia viaggia viaggia nel folle volo:
vedevano
già scintillare le stelle dell’altro polo…
viaggia viaggia viaggia
viaggia per l’alto mare: videro davanti
a loro levare
un’alta montagna selvaggia…
Quello non era porto illusorio, non era la California né il
Perù, ma il monte del Purgatorio che fece affondare la nave. E il mare sopra la prora
si chiuse per
l'eterno. E Ulisse piombò nell’Inferno dove si trova tuttora...
COMMENTO
Guido Gozzano in questa poesia offre una versione parodistica di Ulisse. L'eroe omerico fedele a
Penelope, che approda con la nave e i compagni alle terre abitate da dee e maghe, è diventato un
playboy che a bordo di uno yatch tocca “con liete brigate” le spiagge del Mediterraneo frequentate
da donne di facili costumi. L'ironia non intende dissacrare il mito omerico o l'Ulisse dantesco, ma
l'aristocratico Ulisse-superuomo di D'Annunzio: il “Re di tempeste” di D'Annunzio diventa un uomo
comune, “un tale” dal vivere dissennato e che, spinto da una speranza chimerica, cercò fortuna in
America, ma “piombò nell'inferno dove ci resta tuttora...”.
NOTIZIE SULL’AUTORE
Guido Gozzano nacque a Torino nel 1883 e lì morì nel 1916, appena trentatreenne, gravemente
ammalato di tubercolosi. Avviato agli studi di giurisprudenza, ben presto li abbandonò per dedicarsi
ai suoi interessi letterari. La sua vita si svolse per lo più fra Torino e la villa del Meleto ad Aglie
Canavese, a parte un viaggio in India nel 1912-1913, compiuto anche nel tentativo di guarire la
malattia che lo affliggeva ormai da parecchi anni. Le sue opere principali sono le due raccolte di versi
“La via del rifugio” nel 1907 e “I colloqui” nel 1911; si possono anche ricordare il poemetto
entomologico incompiuto “Le farfalle” e, per l'interesse biografico, il carteggio con la poetessa
Amalia Guglielminetti, da lui amata. La poesia di Gozzano è considerata il miglior esito del
Crepuscolarismo, del quale ben compendia i motivi e i toni poetici. Particolarmente famosi sono i
poemetti “La signorina Felicita” e “L'amica di nonna Speranza”, che rivelano anche un certo
distacco ironico da parte del poeta: egli infatti non riesce mai del tutto a immedesimarsi in quel mondo
di cose vecchie e di stanchi sentimenti, in cui pure sono le sue radici e da cui non può staccarsi
completamente.
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Umberto Saba, "Ulisse"
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
FORMA
•
•
•
13 endecasillabi
non ci sono rime tranne la parola rima largo ai versi 8 e 11
ci sono diversi enjambement:
-raro/uccello
-al sole/belli
-l'alto/marea
-il porto/accende
-al largo/sospinge
•
il nucleo tematico della lirica è contenuto nell'inversione del verso finale: e della vita il
doloroso amore
•
ci sono molte allitterazioni: uccello, alghe, scivolosi, sole, belli, smeraldi, alta, li annullava,
vele, largo, raro, prede, marea, regno, terra, porto, spirito, doloroso, amore.
CONTENUTO
Il filo conduttore del componimento è dato dal titolo. La poesia s'impernia sulla sovrapposizione dei
due personaggi, l'uno mitico (Ulisse) e l'altro reale (il poeta), ma è tesa un'identificazione con la prima
figura. Il motivo di Ulisse ripropone il mito dell'uomo viaggiatore, sottolineando l'inesauribilità
dell'andare: la vita è avventura "al largo", è esperienza nella terra di nessuno.
La struttura della poesia si basa su due elementi temporali, "Nella mia giovinezza" e "Oggi". Un filo
comune salda le due età dell'esistenza: il viaggio, la ricerca non sono prerogative solo dell'età
giovanile, ma della vita nel suo insieme. Identico è il destino del poeta, nuovo Ulisse: all' “ho
navigato" della giovinezza corrisponde il "me al largo sospinge ancora" dell'età matura.
