Classe IV ginnasiale Anno Scolastico 2014-2015
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Classe IV ginnasiale Anno Scolastico 2014-2015
Odisseo, il viaggio, la conoscenza: suggestioni letterarie Classe IV ginnasiale Anno Scolastico 2014-2015 Ἄἔ, ῦύ Omero Il presente lavoro nasce dall’entusiasmo e dall’innata curiositas degli studenti della classe IV ginnasiale del Liceo Montini, i quali, invitati alla lettura del poema omerico “Odissea”, si sono lasciati affascinare dalla figura del protagonista ed hanno inteso approfondire una serie di tematiche che emergono dal testo e che ancora oggi interrogano l’uomo contemporaneo. Esso non ha la pretesa di essere esaustivo, ma vuole offrire delle suggestioni, appunto, spaziando nella letteratura italiana e non solo, avvolgendo una sorta di filo rosso che attraversa i secoli e sconfinando, se pur brevemente, nell’arte. Il personaggio omerico costituisce la figura che è entrata maggiormente nell’immaginario della cultura occidentale. Egli è l’uomo diventato emblema dell’uomo, per il quale il viaggio, inteso come percorso di formazione che comporta rischi e conquiste, significa conoscenza e libertà, l’emblema dell’uomo alla ricerca del suo destino attraverso l’esplorazione di mondi diversi. Dalle parole dei diversi autori, quindi, emerge tutta la modernità dell’eroe omerico. 1 Odisseo NELL'ODISSEA IL PERSONAGGIO Odisseo è il protagonista assoluto dell' “Odissea” nonché uno degli eroi greci più celebrati. Egli non rappresenta solo il valore militare e l’autorità di re e di condottiero, ma un insieme di caratteristiche legate nei tanti aspetti della vita di un uomo: un legame profondo con la famiglia e con la propria terra d'origine, la curiosità, l'orgoglio della propria intelligenza e l'esperienza dei limiti imposti dalla condizione umana. Inoltre, è un “uomo di molte risorse”: l' astuzia, la tenacia e la pazienza, l’ intelligenza, l’abilità nel parlare, il senso di responsabilità e la sete di conoscenza. Odisseo mette in campo la sua astuzia e la sua intelligenza soprattutto nelle situazioni difficili, quando è costretto a lottare per la sua vita o per quella dei suoi compagni. Un esempio molto evidente è quello del Ciclope. Una volta arrivato da Polifemo, dopo essere stato rinchiuso insieme ai compagni nella grotta del Ciclope, Odisseo ordina ai compagni di appuntire la punta di un tronco, da utilizzare per accecare il gigante dopo averlo fatto ubriacare; nel frattempo l’eroe fa credere al Ciclope di chiamarsi Nessuno, in modo che, se per caso Polifemo dovesse chiamare aiuto, gli altri ciclopi penserebbero che nessuno gli sta facendo del male e non si preoccuperebbero. La sua sete di conoscenza invece è il motore iniziale del viaggio, perché Odisseo ha talmente voglia di conoscere nuovi luoghi o fare nuove esperienze che rinuncia a ritornare a casa subito dopo la guerra di Troia. Questa traspare nell’episodio delle Sirene, in cui Odisseo, pur di riuscire a sentire il famoso e fatale canto, tappa le orecchie ai suoi compagni con la cera e si fa legare all’albero della nave. Odisseo però è anche un uomo che prova tanto amore sia per la sua patria che per i suoi compagni. L’amore per la patria sarà la caratteristica che lo farà resistere ai dolori e alle difficoltà; si può notare soprattutto nell’episodio di Calipso, quando arriva Ermes sull’isola Ogigia e vede Odisseo che, nonostante si trovi in un’isola meravigliosa con una dea stupenda, è seduto sulla scogliera e piange guardando l’orizzonte e sospirando la sua casa. L’amore per i compagni è evidenziato soprattutto in due episodi, ossia nell’episodio di Circe, quando la maga fa prigionieri i compagni e lui, piuttosto che abbandonarli, accetta di tradire la moglie con la maga pur di riuscire a liberarli. L’altro è l’episodio di Scilla e Cariddi, quando Scilla, il mostro a sei teste, cerca di divorare i compagni dell’eroe e, nonostante Circe gli abbia raccomandato di non cercare di combattere contro il mostro, lui lo fa lo stesso solo per provare a salvare i suoi compagni. Insomma Odisseo è un eroe non per la sua forza fisica ma per la sua grande forza d’animo e la sua intelligenza. 2 IL POEMA L' “Odissea” è un poema epico scritto tra il IX e l'VIII secolo a.C. e attribuito dalla tradizione ad Omero, autore anche dell' “Iliade”. Il titolo del poema significa “poema di Odisseo” e narra il travagliato ritorno in patria di Odisseo, uno dei condottieri Achei che ha partecipato alla guerra di Troia. L'eroe è anche noto come Ulisse. La prima parte del poema racconta le avventure vissute dal protagonista durante il suo lungo viaggio durato quasi dieci anni; la seconda parte narra l'arrivo del protagonista nella sua terra, Itaca, e la sua riconquista della casa e del regno. OMERO E LA QUESTIONE OMERICA Secondo la tradizione l' “Odissea” fu scritta, come l' “Iliade”, da Omero, il leggendario poeta che sarebbe vissuto tra il IX e l'VIII secolo a.C. La “questione omerica” non riguarda solamente la discussione sul fatto che sia o meno esistito un poeta di nome Omero, ma anche l'attribuzione dei due poemi ad un unico autore. Già nell'epoca Ellenistica, i filosofi espressero dubbi sul fatto che i poemi potessero essere opera dello stesso autore ed ipotizzarono che solamente l' “Iliade” fosse stata scritta da Omero. La questione venne messa da parte per secoli, ma il dibattito si riaccese verso la metà del Seicento, quando l'abate francese D'Aubignac sostenne che i poemi erano una composizione di canti distinti l'uno dall'altro e che Omero non era mai esistito. Questa posizione poi fu ripresa dal filosofo italiano Gian Battista Vico. Da allora gli studiosi di letteratura antica si divisero in due posizioni: • Gli UNITARI che sostenevano che i due poemi sono opera di un unico autore, il quale li avrebbe scritti rielaborando materiali di una lunga tradizione orale. A sostenere questa ipotesi ci sono la somiglianza della struttura e la continuità di argomento. • I SEPARATISTI che sostenevano la tesi opposta, sottolineando le differenze tra i due poemi. Alcuni aspetti dell' “Odissea”, infatti, suggeriscono che sia stata scritta in un’ epoca più tarda. Questa questione rimane ancora oggi irrisolta. 3 L’eroe modello della tensione umana al sapere Cicerone, De finibus honorum et malorum V, XVIII, 48-49 XVIII. [48] Tantus est igitur innatus in nobis cognitionis amor et scientiae, ut nemo dubitare possit quin ad eas res hominum natura nulla emolumento invitata rapiatur. [49] [Ut] mihi quidem Homerus huius modi quiddam vidisse videatur in iis, quae de Sirenum cantibus finxerit. Neque enim vocum suavitate videntur aut novitate quadam et varietate cantandi revocare eos solitae, qui praetervehebamtur, sed quia multa se scire profitebantur, ut nomine ad earum saxa discendi cupidi tate adhaerescerent. Ita enim invitant Ulixem. Dunque, è così innato in noi il desiderio di imparare e di conoscere, che nessuno può dubitare che la natura dell’uomo ne è attirata senza il richiamo di alcun vantaggio materiale […] Sicché sono convinto che Omero intendesse una cosa di questo genere, quando compose l’episodio del canto delle Sirene. L’impressione, infatti, è che esse solevano attirare i naviganti non con le voci carezzevoli o con la novità e la varietà del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, sicché gli uomini restavano attaccati ai loro scogli per desiderio di conoscenza. In questo modo, infatti, attirano Ulisse. 4 L’eroe modello di virtù e di sapienza Orazio, “Epistole”, I, 2, 17-20 […] quid virtus et quid sapientia possit, utile proposuit nobis exemplar Ulixen, qui domitor Troiaemultorum providus urbes, et mores hominum inspexit, latumque per aequor, dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa pertulit, adversis rerum inmersabilis undis. […] simbolo ed esempio del potere della virtù sugli uomini, Ulisse, che fu il vincitore di Troia, il savio, che conobbe molte città e costumi di uomini, e navigò per tanta distesa di mare, attraverso tante pene, in cerca del ritorno, per sé e per i suoi, e non doveva affondare tra i marosi del mondo nemico. COMMENTO Orazio e Cicerone descrivono il re di Itaca come un uomo assetato di conoscenza, Ulisse è il viaggiatore per antonomasia, il prototipo dell’uomo occidentale, continuamente alla ricerca di sé stesso e del sapere. Cicerone interpreta l’episodio dell’incontro con le Sirene come metafora dell’innato desiderio degli uomini si imparare; esse infatti non attirano Ulisse con la dolcezza del loro canto, ma gli promettono la conoscenza. Orazio descrive il protagonista dell’Odissea come un uomo di straordinaria virtù e intelligenza, che ha sopportato le difficoltà della vita per ottenere la saggezza. 