Wash

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Wash
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WASH
---------------------------------Atto unico c Luigi Fontanella
personaggi
Emilia (Emily): una donna di circa 45 anni
Suo padre: un uomo molto anziano di circa 75 anni
Ms. Marshall: una vicina di casa
In un villino di Long Island, ai nostri giorni
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Tardo pomeriggio ventoso e piovosissimo in un piccolo villaggio di Long Island. Siamo nel
soggiorno di un modesto villino bifamiliare a due piani. L’interno è leggermente in penombra.
Atmosfera molto raccolta, vagamente spettrale. Aleggiano le note della Gnossienne n.3 di Erik
Satie. Aria di smobilitazione e di provvisorietà; si capisce subito che qualcuno sta sloggiando o
risistemando la casa : scatole un po’ ovunque sul pavimento, un vecchio divano spostato nella
zona più buia del soggiorno su cui è seduto un uomo vecchio e pallido in pigiama bianchissimo
e al collo una vistosa sciarpa bianca, qualche sedia, un tavolino di fronte alla finestra, pile di
giornali e riviste forse da buttare, una televisione accesa, un telefono per terra, una lampada,
due grosse valigie bene in vista , qua e là ancora qualche ninnolo, ecc.
Sul fondo a sinistra: una finestra piuttosto ampia dalla quale s’intravede l’insegna luminosa:
CAR WASH (autolavaggio). L’insegna, che è difettosa, non si vede interamente dai vetri della
finestra; vi appare solo la scritta WASH. Per tutta la durata del dramma la camera sarà
inondata da questa luce bluastra un po’ intermittente e incerta dell’insegna, la quale di tanto in
tanto si spegnerà e si riaccenderà, anche per via delle raffiche impetuose di vento; talora la
luminosità sembrerà tremebonda, altre volte accecante, oppure tenderà improvvisamente a
scemare. La prima lettera, W”, talora non si accende, per cui si legge solo ASH, che in inglese
vuol dire “cenere”, contribuendo a creare, all’interno della stanza, un effetto inquietante e, allo
stesso tempo, di forte suggestione fantastica. Sempre sul fondo, a destra, c’è la porta
d’ingresso. Alla destra un’altra porta per la quale si accede in camere interne. Alla sinistra un
caminetto. Oltre alla musica di Satie si sentiranno i sibili del vento e il rumore della pioggia
scrosciante, con fulmini e tuoni fragorosi.
A un certo punto si udrà il rumore di una chiave nella toppa della porta d’ingresso. Le note del
piano si faranno più ovattate. Entra un po’ ansante una donna (Emilia), evidentemente
affaccendata in questa risistemazione. Indossa un impermeabile zuppo d’acqua; ha con sé una
scatola e un ombrello che appoggia in un angolo della porta. Si toglie l’impermeabile che
appende a un attaccapanni vicino all’ingresso. Le note della Gnossienne n.3 sfumano fino a
scomparire del tutto. La donna prende ad armeggiare qua e là con le cose accatastate
confusamente nel soggiorno. Squilla il telefono. La telefonata sarà brevissima e Emilia si
limiterà a pochi monosillabi, tipo “certo”, “sì”, concludendo con un “va bene, d’accordo”.
Dopo di che comincia ad avvolgere nella carta alcuni ninnoli che poi sistema nella scatola che
ha portato con sé. Infine si dirige verso la zona d’ombra dove si trova il divano e, non appena si
accorgerà dell’uomo seduto, farà un sobbalzo e tirerà un urlo di spavento (ma non troppo
plateale); cade per terra l’oggetto che aveva in mano. Bisognerà rendere efficace questo
momento di assoluta sorpresa, mista, però, a un’improvvisa commozione e a un’ondata di
tenerezza da parte della donna, la quale, passato l’iniziale momento di stupore, accetta ben
presto il “soprannaturale” come un evento reale.
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EMILIA (tremante ed emozionatissima) Papà.. Tu, qui! Non capisco... come... da dove vieni?
Papà..., sei proprio tu, papà. (Si avvicina a lui incerta ma anche premurosa)
IL PADRE (si alza lentamente dal divano, le va incontro spettrale ma affettuosissimo; i suoi
gesti e parole saranno assai naturali e pacati) Emilia... figlia mia! (Si abbracciano
affettuosamente, l’uomo si guarda un po’ attorno) ... calmati, non ti spaventare... sono
solo venuto a tenerti un po’ di compagnia... vedo che sei molto indaffarata, sai ero un po’
preoccupato per te...