Non tutto però è felice. Navigare, cioè vivere, è amore ma è anche cosa dolorosa; ci sono insidie
emblematiche rappresentate dagli isolotti, forse simbolo degli istinti vitali, che attirano
irresistibilmente il poeta come nell' “Odissea” le sirene attiravano i naviganti. E poi il viaggio è
solitudine, rimarcata dal netto contrasto che si stabilisce tra "gli altri" e il "me" del verso 11: gli uni
ancorati nel porto delle facili sicurezze, il secondo proteso al rischio del mare, allo spazio ignoto che
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esso spalanca. Il viaggio nasce proprio perché lo spirito di avventura non è ancora stato soffocato,
nella sua tensione all'infinito. Questo Ulisse di Saba si ricollega ad alcune versioni del mito antico,
per le quali l'eroe dell' “Odissea”, una volta tornato in patria, decise di ripartire per nuove esplorazioni.
LA BIOGRAFIA
Nacque a Trieste nel 1883. Il suo vero nome era Umberto Poli; si fece chiamare Saba per ricordare e
rendere omaggio alla balia slovena che lo allevò nei primi anni di vita e che portava il nome di Sabaz.
Ebbe l'infanzia segnata dall'assenza del padre, che aveva abbandonato la moglie prima ancora della
sua nascita.
Lasciò molto presto gli studi per arruolarsi nel 1908 nell'esercito e partecipare, pur senza mai trovarsi
al fronte, alla Prima Guerra Mondiale.
Intanto pubblicava le sue prime opere, contenute nelle raccolte "Poesie" e "Coi miei occhi".
Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale si stabilì a Trieste, dove aprì una libreria antiquaria.
Nel 1921 Saba pubblicava a proprie spese un "Canzoniere", che raccoglieva le poesie di un ventennio,
a cui seguirono "Preludio e canzonette", "Autobiografia", "I prigionieri", "Figure e canti", "Preludio
e fughe".
Nel periodo delle persecuzioni razziali dovette lasciare la sua città e soggiornare a Milano, Firenze e
Roma ospite di amici poeti e letterati.
Nel frattempo usciva la seconda edizione del "Canzoniere", che gli procurò finalmente riconoscimenti
e plausi da parte della critica.
Nel 1946 ottenne il Premio Viareggio.
La nevrosi depressiva che da anni tormentava il poeta si aggravò e Saba percorse gli ultimi anni della
sua vita in quasi totale isolamento; nel 1956, scomparsa la moglie, si trasferì a Gorizia, dove morì
l'anno successivo.
Con la sua poesia Saba non intende rompere con la tradizione, anzi cerca di farla propria, conservando
per esempio il metro e la forma della poesia tradizionale.
Come in gran parte della lirica contemporanea, anche nelle sue opere si avverte l'intenzione di
eliminare il superfluo, il linguaggio ricercato e artificioso, così lontano dalla realtà della vita di tutti i
giorni.
Saba rimane infatti legato al quotidiano, ai temi della sofferenza dell'uomo che vive una vita
contraddittoria, ma allo stesso tempo ricca e molto amata.
Il suo linguaggio è sempre chiaro, semplice e concreto.
Instaura con le "amiche cose" un rapporto intimo, avvicinandosi con amore.
Scava con analisi spietate nel proprio intimo, utilizzando la psicoanalisi come strumento per giungere
alla radice della natura umana.
La riflessione sul proprio io non lo conduce all'isolamento ma, anzi, viene a costruire il tramite per
una migliore conoscenza degli altri.
Dal sentimento nasce dunque per Saba la poesia, che deve anzitutto essere ONESTA, cioè
rispecchiare fedelmente se stessi e corrispondere ai moti dell'animo.
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ALLEGRIA DI NAUFRAGI
E subito riprende
Il viaggio
Come
Dopo il naufragio
Un superstite
Lupo di mare.
