Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Co-fondatore dello studio Ghibli insieme a Miyazaky, Isao Takahata ha sempre collaborato con il collega di cui è
più anziano e che ha in parte influenzato. Ciononostante il suo cinema, più particolare e più legato alla tradizione
giapponese, è meno noto, mentre universalmente conosciute sono le sue serie televisive (come Heidi e Anna dai
capelli rossi). Con questo suo capolavoro, forse conclusivo della sua lunga carriera, Takahata consegna al mondo
un testamento del suo lavoro giocato tra antico e nuovo, tra la lentezza artigianale, la creatività artistica e la
riflessione sui temi sociali, etici ed ambientali che ha attraversato tutta la sua opera.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
character design:
musiche:
produzione:
distribuzione:
137 MINUTI
GIAPPONE
2013
ISAO TAKAHATA
ISAO TAKAHATA, RIKO SAKAGUCHI
KEN'ICHI KONISHI
JOE HISAISHI
STUDIO GHIBLI
LUCKY RED
Premi e nomination:
2015 - Premio Oscar, Nomination Miglior film d'animazione; 2014 - Boston Society of
Film Critics, Miglior film d'animazione; Los Angeles Film Critics Association, Miglior film d'animazione; 2013 Mainichi Film Award, Miglior film d'animazione.
Isao Takahata
Takahata Isao, nato in Giappone nel 1935, mentore e socio di Miyazaki Hayao, è stato, soprattutto all'estero,
soverchiato dalla popolarità di quest'ultimo, nonostante la sua opera sia stata miliare tanto per l'animazione
giapponese quanto per l'amico di qualche anno più giovane, che ne ha subito l'influenza. Probabilmente
Takahata ha scontato il fatto di essere molto attaccato alla storia e al folklore del suo paese, di non creare mondi
ma di plasmare in maniera ambivalente la realtà che lo circonda: da una parte il taglio neorealista e in alcuni casi
addirittura antropologico-documentarista (come dimostrano certe sequenze del meraviglioso Only Yesterday),
dall'altra escursioni nel fantastico e nell'onirico tramite uno stile decisamente più espressionista.
Cresciuto in un ambiente dove ha la possibilità di accostarsi sin dall'infanzia alla letteratura e alla musica, fin da
ragazzino decide di dedicarsi allo studio della storia dell'arte. Studia poi letteratura francese all'Università di
Tokyo. Durante il periodo universitario nasce in lui un interesse per la storia del cinema, prende parte al club di
studi cinematografici e scrive articoli sul cinema su una rivista studentesca. È particolarmente interessato al
cinema francese e scopre in Prévert non solo il poeta ma anche lo sceneggiatore, ed il suo lavoro con l'animatore
Paul Grimault. Nel 1955 esce in Giappone La Bergère et le ramoneur di Grimault e Prévert: per Takahata questo
film è un'illuminazione, poiché l'animazione giapponese era ancora legata al modello disneyano. Takahata è in
cerca di un nuovo realismo; ciò che lo colpisce del film di Grimault è la visione sociale e l'attaccamento a una
realtà culturale definita.
Nel 1959 entra a far parte dello studio di animazione Toei Doga come allievo regista. Sono anni di grande fatica e
sfruttamento dei dipendenti della Toei, costretti a orari disumani per stare al passo con la concorrenza americana
producendo moltissimo. I dirigenti inoltre tendono a reprimere le tendenze innovative, promuovendo
l'imitazione dello stile disneyano. Ciononostante, in pochi anni si affermano talenti fuori dal comune, come
l'animatore Yasuo Otsuka, il primo a notare il talento di Takahata e le notevoli capacità dell'allora giovane
disegnatore Hayao Miyazaki. Questi uomini gettano le basi di un'estetica originale che segnerà profondamente
l'animazione giapponese.
Nel frattempo la diffusione della televisione non fa che incentivare una produzione seriale e massificata, con un
budget estremamente ridotto. Tetsuwan Atom (Astro Boy), di Osamu Tezuka, diviene il nuovo modello. Anche
Takahata dirige serie televisive, ma nel 1968 arriva finalmente alla sua prima regia cinematografica con il
lungometraggio La spada del sole - La grande avventura del piccolo principe Valiant, in cui il direttore
dell'animazione è Otsuka e Miyazaki si occupa del layout e dei fondali. Il film rompe nettamente con le
produzioni infantili che avevano caratterizzato fino a quel momento lo studio Toei. Per Takahata è un punto di
partenza personale e anche un programma di ricerca formale. Allo stesso tempo questo lungometraggio segna
l'inizio di un cammino comune con l'amico e collega Miyazaki. Il costoso progetto viene sviluppato più come una
produzione indipendente gestita dagli stessi artisti piuttosto che un progetto diretto dagli organi di produzione
veri e propri. È un'opera visionaria e pionieristica che ottiene un grande successo di critica, a cui però non
corrispose un'altrettanto buona risposta da parte del pubblico.
