Il tema principale del poema virgiliano è il rapporto tra l`uomo e la

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Il tema principale del poema virgiliano è il rapporto tra l`uomo e la
Il tema principale del poema virgiliano è il rapporto tra l’uomo e la natura, le leggi di creazione e di
distruzione, di bontà e generosità e di crudeltà e di indifferenza: insomma,l’ottimismo e il
pessimismo che regolano e contraddistinguono ogni vita.
II,458 O fortunatos nimium,sua si bona norint,
agricolas:quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus
Nel poema si può quasi dire che non appaia una figura umana ben definita (un discorso particolare
sarebbe da fare per la cornix del L I, o per il senex Corycius del L IV , o per Aristeo, Orfeo,
Euridice). C’è dunque l’agricola che appare come categoria; che è tutt’uno con gli armenti, con i
paesaggi, con le feconde distese. Ed è particolare anche il rapporto che egli ha con il cosmo: la volta
celeste non è un complesso di problemi fisici, meteorologici, meccanici, biologici antropologici
come in Lucrezio, l’unica conoscenza del cielo che interessa all’agricola è quella dei pronostici utili
alle opere dei campi (corre spontaneo un richiamo al Pascoli dei Primi poemetti e dei Nuovi
poemetti. Ma attenzione però, non dobbiamo confondere Virgilio con un decadente ante litteram).
L’agricola è fortunato non felix; è pago della voluta raggiunta; per dirla con Dante: ”Frate, la nostra
volontà quieta/virtù di carità, che fa volerne/sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta” (Pd,III,70).
L’agricola dunque è un vilicus idealizzato,il prototipo verso cui non solo i veri, autentici agricolae
Devono tendere ma a cui ogni uomo dovrebbe tendere,”uomini perciò non solo robustissimi, ma
anche soldati valorosissimi e del tutto ignari di idee cattive” (Catone, De agricoltura, praef,4
citazione in Plinio, Naturalis Historia XVIII26).
Per quest’uomo il lavoro è stimolo creativo universale, attuale, appunto, nella forma più sana e più
giusta. Nella campagna. Egli è dunque un sapiens, iniziato a quella dottrina redentrice che sola può
svelare il fondo più autentico della natura e dell’umana condizione.
Il lavoro è una condanna ma è anche una salutare medicina contro le passioni e un mezzo infallibile
perché la condanna a poco a poco sia abolita e si possa ritornare alla primitiva condizione di
assoluta,fraterna unione fra la natura e l’umanità.
E.Paratore, nel suo “Virgilio”,afferma che la formula virgiliana precorre in fondo la concezione
cristiana del lavoro. A volte il potente Austro mescola turbini e procelle, e rovescia sulla terra
torrenti d’acqua,grandine che flagella e devasta il raccolto. Per il cielo serpeggiano infuocate saette
e l’aria è spezzata da tuoni e lampi. Il misero colono si guarda attorno ,vede precipitare dai monti
frane ed acqua,ode il frastuono della tempesta che gli rapisce la casa e gli animali. Altre volte un
fremito nascosto, un crepitio raccapricciante agita la quiete campestre: le fiamme salgono verso
l’alto, lambiscono il cielo, poi:
II, 307 per ramos victor perque alba cacumina regnat,
et totum involuit flammis nemus et ruit atram
ad caelum picea crassus caligine nubem,
praesertim si temptas a vertice silvis
incubuit,glomeratque ferens incendia ventus.
Ma l’agricola ha il coraggio di alzare la testa e guardare con occhio e animo puri, può scorgere leggi
ancora più certe ed eterne, intravedere la luce della speranza e toccare con mano la certezza della
continuità della natura.
Egli, con il suo lavoro, deve continuare a modellare questa natura, a svilupparla; deve continuare a
seminare il frumento, piantare le viti, curare gli animali, allevare le api. Non è forse questa la sorte
del mondo? La missione dell’agricola è proprio quella di vincere violenza e arbitrio, sconfiggere la
sterile e caparbia insensatezza che accompagna spesso la natura e regolare la forza di vita e quella
d’espansione.
Come ha suggerito P.Grimal (P.Grimal, Les jardins romains, Paris,1969) per giungere a crearsi un
mito fantastico e sentimentale della terra, bisogna non soffrire su di essa. Ma Virgilio ancora vi patì,
e il suo è un canto delle leggi della vita e della morte, della presa di coscienza di un destino amaro e
virile, che nel quadro della natura ha la sua prova più spontanea e solenne.