5 GLI AUTORI Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino, nei pressi dell' attuale Frosinone, da agiata famiglia equestre; compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso e dei due Scevola. Strinse con Tito Pomponio Attico un' amicizia destinata a durare per tutta la vita. Nell' 81, o forse anche prima, debuttò come avvocato e nell' 80 difese la causa di Sesto Roscio ( accusato di Parricidio ), che lo mise in conflitto con autorevoli esponenti del regime sillano . Tra il 79 e il 77 si allontanò da Roma ( forse per paura di rappresaglie dopo il grande successo della sua orazione a difesa di Roscio ) ed effettuò un lungo viaggio in Grecia e in Asia dove studiò filosofia e retorica. Al ritorno sposò Terenzia, dalla quale nacquero Tullia ( che Cicerone appellò affettuosamente " Tulliola " ), nel 76, e Marco, nel 65. Nel 75 fu questore di Sicilia e nel 70 sostenne trionfalmente l' accusa dei Siciliani contro l' ex governatore Verre, accusato di truffa e di empietà; con questa esperienza Cicerone si guadagnò fama di oratore principe. Nel 69 fu edile, nel 66 pretore e diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo poteri straordinari per la lotta contro il re del Ponto Mitridate, facendo così gli interessi degli equites, che venivano ostacolati nel loro lavoro di esattori delle imposte da Mitridate, ma nello stesso tempo tutelando anche i suoi stessi interessi, accattivandosi la simpatia del ceto equestre. Nel 63 fu eletto console e soffocò in modo duro la congiura di Catilina, che aveva cercato di salire al potere in modo illegale e di stravolgere la res publica: in quest' occasione compose le quattro “Catilinarie”, con le quali svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale: esse, con i loro toni veementi, minacciosi e carichi di pathos, possono essere considerate il suo capolavoro consolare. Dopo la formazione del primo triunvirato, cui Cicerone guardava con preoccupazione perché riteneva che potesse essere insidiosa per l' autorità senatoria, il suo astro iniziò a decadere: nel 58 dovette recarsi in esilio, con l’ accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina e la sua casa venne rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi rientrò trionfalmente nel 57. Nel 52 Clodio , acerrimo nemico di Cicerone, rimase ucciso e questo fatto pesò su Milone, il diretto rivale di Clodio; Cicerone assunse le difese di Milone componendo la “Pro Milone”, una delle sue opere meglio riuscite. Nel 51 fu governatore di Cilicia, pur avendo accettato a malincuore di allontanarsi da Roma. Allo scoppio della guerra civile ( 49 a.C. ) aderì con scarso entusiasmo alla causa di Pompeo; dopo la sconfitta di quest' ultimo ottenne il perdono da Cesare. Negli anni successivi divorziò da Terenzia e si risposò con la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale tuttavia divorziò dopo pochi mesi. Nel 45 morì la figlia Tullia e in quegli anni iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo teneva distante dalle vicende politiche. Nel 44, dopo l' assassinio di Cesare, tornò alla vita politica e cominciò la lotta contro Antonio; pronunciò le “Filippiche” per indurre il senato a dichiarargli guerra e a dichiararlo nemico pubblico; sono orazioni in cui serpeggia l' odio, dove Antonio viene presentato come un tiranno assoluto, un ladro di denaro pubblico, un ubriacone. Ma la manovra politica di Cicerone era destinata a fallire. Con un brusco voltafaccia, Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato e strinse un accordo con Antonio e un altro capo cesariano, Lepido. Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui nome venne inserito nelle liste di proscrizione. Fu raggiunto dai sicari presso Formia, dopo che aveva intrapreso un tentativo di fuga, ai primi di dicembre del 43. 6 Quinto Oràzio Flacco nacque a Venosa nel 65 a. C. da padre libertinus, come egli stesso dice, e fu educato a Roma, dove ebbe come primo maestro Orbilio; compiuti i vent'anni si recò ad Atene, a completare gli studî retorici. Prima o dopo questo viaggio fu forse in Campania, dove venne in contatto con il circolo epicureo di Filodemo, in cui compì l'esperienza filosofica che rimase fondamentale nella sua vita e certamente subì anche l'influsso del poema di Lucrezio. In Atene aderì al mondo dei giovani romani che vi studiavano e alle idee repubblicane e anticesariane tra loro diffuse; perciò, dopo l'uccisione di Cesare, militò sotto Bruto come tribunus militum. Dopo Filippi rinunciò all'idea repubblicana, che rimase per lui solo un ricordo e un sogno della giovinezza. Dalla delusione morale e politica gli derivò una sottile amarezza che gli rimase poi sempre. Per vivere si adattò al mestiere di scriba questorio, mentre proseguiva nell'approfondimento della pratica poetica già prima iniziata. Studiò la diatriba stoico-cinica, i poeti giambici greci, Ipponatte e Archiloco, e in genere la poesia lirica ellenistica classica e alessandrina. Incontratosi con Virgilio, giunto a Roma dopo l'esproprio del suo podere mantovano, nel 38 fu da questo e da Vario presentato a Mecenate, con il quale strinse un'amicizia decisiva per la sua vita. Lo seguì nel viaggio a Brindisi l’anno successivo per il rinnovo dell'accordo fra Ottaviano e Antonio. Ritornato a Roma, divenne il centro del circolo poetico che si raccoglieva intorno al potente consigliere di Augusto e Mecenate, comprendendo la natura schiva dell'amico, gli fece dono, nell'anno 31, di una villa in Sabina, che fu il rifugio e la consolazione di tutta la vita di Orazio. Tra la Sabina e Roma egli visse poi sempre e, come egli stesso aveva predetto, non si allontanò dall'amico carissimo neppure nella morte; morì infatti a Roma pochi mesi dopo Mecenate, il 27 novembre dell’8 a.C, e fu sepolto sull'Esquilino presso il tumulo di lui. Tra le sue opere si ricordano gli “Epodi”, le “Odi”, le “Satire” e le “Epistole”. 7 Dante, “Inferno”, XXVI Testo Parafrasi Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande! Rallegrati, Firenze, perché sei così famosa da percorrere il mare e la terra, e il tuo nome è conosciuto persino all'Inferno! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini, tali che a me viene vergogna e tu certo non acquisti onore. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. Ma se vicino al mattino si fanno sogni veritieri, di qui a poco tempo tu riceverai il castigo che tutte le città, anche quelle piccole come Prato, ti augurano. E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’più m’attempo. E se anche accadesse già, sarebbe comunque tardi. Potesse allora succedere, dal momento che è inevitabile! Quanto più invecchierò, tanto più questo castigo mi sarà insopportabile. Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avea fatto iborni a scender pria, rimontò ’l duca mio e trasse mee; Noi ci allontanammo e il maestro risalì su quelle rocce che, prima, ci avevano fatti impallidire a scendere, e mi portò con sé; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia. e proseguendo lungo la via solitaria, il piede non poteva avanzare senza l'aiuto delle mani tra gli spuntoni e le schegge della roccia. Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. Allora provai dolore, e lo provo anche adesso pensando a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più del solito affinché non agisca senza la guida della virtù; così che, se un benigno influsso astrale o qualcosa di più importante (la grazia divina) mi hanno dato il bene, io stesso non me lo sottragga. Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede alla zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’é vendemmia e ara; Quante sono le lucciole che il contadino, quando si riposa sulla collina nella stagione (estate) in cui il sole tiene meno nascosta a noi la sua faccia, nell'ora (la sera) in cui la mosca lascia il posto alla zanzara, vede giù nella valle dove egli vendemmia e ara; 8 di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. altrettante fiamme risplendevano nella VIII Bolgia, come io vidi non appena fui là da dove il fondo era visibile. E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, e nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire: E come colui (Eliseo) che si vendicò con gli orsi vide il carro d'Elia che partiva, quando i cavalli si levarono alti nel cielo, e non lo poteva seguire con lo sguardo senza vedere altro che la fiamma, che saliva su come una nuvoletta: tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. così sul fondo della Bolgia si muove ciascuna fiamma, in modo tale che nessuna mostra l'anima nascosta all'interno, e ogni fiamma cela un peccatore. Io stava sovra ’l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto. Io stavo sopra il ponte, proteso per vedere al punto che, se non mi fossi aggrappato a una sporgenza rocciosa, sarei caduto in basso senza essere urtato. E ’l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso». E il maestro, che mi vide così attento, disse: «Dentro quei fuochi ci sono delle anime; ognuna è fasciata dalla fiamma che la avvolge». «Maestro mio», rispuos’io, «per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti: Io risposi: «Maestro mio, ora che ti ascolto ne sono più certo; ma avevo già intuito che fosse così e volevo chiederti: chi è ’n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?». chi c'è dentro quel fuoco la cui punta è biforcuta, tanto che sembra levarsi dal rogo funebre dove Eteocle fu messo col fratello (Polinice)?» Mi rispose: «Là dentro sono puniti Ulisse e Diomede, e sono dannati insieme come insieme commisero i loro peccati; Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Diomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira; e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. e nella loro fiamma espiano l'inganno del cavallo di Troia che aprì la porta da cui uscì il nobile seme dei Romani. Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deidamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta». Vi è punito anche l'imbroglio per cui Deidamia, anche se è morta, ancora si rammarica di Achille, e si sconta anche il furto del Palladio». «S’ei posson dentro da quelle faville parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille, che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma Io dissi: «Se essi in quelle fiamme possono parlare, maestro, ti prego con insistenza e ti prego ancora, così che la preghiera valga per mille, che tu non mi neghi di aspettare che 9 cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi quella fiamma a due punte venga qui; vedi che piego!» mi piego verso di essa dal desiderio!» Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna. E lui a me: «La tua preghiera è degna di grande lode, e perciò io la accetto; ma dovrai tenere a freno la tua lingua. Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’é fuor greci, forse del tuo detto». Lascia parlare me, dal momento che so bene quello che vuoi; infatti essi, essendo stati greci, potrebbero essere restii a rivolgerti la parola». Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: Dopo che la fiamma fu giunta nel punto in cui al mio maestro parve opportuno il tempo e il luogo, lo sentii parlare in questo modo: «O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi». «O voi che siete in due dentro una sola fiamma, se ho acquisito meriti nei vostri confronti quand'ero vivo, se ho acquisito meriti grandi o piccoli presso di voi quando, sulla Terra, scrissi gli alti versi, non andate via; ma uno di voi (Ulisse) racconti dove è andato a morire in un viaggio senza ritorno». Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica; La punta più alta di quell'antica fiamma cominciò a scuotersi mormorando, come quella colpita dal vento; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori, e disse: quindi, volgendo la cima da una parte e dall'altra, come una lingua che parlasse, gettò fuori la voce e disse: «Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse, «Quando mi allontanai da Circe, che mi tenne più di un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea desse questo nome al promontorio, né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore; né la tenerezza per mio figlio, né la devozione per il mio vecchio padre, né il legittimo amore che doveva fare felice Penelope poterono vincere in me il desiderio che ebbi di diventare esperto del mondo, dei vizi e delle virtù degli uomini; ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. ma mi misi in viaggio in alto mare solo con una nave e con quei pochi compagni dai quali non fui abbandonato. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. Vidi entrambe le sponde del Mediterraneo fino alla Spagna, al Marocco e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate da quel mare. Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi Io e i miei compagni eravamo vecchi e deboli 10 quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta: da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta. quando giungemmo a quello stretto (di Gibilterra) dove Ercole pose le colonne, limite oltre il quale l'uomo non deve procedere: a destra avevamo Siviglia, a sinistra Ceuta. "O frati", dissi "che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Dissi: "O fratelli, che siete giunti all'estremo ovest attraverso centomila pericoli, non vogliate negare a questa piccola veglia che rimane ai vostri sensi (ai vostri ultimi anni) l'esperienza del mondo disabitato, seguendo la rotta verso occidente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Pensate alla vostra origine: non siete stati creati per vivere come bestie, ma per seguire la virtù e la conoscenza". Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; Con questo breve discorso resi i miei compagni così smaniosi di mettersi in viaggio, che in seguito avrei stentato a trattenerli; e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. e volta la poppa a est, facemmo dei remi le ali al nostro folle volo, sempre proseguendo verso sud-ovest (a sinistra). Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte e ’l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo. La notte ormai mostrava tutte le costellazioni del polo australe, mentre quello boreale era tanto basso che non emergeva dalla linea dell'orizzonte. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna. La luce dell'emisfero lunare a noi visibile si era già spenta e riaccesa cinque volte (erano passati circa cinque mesi), dopo che avevamo intrapreso il viaggio, quando ci apparve una montagna (il Purgatorio) scura per la lontananza, e mi sembrò più alta di qualunque altra io avessi mai vista. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, ché de la nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Noi ci rallegrammo, ma l'allegria si tramutò presto in pianto: infatti da quella nuova terra nacque una tempesta che colpì la nave a prua. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso». La fece girare su se stessa tre volte, in un vortice; la quarta volta fece levare in alto la poppa e fece inabissare la prua, come piacque ad altri (Dio), finché il mare si fu richiuso sopra di noi». 11 COMMENTO Nel XXVI canto dell’Inferno, Dante presenta il personaggio di Ulisse, mitico eroe greco, nell’ottava bolgia, condannandolo come consigliere fraudolento perché ha usato la sua astuzia ingannando l’uomo, come nell’inganno del cavallo di Troia, facendo credere ai Troiani che fosse un regalo in segno di resa. Insieme ad Ulisse condanna anche Diomede per aver profanato una statua sacra per i Troiani e per i due questo subiscono insieme la pena, bruciando in fiamme alte quanto la loro statura, che sfigurano il loro corpo; infatti Dante quasi non li riconosce. Dante appena li vede è desideroso di parlare con loro, ma Virgilio preferisce essere lui a parlare. Così Ulisse inizia a raccontare la storia della sua vita, facendo vedere molto chiaramente che il suo desiderio di conoscere era maggiore di quello di ritornare in patria, per quanto lo volesse. La frase celebre che Ulisse rivolge ai suoi compagni :”Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza” ci fa capire ancor meglio che Ulisse aveva una capacità oratoria eccezionale, perché con poche parole riesce a convincere i propri compagni ad andare verso l’ignoto, dove nessun uomo era riuscito ad arrivare; ma ciò costò la vita di tutti. Un altro aspetto importante del carattere di Ulisse evidente nella “Divina Commedia” è il desiderio di conoscenza: dopo aver esortato i compagni ad andare avanti nel viaggio, riesce a superare le “colonne d’Ercole” che all’epoca erano i confini del mondo e per questo Dante lo punì. LA DIVINA COMMEDIA La “Commedia” — titolo originale dell'opera: successivamente Giovanni Boccaccio attribuì l'aggettivo "Divina" al poema dantesco — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della letteratura universale. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava. Il poema è diviso in tre libri, o Cantiche, ciascuno formato da 33 canti; ogni canto si compone di terzine di endecasillabi. La “Commedia” tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla poesia didattica medievale, ma intrisa di una spiritualità cristiana nuova che si mescola alla passione politica e agli interessi letterari del poeta. Si narra di un viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà, compiuto dal poeta stesso, sotto la guida della ragione e della fede. LA VITA DI DANTE ALIGHIERI Dante è nato in Italia, nella città di Firenze, il 22 Maggio nel 1265 ed è morto il 14 Settembre del 1321 a Ravenna. Quando aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni. Da Gemma, Dante ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. L'evento più significativo della sua giovinezza, secondo il suo stesso racconto, fu l'incontro con Beatrice, la donna che amò ed esaltò come simbolo della grazia divina, prima nella “Vita nuova” e successivamente nella “Divina Commedia”. A Firenze fu profondamente influenzato dal letterato Brunetto Latini, che compare come personaggio nella “Commedia”. Iniziò l'attività politica nel 1295, iscrivendosi alla corporazione dei medici e degli speziali. Venne accusato di baratteria e condannato in contumacia prima a un'enorme multa e poi a morte. Iniziò così l'esilio (nel quale furono in seguito coinvolti anche i figli), che sarebbe durato fino alla morte, anche se lui cercherà molte volte di rientrare nella città natale. 