EMILIA (ancora emozionata) Ma papà, come stai? Come mai qui... Dio, non ci posso credere
sei proprio tu in carne e ossa! Come sei pallido, papà.
IL PADRE Sì... sono molto stanco... vieni, sediamoci un poco qui (accenna al divano).
EMILIA
Sì, sì... certo... un momento (va in fretta verso il televisore, ancora turbata,
incespica su qualcosa per terra, spegne il televisore; in quel momento un lampo
fortissimo illumina al massimo la stanza; l’uomo appare in tutto il suo biancore, anche
per il pigiama e la sciarpa, ambedue bianchissimi, che indossa; pochi secondi dopo il
lampo accecante, due o tre tuoni fragorosi a distanza ravvicinata. Emilia va a sedersi accanto
al padre. È ancora molto emozionata).
IL PADRE (senza darle il tempo di riprendersi dallo choc) Ma sei ancora tutta bagnata!
Guarda questi capelli... aspetta, lascia che ti asciughi un po’. (Invano trattenuto dalla figlia,
prende con molta naturalezza ad asciugarle i capelli con la propria sciarpa, come fosse un gesto
abituale).
EMILIA (riprendendosi un poco) No, no, papà, non ti preoccupare, va bene così ora... grazie
(forti sibili di vento e ancora cupi tuoni in lontananza).
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IL PADRE (guardando in direzione della finestra) Che bufera! E senti che vento e che tuoni, la
fine del mondo...
EMILIA
È da stamattina che non smette un attimo...“Wanda” ha fatto già parecchi danni nel
sud. Dovrebbe arrivare in questa zona da un momento all’altro. Stanotte non sono riuscita a
chiudere occhio, sentivo che l’uragano si stava avvicinando dalle nostre parti ed ero così
inquieta... (s’interrompe bruscamente). Ma dimmi di te, papà. Mi sembra un sogno rivederti,
riparlarti dopo tanti anni...
IL PADRE (senza darle retta) Buffo, vero, chiamare un uragano“Wanda”, io mi immagino,
con questo nome, una donna alta e imponente, ma allo stesso tempo anche leggera leggera.
Quand’ero studente avevo nella mia cameretta una pianta grassa, ma non di quelle tozze e basse;
questa aveva del foglie lunghe e sottili, come delle lunghe dita. Mi ci affezionai. Un giorno
decisi, non so perché, di darle un nome... di chiamarla Wanda. Quanti anni l’ho tenuta! Anche
dopo sposato, poi a un certo punto le sue lunghe foglie - ed erano diventate lunghe lunghe, eh? cominciarono a seccare una alla volta, ed io man mano le tagliavo, finché non rimase che un
tronchetto: uno spilungone alto e storto. Evidentemente anche le piante a un certo punto
invecchiano e muoiono. Hai voglia di innaffiarle e dare un po’ di concime... le radici non ce la
fanno più a nutrirsi, chissà. Te ne ricordi, Emilia?
EMILIA
Sì che me ne ricordo. Era l’unica pianta che innaffiavi tu e guai a chi te la toccava.
(Lampo e tuono fragoroso) Senti che roba! Stanotte non sono riuscita a chiudere occhio,
sentivo che l’uragano si stava avvicinando dalle nostre parti ed ero così inquieta...
IL PADRE (rasserenandola) Stai tranquilla, l’uragano toccherà solo di striscio Long Island. (Si
guarda attorno sornione). Vedo che il lavoro non ti manca qui dentro, eh?
EMILIA Non so dove mettere le mani... (riflette, riguarda ancora un po’ incredula il padre) e
poi francamente non so cosa tenere e cosa buttare via. Non vorrei offendere né la memoria di
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mamma né la quella tua, papà. Ma dovrò pure fare una scelta. Ho spostato qualche mobile... non
so se ci riuscirò, ma vorrei smaltire un po’ di cose e lasciare la casa più o meno in ordine prima
di partire. Sai, ho deciso di venderla. Quando rientrerò da questo viaggio, lascerò il mio
appartamento di Manhattan e ritornerò a vivere qui, dove ho passato tanti anni della mia vita. Di
là ho svuotato tutto: armadio, cassetti, scatoloni... Ho messo da parte tutte le cose che erano sue
e tutte quelle che erano tue e...
IL PADRE (l’interrompe affettuosamente, guardandola con una benevolenza pacata e distante)
Non avresti dovuto farlo.