ANALISI
Il testo ripropone il tema fondamentale della raccolta: nell’esperienza della guerra e del dolore come
universale naufragio, si riafferma la forza della vita; l’uomo riprende il suo viaggio per una spinta
istintiva che si sprigiona dal profondo in un’esperienza estrema. Ungaretti ritaglia il caso particolare
di un marinaio di esperienza (un lupo di mare) nel quale il naufragio fa scattare un nuovo impulso a
vivere. Il titolo Allegria di Naufragi è un ossimoro: naufrago è colui che si salva dopo una tempesta
e la nave viene abbandonata, allegria indica uno stato lieto. Dopo ogni naufragio l’uomo, il superstite,
sente rinascere in sé la volontà di ricominciare da capo, sente un rinnovato impulso a vivere: questa
vitalità istintiva è la sua allegria. In effetti l’individuo nella propria vita può essere travolto da forze
più grandi di lui, praticamente devastanti, ma proprio allora trova lo slancio per riprendere il suo
viaggio, reso anzi più vitale, più allegro, dal confronto con la catastrofe.
SPIEGAZIONE
La poesia si basa su una similitudine: come un superstite, che si salva da un naufragio, diventa felice
per la salvezza e riprende il suo viaggio, così chi sopravvive alla guerra devastante è felice di essere
salvo e riprende a vivere come sempre.
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L’AUTORE
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto l'8 febbraio del 1888, da genitori di origine
italiana. Nel 1890 suo padre morì in un incidente sul lavoro, mentre la madre venne a mancare nel
1930. L'amore di Ungaretti per la poesia nacque durante il suo periodo scolastico. Per svolgere gli
studi universitari il poeta si trasferì, nel 1912, a Parigi. Nel tragitto vide per la prima volta l'Italia. Nel
1914 decise di partire volontario per la Grande Guerra. In seguito alle battaglie sul Carso scrisse un
taccuino di poesie, che furono pubblicate a Udine nel 1916, con il titolo: “Il porto sepolto”. Al termine
della guerra il poeta rimase a Parigi. Nel 1921 si trasferì a Marino (presso Roma) e collaborò
all'Ufficio stampa del Ministero degli Esteri. Il poeta aderì al fascismo firmando il Manifesto degli
intellettuali fascisti nel 1925. Nel 1928 maturò invece la sua conversione religiosa al cattolicesimo.
Il poeta raggiunse il massimo della sua fama nel 1933. Tre anni dopo, gli venne offerta la cattedra di
letteratura italiana presso l'Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò; trasferitosi con
tutta la famiglia, vi rimase fino al 1942 , anno in cui il poeta ritornò in Italia, dove raggiunse una certa
notorietà presso il grande pubblico nel 1968, grazie alle sue intense letture televisive di versi
dell'Odissea. Nel 1970 conseguì un prestigioso premio internazionale presso l'Università
dell'Oklahoma, negli Stati Uniti, dove si recò per il suo ultimo viaggio. Morì a Milano nella notte
tra l'1 e il 2 giugno 1970 per broncopolmonite.
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L’ “ULISSE” DI JOYCE
Il romanzo è ambientato a Dublino, in Irlanda. Vengono narrate le vicissitudini di tre
personaggi: Leopold Bloom, la moglie Molly ed il giovane Stephen Dedalus (una sorta di figlio
spirituale di Bloom). Nei primi episodi del romanzo vengono narrate le giornate di Stephen, un
giovane letterato in crisi che viene identificato come il figlio spirituale di Leopold Bloom. Alle
vicende di vita quotidiana di Stephen si affiancano quelle di Leopold Bloom, un impiegato che lavora
come procacciatore di pubblicità. Nel romanzo, viene analizzata la giornata di Bloom: il suo risveglio,
gli appuntamenti quotidiani più o meno piacevoli, la partecipazione al funerale di un amico, la sua
mattina in ufficio e l’evolversi degli impegni della sua agenda. Man mano che passano le ore, Bloom
incontra diversi personaggi, che diventano descrizioni singole che fanno riferimento ai personaggi
classici dell’ “Odissea” di Omero. I cammini dei due personaggi, Leopold e Stephen, si sfiorano
sovente ma non vengono mai in contatto.
Il protagonista, in sostanza, è un antieroe che vive in una sola giornata le ventennali peregrinazioni
dell’Ulisse omerico, diventando emblema delle virtù e dei vizi umani.
LA VITA
James Augustine Aloysius Joyce, uno dei più grandi autori di narrativa del XX secolo, nasce a
Rathgar, una frazione di Dublino, il 2 febbraio 1882.