12 Suddivisione dell’Inferno nella “Divina commedia”: 13 Ugo Foscolo, “A Zacinto” Nè più mai toccherò le sacre sponde Ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde Del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde Col suo primo sorriso, onde non tacque Le tue limpide nubi e le tue fronde L’inclito verso di Colui che l’acque Cantò fatali, ed il diverso esiglio Per cui bello di fama e di sventura Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse? Tu non altro che il canto avrai del figlio, O materna mia terra; a noi prescrisse Il fato illacrimata sepoltura. Parafrasi: Non toccherò mai più le sacre rive dove il mio corpo di fanciullo giacque oh mia Zacinto, che ti specchi nelle onde del mare della Grecia, dal quale Venere nacque già donna, e rese feconde quelle isole col suo primo sorriso, per cui cantò delle tue limpide nubi e della tua vegetazione, colui che, cantò i viaggi per mare voluti dal Fato e l’esilio in mille luoghi diversi, in virtù delle quali, Ulisse, celebre per la fama dalle sventure sopportate, infine baciò la pietrosa isola di Itaca. Oh Zacinto, mia terra materna, tu invece non avrai altro che questo canto scritto da tuo figlio, perché il destino ha stabilito per me una sepoltura senza lacrime delle persone care. COMMENTO “A Zacinto” è stata scritta nel 1803 a Milano. Il sonetto è dedicato all'isola di Zante dove Foscolo nacque. Il tema principale è l'esilio e la nostalgia della terra natale. Nel primo tratto l'esilio non sembra rattristarlo, si abbandona ai ricordi della sua patria e la descrive affettuosamente. Il poeta in seguito paragona la sua condizione a quella di Ulisse, che però fu più fortunato di lui perché riuscì a rimettere piede sulla sua petrosa Itaca, mentre Foscolo è condannato ad una “illacrimata sepoltura”, cioè dovrà morire da solo, esiliato, senza che nessuno dei suoi cari venga a piangere sulla sua tomba. 14 L’AUTORE Niccolò Ugo Foscolo nacque a Zante (anticamente chiamata Zacinto) nel 1778 dove trascorse la sua infanzia. Nel 1972 si trasferì a Venezia dove si dedicò a studi letterari e filosofici. Nel 1797, a causa delle sue idee rivoluzionarie, fu costretto a trasferirsi a Bologna, dove si arruolò nelle truppe della Repubblica Cispadana. Nel 1808 gli fu assegnata la cattedra di eloquenza all'Università di Pavia. Napoleone non gli andava molto a genio e dopo la sua caduta fu invitato a collaborare con il nuovo governo, ma preferì l'esilio (1815 prima in Svizzera, poi in Inghilterra). Morì a Londra nel 1827. Per lui l'uomo si trovava a vivere sulla terra al pari di tutti gli altri elementi naturali, destinato a vivere nel nulla eterno la sua esistenza travagliata. La vita non può essere altro che il continuo tendere a una felicità irraggiungibile. Ma da questo Foscolo avverte una aspirazione che possa dare un significato all'esistenza: i valori di verità, giustizia, bellezza, libertà e patria. La poesia è il suo modo per esprimere questi valori e svolge la funzione di rendere eterni gli ideali. 15 Giovanni Pascoli, “Ultimo viaggio di Ulisse” LIBRO XIV CALYPSO E il mare azzurro che l’amò, più oltre spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana, alla spelonca, cui fioriva all’orlo carica d’uve la pampinea vite. fosca intorno le crescea la selva ontani e d’odoriferi cipressi; e falchi e gufi e garrule cornacchie v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno, né dio né uomo, vi poneva il piede. Or tra le foglie della selva i falchi battean le rumorose ale, e dai buchi soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi, e dai rami le garrule cornacchie garrian di cosa che avvenia nel mare. Ed ella che tessea dentro cantando, presso la vampa d’olezzante cedro, stupì, frastuono udendo nella selva, e in cuore disse: – Ahimè, ch’udii la voce delle cornacchie e il rifiatar dei gufi! E tra le dense foglie aliano i falchi. Non forse hanno veduto a fior dell’onda un qualche dio, che come un grande smergo viene sui gorghi sterili del mare? O muove già senz’orma come il vento, sui prati molli di viola e d’appio? Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto! In odio hanno gli dei la solitaria Nasconditrice. E ben lo so, da quando l’uomo che amavo, rimandai sul mare al suo dolore. O che vedete, o gufi dagli occhi tondi, e garrule cornacchie? – Ed ecco usciva con la spola in mano, d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori del mare, al piè della spelonca, un uomo, sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco capo accennava di saper quell’antro, tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio pendea con lunghi grappoli dell’uve. Era Odisseo: lo riportava il mare alla sua dea: lo riportava morto alla Nasconditrice solitaria, 16 all’isola deserta che frondeggia nell’ombelico dell’eterno mare. Nudo tornava chi rigò di pianto le vesti eterne che la dea gli dava; bianco e tremante nella morte ancora, chi l’immortale gioventù non volle. Ed ella avvolse l’uomo nella nube dei suoi capelli; ed ululò sul flutto sterile, dove non l’udia nessuno: Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più! COMMENTO Pubblicato per la prima volta nel volume dei Poemi Conviviali (1904), L’ultimo viaggio di Ulisse, suddiviso in canti come l’Odissea, per un totale di 1211 versi, racconta l’ultimo periodo della vita di Odisseo: dopo essere tornato ad Itaca e aver vissuto per nove anni nella sua isola sognando continuamente il mare, l’eroe omerico decide di abbandonare la sua casa, la moglie, la terraferma dove presto lo raggiungerà la morte, per riprendere il viaggio, insieme ai suoi vecchi marinai, che da tempo aspettano il momento di salpare. Questo ultimo viaggio, però, avviene sotto il segno della disillusione: Odisseo ripercorre rotte già battute, ma non incontra più Polifemo e i ciclopi, Circe o il canto delle Sirene, tanto da pensare che tutte le avventure trascorse siano soltanto il frutto della sua immaginazione. Incontrerà solamente la dea Calipso: il cadavere di Odisseo, dopo il definitivo naufragio, sarà infatti trasportato dalle onde presso la sua grotta, in un’isola lontana e solitaria. Il brano riportato, che chiude il poema, racconta l’arrivo del corpo di Odisseo all’isola di Calipso e si conclude con una riflessione che condensa l’angoscia esistenziale di Pascoli e che recupera la massima del pessimismo radicale, già presente in testi classici e nel Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. La massima, messa in bocca a Calipso, afferma che per l’uomo sarebbe meglio non nascere e restare per sempre nel nulla, piuttosto che conoscere la lacerazione della morte. L’AUTORE Nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Il padre, amministratore di una vasta tenuta agricola dei principi Torlonia, fu assassinato per essersi opposto al brigantaggio che allora era molto diffuso nella regione. Pascoli allora aveva dodici anni e si trovava a studiare nel collegio dei padri Scolopi a Urbino. Poco dopo gli moriranno anche la madre, una sorella e due fratelli. Questi lutti, soprattutto quello del padre, segnarono profondamente la sensibilità del giovane. Nonostante ciò egli poté proseguire gli studi al liceo di Rimini e poi dal '73, con una borsa di studio vinta dopo un esame sostenuto alla presenza del Carducci, poté iscriversi alla facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Qui si avvicinò agli ambienti del socialismo emergente di Andrea Costa, e si iscrisse all'Internazionale socialista. Privato della borsa di studio per aver partecipato a una manifestazione contro il ministro dell'Istruzione allora in carica, visse in grande miseria e per ben cinque anni (dal 1875 al 1880) fu costretto a interrompere gli studi. Nel '79 venne coinvolto nelle 17 agitazioni che seguirono alla condanna a morte dell'anarchico che attentò alla vita del re Umberto I a Napoli: arrestato, restò in carcere per più di tre mesi. Il carcere fu un'esperienza che lo segnò, interiormente, in maniera decisiva. Decise di abbandonare l'attività politica e di laurearsi; con l'aiuto del Carducci ottenne la cattedra di latino e greco al liceo di Matera. Successivamente si trasferì a Massa, ove si riunì a due sorelle, di cui una resterà con lui tutta la vita; poi passò a Livorno, dove rimase sette anni. Nel corso di questi anni, per aumentare il magro stipendio si dedicò a vari incarichi intellettuali e a lezioni private. Nel '91 pubblicò il suo primo volumetto di poesie, Myricae, che resta la sua opera più famosa (l'altra è Canti di Castelvecchio del 1903), mentre l'anno seguente vinse il primo premio al concorso internazionale di poesia latina ad Amsterdam (lo vincerà per altre 12 volte!). La sua fama di latinista gli permise nel '95 di abbandonare l'insegnamento liceale per quello universitario. Diventò docente di latino