Insieme Takahata e Miyazaki danno vita a lavori di qualità sempre più alta, come Gli allegri pirati dell'isola del
tesoro. Ma proprio a causa delle loro ambizioni artistiche diventano figure ingombranti alla Toei e così raccolgono
l'invito di Otsuka a lavirare per altre case.
Nel 1971 Takahata affianca Miyazaki alla regia della prima serie de Le avventure di Lupin III, e nel 1973 si accinge
ad intraprendere una nuova sfida: la realizzazione integrale della sua prima serie televisiva. La prima opera che
affronta è Heidi nel 1974, che ottiene un enorme successo, seguita da Marco Dagli Appennini alle Ande (da
Cuore) nel 1976, e Anna dai capelli rossi nel 1979.
Parallelamente a queste serie televisive Takahata dirige per il grande schermo Goshu il violoncellista la cui
lavorazione fortemente artigianale dura sei anni: in questo film si inizia a percepire l'interesse del regista per le
sfumature e per il percorso interiore dei personaggi. Il terzo lungometraggio di Takahata, uscito anch'esso nel
1982, è Chie la piccola monella, adattamento di un manga comico, ambientato nei quartieri popolari di Osaka.
Goshu e Chie segnano la nascita dello stile personale di Takahata, volto all'esplorazione della vita quotidiana e
all'introspezione dei personaggi, piuttosto che ad un'epica favolistica, per un approdo ad un cinema molto più
orientato verso un pubblico adulto rispetto alle scelte fatte da molti animatori, tra cui lo stesso Miyazaki.
Nel 1984 Nausicaä della Valle del vento prodotto da Takahata e diretto da Hayao Miyazaki ottiene un enorme
successo, ma spinge il regista a scontrarsi con le richieste dei produttori per i film successivi. Così nel 1985 i due
decidono di realizzare il loro sogno e fondare un proprio studio di animazione: lo Studio Ghibli.
A questo punto tra loro si stabilisce un rapporto di complementarità: nel 1987 Takahata produce Laputa Castello nel cielo scritto e diretto da Miyazaki e l'anno seguente Miyazaki produce La storia dei canali di
Yanagawa scritto e diretto da Takahata, un documentario sulla lotta condotta dalla popolazione locale per
salvare il canale dalla cementificazione. Nel 1988 sia Miyazaki sia Takahata raggiungono una vetta altissima della
loro produzione, il primo con Il mio vicino Totoro, il cui profilo diventerà il simbolo dello studio Ghibli, mentre
Takahata firma la regia di Una tomba per le lucciole, che ha per protagonisti due bambini nella Kobe straziata
dalla seconda guerra mondiale.
Nel 1994 il film Pom Poko diretto da Takahata viene premiato al festival di Annecy. Il film tratta del rapporto tra la
natura e l'uomo, visto da un gruppo di Tanuki che rischia di perdere il proprio habitat a causa dell'espansione
degli insediamenti umani. Quasi come risposta al problema sollevato da Pom Poko, Hayao Miyazaki tre anni dopo
firma la regia di Princess Mononoke.
In un film del 1999, I miei vicini Yamada, Takahata abbandona il disegno tradizionale su acetato rivolgendosi alla
grafica computerizzata, dando però l'impressione di un tratto grezzo, come se i personaggi fossero solo stati
abbozzati su carta, acquarellati rapidamente e ripresi. Partendo da una celebre serie yonkoma manga, basata sul
dialogo di quattro vignette (come accade nei "Peanuts", per intenderci), il regista raccontava, per mezzo di scene
e di gag di varia durata, i componenti di una normale e stramba famiglia giapponese. Il disegno sembrava
animarsi direttamente dalle tavole del manga, il tratto di carboncino era grossolano, definendo attraverso il
design la caratterizzazione dei personaggi, i fondali minimalisti davano uno sfondo alla narrazione senza perdersi
in dettagli, riducendo a figure inespressive e anonime passanti e personaggi ininfluenti nelle giornate degli
Yamada. Questo gioiello poco noto, ma in mostra permanente al MoMA di New York, è il risultato di una grande
sintesi umanista e cinefila: nei décor à la Ozu, Takahata riversa sofisticazioni fantasiose, aumentando la carica
umoristica sino a sfociare nel demenziale, ma rivela in più parti la rassegnazione Zen del saper guardare, senza
giudicare, alle miserie degli uomini, sorridendo per la capacità di restare uniti nonostante le piccole grandi
difficoltà della vita.
