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pagina 99we |
34 | ARTI
sabato 1 novembre 2014
Toni Negri
o dell’arte di
mordere la realtà
Estetica | Raccolte in un libro le riflessioni del
filosofo. Fra la necessità dell’avanguardia e quella
di star fuori dal metodo di produzione capitalista
ANDREA DUSIO
n «Una sola fanzine punk
contiene più realtà di tutti i
romanzi di Eco e Orsenna».
Nelle ultime settimane del
1988 Toni Negri partecipa a
un colloquio di intellettuali
parigini in provincia. Possiamo provare a immaginare la
scena. Una domenica in campagna, i discorsi scivolosi che
si fanno in coda a un pranzo,
una casa troppo fredda e la
voglia di tornare in città il
prima possibile, prima che le
strade per la capitale si gonfino di traffico. Tra i convitati,
uno è più logorroico degli altri. «C’era il grande letterato
del momento, romanziere a
quattro stelle chiacchierone e
premiato di recente». Si tratta di Erik Orsenna, che in
quell’anno ha vinto il Goncourt per L’exposition colonial, dopo esser stato il consigliere culturale di Mitterand.
«Comincia a dire che la grande fortuna del nostro tempo
consiste nel fatto che i due
grandi blocchi della narrativa sono stati finalmente rimossi: il nouveau roman e la
letteratura engagée. Poi ha
continuato lamentandosi che
tutti i romanzi non siano come i suoi e quelli di Umberto
Eco: a metà tra Victor Hugo e
Jules Verne...».
È nel cuore di «un’epoca
disperata», il 18 dicembre,
che Negri scrive una lettera
intitolata Sul Costruire a
Nanni Balestrini. Contro il
facile escapismo della letteratura in voga, il filosofo patavino si aggrappa alla «disutopia» del punk, a quel realismo che contiene la possibilità residuale di testimoniare il
proprio tempo nella capacità
di ribaltare «le tecniche di
mistificazione della comunicazione». E si scaglia contro
il tentativo di distruggere la
funzione di avanguardia che
l’arte «deve comunque esercitare». Negri spiega che ci
sono due maniere per rimanere nel solco di un’arte e di
una letteratura realista. C’è
l’analisi e la ricomposizione,
per cui già procedevano
Manzoni, Balzac e Tolstoj, il
«metodo classico». E che og-
gi deve però misurarsi con
l’«astratto», che per Negri
non è mai il risultato di un
processo di formazione del
concetto che coincide con il
suo valore di verità universale (come per Hegel) ma un
termine negativo, che con-
Ci si misura con
l’impossibilità di dire
il reale se non come
prodotto fabbricato
densa l’idea di un prodotto di
forme e processi di idealizzazione e, appunto, astrazione
che non coincidono mai con i
fatti concreti. E poi c’è il
punk, che non prova ad analizzare l’astratto, ma lo descrive «secondo tipologie binarie che vengono trattate in
forma antagonistica». Tra
questi due approcci si muovono con dinamismo gli
scritti di estetica di Negri, in
gran parte in forma epistolare, raccolti ora per i tipi di
Derive e Approdi in Arte e
Moltitudo, a cura di Nicolas
Martino (pagine 150, 12 euro).
A una prima domanda,
esplicitata più volte nelle lettere dirette a filosofi, artisti,
militanti, relativa all’esistenza/sopravvivenza di un’arte
che si ponga al di fuori del
metodo di produzione capitalista, se ne accompagna
un’altra, che trova risposte
meno sistematiche e più episodiche, riguardante la fruizione di questa produzione e
dunque il suo senso. Nella
prima lettera, che risale al
1988 (come anno in cui s’inscrive la maggior parte del lavoro di Negri sull’arte), viene
evocato il ricordo di quegli
operai che, nel 1937, nel punto più alto di consenso del regime nazista, visitavano il
Museo di Pergamo e davanti
ai resti dell’altare riscoprivano i valori della Resistenza,
«la libertà l’eroismo la dignità il dolore di quei marmi sublimi, riappropriandosene,
ecco la scoperta dell’antifascismo». Resta da compren-
dere lo scarto etico che porta
quei lavoratori autodidatti a
distaccarsi dal classicismo
riemergente nel gusto di regime, a disprezzare «le liturgie di Leni Riefensthal». Oltre il tempo in cui, ricorda
Negri in riferimento alla
Biennale del ’63 e alla rivelazione di Rauschenberg,
«mordevamo la realtà», oltre
il Sessantotto, diventa allora
fondativa proprio l’esperienza del dolore, che è il perno
attorno a cui ruota la parte
che più si misura con il proprio tempo della riflessione
sull’arte di Negri. Non c’è solo il dato autobiografico. C’è
soprattutto, al crepuscolo degli anni Ottanta, e tuttavia
ancora nel vortice della loro
disgregazione, la registrazione di alcuni fatti, da Il pensiero debole di Rovatti e Vattimo, del 1983, alla Biennale
del 1980 dove Paolo Portoghesi con la Presenza del passato rompeva il tabù modernista, nello stesso anno in cui
ARTISTI Sopra,
l’opera The Matter
of Time di Richard
Serra, esposta
al Guggenheim
Museum di Bilbao.