e greco a Bologna, poi di latino a Messina fino al 1903. Nel 1906 ottenne la cattedra di letteratura italiana dell'ateneo bolognese, lasciata vacante dal Carducci. Morì nel 1912, per un cancro all'addome, a Bologna; venne sepolto a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, paese in cui nel '95 si era comprato una casa. 18 Gabriele D’Annunzio, “LAUDI DEL CIELO” Alle Pleiadi e ai Fati Gloria al Latin che disse: «Navigare è necessario; non è necessario vivere». A lui sia gloria in tutto il Mare! O Mare, accenderò sul solitario monte che addenta e artiglia te (leone sculto da qual Ciclope statuario?) un salso rogo estrutto col timone e la polèna della nave rotta, che ha la tortile forma del Tritone. Il ricurvo timon per cui condotta fu la nave nell'ultima procella con la barra tra l'una e l'altra scotta, la divina figura onde fu bella contra il flutto la prua sotto il baleno della nube che vinto avea la Stella, ardere voglio avverso il Mar Tirreno, l'ornamento superbo e il rude ordegno, le Pleiadi invocando al ciel sereno. Crepiterà nel fuoco il salso legno, su la cervice del leon proteso; e taluno vedrà di lungi il segno insolito e dirà: «Qual mano acceso ha il rogo audace? Quale iddio su l'erte rupi nel cuore della fiamma è atteso?». Non un iddio ma il figlio di Laerte qual dallo scoglio il peregrin d'Inferno con le pupille di martìri esperte vide tristo crollarsi per l'interno della fiamma cornuta che si feo voce d'eroe santissima in eterno. «Né dolcezza di figlio...» O Galileo, men vali tu che nel dantesco fuoco il piloto re d'Itaca Odisseo. Troppo il tuo verbo al paragone è fioco e debile il tuo gesto. Eccita i forti quei che forò la gola al molle proco. L'àncora che s'affonda ne' tuoi porti non giova a noi. Disdegna la salute chi mette sé nel turbo delle sorti. Ei naviga alle terre sconosciute, 19 spirito insonne. Morde, àncora sola, i gorghi del suo cor la sua virtute. Di latin sangue sorse la parola degna del Re pelasgo; e il sacro Dante le diede più grand'ala, onde più vola. Re del Mediterraneo, parlante nel maggior corno della fiamma antica, parlami in questo rogo fiammeggiante! Questo vigile fuoco ti nutrica il mio vóto, e il timone e la polèna del vascel cui Fortuna fa nimica, o tu che col tuo cor la tua carena contra i perigli spignere fosti uso dietro l'anima tua fatta Sirena, infin che il Mar fu sopra te richiuso! COMMENTO Nelle “Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, Maia o Lode della vita” D’Annunzio narra di Ulisse, in particolare si riferisce all’episodio in cui l’eroe attraversa le Colonne d’Ercole, sfidando gli dei. Riesce a creare con la ricerca di parole ad effetto la tempesta che violenta inghiotte la barca, “la prua sotto il baleno della nube”. Parla di un rogo in cui “crepiterà il salso legno” e in seguito si collega all’immagine dell’inferno dantesco, dove Ulisse è eternamente avvolto dalle fiamme. Negli ultimi versi infine si rivolge proprio a lui, chiamandolo re del Mediterraneo. Questo passo delle “Laudi del cielo” fa parte del primo dei cinque libri delle laudi (Maia, Elettra, Alcyone, Mereope e Asterope), di circa ottomila versi. Qui D’Annunzio non utilizza uno schema fisso, ma scrive in versi liberi. Il poema è la trasfigurazione di un viaggio reale dell’autore in Grecia; le terribili città moderne, i cui “mostri” diventano entità mitiche alle quali inneggiare, e aspetti industriali come il capitale, le macchine ecc. possono essere indirizzati a fini eroici. GABRIELE D’ANNUNZIO Nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia medio-borghese. Studia al collegio Cicognini di prato, uno dei più prestigiosi d’Italia, quindi si stabilisce a Roma dove si iscrive alla facoltà di Lettere. Qui collabora a diversi periodici e diventa in breve tempo una figura di spicco della vita culturale e mondana. Grande risonanza hanno la fuga e il seguente matrimonio con una giovane duchessa che gli darà tre figli. Nel 1889 pubblica il suo primo romanzo, Il piacere, ricco di risvolti autobiografici. A causa del suo amore per il lusso è costretto a indebitarsi, così, nel 1891, per sfuggire ai creditori, si allontana da Roma e si trasferisce a Napoli. Cambia più volte residenza. Dal 1898 ha un’intensa relazione con la celebre attrice Eleonora Duse in una villa a Firenze; poi, travolto da nuovi debiti, dopo il sequestro della villa nel 1910, emigra in Francia. 20 Torna in Italia nel 1915, si dichiara fervente interventista e si impegna personalmente in spericolate azioni belliche. Terminata la guerra, deluso dalle condizioni di pace sottoscritte dall’Italia, con alcuni volontari marcia sulla città di Fiume e la occupa fino al 1921, quando le truppe inviate dal governo italiano lo costringono ad abbandonarla. Si ritira a Gardone, sul lago di Garda, nella residenza da lui denominata il “Vittoriale degli italiani”, che trasformerà nel museo della sua vita e delle sue imprese. Qui muore nel 1938, dopo un lungo periodo d’isolamento. D’Annunzio è lo scrittore che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, maggiormente influisce sulla letteratura e sul costume del tempo. La sua poetica è l’espressione più appariscente del Decadentismo Italiano, anche se sembra coglierne solo modi e forme, senza approfondirne le tematiche più intime. Nelle sue opere troviamo così gli aspetti più evidenti del movimento: l’estetismo (esaltazione della bellezza e dell’arte, che diventano valori unici e supremi), il superomismo (culto esagerato della personalità, che porta l’individuo a elevarsi sopra le masse), il sensualismo (abbandono alle suggestioni dei sensi e dell’istinto). Nel linguaggio va alla ricerca della parola raffinata, che ha lo scopo di persuadere e affascinare, utilizzata più per il suono che per il significato, ma spesso manca la profondità dei sentimenti. D’Annunzio ha lasciato una notevole quantità di opere letterarie, che coprono un arco di circa cinquant’anni di attività. Ricordiamo qui le più importanti. I ROMANZI: Il piacere (1889), L’innocente (1892), Il trionfo della morte (1894). LE TRAGEDIE: La città morta (1897), La figlia di Jorio (1904). LE RACCOLTE POETICHE: Le laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi e la raccolta poetica Alcyone, nella quale sono racchiuse alcune tra le più belle composizioni di D’annunzio, come La sera fiesolana, La pioggia nel pineto, I pastori. 21 Guido Gozzano – E Ulisse piombò nell'Inferno Il Re di Tempeste era un tale che diede col vivere scempio un bel deplorevole esempio d’infedeltà maritale, che visse a bordo d’un yach t toccando tra liete brigate le spiagge più frequentate dalle famose cocottes… Già vecchio, rivolte le vele al tetto un giorno lasciato, fu accolto e fu perdonato dalla consorte fedele… Poteva trascorrere i suoi ultimi giorni sereni, contento degli ultimi beni come si vive tra noi… Ma né dolcezza di figlio, né lagrime, né pietà del padre, né il debito amore per la sua dolce metà gli spensero dentro l’ardore della speranza chimerica e volse coi tardi compagni cercando fortuna in America… - Non si può vivere senza danari, molti danari… Considerate, miei cari compagni, la vostra semenza! - Viaggia viaggia viaggia viaggia nel folle volo vedevano già scintillare le stelle dell’altro polo… viaggia viaggia viaggia viaggia per l’alto mare: si videro innanzi levare un’alta montagna selvaggia… Non era quel porto illusorio la California o il Perù, ma il monte del Purgatorio che trasse la nave all’in giù. E il mare sovra la prora si fu rinchiuso in eterno. E Ulisse piombò nell’Inferno dove ci resta tuttora... 22 PARAFRASI Il Re di Tempeste era un tale che vivendo diede cattivo esempio d’infedeltà maritale, visse a bordo d’un yacht andando con lieti compagni sulle spiagge più frequentate dalle famose cocottes… Già vecchio, un giorno rivolse le vele verso il tetto, fu accolto e fu perdonato dalla consorte fedele… Poteva trascorrere i suoi ultimi giorni sereni, contento degli ultimi beni come si vive tra noi… Ma né la dolcezza del figlio, né le lacrime, né la pietà del padre, né il debito di amore per la sua dolce metà gli spensero dentro l’ardore della speranza chimerica e volse coi tardi compagni cercando fortuna in America… - Non si può vivere senza soldi, molti soldi… Miei cari compagni, considerate la vostra semenza! - Viaggia viaggia viaggia viaggia nel folle volo: vedevano già scintillare le stelle dell’altro polo… viaggia viaggia viaggia viaggia per l’alto mare: videro davanti a loro levare un’alta montagna selvaggia… Quello non era porto illusorio, non era la California né il Perù, ma il monte del Purgatorio che fece affondare la nave. E il mare sopra la prora si chiuse per l'eterno. E Ulisse piombò nell’Inferno dove si trova tuttora... COMMENTO Guido Gozzano in questa poesia offre una versione parodistica di Ulisse. L'eroe omerico fedele a Penelope, che approda con la nave e i compagni alle terre abitate da dee e maghe, è diventato un playboy che a bordo di uno yatch tocca “con liete brigate” le spiagge del Mediterraneo frequentate da donne di facili costumi. L'ironia non intende dissacrare il mito omerico o l'Ulisse dantesco, ma l'aristocratico Ulisse-superuomo di D'Annunzio: il “Re di tempeste” di D'Annunzio diventa un uomo comune, “un tale” dal vivere dissennato e che, spinto da una speranza chimerica, cercò fortuna in America, ma “piombò nell'inferno dove ci resta tuttora...”