Nel 2005 inizia ad occuparsi di La storia della principessa splendente, basato sull'antico racconto popolare
giapponese Taketori monogatari (lett. "Il racconto di un tagliabambù"). Il film viene distribuito nel 2013, dopo 8
anni di lavorazione. Nel 2015 Takahata viene insignito dell'Ordre des Arts et des Lettres dallo Stato francese.
Nel 2009 Takahata ha ricevuto il Pardo d'Oro alla carriera al Festival di Locarno.
La parola ai protagonisti
Intervista a Isao Takahata
Perché ha deciso di far uscire il film adesso e perché ha scelto questa storia in questo momento della sua vita?
Mi chiede perché ho scelto di fare uscire proprio ora questo film, in realtà non doveva uscire adesso. Avrei
potuto realizzarlo 30 anni fa o non averlo fatto proprio. Più di 50 anni fa mi venne l'idea per rendere questa storia
interessante, in un certo senso. L'idea quindi c'era, ma non ebbi un grande desiderio di dirigere questo film
personalmente. Ora però, in qualche modo, le condizioni sono state favorevoli. Lo Studio Ghibli è diventato
abbastanza grande da potermi offrire un budget considerevole. E, di conseguenza, si sono realizzati molti altri
presupposti per creare questo lungometraggio.
La sua idea originale includeva questo peculiare stile visivo, o è stata un'idea venuta dalla storia mentre veniva
adattata per il grande schermo?
Certamente viene dalla storia. Nella versione originale è molto difficile capire le motivazioni della Principessa
Kaguya. Questo rende il tutto misterioso e interessante. Eppure, pensai, sarebbe diventata adatta al cinema solo
se fossi riuscito a inserire il motivo del suo ritorno sulla luna. Ma, ovviamente, 50 anni fa questo non sarebbe
stato lo stile, perché non avrei mai pensato di usare un disegno simile per il film.
A che punto è venuto fuori questo stile? Animare questo film è stato presentato come una grande sfida per lo
Studio Ghibli?
Questo film non è stato fatto dallo staff principale dello Studio. È stato fatto da altre persone. Lo Studio era
occupato per il film di Miyazaki (Si Alza il Vento).
Si è sentito sotto pressione perché doveva realizzare qualcosa di originale e diverso da quello che è
maggiormente familiare al pubblico, dal momento che questa storia è molto conosciuta in Giappone (con il nome
di Taketori Monogatari)?
Non mi sono sentito sotto pressione. Ciò che volevo è che le persone, dopo aver visto il film, esclamassero: “Oh,
questo è ciò che c'è realmente dietro la storia di Kaguya”.
Nella cultura nipponica, questa storia ha influito sulla società oppure è il riflesso di come si è evoluta,
specialmente per come è oggi?
Non ho pensato alla storia in questo modo. Nella storia originale per esempio, la principessa Kaguya chiede ai
cinque pretendenti di portarle indietro qualcosa che solo chi conosce i classici di letteratura cinesi potrebbe
capire. Perciò è chiaro che la principessa li abbia studiati, no?
Ma nel film, quello che ho fatto è stato farle dire: "Beh, mi avete lodato con tutte queste metafore o similitudini.
Allora portatemi quel qualcosa che, secondo voi, ha il mio valore.", Così lo spettatore non deve avere una laurea
in storia cinese o altro. Però anche il significato è cambiato, e non era solo per causare un sacco di guai ai
pretendenti. Ha più presa sul pubblico moderno, credo. "Se pensate di me in quel modo, portatemi quelle cose
reali a cui mi avete paragonato.". Lei si sta ribellando contro l'essere oggettificata da questi pretendenti. E questa
è una sensibilità molto moderna.