I suoi genitori lo iscrivono ad una scuola cattolica, precisamente presso un istituto di gesuiti, il
Clongowes Wood College
Successivamente, si laurea in lingue moderne all'università di Dublino. Inizia a scrivere “Gente di
Dublino”.
Lasciata per sempre l’Irlanda, insieme alla moglie, si stabilisce a Trieste, dove conosce Italo Svevo.
Nel 1920 si stabilisce stabilmente a Parigi, ove prende parte all’intensa vita culturale della città.
Nel 1922 viene pubblicato il suo capolavoro, intitolato “Ulysses“, in un clima di intense discussioni
e polemiche, cui segue anche l’intervento della censura.
Durante il secondo conflitto mondiale lo scrittore è costretto a trasferirsi in Svizzera, dove muore nel
1941.
CARATTERISTICHE DELLO STILE
James Joyce utilizza la tecnica del flusso di coscienza, già utilizzato dalla scrittrice Virginia Woolf,
per dare voce ai suoi personaggi e ai loro pensieri più profondi. È proprio il disordinato fluire dei
pensieri dei protagonisti, che saltano da un ricordo o un pensiero ad un altro, senza logica, senza
rispetto delle regole temporali, a rendere interessante ma anche complessa la trama. Perfino la
punteggiatura è soggetta al libero accavallarsi e susseguirsi dei pensieri.
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Il canto di Ulisse
Primo Levi, “Se questo è un uomo”
Primo Levi nell’undicesimo capitolo di ‘Se questo è un uomo’ è in cammino insieme a Pikolo
per giungere alle cucine del Lager.
Durante il tragitto vuole recitare e spiegare al giovane amico alcuni versi della letteratura
italiana che lui ricorda a memoria, non solo per rendere testimonianza, ma per far notare come
parole dette da uomini molti anni prima, possano rincuorare l’animo di uomini travagliati.
Cita infatti il XXVI canto dell’ ”Inferno” :
“Considerate la vostra semenza
fatti non foste per viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza”
Il significato di questa citazione è quello di riscattare nella mente del giovane Pikolo il senso
della realtà disumana che gli ebrei stavano vivendo, oppressi dall’odio e dalla sopraffazione,
e quello di riaffermare la vittoria dell’intelligenza dell’uomo sulla brutalità.
Levi cita in seguito Ulisse, l’eroe dantesco dell’avventura.
Anche la punizione di Ulisse (il naufragio), voluta da un Dio che lui non conosceva, ma di
cui aveva sfidato la volontà andando con la sua nave oltre le colonne d’Ercole, ricorda sia il
destino dei prigionieri nei Lager per essersi opposti all’ordine fascista sia il destino degli
Ebrei.
Tra le ragioni dell’antisemitismo tedesco c’erano infatti l’odio e il timore per l’acutezza
intellettuale degli ebrei, un’acutezza che si avvicina a quella di Ulisse, considerata quindi
pericolosa.
L’AUTORE
Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una ricca famiglia ebrea. Nel 1941 si laurea con ottimi
voti alla facoltà di chimica e, nello stesso anno, aderisce ad una formazione partigiana,
‘Giustizia e Libertà’. Viene subito arrestato e deportato ad Auschwitz nel febbraio del 1944.
Fortunosamente sopravvissuto al Lager, viene liberato dall’armata rossa nel 1945.
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Nel 1947 pubblica ‘Se questo è un uomo’, dove racconta la sua esperienze sull’olocausto. Il
libro diventa un best seller nel 1956. Primo levi continua a scrivere molti libri fino alla sua
morte, avvenuta nel 1987.
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Salvatore Quasimodo ” L’ISOLA DI ULISSE”
TESTO
Ferma è l'antica voce.
Odo risonanze effimere.
oblio di piena notte
nell'acqua stellata.
Dal fuoco celeste
nasce l'isola di Ulisse.
Fiumi lenti portano alberi e cieli
nel rombo di rive lunari.
Le api, amata, ci recano l'oro:
tempo delle mutazioni, segreto.
PARAFRASI
L’antica voce è ferma.
Sento risonanze di breve durata
dimentico questa piena notte
nell’acqua stellata
Dal calore del cielo
nasce l’isola di Ulisse.
Fiumi lenti portano alberi e cieli
Nel rumore delle rive lunari
le api, da me amate, ci portano l’oro.