EMILIA Ho sempre pensato che per te gli oggetti non avevano importanza.
IL PADRE Mi servivano per orientarmi... e poi perché spostare i mobili? La biancheria, le mie
riviste, tutti gli oggetti che mi erano familiari... ho fatto un po di fatica, sai (ridacchia
benevolmente), a trovare questo pigiama (si guarda addosso). E poi hai praticamente
cancellato tutte le cose che riguardavano tua madre...
EMILIA (non raccogliendo le ultime parole) Pensavo che se idealmente tu fossi ritornato qui ti
avrebbe fatto piacere trovare qualche cambiamento.
IL PADRE
Non è facile orientarsi qui dentro; specialmente adesso che sono scomparse quelle
cose che appartenavano a lei... e che lei aveva un po’ contaminato... (s’interrompe) e quella l’hai
dimenticata? (indica una pantofola sotto una sedia).
EMILIA Non l’ho mica lasciata apposta!
Il PADRE Allora benedico la tua distrazione. Poco fa, quando tu non c’eri, mi ha fatto un certo
effetto scoprirla... sono stato male: è partita una sfilza di ricordi a catena nei quali c’era sempre
lei... era qui ed era in Italia, e poi nella nostra vecchia casa di campagna, e poi l’ospedale... era
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qui e di là in cucina e in giardino... mi parlava e mi rimproverava del fatto che avevo voluto per
forza portarla in ospedale... che era stato inutile farlo (il tono della voce si accalora
gradualmente ma senza esagerazione) e che molto meglio sarebbe stato lasciarla morire in pace
qui a casa... ma tu sai come sono i medici e gli ospedali americani che pur di non assumersi
nessuna responsabilità ti vivisezionano tutto e ti spolpano fino all’osso... ah!, quante maledizioni
per averla portata fin qua lontano dai suoi familiari e dalle sue più care amiche italiane... a un
certo punto la sua voce (si prende la testa fra le mani), la sua voce era diventata ossessiva... non
capivo più le parole... era tutto un suono, un lungo, interminabile suono come in un imbuto (un
fulmine illumina la sua faccia bianchissima, subito dopo lo scoppio di un tuono), un imbuto... e
dentro c’erano tutte le sue ossessioni tutti i suoi umori e tutte le sue scenate di gelosia! (forti
raffiche di vento).
EMILIA Le ricordo bene... Riempivano la monotonia e la noia delle domeniche del paese.
Scioccavano, ma fino a un certo punto, il vicinato... per loro era un piccolo teatro all’aperto
(improvvisamente sarcastica)... una commedia che però era sempre la stessa. Quanti pomeriggi
domenicali passati a ... pettinare e spazzolare i suoi capelli, facendo finta di fare la brava
bambina. Una volta si addormentò e io per non svegliarla smisi di pettinarla: rimasi a guardarmi
e a guardarla davanti allo specchio dell’armadio... a un certo punto io diventali lei e lei diventò
me. M’intristii pensando che lei non avrebbe mai potuto fare a me quello che io facevo a lei. E
tu non c’eri mai... c’erano le tue insignificanti pantofole, sempre lì al loro posto, per ricordarmi
un’assenza. Quanto soffrivamo, anche se per ragioni diverse. Ma non ne parlavamo mai... mai
una parola su di te che ci permettesse un rapporto più autentico. Così io mi fingevo buona, la
brava e servizievole Emilia, e lei insistendo sull’unica carta vincente: la gelosia!
IL PADRE (fissa intensamente la figlia) Emilia, mia piccola Emy, come stai? (continua a
guardarla) Mi sembra che tu sia dimagrita... e il tuo lavoro come va?
EMILIA Con la scuola ho chiuso. Dopo oltre 20 anni d’insegnamento sento che non ho più
nulla da insegnare, mi sembra di recitare un parte che mi ripugna... Parto... me ne vado. Ma
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ritornerò. Vivrò con la mia piccola pensione (guarda improvvisamente il padre) ma papà tu sei
pallidissimo! Ti preparo un tè.
IL PADRE No, lascia stare... aspetta. Magari più tardi (come sovrappensiero) ... vivono ancora
gli uccelli che ti ho lasciato?
EMILIA
Uno è morto qualche mese fa, l’altro invece l’ho riportato stasera. Lo lascio alla
nostra vicina, la signora Marshall, sai, quella che abita di sotto. Se quando ritornerò sarà ancora
vivo me lo terrò qui... lo metterò vicino alla finestra (fa cenno alla finestra, dove compare
l’insegna luminosa (W)ASH).