Quale è stata la più grande sfida nell'animazione?
È stato tutto molto difficile... Desideravo essere sicuro che le linee e lo stile, simile ad un bozzetto, fossero quelli
che vi avremmo presentato. Ma, ovviamente, per disegnare in quel modo hai bisogno di persone molto
talentuose e brillanti.
Sono stato molto molto fortunato ad avere Osamu Tanabe per le animazioni di base e Kazuo Oga per i fondali.
Non avrei potuto fare questo film senza di loro e senza il loro supporto, che sono stato molto fortunato ad avere.
Ci sono state molte difficoltà per accertarsi che lo stile fosse compreso dall'intero team di produzione, e che tutti
lavorassero in quel modo. Anche questo è stato difficile.
Una Tomba per le Lucciole è un film che tutt'ora, a distanza di anni, stupisce molte persone e molti ne parlano:
qual è il motivo di tanto interesse? Forse l'animazione tradizionale?
Non sono sicuro del perché sia successo. Ma i film che ho voluto fare non sono quelli che soddisfano il pubblico
nell'immediato. Sono molto felice di essere stato capace di creare lavori che fanno parlare la gente anche dopo.
Mi sento molto contento e realizzato quando vedo persone, in un caffé o in altri posti, che commentano un mio
film dopo averlo visto. Perché non sono solo mossi dalle emozioni del momento, ma significa che sono stati in
grado di prendere dal film qualcosa che riguarda la loro vita, discutendone anche dopo, e di aver avuto [molto] di
più di un semplice impatto. Spero che anche questo film abbia un tale impatto.
Parliamo spesso con registi d’animazione che ci rivelano come la storia spesso cambia innumerevoli volte nel
corso della trasposizione in storyboard. Per arrivare a quello finale, passano una serie anche molto lunga di
storyboard diversi. Funziona così anche per lei?
Io solitamente creo lo storyboard pezzo per pezzo.Una volta pronto, non lo cambio più. Non voglio rischiare di
incappare in problemi ed errori, che possono capitare se si riscrive più volte la storia.
È un procedimento molto differente da quello americano.
Esattamente. Penso che entrambe le procedure abbiano i loro lati positivi e negativi, ma questo è come lo
facciamo noi, senza troppe prove. Ad esempio, ad Hollywood, molti lavorano alla stessa sceneggiatura, mentre
noi non facciamo nemmeno questo.
Negli ultimi mesi, abbiamo letto molti articoli sul fatto che lo Studio Ghibli possa smettere di produrre film, e sul
futuro della compagnia. Continuerete a fare lungometraggi? E dove vede la compagnia nei prossimi anni?
Non so davvero cosa succederà con lo Studio Ghibli in futuro, ma sono certo che c’è una grande possibilità che
continuerà a produrre film. Anche se il dipartimento produzione può avere chiuso, normalmente quello che
facciamo è ingaggiare persone per i vari progetti, lo abbiamo fatto anche per La principessa splendente. Quindi,
sono certo che potremo riunire un team produttivo per creare qualsiasi progetto vorremo. Quanto alla questione
che io riesca a fare film nel futuro, dipende dal mio stato fisico, dal mio stato mentale e da quello finanziario –
dipende se ci sarà o meno qualcuno disposto a investire soldi in un film che io vorrei fare. Dovrei avere la
cooperazione e la collaborazione di un buon produttore, come sono stato in grado di avere finora . Sono molte
condizioni , quindi non sono affatto sicuro di poter fare ancora film…
Recensioni
Giuseppe Gangi. Ondacinema.it
Alla base della sceneggiatura vi è Taketori Monogatari, una delle più antiche storie del Giappone, risalente al X
(…) secolo: si narra di un tagliatore che trova, all'interno di una canna di bambù, una minuscola bambina (...).