Il tempo dei cambiamento, segreto.
COMMENTO
Di un’altra isola, trasfigurata nell’isola di Ulisse, scrive Salvatore Quasimodo, convinto che
mitopoiesi possa realizzarsi attraverso lo sguardo che si posa sul mondo e lo scopre più favoloso di
quello delle favole antiche. Ora in una nuova età dell’oro, davanti agli occhi del poeta e dell’amata
rinasce un’isola mediterranea grazie ad una prodigiosa metamorfosi. Il canto, l’antica voce delle
Sirene, è ormai fermo per sempre e se ne odono soltanto “risonanze effimere”. Non Ulisse, qui, ma il
ritorno
misterioso
del
“tempo
delle
mutazioni”,
preme
al
poeta.
Questa trasposizione del mito si nota bene anche in un’altra lirica di Quasimodo, Vento a Tìndari ,
dove si ha l’identificazione della Sicilia, del luogo natìo, con il concetto di “isola”. La lontanza
dall’isola significa innanzi tutto naufragio contro cui unica possibile difesa, come già in Ungaretti, è
il canto e la coscienza della propria condizione di esilio.
L’AUTORE
Salvatore Quasimodo nacque il 20 agosto 1901 a Modica. In seguito all'alluvione della città del 26
settembre 1902 si trasferì nella più sicura casa di Roccalumera, dal nonno paterno Vincenzo. La
famiglia del piccolo Salvatore fu costretta a spostarsi frequentemente, al seguito del padre, nelle varie
stazioni ferroviarie siciliane. Nel febbraio del 1908 il padre venne incaricato della riorganizzazione
del traffico ferroviario nella stazione di Messina, colpita da un disastroso terremoto e da un successivo
maremoto il 28 dicembre 1908. In quel periodo essi vissero in un carro merci parcheggiato su un
binario morto della stazione. Quegli anni resteranno impressi nella memoria del poeta che li evocherà
nella poesia Al Padre, scritta in occasione dei 90 anni del padre e dei 50 anni dal disastroso terremoto
di Messina. Nel 1916 si iscrisse all'Istituto Tecnico Matematico-Fisico di Palermo, per poi trasferirsi
a Messina nel 1917 e continuare gli studi presso l'Istituto "A. M. Jaci", dove conseguì il diploma nel
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1919. Si trasferì quindi a Roma, dove pensava di terminare gli studi di ingegneria, ma, subentrate
precarie condizioni economiche, dovette abbandonarli per impiegarsi in più umili attività. Nel 1926
venne assunto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed assegnato come geometra al Genio Civile di
Reggio Calabria. Risolti i problemi economici, poté dedicarsi più assiduamente alla letteratura.
Ottenuto il trasferimento a Milano nel 1934, venne però destinato da un capo-ufficio alla sede di
Sondrio. Nel 1938 pubblicò a Milano una raccolta antologica intitolata Poesie e nel 1939 iniziò la
traduzione dei lirici greci. Nel 1945 si iscrisse al PCI e l'anno seguente pubblicò la nuova raccolta dal
titolo Con il piede straniero sopra il cuore — ristampata nel 1947 con il nuovo titolo, Giorno dopo
giorno. Il poeta trascorse gli ultimi anni di vita compiendo numerosi viaggi in Europa e in America
per tenere conferenze e letture pubbliche delle sue liriche, che nel frattempo erano state tradotte in
diverse lingue. Nel 1965 curò la pubblicazione di Calignarmata, opera di poesia dell'autore Luigi
Berti, uscita un anno dopo la morte di quest'ultimo (1964). Del 1966 è la pubblicazione di Dare e
avere, sua ultima opera. Nel giugno del 1968, mentre il poeta si trovava ad Amalfi, venne colpito da
un ictus, che lo condusse alla morte dopo pochi giorni all'ospedale di Napoli. Il suo corpo fu
trasportato a Milano e seppellito nel Cimitero Monumentale.
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Giorgio Caproni, “Esperienza” (da “Il muro della Terra”,1972)
Tutti i luoghi che ho visto,
che ora ho visitato,
ora so - ne son cero:
non ci sono mai stato.