IL PADRE
Lo facesti poi accoppiare con quella femmina che un giorno portasti da Brooklyn?
EMILIA Sì... ma non ci fu la cova. Il tuo ne uscì mezzo morto. Poverino, zoppicherà tutta la
vita. (Prende a rovistare tra le vecchie riviste) Sai, proprio qualche giorno fa riassestando tutta
la vostra casa... ecco, l’avevo messo proprio da parte... (trova l’articolo in questione e legge
qualche riga) “La vita di coppia degli uccelli è tutto un tradimento fra i pennuti!”. Lo dice un
certo Eric Foster, biologo della Cornell University.
IL PADRE
In parte è vero. Ho sempre osservato con molta attenzione gli uccelli e la loro
vita... però a volte sono molto fedeli, anche alle persone presso cui vivono. Ricordo che al paese
nonno Francesco teneva una gabbia di due canarini sempre aperta... gli voleva così bene, parlava
con loro, raccontava tutta la sua giornata e i canarini in qualche modo dovevano capirlo... gli
gironzolavano dentro casa e ogni tanto rientravano nella gabbia per mangiare o per dormire.
Pensa che anche d’estate, quando teneva la finestra aperta, loro non sono mai volati via. E quei
due cardellini che ci portò da Caracas clandestinamente zio Domenico, te li ricordi? Costruì una
gabbia enorme e ce li regalò con tutta la gabbia che noi mettemmo fuori in giardino... quante ore
estive io e tua madre abbiamo passato a parlare guardando tranquillamente quei due cardellini:
una coppia perfetta: la femmina d’un colore tra il mango e la pesca, un colore vellutato; lui, il
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maschio, bianchissimo, con quell’assurdo puntino cerchiato scuro al centro della fronte, come
usano gli indiani...(pausa). Una settimana prima che tua madre morisse volevo comprarle un
uccello speciale da lasciare libero nel nostro giardino, ne parlai con i nostri vicini, i Levine,
Davide e Sarah, quelli che hanno quel bellissimo giardino e quella voliera piena di uccelli
esotici.
EMILIA ... un piccolo paradiso terrestre.
IL PADRE Sarah un giorno insistette che portassi a casa una paradisea dai colori così
sgargianti! Era certa che tua madre l’avrebbe apprezzata e che ne sarebbe rimasta
incantata.
EMILIA
E lei come la prese? Le piacque?
Il PADRE Tantissimo... anche se, con quel caldo, disse che avrebbe preferito un uccello
acchiappamosche, se un simile uccello esiste! Pensa che non volle mai ringraziare Sarah per
quel dono...
EMILIA
Che madre che ho avuto... Tipico di lei comportarsi così. Mi respingeva con lo
stesso impeto con il quale mi attirava. In fondo per lei sono stata solo una bambola di pezza.
IL PADRE (interrompendola bruscamente) Ma che dici? Come fai a dire queste cose?
EMILIA Non c’è nessuna cattiveria, ti assicuro, oramai...
IL PADRE Non dovresti ricordarla così. A suo modo t’ha voluto bene.
EMILIA
A suo modo, certo, tutto e sempre a suo modo (con crescente sarcasmo) ... da piccola
ho sempre desiderato la sua morte. Il dolore e la rabbia più grandi erano che non potevo
dirglielo.
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IL PADRE Avresti potuto dirlo a me.
EMILIA A te? Non ci avresti fatto caso... e poi io per te ero sempre la piccola Emy; non
avresti dato importanza alle mie parole.
IL PADRE
EMILIA
Come fai dirlo, se non ci hai mai provato?
I bambini sanno come son fatti i “grandi”. A loro, i “grandi”, basta che si ripeta un
nostro gesto, bello o brutto che sia; un gesto tramite il quale loro sanno riconoscerci per tutta la
vita. Sta in questo la tragedia dell’infanzia, ma anche quella degli adulti, perché quel singolo
gesto prende il sopravvento su tutto. Un giorno, avrò avuto quattro o cinque anni, ti chiesi - tu
che mi parlavi sempre di memorie e memorie del tuo paese - ma papà cos’è la “memoria”? E tu
- me lo ricordo benissimo - mi dicesti:“La nostra mente ha come una cassettiera: ogni cosa che
noi viviamo e che riteniamo importante la conserviamo in uno di questi piccoli cassetti, quando
vogliamo ritrovarla apriamo quel cassetto dove l’avevamo messa e la ritroviamo intatta”. Io ci
pensai su un po’ e ti chiesi:“E quando avrò finito tutti i cassetti disponibili, dove metterò le mie
memorie?”