Takahata aveva scritto una riduzione del "Racconto di un tagliabambù" quando, giovanissimo, aveva iniziato a
lavorare alla Toei Animation, ma l'idea rimase chiusa in un cassetto per oltre mezzo secolo. A quanto pare, il
regista non aveva poi molta voglia di fare questo film e ci è voluto lo strenuo corteggiamento portato avanti per
più di un anno dal produttore Yoshiaki Nishimura e dal direttore delegato della Nippon Television Network
Seiichiro Ujiie che, (...) - in vero, "La storia della Principessa Splendente", con il suo budget di 5 miliardi di yen, ha
assunto le dimensioni di un blockbuster live action. In tempi di animazione digitale e di fotorealismo, Takahata ha
cercato uno stile che fosse classico all'apparenza ma tecnicamente innovativo, per non dire sperimentale. Il
regista torna alle radici dell'arte del racconto per immagini tipica della tradizione nipponica (come testimonia
quel lunghissimo rotolo, aperto dalla protagonista), ma si confronta anche con la sua carriera e con l'arte degli
animatori che ha stimato, come il canadese Frederick Back di cui è difficile non vedere l'ombra (si pensi alle
inarcazioni di stile del film e a "L'uomo che piantava gli alberi"). Affiancato dagli esperti Kazuo Oga (art director,
ruolo che aveva rivestito anche in "Principessa Mononoke") e dal capo animatore Osamu Tanabe, Takahata ha
scelto una via impervia, proseguendo la sua riflessione formalista sul disegno animato. "La storia della
Principessa Splendente" è stato realizzato con un'attenzione puntigliosa a ogni aspetto tecnico-artistico (si pensi
all'importante ruolo giocato dalla pista sonora, in continuità con "Si alza il vento"), disegnando personaggi e
fondali contemporaneamente, in maniera tale che il movimento degli elementi presenti sulla tavola riuscisse
vivificato: il mondo esperito con forza primigenia dalla protagonista dispensa allo spettatore la medesima
vibrazione emotiva, sia per un filo d'erba mosso dal vento, sia per il primo allattamento della principessa
neonata. È un'animazione che mette in primo piano la luce del sentimento piuttosto che la superfetazione
realista: a completare la messa in quadro, gli impressionistici cromatismi ad acquarello colorano i paesaggi
bucolici della prima parte e, nella seconda, prevalgono le campiture sature e, spesso, a tinta unita, che
ingabbiano i personaggi nei fondali urbani. Non bisogna sottovalutare l'ambizione sottesa a questa fiaba (...); il
suo ecologismo non si tramuta in ingenua propaganda, è bensì la contraddittoria presa di coscienza di un
intellettuale che riesce ancora a raccontare il mondo con gli occhi di una bambina.
(…) Il quinto lungometraggio Ghibli di Takahata è una profonda meditazione sulle stagioni della vita, sul trauma
della crescita e dello spostamento, sulla diffrazione esistenziale tra la vita in campagna e la vita in città. Kaguya è
un'eroina protofemminista che non si lascia incantare dalle lusinghe dell'aristocrazia urbana, agognando il ritorno
all'arcadia della sua giovinezza, quando, spensierata, poteva giocare con i compagni della montagna, mentre
scopriva il mondo e con esso il naturale succedersi delle stagioni. È dalla violenza dello sradicamento che nella
Principessa Splendente sorgono le vere difficoltà di adattamento alla vita. A contrappunto di ciò, vi è un'analisi
della società giapponese in formidabile coerenza col percorso autoriale del regista, che ha sempre toccato temi
sociali e politici; la contraddizione più insanabile è quella riferibile al culto della bellezza di cui la Principessa
Splendente si fa incarnazione: per essere conforme al codice nobiliare, la sua purezza deve macchiarsi, deve
essere corrotta. (...) il padre adottivo, consapevole della provenienza aliena della figlia, vorrebbe farne una donna
del "gran mondo", così da realizzare la sua felicità alla corte imperiale. La scalata sociale della ragazza si blocca,
però, dopo i primi passi, poiché rigetta i propri pretendenti arrivando a negarsi persino al Mikado - un peccato
mortale, considerando che l'imperatore è per i giapponesi dio in Terra. Le regole che la imprigionano in una
maglia impenetrabile di vacui gesti ne offuscano la vitalità solare, il gioioso sorriso: la Principessa viene
soggiogata dalla grigia abitudine, lasciandosi vivere tramite la simulazione della felicità, con la musica del koto
opposto alla tessitura portata avanti in segreto con l'aiuto materno, o il giardino coltivato come miniatura del
bosco montano.
Nello scarto dalla norma, il mutabile stile grafico lancia il film verso le vette della poesia più elevata: quando,
cioè, la Principessa Splendente o altri personaggi sognano, immaginano, unica forma di resistenza e liberazione
da imposizioni e da auto-imposizioni. (...)