. NOTIZIE SULL’AUTORE Guido Gozzano nacque a Torino nel 1883 e lì morì nel 1916, appena trentatreenne, gravemente ammalato di tubercolosi. Avviato agli studi di giurisprudenza, ben presto li abbandonò per dedicarsi ai suoi interessi letterari. La sua vita si svolse per lo più fra Torino e la villa del Meleto ad Aglie Canavese, a parte un viaggio in India nel 1912-1913, compiuto anche nel tentativo di guarire la malattia che lo affliggeva ormai da parecchi anni. Le sue opere principali sono le due raccolte di versi “La via del rifugio” nel 1907 e “I colloqui” nel 1911; si possono anche ricordare il poemetto entomologico incompiuto “Le farfalle” e, per l'interesse biografico, il carteggio con la poetessa Amalia Guglielminetti, da lui amata. La poesia di Gozzano è considerata il miglior esito del Crepuscolarismo, del quale ben compendia i motivi e i toni poetici. Particolarmente famosi sono i poemetti “La signorina Felicita” e “L'amica di nonna Speranza”, che rivelano anche un certo distacco ironico da parte del poeta: egli infatti non riesce mai del tutto a immedesimarsi in quel mondo di cose vecchie e di stanchi sentimenti, in cui pure sono le sue radici e da cui non può staccarsi completamente. 23 Umberto Saba, "Ulisse" Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d'onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d'alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l'alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano più al largo, per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore. FORMA • • • 13 endecasillabi non ci sono rime tranne la parola rima largo ai versi 8 e 11 ci sono diversi enjambement: -raro/uccello -al sole/belli -l'alto/marea -il porto/accende -al largo/sospinge • il nucleo tematico della lirica è contenuto nell'inversione del verso finale: e della vita il doloroso amore • ci sono molte allitterazioni: uccello, alghe, scivolosi, sole, belli, smeraldi, alta, li annullava, vele, largo, raro, prede, marea, regno, terra, porto, spirito, doloroso, amore. CONTENUTO Il filo conduttore del componimento è dato dal titolo. La poesia s'impernia sulla sovrapposizione dei due personaggi, l'uno mitico (Ulisse) e l'altro reale (il poeta), ma è tesa un'identificazione con la prima figura. Il motivo di Ulisse ripropone il mito dell'uomo viaggiatore, sottolineando l'inesauribilità dell'andare: la vita è avventura "al largo", è esperienza nella terra di nessuno. La struttura della poesia si basa su due elementi temporali, "Nella mia giovinezza" e "Oggi". Un filo comune salda le due età dell'esistenza: il viaggio, la ricerca non sono prerogative solo dell'età giovanile, ma della vita nel suo insieme. Identico è il destino del poeta, nuovo Ulisse: all' “ho navigato" della giovinezza corrisponde il "me al largo sospinge ancora" dell'età matura. Non tutto però è felice. Navigare, cioè vivere, è amore ma è anche cosa dolorosa; ci sono insidie emblematiche rappresentate dagli isolotti, forse simbolo degli istinti vitali, che attirano irresistibilmente il poeta come nell' “Odissea” le sirene attiravano i naviganti. E poi il viaggio è solitudine, rimarcata dal netto contrasto che si stabilisce tra "gli altri" e il "me" del verso 11: gli uni ancorati nel porto delle facili sicurezze, il secondo proteso al rischio del mare, allo spazio ignoto che 24 esso spalanca. Il viaggio nasce proprio perché lo spirito di avventura non è ancora stato soffocato, nella sua tensione all'infinito. Questo Ulisse di Saba si ricollega ad alcune versioni del mito antico, per le quali l'eroe dell' “Odissea”, una volta tornato in patria, decise di ripartire per nuove esplorazioni. LA BIOGRAFIA Nacque a Trieste nel 1883. Il suo vero nome era Umberto Poli; si fece chiamare Saba per ricordare e rendere omaggio alla balia slovena che lo allevò nei primi anni di vita e che portava il nome di Sabaz. Ebbe l'infanzia segnata dall'assenza del padre, che aveva abbandonato la moglie prima ancora della sua nascita. Lasciò molto presto gli studi per arruolarsi nel 1908 nell'esercito e partecipare, pur senza mai trovarsi al fronte, alla Prima Guerra Mondiale. Intanto pubblicava le sue prime opere, contenute nelle raccolte "Poesie" e "Coi miei occhi". Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale si stabilì a Trieste, dove aprì una libreria antiquaria. Nel 1921 Saba pubblicava a proprie spese un "Canzoniere", che raccoglieva le poesie di un ventennio, a cui seguirono "Preludio e canzonette", "Autobiografia", "I prigionieri", "Figure e canti", "Preludio e fughe". Nel periodo delle persecuzioni razziali dovette lasciare la sua città e soggiornare a Milano, Firenze e Roma ospite di amici poeti e letterati. Nel frattempo usciva la seconda edizione del "Canzoniere", che gli procurò finalmente riconoscimenti e plausi da parte della critica. Nel 1946 ottenne il Premio Viareggio. La nevrosi depressiva che da anni tormentava il poeta si aggravò e Saba percorse gli ultimi anni della sua vita in quasi totale isolamento; nel 1956, scomparsa la moglie, si trasferì a Gorizia, dove morì l'anno successivo. Con la sua poesia Saba non intende rompere con la tradizione, anzi cerca di farla propria, conservando per esempio il metro e la forma della poesia tradizionale. Come in gran parte della lirica contemporanea, anche nelle sue opere si avverte l'intenzione di eliminare il superfluo, il linguaggio ricercato e artificioso, così lontano dalla realtà della vita di tutti i giorni. Saba rimane infatti legato al quotidiano, ai temi della sofferenza dell'uomo che vive una vita contraddittoria, ma allo stesso tempo ricca e molto amata. Il suo linguaggio è sempre chiaro, semplice e concreto. Instaura con le "amiche cose" un rapporto intimo, avvicinandosi con amore. Scava con analisi spietate nel proprio intimo, utilizzando la psicoanalisi come strumento per giungere alla radice della natura umana. La riflessione sul proprio io non lo conduce all'isolamento ma, anzi, viene a costruire il tramite per una migliore conoscenza degli altri. Dal sentimento nasce dunque per Saba la poesia, che deve anzitutto essere ONESTA, cioè rispecchiare fedelmente se stessi e corrispondere ai moti dell'animo. 25 ALLEGRIA DI NAUFRAGI E subito riprende Il viaggio Come Dopo il naufragio Un superstite Lupo di mare. ANALISI Il testo ripropone il tema fondamentale della raccolta: nell’esperienza della guerra e del dolore come universale naufragio, si riafferma la forza della vita; l’uomo riprende il suo viaggio per una spinta istintiva che si sprigiona dal profondo in un’esperienza estrema. Ungaretti ritaglia il caso particolare di un marinaio di esperienza (un lupo di mare) nel quale il naufragio fa scattare un nuovo impulso a vivere. Il titolo Allegria di Naufragi è un ossimoro: naufrago è colui che si salva dopo una tempesta e la nave viene abbandonata, allegria indica uno stato lieto. Dopo ogni naufragio l’uomo, il superstite, sente rinascere in sé la volontà di ricominciare da capo, sente un rinnovato impulso a vivere: questa vitalità istintiva è la sua allegria. In effetti l’individuo nella propria vita può essere travolto da forze più grandi di lui, praticamente devastanti, ma proprio allora trova lo slancio per riprendere il suo viaggio, reso anzi più vitale, più allegro, dal confronto con la catastrofe. SPIEGAZIONE La poesia si basa su una similitudine: come un superstite, che si salva da un naufragio, diventa felice per la salvezza e riprende il suo viaggio, così chi sopravvive alla guerra devastante è felice di essere salvo e riprende a vivere come sempre. 26 L’AUTORE Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto l'8 febbraio del 1888, da genitori di origine italiana. Nel 1890 suo padre morì in un incidente sul lavoro, mentre la madre venne a mancare nel 1930. L'amore di Ungaretti per la poesia nacque durante il suo periodo scolastico. Per svolgere gli studi universitari il poeta si trasferì, nel 1912, a Parigi. Nel tragitto vide per la prima volta l'Italia. Nel 1914 decise di partire volontario per la Grande Guerra. In seguito alle battaglie sul Carso scrisse un taccuino di poesie, che furono pubblicate a Udine nel 1916, con il titolo: “Il porto sepolto”. Al termine della guerra il poeta rimase a Parigi. Nel 1921 si trasferì a Marino (presso Roma) e collaborò all'Ufficio stampa del Ministero degli Esteri. Il poeta aderì al fascismo firmando il Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925. Nel 1928 maturò invece la sua conversione religiosa al cattolicesimo. Il poeta raggiunse il massimo della sua fama nel 1933. Tre anni dopo, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l'Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò; trasferitosi con tutta la famiglia, vi rimase fino al 1942 , anno in cui il poeta ritornò in Italia, dove raggiunse una certa notorietà presso il grande pubblico nel 1968, grazie alle sue intense letture televisive di versi dell'Odissea. Nel 1970 conseguì un prestigioso premio internazionale presso l'Università dell'Oklahoma, negli Stati Uniti, dove si recò per il suo ultimo viaggio. Morì a Milano nella notte tra l'1 e il 2 giugno 1970 per broncopolmonite. 