Mi ricordo che tu cominciasti a ridere e a ridere a crepapelle... mentre io stavo
vivendo una vera e propria tragedia.
IL PADRE
Non esiste una tragedia più grande della morte.
EMILIA Accidenti... era tanto che non ti sentivo dire una delle tue piccole grandi frasi a effetto:
luoghi comuni che non significano nulla!
IL PADRE Come sei sarcastica. E dire che io ho sempre pensato che tu mi rassomigliassi...
EMILIA Questa è un’altra tragedia: quella, da parte dei bambini, di sentirsi dire che assomigli
tanto a un genitore e non all’altro.
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IL PADRE Guarda che a volte succede esattamente il contrario. A nessun genitore, per
esempio, farebbe piacere vedere i propri difetti riflessi nei propri figli.
EMILIA
(ironica) Certo... e poi si vorrebbe che i figli fossero la nostra esatta continuazione.
IL PADRE Via Emy... cosa c’è che non va? Guarda cosa ti ho portato... (si avvicina a un
pacchetto che teneva a lato; la luce dell’insegna si fa luminosissima, quasi violenta; squilla il
telefono)
EMILIA Hello? ... no, la casa non è in vendita. ... sì sono la figlia... no, gliel’ho già detto, non
intendo vendere questa casa. Goodbye... (chiude il telefono). Che sciacalli... e dire che fuori non
c’è nessuna insegna di vendita, non capisco. (Il padre le si avvicina con in mano delle ciliegie)
IL PADRE Assaggiale... le ho prese proprio oggi dall’albero.... ne è pienissimo, così come sarà
quello di cachi...quest’autunno; piacevano tanto a tua madre, il tipo maltese: duro fuori, dolce
dentro. Finché siamo stati in Italia ne mangiavamo ogni mattina. Lei non voleva che li lavassi,
se lo facevo con uno poi rifiutava di mangiarlo. Diceva che il cachi è un frutto sacro, se lo lavi
gli uccidi l’anima.
EMILIA Adesso che è morta ogni sua frase o gesto diventa importante... Perfino gli oggetti più
stupidi, come il ditale, i suoi occhiali, quell’assurda borsetta gialla di vilpelle... (riflette) e quella
piccola stella che le pendeva da un suo braccialetto.... mi piaceva tanto, la desideravo da morire
e feci l’errore di dirglielo. Non so che fine abbia fatto. Un paio di mesi prima di morire... una
delle nostre solite domeniche... dopo averle spazzolato per ore i capelli e massaggiato la schiena
perché ruttasse, le chiesi perché non si metteva più quel braccialetto con la stella. Andò su tutte
le furie, disse che non erano affari miei e che dovevo smettere di desiderare quell’oggetto.
Quanto l’ho cercato dopo la sua morte! Sparito...volatilizzato. Quanto mi piaceva quella stella!
Chissà dov’è finita. Pur di non lasciarmela l’avrà buttata via...
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IL PADRE Buttava tutto... era fatta così. Ricordi quella pipa che mi regalò Vittorio? Ci ero
affezionato e specialmente d’inverno mi piaceva fare qualche tiro... davanti al caminetto. Una
sera vennero a trovarci i Levine. Ottima cena, bella serata... dopo cena tiro fuori la mia pipa e mi
metto a fumare. E Sarah fa:“Che buon aroma ha questo tabacco... è un vero piacere!”. Il giorno
dopo la pipa era sparita... buttata via chissà dove. Ma non credere, sai? Le piaceva buttar via
anche le sue cose o magari improvvisamente regalarle alle persone più strampalate, come presa
da un senso di rigetto improvviso... Non aveva per niente il senso dell’appartenenza, della
proprietà. Mia cara piccola Emy... sono passati tanti anni ormai, metti da parte questi tuoi
risentimenti.