Nella pagina a fianco
il pittore Robert
Rauschenberg,
nel suo studio
di Manhattan (1968)
Eco comandava le classifiche
col bestseller Il nome della
rosa. E ancora, risalendo gli
anni, come ricorda anche Nicolas Martino nel Portolano
che accompagna le lettere di
Negri, nel 1979 Se una notte
d'inverno un viaggiatore di
Calvino, coevo al manifesto
della Transavanguardia pubblicato da Flash Art (e recepito anche da Harald Szeemann che la sdoganerà a Venezia), su sino al 1976, quando Achille Bonito Oliva con
L’ideologia del traditore re-
cupera il manierismo come
chiave di accesso alla dissociazione da un mondo immodificabile e da una realtà impraticabile, negli stessi mesi
in cui Cacciari con Krisis poneva la critica del sistema
dialettico operata dal pensiero negativo a base del rinnovamento della filosofia italiana. Contro questa persistente
intenzione postmodernista,
quest’accantonamento del
presente muove dunque Negri, cercando una linea di luce in quegli irriducibili che si
e Leopardi diventa
una star del punk
ROBERTO SILVESTRI
n Qualcuno ricorda cos’è l’astanzadi Cesare Brandi? Quella realtà a parte dall’esistenza, altra cosa dalla flagranza della vita,
che fa dell’opera d’arte, di un affresco di Piero della Francesca o di un assolo di Sid Vicious, una realtà a sé, un cosa altra, capace
di trasformare l’aldiqua? Ebbene credo che
il grande storico dell’arte italiano, a torto
accusato di idealismo, gradirebbe molto la
versione materialista pop che dà dell’astanza (senza mai nominarla) Toni Negri, ripubblicando alcune sue note antiche e riflessioni recenti in Arte e moltitudo, sulla
produzione di quelle merci speciali sempre
contro natura, e su perché è rivoluzionario
ciò che è griffato Beuys, Fontana, Rauschenberg, Serra o Clash. Arte come poten-
za collettiva immateriale che sconvolge il
foro interiore della ricezione, e inventa altre
passioni. E come soggettività costituente
mondi, ma sempre ben radicata nei processi di produzione di questo mondo.
Brandi polemizzava con il principio di
causalità post hoc ergo propter hoc, che banalizza il lavoro critico. E anche Negri,
quando ci dà questa interessante progressione storica, ma a banda larga: realismo/operaio di mestiere/fase appropriativa(1848-1870); impressionismo/operaio
professionale/fase analitica (1871-1914);
espressionismo e astrattismo/fase gestionaria/operaio dei soviet (1917-1929) e operaio massa (1929-1968) fino alla fase costituente dell’operaio sociale di oggi, soggettività desiderante autonoma e corpo in mutazione ibrida e libera. Il passaggio dalla costituzione d’oggetto alla formulazione d’im-
magine, il realistico viaggio di disintegrazione fertile del segno, che non sta più a significare qualcosa, ma molto più di una
cosa, diventa in Negri la fuoriuscita dal
mercato dell’arte, fatta di «aste e musei e
bordelli e collezionisti». Ma il cinema?
Nel 1974 Toni Negri partecipa a un seminario organizzato dagli studenti del Centro
Sperimentale di Cinematografia diretto da
Roberto Rossellini, uno dei pochi cineasti
di cui si era occupato il giornale Potere Operaio (stroncandone Anno uno) in quel decennio che fu tutto tranne che più plumbeo
dei due precedenti (avete presente Scelba e
Rumor?).
Il cinema, e l’arte in genere, armi possenti
di sovversione subliminale in quel frangente devastante, servivano però poco all’organizzazione extraparlamentare che stava per
diventare il partito dell’insurrezione. Anche