27 L’ “ULISSE” DI JOYCE Il romanzo è ambientato a Dublino, in Irlanda. Vengono narrate le vicissitudini di tre personaggi: Leopold Bloom, la moglie Molly ed il giovane Stephen Dedalus (una sorta di figlio spirituale di Bloom). Nei primi episodi del romanzo vengono narrate le giornate di Stephen, un giovane letterato in crisi che viene identificato come il figlio spirituale di Leopold Bloom. Alle vicende di vita quotidiana di Stephen si affiancano quelle di Leopold Bloom, un impiegato che lavora come procacciatore di pubblicità. Nel romanzo, viene analizzata la giornata di Bloom: il suo risveglio, gli appuntamenti quotidiani più o meno piacevoli, la partecipazione al funerale di un amico, la sua mattina in ufficio e l’evolversi degli impegni della sua agenda. Man mano che passano le ore, Bloom incontra diversi personaggi, che diventano descrizioni singole che fanno riferimento ai personaggi classici dell’ “Odissea” di Omero. I cammini dei due personaggi, Leopold e Stephen, si sfiorano sovente ma non vengono mai in contatto. Il protagonista, in sostanza, è un antieroe che vive in una sola giornata le ventennali peregrinazioni dell’Ulisse omerico, diventando emblema delle virtù e dei vizi umani. LA VITA James Augustine Aloysius Joyce, uno dei più grandi autori di narrativa del XX secolo, nasce a Rathgar, una frazione di Dublino, il 2 febbraio 1882. I suoi genitori lo iscrivono ad una scuola cattolica, precisamente presso un istituto di gesuiti, il Clongowes Wood College Successivamente, si laurea in lingue moderne all'università di Dublino. Inizia a scrivere “Gente di Dublino”. Lasciata per sempre l’Irlanda, insieme alla moglie, si stabilisce a Trieste, dove conosce Italo Svevo. Nel 1920 si stabilisce stabilmente a Parigi, ove prende parte all’intensa vita culturale della città. Nel 1922 viene pubblicato il suo capolavoro, intitolato “Ulysses“, in un clima di intense discussioni e polemiche, cui segue anche l’intervento della censura. Durante il secondo conflitto mondiale lo scrittore è costretto a trasferirsi in Svizzera, dove muore nel 1941. CARATTERISTICHE DELLO STILE James Joyce utilizza la tecnica del flusso di coscienza, già utilizzato dalla scrittrice Virginia Woolf, per dare voce ai suoi personaggi e ai loro pensieri più profondi. È proprio il disordinato fluire dei pensieri dei protagonisti, che saltano da un ricordo o un pensiero ad un altro, senza logica, senza rispetto delle regole temporali, a rendere interessante ma anche complessa la trama. Perfino la punteggiatura è soggetta al libero accavallarsi e susseguirsi dei pensieri. 28 Il canto di Ulisse Primo Levi, “Se questo è un uomo” Primo Levi nell’undicesimo capitolo di ‘Se questo è un uomo’ è in cammino insieme a Pikolo per giungere alle cucine del Lager. Durante il tragitto vuole recitare e spiegare al giovane amico alcuni versi della letteratura italiana che lui ricorda a memoria, non solo per rendere testimonianza, ma per far notare come parole dette da uomini molti anni prima, possano rincuorare l’animo di uomini travagliati. Cita infatti il XXVI canto dell’ ”Inferno” : “Considerate la vostra semenza fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” Il significato di questa citazione è quello di riscattare nella mente del giovane Pikolo il senso della realtà disumana che gli ebrei stavano vivendo, oppressi dall’odio e dalla sopraffazione, e quello di riaffermare la vittoria dell’intelligenza dell’uomo sulla brutalità. Levi cita in seguito Ulisse, l’eroe dantesco dell’avventura. Anche la punizione di Ulisse (il naufragio), voluta da un Dio che lui non conosceva, ma di cui aveva sfidato la volontà andando con la sua nave oltre le colonne d’Ercole, ricorda sia il destino dei prigionieri nei Lager per essersi opposti all’ordine fascista sia il destino degli Ebrei. Tra le ragioni dell’antisemitismo tedesco c’erano infatti l’odio e il timore per l’acutezza intellettuale degli ebrei, un’acutezza che si avvicina a quella di Ulisse, considerata quindi pericolosa. L’AUTORE Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una ricca famiglia ebrea. Nel 1941 si laurea con ottimi voti alla facoltà di chimica e, nello stesso anno, aderisce ad una formazione partigiana, ‘Giustizia e Libertà’. Viene subito arrestato e deportato ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Fortunosamente sopravvissuto al Lager, viene liberato dall’armata rossa nel 1945. 29 Nel 1947 pubblica ‘Se questo è un uomo’, dove racconta la sua esperienze sull’olocausto. Il libro diventa un best seller nel 1956. Primo levi continua a scrivere molti libri fino alla sua morte, avvenuta nel 1987. 30 Salvatore Quasimodo ” L’ISOLA DI ULISSE” TESTO Ferma è l'antica voce. Odo risonanze effimere. oblio di piena notte nell'acqua stellata. Dal fuoco celeste nasce l'isola di Ulisse. Fiumi lenti portano alberi e cieli nel rombo di rive lunari. Le api, amata, ci recano l'oro: tempo delle mutazioni, segreto. PARAFRASI L’antica voce è ferma. Sento risonanze di breve durata dimentico questa piena notte nell’acqua stellata Dal calore del cielo nasce l’isola di Ulisse. Fiumi lenti portano alberi e cieli Nel rumore delle rive lunari le api, da me amate, ci portano l’oro. Il tempo dei cambiamento, segreto. COMMENTO Di un’altra isola, trasfigurata nell’isola di Ulisse, scrive Salvatore Quasimodo, convinto che mitopoiesi possa realizzarsi attraverso lo sguardo che si posa sul mondo e lo scopre più favoloso di quello delle favole antiche. Ora in una nuova età dell’oro, davanti agli occhi del poeta e dell’amata rinasce un’isola mediterranea grazie ad una prodigiosa metamorfosi. Il canto, l’antica voce delle Sirene, è ormai fermo per sempre e se ne odono soltanto “risonanze effimere”. Non Ulisse, qui, ma il ritorno misterioso del “tempo delle mutazioni”, preme al poeta. Questa trasposizione del mito si nota bene anche in un’altra lirica di Quasimodo, Vento a Tìndari , dove si ha l’identificazione della Sicilia, del luogo natìo, con il concetto di “isola”. La lontanza dall’isola significa innanzi tutto naufragio contro cui unica possibile difesa, come già in Ungaretti, è il canto e la coscienza della propria condizione di esilio. L’AUTORE Salvatore Quasimodo nacque il 20 agosto 1901 a Modica. In seguito all'alluvione della città del 26 settembre 1902 si trasferì nella più sicura casa di Roccalumera, dal nonno paterno Vincenzo. La famiglia del piccolo Salvatore fu costretta a spostarsi frequentemente, al seguito del padre, nelle varie stazioni ferroviarie siciliane. Nel febbraio del 1908 il padre venne incaricato della riorganizzazione del traffico ferroviario nella stazione di Messina, colpita da un disastroso terremoto e da un successivo maremoto il 28 dicembre 1908. In quel periodo essi vissero in un carro merci parcheggiato su un binario morto della stazione. Quegli anni resteranno impressi nella memoria del poeta che li evocherà nella poesia Al Padre, scritta in occasione dei 90 anni del padre e dei 50 anni dal disastroso terremoto di Messina. Nel 1916 si iscrisse all'Istituto Tecnico Matematico-Fisico di Palermo, per poi trasferirsi a Messina nel 1917 e continuare gli studi presso l'Istituto "A. M. Jaci", dove conseguì il diploma nel 31 1919. Si trasferì quindi a Roma, dove pensava di terminare gli studi di ingegneria, ma, subentrate precarie condizioni economiche, dovette abbandonarli per impiegarsi in più umili attività. Nel 1926 venne assunto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed assegnato come geometra al Genio Civile di Reggio Calabria. Risolti i problemi economici, poté dedicarsi più assiduamente alla letteratura. Ottenuto il trasferimento a Milano nel 1934, venne però destinato da un capo-ufficio alla sede di Sondrio. Nel 1938 pubblicò a Milano una raccolta antologica intitolata Poesie e nel 1939 iniziò la traduzione dei lirici greci. Nel 1945 si iscrisse al PCI e l'anno seguente pubblicò la nuova raccolta dal titolo Con il piede straniero sopra il cuore — ristampata nel 1947 con il nuovo titolo, Giorno dopo giorno. Il poeta trascorse gli ultimi anni di vita compiendo numerosi viaggi in Europa e in America per tenere conferenze e letture pubbliche delle sue liriche, che nel frattempo erano state tradotte in diverse lingue. Nel 1965 curò la pubblicazione di Calignarmata, opera di poesia dell'autore Luigi Berti, uscita un anno dopo la morte di quest'ultimo (1964). Del 1966 è la pubblicazione di Dare e avere, sua ultima opera. Nel giugno del 1968, mentre il poeta si trovava ad Amalfi, venne colpito da un ictus, che lo condusse alla morte dopo pochi giorni all'ospedale di Napoli. Il suo corpo fu trasportato a Milano e seppellito nel Cimitero Monumentale. 