EMILIA (senza badare alle ultime parole del padre) Sì, però non si liberò mai di quegli
assurdi centrini che teneva tutti ben riposti nei cassetti del grande comò... ne era strapieno,
ricordi? E le scarpe? Ne aveva accumulate almeno cinquanta paia... alcune ormai sgangherate,
bruttissime... ma lei si ostinava a conservarle in quel suo sgabuzzino. Una mattina, era il giorno
del mio quinto compleanno - tu al solito non c’eri - io le risposi male, non ricordo per quale
motivo....montò su tutte le furie e dopo avermi picchiata mi legò al comò, io per dispetto aprii i
cassetti dove c’erano i centrini e glieli rovesciai tutti per terra... mi legò ancora più stretta. Fu il
giorno più lungo della mia vita.... il giorno dopo non riuscivo più a parlare... balbettavo, anche a
scuola balbettavo. Quando lei se ne accorse smise di picchiarmi... ma ormai era troppo tardi...
IL PADRE (premuroso e pacato) Dai... assaggiale (le porge le ciliegie), sono proprio buone...
Di’, ti ricordi quel pomeriggio che ne facemmo una scorpacciata. Era verso la fine di giugno...
faceva già caldo, eravamo ancora in Italia... tu avevi otto-nove anni, passò davanti casa Amerigo
con tutte quelle ciliegie... tua madre non era in casa, ci mettemmo sul balcone e una dopo l’altra
ne mangiammo più di un chilo! (sorride, anche Emilia accenna a un sorriso affettuoso e
assaggia qualche ciliegia)
EMILIA In questo paese la frutta non sa di niente. I primi ricordi che ho di questo paese sono
proprio la mancanza di sapori... Ricordo quando assaggiai la prima volta un pomodoro... e non
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parliamo dei formaggi, a cominciare dalla mozzarella (mangiano intanto le ciliegie) ... Che
fallimento! E questo è solo l’inizio delle tante successive delusioni...E lasciamo perdere tutte le
assurde feste patronali che tanti nostri compatrioti hanno pensato di trapiantare assurdamente in
questo paese... un’illusione di continuare a essere in Italia, come un’illusione la speranza di
preservare la nostra lingua che io stessa, stupidamente, dopo i primi anni che ci eravamo
trasferiti in America, mi vergognavo di parlare con voi, specialmente quando a casa venivano a
trovarmi i miei amici di scuola, e che poi inutilmente ho tentato di far imparare ai miei figli,
nonostante l’ottusa opposizione di Bruno... che io sposai anche grazie alle vostre insistenze... o
forse chissà semplicemente per andarmene di casa... Il giorno più bello della mia vita
matrimoniale fu quando ci separammo.
IL PADRE Sei troppo severa, Emy... in fondo le nostre comunità italiane in America hanno
solo cercato di preservare alcuni aspetti delle nostre abitudini, della nostra cultura, come a
volerla proteggere....
EMILIA
Proteggere? Cosa vuoi proteggere? Ancora non ti rendi conto che quello che è perso
è perso... perso per sempre. Proteggere... da chi, o da cosa?
IL PADRE (colto sul vivo ma mantenedo una sua superiore pacatezza) Non saprei... per
esempio dalla droga, dal razzismo...
EMILIA
(si accende una sigaretta) Già, perché tu pensi che oggi questi problemi non
esistano anche in Italia? (pausa)
... ognuno fa le sue scelte, indipendentemente dai problemi
che ciascun paese ha... quanto “amor di patria” sprecato...
IL PADRE
Che c’è di male nel manifestare il proprio “amor di patria”? .... Emilia, come sei
ingiusta e severa... c’è forse qualcosa che non va coi ragazzi? Cos’è che ti preoccupa? Per caso
si è rifatto vivo Bruno?
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EMILIA “Ragazzi” ... ma papà, Virginia ha ventiquattro anni suonati e ha ormai una sua vita a
Chicago; Tony ne ha ventidue e ha deciso di restare a Philadelphia dopo aver finito il Master in
business. Chi li vede più...
IL PADRE Ma forse è proprio questo che ti cruccia... Li vorresti avere più vicino a te...
EMILIA (lo interrompe bruscamente) No, no, assolutamente no! Non farei mai l’errore che hai
fatto tu con me... (amarissima) ricordi? Avevo 16 anni quando tu decidesti che ci si doveva
trasferire in America... e pensare che io, in cuor mio, avrei tanto desiderato continuare a studiare
in Italia... restare con le mie amiche...
IL PADRE
Ma perché non me lo dicesti? Avrei.... avremmo trovato una soluzione... avremmo
fatto tutto il possibile per accontentarti... ti ho mai negato niente, figlia mia?