"La storia della Principessa Splendente" diviene quindi la metafora del nostro cammino mondano: la civiltà della
Luna viene immaginata dall'autore come un Eden in movimento, con un Buddha che attende il ritorno di Kaguya;
indossato un velo, la ragazza verrà mondata dalla sporcizia che l'ha macchiata e, raggiungendo la felice
incoscienza del Nirvana, sarà dimentica di ogni attimo della sua esistenza terrestre. Ma il termine "sporcizia" non
scevera l'amore e l'odio, la gioia e il dolore, la comprensione e il rancore, i contraddittori impulsi comuni
all'umanità, moti dell'anima che la Principessa Splendente ha respirato e di cui si è nutrita. E così, tra immagini di
struggente lirismo, la nostra protagonista impara l'ennesimo sentimento, l'ultimo che potrà provare: la nostalgia
per la vita, per gli attimi che ne hanno autenticato la presenza su questa Terra.
Con la stessa eleganza, a metà tra disincanto e amara rassegnazione, Takahata segue Miyazaki in un testamento
artistico dall'ardita e radicale potenza espressiva. Chiudendo il ciclo di una stagione irripetibile, si può solo
rimanere in attesa di un'altra primavera...
Arianna Di Genova. Il Manifesto
Cinquant’anni di attesa (almeno per l’idea germinale), poi una corsa in otto anni e un fiume di yen: cinque
miliardi per liberare quel sogno sul grande schermo.
Finalmente, l’ossessione per la principessa Kaguya — la misteriosa figlia della luna che ha dato origine alla letteratura giapponese (il racconto popolare del Tagliatore di bambù, da cui proviene la nobile fanciulla, è stato
redatto e scritto nella lingua tardoantica nel X secolo) — diventa realtà. Anzi, un film, grazie all’intuizione di uno
dei fondatori dello studio Ghibli, Isao Takahata. Ad attrarre la fantasia del regista («volevo che gli spettatori si
chiedessero: cosa si nasconde dietro le apparenze?») è stato il carattere sfuggente dell’eroina nella leggenda tradizionale. Tanto sfuggente che il segno scelto per rappresentarla (speso fusa insieme al rigoglio della natura) è
rigosamente disegnato a mano: un tratteggio impressionista, che procede per via di evaporazione delle figure,
con linee non finite, acquerellando paesaggi e soggetti che fluiscono uno nell’altro, scomponendosi in dissolvenze incrociate. Pur se non è lui il disegnatore, è proprio dalla storia dell’arte che arriva l’estro del maestro giapponese dell’animazione. Sulle sue spalle, ha una formazione che dopo aver guardato al primo Disney (Fantasia e
Biancaneve), ha distolto gli occhi dall’America per puntarli sulla Russia di Lev Atamanov e sulle poetiche creature
di Yuri Norstein (quasi suo coetaneo, essendo nato nel 1941, mentre Takahata è del ’35).
(…) La leggenda (che ha anche una «sorella» tibetana) narra di un tagliatore di bambù che trova una bambina in
miniatura, rifulgente di luce. Insieme a sua moglie la alleverà, nella convinzione di avere per le mani un essere
speciale. (...)
Dopo le dimissioni dal nostro immaginario di Miyazaki, suo compagno di strada per decenni, Takahata ha lasciato
in sospeso il suo futuro. «Non voglio dire ora se sto per andare in pensione oppure no». Incrociamo le dita.
Emanuele Sacchi. Mymovies.it
(…) Dopo oltre dieci anni di silenzio, un budget sempre più cospicuo e una lavorazione complessa, Takahata Isao
abbandona il taglio neorealista che lo ha reso celebre per portare a termine la sua interpretazione di una delle
più antiche fiabe giapponesi, "Taketori monogatari", risalente al X secolo. Riprendendo a quasi ottant'anni una
sua intuizione, che non si tradusse in film per la Toei 55 anni prima, Takahata sceglie la via più personale nella
rielaborazione della storia della principessa splendente, dimentico dei precedenti (come la versione di Ichikawa
Kon del 1987). Omettendo il prologo e concentrandosi sull'epilogo, Takahata compie la scelta più audace: non è
importante sapere perché Kaguya è stata esiliata sulla Terra, è importante comprenderla attraverso il rapporto di
amore e odio che si instaura tra lei e il mondo degli uomini. Nel corpo luminoso e dalla crescita rapida e
stupefacente di Kaguya vive l'anima di una ragazzina che sembra concentrare su di sé lo spirito delle migliori
produzioni Ghibli. Spensierata e amante della natura e delle cose semplici, nonostante la sua indubbia capacità di
indossare vesti nobiliari, Kaguya è un personaggio dalle mille sfaccettature, capace di aderire a un codice
comportamentale pur di non deludere il padre - ambizioso ma non avido, personaggio in parte negativo ma che
mai viene giudicato, in perfetto stile Ghibli - ma desiderosa di rivivere, anche solo per un attimo, quell'infanzia
così effimera. In Kaguya rivivono il trauma della crescita, il trauma del trasloco (come ne La città incantata di
Miyazaki), l'ingresso nella comunità degli uomini pur proveniendo da un altro mondo (Ponyo sulla scogliera):
potenzialmente il manifesto definitivo del Ghibli-pensiero, benché lontanissimo in termini realizzativi.