COMMENTO
Caproni si paragona a Ulisse, grande viaggiatore, e riflette sul significato del sapere. Così come un
grande viaggiatore pensa di aver esplorato tutti i luoghi e uno studioso pensa di “sapere tutto’’, nella
realtà ci si rende conto che la conoscenza non ha limite, raggiungendo così la consapevolezza della
conoscenza del nulla.
L’AUTORE
Il poeta nacque a Livorno nel 1912, poi all’età di dieci anni si trasferì a Genova, città a cui rimase
sempre molto affezionato, tanto da definirla “città dell’anima’’. Dopo aver partecipato alla guerra e
alla resistenza, fu per molti anni maestro elementare. In seguito si stabilì definitivamente a Roma e
morì nel 1990. Critico letterario e traduttore, è stato uno dei più importanti poeti del Novecento ed
appartiene a quella che Pier Paolo Pasolini definì come “la linea poetica antinovecentesca’’,
caratterizzata da uno stile limpido e chiaro e dal recupero, almeno parziale, delle regole metriche
tradizionali.
I temi fondamentali della sua poesia sono sostanzialmente due: la madre e il viaggio. Per Caproni
l’esistenza umana non è altro se non un viaggio verso una destinazione ignota ed il futuro è sempre
visto come incerto e difficile da prevedere: l’esperienza tragica della morte, inoltre, fa sì che ognuno
di noi si interroghi sul senso della vita, dal momento che tutto ciò che si è faticosamente costruito
sembra crollare definitivamente. Un altro tema fondamentale della poesia di Caproni è il ricordo della
madre, a cui il poeta dedicò la raccolta intitolata “Il seme dell’amicizia’’.
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Costantino Kavafis: ”Itaca”
Itaca
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa’ voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrìgoni e i Ciclopi
o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l’emozione che ti tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrìgoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.
Fa’ voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d’estate
che ti vedono entrare (e con che gioia
allegra!) in porti sconosciuti prima.
Fa’ scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani ed ambre,
voluttuosi aromi d’ogni sorta,
quanto più puoi voluttuosi aromi.
Rècati in molte città dell’Egitto,
a imparare imparare dai sapienti.
Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t’ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
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E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.
COMMENTO
All’inizio della poesia Kavafis dice che, se si vuole raggiungere la propria meta, durante il viaggio il
desiderio più grande da augurarsi è che sia lunga la via, cioè desiderare che il viaggio duri molto e
sia pieno di vicende da narrare, pericoli da affrontare, esperienze da vivere. Inoltre l’autore dice che
bisogna seguire il desiderio di avventura e non averne paura, perché non si incontrerà nessun pericolo
sul proprio cammino se si continuerà a pensare al proprio obiettivo. Inoltre spiega che le paure che
non ci fanno continuare il viaggio sono quelle dentro di noi. Successivamente ripete che bisogna
sperare che il viaggio sia lungo, poiché il bello del viaggiare è apprendere; non importa dove si va,
l’importante è imparare. Per riuscire a portare a fine il proprio obiettivo bisogna innanzitutto tenere
in mente la meta ( Itaca tieni sempre nella mente). L’idea di Kavafis è quella di prolungare il viaggio
il più possibile, fare molte esperienze, e solo dopo tutto questo, finalmente, fare ritorno a casa. Il
senso di Itaca è quindi quello di costituire la mèta finale del viaggio, l’approdo senza il quale non si
partirebbe neppure. Kavafis per esprimere tutti questi concetti utilizza la figura di Ulisse e le sue
avventure.
L’AUTORE
Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1893. Era figlio di un ricco commerciante,
compì studi irregolari e da autodidatta e, prima di stabilirsi definitivamente ad Alessandria, viaggiò
molto visitando molte capitali europee, tra cui Parigi, Londra e Atene. Ebbe una vita agiata e fece
della sua casa in Egitto un piccolo ritrovo letterario. Amava profondamente essere ammirato e aveva
un portamento molto signorile. La sua poesia prende spunto da quella greca, dalla cui storia era
particolarmente affascinato, infatti, spesso nei suoi brani sono presenti personaggi dei grandi poemi
greci. Kavafis morì nel 1933 ad Alessandria d’Egitto e venne seppellito nel cimitero della comunità
greca.