EMILIA
Avevo solo sedici anni... cosa potevo decidere? Tutto sembrava già fatto, già
deciso... tutto irrimediabilmente deciso... nel giro di due settimane ci ritrovammo in questo
paese, senza conoscere né lingua né abitudini... (un lampo enorme illumina ad un tratto
violentemente tutta la la stanza, che, di colpo, piomba nel buio; è andata via l’elettricità, si
spegne anche l’insegna WASH, si sentono potenti raffiche di vento e una serie di tuoni
fragorosissimi) ... ecco sta passando “Wanda” (prende a rovistare in un cassetto del tavolo) ...
qui dentro ci dovrebbe essere una candela.... eccola (l’accende e la mette al centro del tavolino,
intanto il padre passeggia nella camera, infine si mette di fronte alla finestra volgendo le spalle
alla platea; il rumore della pioggia diminuisce lievemente ma permangono, molto forti, i sibili
del vento)
IL PADRE (parlando lentamente, quasi a se stesso, con le spalle voltate a sua figlia ch’è
rimasta seduta al tavolino) Pensavo di darti un avvenire migliore venendo in questo paese... che
so?, un arricchimento culturale... e dopotutto l’Italia non era... non è così lontana... Ma forse ho
sbagliato tutto, e magari chissà, se fossimo rimasti in Italia tua madre non si sarebbe ammalata e
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oggi tu saresti ancora felicemente sposata (pausa) ...sì è vero in questa casa non c’ero spesso e
ogni scusa era buona per andare in Italia... tua madre mi rimproverava sempre, ogni volta che
ritornavo, di buttarmi subito sulla posta che mi era arrivata, invece di dedicarmi a lei e a te... ma
vedi per me quella posta era l’unico vero contatto con l’Italia, coi miei amici...non c’era egoismo
da parte mia, ma solo desiderio di restare in contatto con loro e con ciò che loro rappresentavano
per me... m’illudevo scrivendo tutte quelle lettere di stare più vicino alla mia cultura man mano
che disperavo di poterci ritornare (si volta verso la figlia) ... anche di questo ti chiedo scusa, non
mi sono reso conto del tempo che ti ho trascurato... Perdonami, Emilia, ma tu (scandisce le sue
parole) sei ancora abbastanza giovane... puoi ancora trovare la tua stella... non smettere mai di
cercarla!
EMILIA (commossa) Ascolta, papà... ma vieni qui, siediti (lo invita a sedersi di nuovo
accanto a lei, al tavolo dove ha messo la candela accesa; il padre si siede; sono uno di fronte
all’altra, molto vicini, mentre la candela illumina suggestivamente i loro volti) Vedi... tu sei
stato sempre convinto che il tempo non poteva e non doveva passare mai. Ma tutto passa.... (si
odono in lontananza le note della Gnossienne n.3 di Satie che si sono sentite all’inizio, la musica
durerà per tutta la battuta di Emilia, dopodiché piano piano diminuirà, fino a scomparire del
tutto)... tutto passa, e anche i luoghi sono passati... tu che ti illudevi di vivere tra due luoghi,
tra due paesi così diversi, “cogliendo il meglio di tutti e due”: non era proprio così che usavi dire
ogni volta che io o qualcun altro ti chiedeva ragione di questo nostro vivere fra due mondi così
distanti e così differenti?
(Breve pausa) ... sì il tempo... il tempo se ne è andato, e tutti questi
anni sono volati, si sono come svuotati di tempo, capisci?, perché troppi ne abbiamo passati in
questo paese. E tu rimandavi sempre il nostro ritorno in Italia, rimandavi, cioè, la realtà che
stavi comunque vivendo, a un momento futuro, ma inesistente... Un futuro nel quale noi
avremmo riscoperto la nostra aria nativa... Ma io lo vedevo, sai?, vedevo ogni volta che tu
ritornavi lì... tu ti accorgevi che quell’aria nativa non era più la stessa, aveva perso la sua
consistenza, la sua originaria presenza, il vigore di una volta, cose e persone irrimediabilmente
cambiate... ti accorgevi che la vita aveva spostato la sua realtà, la sua esistenza, e dunque la tua
e la nostra esistenza, altrove, fino a renderci come una specie di “residenti temporanei”. (pausa,
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sorride mestamente) “...il meglio dei due paesi”... In realtà tra due paesi non ne abbiamo avuto
nessuno e nessun posto è il nostro, se non quello in cui un giorno riposeranno le nostre ossa
scontente.... (accarezza dolcemente la testa del padre, mentre il sottofondo musicale piano piano
scompare; improvvisamente una violenta raffica di vento fa spalancare la finestra e spegne la
candela; tutta la stanza piomba nel buio e nel silenzio più assoluto;
si sente qualche lieve rumore e stropiccìo di passi e di sedia) ...
dopo qualche secondo
aspetta, chiudo la finestra....