Non interessa qui approfondire e chiarire le cause che hanno condotto il Bosizio alla traduzione in
friulano delle Georgiche; consideriamo solo il suo amore autentico per la campagna e per il mondo
contadino, e la sua volontà di accingersi,con accortezza e con piacere,con minor pena che in
Virgilio ma con più garbo che in Varrone, a cantare e rappresentare un mondo agreste e rurale –
Arcadia a parte – già minacciato da disamore e problematiche politiche,sociali ed economiche
complesse.Bisogna dire che, come già presso gli antichi (e nello stesso Virgilio bucolico: ”Rusticus,
es Corydon. Ecl.II,56), anche nei moderni e nei contemporanei che vi son occupati, per così dire,
geoponicamente del mondo rurale (compreso il nostro Bosizio, dunque) accanto agli elogi e alla
devozione, spesso non disinteressata, della campagna fa riscontro un atteggiamento non proprio
rispettoso dell’uomo urbano nei confronti del rustico. E la campagna ricambiava la città bollandola
come corrotta, piena di latrocinii e inganni. Tolstoj chiamava “sofferenze” quelle degli oziosi
cittadini, e gioie”il lavoro in mezzo alla natura,il rapporto coi compagni di loavoro, il piacere del
riposo e del mangiare quando si è stanchi e si ha fame per lo sforzo fisico eseguito,il rapporto con
gli animali,la coscienza della fruttuosità del proprio lavoro” (L.Tolstoj,Diarii). (Altro discorso per
Millet, Balzac, i veristi e lo stesso Verga).
La traduzione di Bosizio è un po’ il breviario e un po’ la summa del mondo del poema virgiliano,
che nessuna ecologia potrà mai far risorgere, che forse è sciocco vagheggiare ma di cui è anche
sciocco e sbagliato disprezzarne i valori e negare la compattezza etica e civile.
Pochi anni dopo la traduzione in friulano della Georgiche,Voltaire concludeva una delle sue opere
più belle e significative con queste parole poste in bocca a Candide: ”mais il faut cultiver notre
jardin”(Candide,XXX)Presenti nel mito della nascita di Giove,in quanto esse lo avevano nutrito con il miele sul monte
Dite a Creta, già Cicerone nel De officiis aveva delineato una repubblica delle api paragonandola
alla res populi, alla collettività in cui il popolo è legato da uno scopo comune ;Plinio il Vecchio
nella Naturalis historia ne descriveva ammirato la perfetta organizzazione e in toni analoghi si
esprimeva Varrone nel De rustica.
Seneca, con atteggiamento meno convenzionale,nelle Epistolae morales ad Lucilium,esponendo all’
amico le sue considerazioni sul metodo da adottare nello studio ricorre ad una metafora, quella
dell’ape che errando di fiore in fiore sceglie quello più adatto al miele, per suggerire la necessità di
una scelta oculata e plurima di autori e testi su cui formarsi.
Virgilio, invece, in modo più tradizionale, nel IV libro delle Georgiche riprende l’immagine del
piccolo mondo perfettamente ordinato e promette di cantare lo spettacolo affascinante di questa
realtà, poi amplificata, per effetto delle metafore, alla dimensione di una società umana.
La vita dell’alveare è così proposta come modello positivo di vita associata,che accetta con slancio
la fatica quotidiana imposta da Giove e la finalizza all’utilità e benessere collettivi,in un clima di
concordia che evoca quello dell’età dell’oro.
Inoltre, proponendosi la società delle api come rappresentazione simbolica di quella umana,
nell’esaltare le doti di questi piccoli insetti– laboriosità,disciplina, rispetto dell’autorità,spirito di
sacrificio,abnegazione, senso della collettività- indica le qualità certo idealizzate ma possibili del
civis romano.
Spesso nella letteratura passata e recente nel ribadire i significati delle loro virtù, le stesse sono state
estese a quelle domestiche tutte femminili, tanto che Semonide, passando in rassegna dieci tipi di
donna nella sua Invettiva contro le donne salva solo quella che ha le caratteristiche delle api ed è per
questo “fonte di prosperità, circonfusa di fascino divino”.
Delle api lo stesso Virgilio sottolinea la natura spirituale, immuni come sono dalla furia dell’Eros ;
molto tempo dopo Tasso, nella quinta giornata del poema Il mondo creato , ricordando le mirabilia
scritte dagli antichi a proposito delle api , ne avrebbe infatti esaltato la verginità .
Ma in diverse culture, seppure lontanissime tra loro, l’ape simboleggia anche la parola e
l’eloquenza, il miele è anche il simbolo della poesia ed è curioso notare come in greco i termini che
designano la produzione lirica e il poeta lirico abbiano la stessa radice del vocabolo che indica il
miele.
Non mancano però le voci contrarie come nel caso di L.Alberti che, riprendendo alcune
osservazioni del greco Luciano, critica la supina obbedienza delle api ad un monarca e vede, nel
loro frenetico e previdente accumulare tesori di miele e di cera, non un segno di operosità bensì di
avidità.