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Capitano che hai negli occhi
il tuo nobile destino
pensi mai al marinaio
a cui manca pane e vino
capitano che hai trovato
principesse in ogni porto
pensi mai al rematore
che sua moglie crede morto
Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare
Capitano le tue colpe
pago anch'io coi giorni miei
mentre il mio più gran peccato
fa sorridere gli dei
e se muori e' un re che muore
la tua casa avra' un erede
quando io non torno a casa
entran dentro fame e sete
Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare
Capitano che risolvi
con l'astuzia ogni avventura
ti ricordi di un soldato
che ogni volta ha più paura
ma anche la paura in fondo
mi da' sempre un gusto strano
se ci fosse ancora mondo
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sono pronto dove andiamo
Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare
Itaca, Itaca, Itaca
la mia casa ce l'ho solo là
Itaca, Itaca, Itaca
ed a casa io voglio tornare...
COMMENTO
Il cantautore Lucio Dalla si pone dal punto di vista di un marinaio che domanda al suo capitano se si
preoccupi mai del destino di tutti quei soldati che viaggiano insieme a lui. Gli dice che vorrebbe tanto
ritornare alla sua amata Itaca, dove sua moglie lo sta aspettando. Afferma anche che è povero e che
deve viaggiare per guadagnare i soldi necessari alla sopravvivenza della sua famiglia.
Infatti, se morisse lui, la sua famiglia non riuscirebbe a sopravvivere, mentre. se morisse il capitano,
lascerebbe un erede e molte ricchezze. Il marinaio ha voglia di tornare ad Itaca, dove ha la sua casa,
ma è disposto anche a seguire il suo capitano (Ulisse). Il capitano viene identificato come Ulisse non
solo attraverso al riferimento ad Itaca, ma anche grazie ai versi in cui si dice che il capitano con
l'astuzia risolve ogni avventura. L'astuzia è la principale caratteristica di Ulisse.
Lucio Dalla (Bologna, 4 marzo 1943 – Montreux, 1º marzo 2012) è stato un musicista, cantautore e
attore.
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Musicista di formazione jazz, è stato uno dei più importanti, influenti e innovativi cantautori italiani.
Ha duettato con molti artisti di fama nazionale e internazionale. Autore inizialmente solo di musica,
successivamente è diventato autore dei suoi testi. Nell'arco della sua lunghissima carriera, durata ben
cinquant'anni di attività, ha sempre suonato le tastiere, il sassofono e il clarinetto.
La sua copiosa produzione artistica ha attraversato numerose fasi: dalla stagione beat alla
sperimentazione ritmica e musicale, fino alla canzone d'autore, arrivando a varcare i confini dell'opera
e della musica lirica. E' stato un autore conosciuto anche all'estero ed alcune sue canzoni sono state
tradotte e portate al successo in numerose lingue.
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INDICE
Odisseo nell’ “Odissea”
pag. 2
L’eroe modello della tensione umana al sapere
pag. 4
L’eroe modello di virtù e sapienza
pag. 5
Dante, “Inferno”, XXVI
pag. 8
Ugo Foscolo, “A Zacinto”
pag.14
Giovanni Pascoli, “Ultimo viaggio di Ulisse”
pag.16
Gabriele D’Annunzio,”Laudi del cielo”
pag.19
Guido Gozzano, E Ulisse piombò nell’inferno
pag.22
Umberto Saba ,”Ulisse”
pag. 24
“Allegria di naufragi”
pag.26
L’ “Ulisse” di Joyce
pag.28
Il canto di Ulisse. Primo Levi, “Se questo è un uomo”
pag.29
Salvatore Quasimodo, “L’isola di Ulisse”
pag.31
Giorgio Caproni, “Esperienza”
pag.33
Costantino Kavafis, “Itaca”
pag.34
“Itaca”
pag.36
Immagini
pag 39
41
GLI AUTORI
Bandirali Federico
Bandirali Francesca
Bianchi Joelle
Bianchi Marta
Cantoni Alessandro
Comaschi Marta
Ferrari Francesca
Grillo Caterina
Inguscio Elisabetta
Mentore Chiara
Oleari Alessia
Poltronieri Dalila
Ronchi Raffaele
Rusconi Irene
Russo Annalisa
Saffioti Serena
Urli Giada
Vitaletti Camilla
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