Dio che vento! (Emilia va a chiudere la finestra, poi con l’accendino riaccende la candela) ...
Papà, papà... dove... dove sei? (il padre non c’è più, c’è solo la sua sciarpa appoggiata alla
sedia; improvvisamente ritorna la luce elettrica e fuori si riaccende l’insegna luminosa WASH;
qualcuno bussa forte alla porta d’ingresso).
EMILIA (ancora frastornata, spegne la candela) ... sì, vengo, vengo... chi è?
Ms. MARSHALL (da fuori) Emily, sono io, la signora Marshall... (entra, ma fermandosi sul
pianerottolo). Tutto ok, Emily? Che uragano.... sembra però che il peggio sia passato e anche
l’elettricità è ritornata. Se ha bisogno di qualcosa, non faccia complimenti... (la guarda un po’
incuriosita e perplessa) ... ma sta bene, Emily?
EMILIA (ha ripreso pienamente il controllo di sé) Grazie, non si preoccupi... Tutto bene...
sistemo qualche ultima cosetta e prendo il taxi per l’aeroporto.
Ms.MARSHALL Ma potrei accompagnarla io... mi farebbe piacere.
EMILIA
No, non si preoccupi, lei ha già fatto molto... una volta che sarò giunta a
destinazione la chiamerò e le lascerò il mio numero di telefono. Non so quando ritornerò, ma di
certo ritornerò....
Ms. MARSHALL
Come vuole lei. Dunque, non se ne andrà... per sempre? (improvvisamente
contrita) ... sapesse quanto mi dispiace la perdita dei suoi genitori, che tragedia! In questa casa
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sentirò per sempre la loro mancanza... Beh, arrivederci, allora... (fa per stringerle la mano ma
poi accenna a un abbraccio informale) ... ah, un’ultima cosa: poco fa mi sembrava di aver
udito delle voci...
EMILIA
Delle voci? ... mah, può darsi... parlo spesso da sola ad alta voce... Arrivederla
signora Marshall. (Esce la Marshall, Emilia chiude la porta e rimane un momento come
sovrappensiero. Poi si dirige decisamente verso il telefono) Pronto? Long Island Taxi?
.... sì, al Kennedy... due valigie... , Bellmore, 34 Oak Street... d’accordo fra dieci minuti.
Mette sommariamente un po’ d’ordine nella camera. Fra le altre cose raccoglierà la pantofola
e la porterà nell’altra camera. Finisce poi di riempire di alcuni oggetti la scatola che si era
portata con sé. Dopodiché apre una delle due valigie e ci infila dentro la scatola. Richiude la
valigia. Riapre anche l’altra, aggiusta qualcosa dentro e la richiude. Va poi ad assicurarsi che
la finestra sia ben chiusa, l’insegna difettosa (W)ASH continuerà a emanare la sua luce bluastra
a volte molto luminosa, altre meno luminosa. Infine Emilia indossa l’impermeabile, prende le
due valigie, l’ombrello (che appoggerà a un braccio) e la sua borsetta. Arrivata alla porta
d’ingresso si volterà per dare un’ultima occhiata alla stanza e i suoi occhi cadranno sulla
sciarpa bianca rimasta appesa alla sedia. Come presa da un’ispirazione, poggia le valigie per
terra e va a prenderla. Se l’avvolge al collo con soddisfazione, ritorna alle valigie, le riprende,
spegne la luce, ed esce di casa. Si sentiranno i rumori delle chiavi che serrano la porta. Subito
dopo si risentiranno le note della Gnossienne n.3 di Satie. Il palcoscenico resterà ancora
aperto, con il sottofondo musicale, per poco più di un minuto; dopodiché si udrà il rumore
ovattato di una macchina in arrivo; rumori di sportelli e altro, ancora rumori di sportelli che si
chiudono, il rumore della macchina che riparte. L’insegna luminosa, questa volta con la sola
scritta ASH, continuerà a risplendere per tutto il tempo gettando una luce sinistra e malinconica
sul palcoscenico. Infine, mentre le note di Satie si attenuano, il sipario si chiuderà lentamente.
FINE