Nella tecnica di animazione sta infatti il maggiore segno di discontinuità dell'opera rispetto alla tradizione Ghibli. I
contorni paiono tratteggiati con un carboncino, i colori servendosi di acquerelli, portando a un risultato in
apparenza primitivo, ma capace di trasmettere con forza maggiore di qualunque ricorso alla computer graphics la
sensazione di atemporalità della storia di Kaguya. E di aderire totalmente all'incontrollabile turbinio dei suoi
pensieri, come nella sequenza principe in cui Kaguya sogna di tornare a casa e la sua figura si trasforma quasi in
una macchia indistinta, in puro dinamismo alla Boccioni, che rifugge ogni rappresentazione di verosimiglianza per
esprimere l'impeto del sentimento. E mai si sono visti neonati ritratti con altrettanta grazia e cura amorevole per
ogni loro singolo movimento o smorfia. Le musiche dell'ineffabile Hisaishi Joe intensificano la componente melò
di un'opera tanto complessa sul lato interpretativo quanto è lineare su quello contenutistico e stilistico. Uno
scrigno di emozioni e di riflessioni etiche che, se dovesse rappresentare il capitolo finale delle produzioni Ghibli,
sarebbe epilogo degno di un'epopea immortale.
Totalmente non condivisibile la scelta del doppiaggio di rimuovere il nome della principessa, Kaguya (in
giapponese "notte splendente" e quindi essenziale per la comprensione della trama), compiuta al solo scopo di
evitare qualche risolino di adolescente.
Enrico Azzano. Quinlan.it
Dalla Mostra del Cinema di Venezia al Festival di Cannes il passo è stato breve. Un addio annunciato, ma non per
questo meno sofferto. Un’epoca che finisce e che forse non tornerà più. Dopo Si alza il vento di Hayao Miyazaki,
presentato in concorso a Venezia, è stato finalmente il turno de La storia della principessa splendente (The Tale
of Princess Kaguya / Kaguyahime no monogatari), ospitato sulla Croisette dalla Quinzaine des Réalisateurs. (...)
A restare vivamente impresso sarà invece questo lungo addio, questa pellicola che è un testamento artistico e un
incalcolabile regalo per i posteri, una sorta di stella polare per gli animatori di oggi e di domani. La storia della
principessa splendente ci indica un sentiero difficile da (ri)percorrere, rielaborando un immortale patrimonio
narrativo ed estetico: l’animazione è Arte, è un lavoro certosino, è il tempo passato su ogni singola tavola, è
contenuto, storia, emozione, è un vitale intreccio tra realtà e fantasia, è immaginazione al potere.
Il bianco. Il non-colore. L’assenza del colore impreziosisce le composizioni cromatiche, esalta la potenza pittorica
della pellicola, le metamorfosi delle linee del character design – la sequenza della corsa disperata della
principessa, furiosa come un samurai di Cronache della imprese dei ninja di Nagisa Ōshima. Strabiliante.
Un fotogramma, un quadro. Una poesia visiva. La storia della principessa splendente è il trionfo dell’animazione,
dei colori, dei tratti, delle intuizioni grafiche; è arte, sperimentazione e innovazione con potenzialità e budget
commerciali. Un’operazione meravigliosa e al tempo stesso inevitabilmente “fallimentare”. Takahata tesse un
capolavoro, accompagnato dalle note di Joe Hisaishi, intrecciando classicismo narrativo e sperimentazione
estetica, andando volontariamente contro le regole non scritte dell’animazione da box office.