32 Giorgio Caproni, “Esperienza” (da “Il muro della Terra”,1972) Tutti i luoghi che ho visto, che ora ho visitato, ora so - ne son cero: non ci sono mai stato. COMMENTO Caproni si paragona a Ulisse, grande viaggiatore, e riflette sul significato del sapere. Così come un grande viaggiatore pensa di aver esplorato tutti i luoghi e uno studioso pensa di “sapere tutto’’, nella realtà ci si rende conto che la conoscenza non ha limite, raggiungendo così la consapevolezza della conoscenza del nulla. L’AUTORE Il poeta nacque a Livorno nel 1912, poi all’età di dieci anni si trasferì a Genova, città a cui rimase sempre molto affezionato, tanto da definirla “città dell’anima’’. Dopo aver partecipato alla guerra e alla resistenza, fu per molti anni maestro elementare. In seguito si stabilì definitivamente a Roma e morì nel 1990. Critico letterario e traduttore, è stato uno dei più importanti poeti del Novecento ed appartiene a quella che Pier Paolo Pasolini definì come “la linea poetica antinovecentesca’’, caratterizzata da uno stile limpido e chiaro e dal recupero, almeno parziale, delle regole metriche tradizionali. I temi fondamentali della sua poesia sono sostanzialmente due: la madre e il viaggio. Per Caproni l’esistenza umana non è altro se non un viaggio verso una destinazione ignota ed il futuro è sempre visto come incerto e difficile da prevedere: l’esperienza tragica della morte, inoltre, fa sì che ognuno di noi si interroghi sul senso della vita, dal momento che tutto ciò che si è faticosamente costruito sembra crollare definitivamente. Un altro tema fondamentale della poesia di Caproni è il ricordo della madre, a cui il poeta dedicò la raccolta intitolata “Il seme dell’amicizia’’. 33 Costantino Kavafis: ”Itaca” Itaca Se per Itaca volgi il tuo viaggio, fa’ voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. Non temere i Lestrìgoni e i Ciclopi o Posidone incollerito: mai troverai tali mostri sulla via, se resta il tuo pensiero alto, e squisita è l’emozione che ti tocca il cuore e il corpo. Né Lestrìgoni o Ciclopi né Posidone asprigno incontrerai, se non li rechi dentro, nel tuo cuore, se non li drizza il cuore innanzi a te. Fa’ voti che ti sia lunga la via. E siano tanti i mattini d’estate che ti vedono entrare (e con che gioia allegra!) in porti sconosciuti prima. Fa’ scalo negli empori dei Fenici per acquistare bella mercanzia, madrepore e coralli, ebani ed ambre, voluttuosi aromi d’ogni sorta, quanto più puoi voluttuosi aromi. Rècati in molte città dell’Egitto, a imparare imparare dai sapienti. Itaca tieni sempre nella mente. La tua sorte ti segna quell’approdo. Ma non precipitare il tuo viaggio. Meglio che duri molti anni, che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta, ricco di quanto guadagnasti in via, senza aspettare che ti dia ricchezze. Itaca t’ha donato il bel viaggio. Senza di lei non ti mettevi in via. Nulla ha da darti più. 34 E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso. Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca. COMMENTO All’inizio della poesia Kavafis dice che, se si vuole raggiungere la propria meta, durante il viaggio il desiderio più grande da augurarsi è che sia lunga la via, cioè desiderare che il viaggio duri molto e sia pieno di vicende da narrare, pericoli da affrontare, esperienze da vivere. Inoltre l’autore dice che bisogna seguire il desiderio di avventura e non averne paura, perché non si incontrerà nessun pericolo sul proprio cammino se si continuerà a pensare al proprio obiettivo. Inoltre spiega che le paure che non ci fanno continuare il viaggio sono quelle dentro di noi. Successivamente ripete che bisogna sperare che il viaggio sia lungo, poiché il bello del viaggiare è apprendere; non importa dove si va, l’importante è imparare. Per riuscire a portare a fine il proprio obiettivo bisogna innanzitutto tenere in mente la meta ( Itaca tieni sempre nella mente). L’idea di Kavafis è quella di prolungare il viaggio il più possibile, fare molte esperienze, e solo dopo tutto questo, finalmente, fare ritorno a casa. Il senso di Itaca è quindi quello di costituire la mèta finale del viaggio, l’approdo senza il quale non si partirebbe neppure. Kavafis per esprimere tutti questi concetti utilizza la figura di Ulisse e le sue avventure. L’AUTORE Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1893. Era figlio di un ricco commerciante, compì studi irregolari e da autodidatta e, prima di stabilirsi definitivamente ad Alessandria, viaggiò molto visitando molte capitali europee, tra cui Parigi, Londra e Atene. Ebbe una vita agiata e fece della sua casa in Egitto un piccolo ritrovo letterario. Amava profondamente essere ammirato e aveva un portamento molto signorile. La sua poesia prende spunto da quella greca, dalla cui storia era particolarmente affascinato, infatti, spesso nei suoi brani sono presenti personaggi dei grandi poemi greci. Kavafis morì nel 1933 ad Alessandria d’Egitto e venne seppellito nel cimitero della comunità greca. 35 Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino capitano che hai trovato principesse in ogni porto pensi mai al rematore che sua moglie crede morto Itaca, Itaca, Itaca la mia casa ce l'ho solo là Itaca, Itaca, Itaca ed a casa io voglio tornare dal mare, dal mare, dal mare Capitano le tue colpe pago anch'io coi giorni miei mentre il mio più gran peccato fa sorridere gli dei e se muori e' un re che muore la tua casa avra' un erede quando io non torno a casa entran dentro fame e sete Itaca, Itaca, Itaca la mia casa ce l'ho solo là Itaca, Itaca, Itaca ed a casa io voglio tornare dal mare, dal mare, dal mare Capitano che risolvi con l'astuzia ogni avventura ti ricordi di un soldato che ogni volta ha più paura ma anche la paura in fondo mi da' sempre un gusto strano se ci fosse ancora mondo 36 sono pronto dove andiamo Itaca, Itaca, Itaca la mia casa ce l'ho solo là Itaca, Itaca, Itaca ed a casa io voglio tornare dal mare, dal mare, dal mare Itaca, Itaca, Itaca la mia casa ce l'ho solo là Itaca, Itaca, Itaca ed a casa io voglio tornare... COMMENTO Il cantautore Lucio Dalla si pone dal punto di vista di un marinaio che domanda al suo capitano se si preoccupi mai del destino di tutti quei soldati che viaggiano insieme a lui. Gli dice che vorrebbe tanto ritornare alla sua amata Itaca, dove sua moglie lo sta aspettando. Afferma anche che è povero e che deve viaggiare per guadagnare i soldi necessari alla sopravvivenza della sua famiglia. Infatti, se morisse lui, la sua famiglia non riuscirebbe a sopravvivere, mentre. se morisse il capitano, lascerebbe un erede e molte ricchezze. Il marinaio ha voglia di tornare ad Itaca, dove ha la sua casa, ma è disposto anche a seguire il suo capitano (Ulisse). Il capitano viene identificato come Ulisse non solo attraverso al riferimento ad Itaca, ma anche grazie ai versi in cui si dice che il capitano con l'astuzia risolve ogni avventura. L'astuzia è la principale caratteristica di Ulisse. Lucio Dalla (Bologna, 4 marzo 1943 – Montreux, 1º marzo 2012) è stato un musicista, cantautore e attore. 37 Musicista di formazione jazz, è stato uno dei più importanti, influenti e innovativi cantautori italiani. Ha duettato con molti artisti di fama nazionale e internazionale. Autore inizialmente solo di musica, successivamente è diventato autore dei suoi testi. Nell'arco della sua lunghissima carriera, durata ben cinquant'anni di attività, ha sempre suonato le tastiere, il sassofono e il clarinetto. La sua copiosa produzione artistica ha attraversato numerose fasi: dalla stagione beat alla sperimentazione ritmica e musicale, fino alla canzone d'autore, arrivando a varcare i confini dell'opera e della musica lirica. E' stato un autore conosciuto anche all'estero ed alcune sue canzoni sono state tradotte e portate al successo in numerose lingue. 38 39 40 INDICE Odisseo nell’ “Odissea” pag. 2 L’eroe modello della tensione umana al sapere pag. 4 L’eroe modello di virtù e sapienza pag. 5 Dante, “Inferno”, XXVI pag. 8 Ugo Foscolo, “A Zacinto” pag.14 Giovanni Pascoli, “Ultimo viaggio di Ulisse” pag.16 Gabriele D’Annunzio,”Laudi del cielo” pag.19 Guido Gozzano, E Ulisse piombò nell’inferno pag.22 Umberto Saba ,”Ulisse” pag. 24 “Allegria di naufragi” pag.26 L’ “Ulisse” di Joyce pag.28 Il canto di Ulisse. Primo Levi, “Se questo è un uomo” pag.29 Salvatore Quasimodo, “L’isola di Ulisse” pag.31 Giorgio Caproni, “Esperienza” pag.33 Costantino Kavafis, “Itaca” pag.34 “Itaca” pag.36 Immagini pag 39 41 GLI AUTORI Bandirali Federico Bandirali Francesca Bianchi Joelle Bianchi Marta Cantoni Alessandro Comaschi Marta Ferrari Francesca Grillo Caterina Inguscio Elisabetta Mentore Chiara Oleari Alessia Poltronieri Dalila Ronchi Raffaele Rusconi Irene Russo Annalisa Saffioti Serena Urli Giada Vitaletti Camilla 42