La storia della principessa splendente è anche un omaggio alle opere del canadese Frédéric Back, figura di
riferimento per Takahata. Il maestro nipponico conferma la lucidità del proprio sguardo sull’universo animato:
dopo aver lavorato sulla distribuzione nel Sol Levante delle pellicole di Michel Ocelot (Kirikù e la strega Karabà,
Principi e principesse) e di Paul Grimault (Le roi et l’oiseau), dopo essersi occupato di saggistica e omaggi
(Norstein, altro irrinunciabile punto di riferimento), Takahata sposa nuovamente e splendidamente lo stile di
Back, tra i nomi più illustri dell’animazione canadese. A quattordici anni da My Neighbors the Yamadas, Takahata
riesce nell’impresa di dirigere un lungometraggio con suggestioni grafiche à la L’homme qui plantait des arbres
(1987), Crac! (1981), Le fleuve aux grandes eaux (1993) e Tout-rien (1978). La storia della principessa splendente
è la poesia visiva di Back che si dilata oltre le due ore. Un miracolo, un azzardo, una follia.
Takahata regala al tagliabambù e alla principessa una rinnovata immortalità, portando sul grande schermo il
celeberrimo racconto popolare del X secolo. Ci sarà difficile d’ora in poi immaginarlo in maniera differente,
superare la meraviglia visiva della principessa bambina, della miracolosa crescita, di quei tratti gentili, di quei
boschi che riecheggiano le opere di Back e Norstein, ma che rimandano anche alla sensibilità grafica e narrativa
che ha accompagnato qualsiasi regia di Takahata. Ritroviamo l’armonia di Goshu il violoncellista, la poesia
struggente di Only Yesterday, l’energia e la forza pittorica di Pom Poko, l’attenzione per i luoghi e la Storia di
Yanagawa horiwari monogatari.
I servi senza volto, presenze silenziose, quasi sfuggenti; gli insetti sotto il sasso che rimandano a Nausicaä della
Valle del Vento, come a chiudere un cerchio; le caratterizzazioni dei cinque nobili pretendenti; il maestoso ciliegio
in fiore; i piccoli cinghiali; la distruzione del giardino; i primi passi della principessa bambina; il passaggio all’età
adulta; la casa dei genitori adottivi, perfetto esempio di quei luoghi ideali disegnati da Takahata e Miyazaki; le
note di Hisaishi; la vitalità dei piccoli amici del villaggio; le rane saltellanti, la bimba che gattona, il capitombolo e
la corsa disperata dell’anziana madre. La corsa disperata di Kaguya. La nostra disperazione. E il ricordo indelebile
di quel bianco, base di partenza di un universo immaginifico che ha preso forma ancora una volta. Gli anni della
Tōei, del World Masterpiece Theater, dello Studio Ghibli. Il vento si è alzato e la luna risplende. Addio. Addio.
Addio.
Andrea Fornasiero. FilmTv Rivista
Penultimo film dello Studio Ghibli prima dell’annunciata pausa di riflessione e ultimo del cofondatore Isao
Takahata, La storia della principessa splendente ha radici antiche, sia perché porta sullo schermo una favola
giapponese del X secolo, sia perché Takahata pensa a questo progetto da quando, 55 anni fa, se ne parlava
presso gli studi Toei. Attivamente ci ha lavorato “solo” gli ultimi otto anni, causando lunghi ritardi, facendo
lievitare i costi. Ne è valsa la pena? Economicamente parlando no, perché il film ha incassato in Giappone circa la
metà di quanto è costato ed è per lo meno concausa dello stop produttivo dello Studio Ghibli. Artisticamente,
però, La storia della principessa splendente è il vertice di un’elaborazione stilistica maturata in una carriera
eccellente, capace di fondere l’animazione dai larghi spazi bianchi già del precedente My Neighbors the Yamadas
del 1999 con un disegno riconoscibilmente “Ghibli”. Il film soddisfa inoltre l’antico desiderio del regista di
realizzare una “Heidi giapponese”: come la bambina elvetica di cui Takahata diresse la celebre serie televisiva, la
Principessa Splendente vive sulle montagne e deve superare il rigore dell’educazione per l’ingresso nella buona
società. Creatura magica dalla crescita prodigiosa, la Principessa è stregata da una canzone che parla del ciclo
della vita e della struggente promessa di un ritorno, di cui la sua voce tradisce l’impossibilità.