Scheda tratta da Mauro Natale, catalogo dei dipinti, Milano 1982

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Scheda tratta da Mauro Natale, catalogo dei dipinti, Milano 1982
Scheda tratta da Mauro Natale, catalogo dei dipinti, Milano 1982
Bernardo Butinone
Treviglio, attivo dal 1481 - Milano, 1526
Santo Stefano
Tempera e olio su tavola; 98x29 cm (n. mv. 1622)
Sant’Antonio da Padova
Tempera e olio su tavola; 98x31 cm (n. inv. 1618)
Restaurati da L. Cavenaghi prima del 30 marzo 1881 (Archivio del Museo Poldi Pezzoli, faidone14/a),
i dipinti si presentano in uno stato di conservazione generale assai buono. Come già è stato acutamente
osservato da F. Malaguzzi Valeri (1907, p. 163), i due pannelli costituivano in origine un’unica superficie
pittorica «senza divisioni di sorta». Lungo i bordi rispettivamente destro e sinistro essi mostrano infatti un
taglio molto netto lungo il quale la materia pittorica si estende fino al margine estremo del supporto. I bordi
opposti (di sinistra per Santo Stefano, di destra per Sant’Antonio da Padova) portano invece la traccia della
battuta della cornice in cui essi erano un tempo inseriti. L’originaria contiguità dei due dipinti è chiaramente
avvertibile anche nella perfetta corrispondenza dei motivi architettonici e di altri elementi della figurazione,
quali i cespugli e l’estremità dell’ombra che il piede destro di Sant’Antonio da Padova proietta sulla lastra di
marmo giallo, in basso a destra del pannello compagno.
Le due opere denunciano pesanti integrazioni nella zona superiore della superficie, dove l’anacronistica
voluta architettonica che corona la tavola con Santo Stefano è frutto di un intervento operato in epoca
moderna, destinato probabilmente a conferire al frammento una propria autonomia compositiva. Al medesimo
tempo risale l’esecuzione della parte sinistra dell’archivolto e di quella zona di cielo che copre l’angolo
superiore destro del Sant’Antonio da Padova, dove la pittura è stata applicata direttamente sulla tavola
sprovvista di mestica. Alla stesura d’origine spetta invece il pilastro sullo sfondo dei santo francescano e la
semicolonna addossata su cui è impostato l’arco che si sviluppa in parte sulla tavola compagna.
E ancora da rilevare che il supporto su cui furono dipinti i due santi era costituito da due assi di legno di
ineguale larghezza, giunte verticalmente tra di loro da una serie di innesti a coda di rondine che ancora
sussistono sui retro della tavola con Sant’Antonio da Padova. Uno degli incastri, in parte tagliato, collima con
il bordo superiore del pannello e lascia intendere che in passato l’altezza dei dipinti fosse superiore a quella
attuale, probabilmente di circa 30 centimetri. Le due opere dovevano costituire quindi un’unica superficie di
circa 130 centimetri d’altezza e 60 di larghezza; esse formavano lo scomparto di destra di un polittico a più
elementi, come ben mostrano l’orientamento prospettico dei pavimento e la posizione di uno dei due santi.
Nel 1902 W. Suida (p. 334) aveva già segnalato che il corrispondente scomparto di sinistra dello smembrato
polittico era da riconoscere nei due frammenti rappresentanti San Francesco e San Giovanni Battista della
Collezione Bagatti Valsecchi a Milano. Simili per stile e per dimensioni (97x26,5 cm ciascuno) anche questi
dipinti rivelano la presenza degli stessi motivi architettonici, dei pavimento policrome a lastre marmoree (in
questo caso orientato prospetticamente da sinistra verso destra), delle finissime aureole eseguite ad oro in
trasparenza sullo sfondo, e manipolazioni e integrazioni identiche (compresa la voluta architettonica, dipinta
al culmine della tavola con San Giovanni Battista) a prova del fatto che essi hanno subito
contemporaneamente la medesima sorte.
La pala centrale dei polittico è oggi identificabile con sicurezza in una tavola acquistata nel 1971 dal J. Paul
Getty Museum a Malibu (n. inv. 71. PA. 60, 160x105 cm), già nel «Museo» di Michele Cavaleri a Milano,
venduta poi con la collezione di Enrico Cernuschi a Parigi (Galerie Georges Petit, 25-26 maggio 1900, lotto
81) e in seguito presso sir Joseph B. Robinson a Londra e a Città del Capo (B.B. Fredericksen,
comunicazione scritta).
Il dipinto raffigura la Madonna in adorazione del Bambino, angeli musicanti e coro angelico sotto una loggia
rinascimentale aperta su di un ampio sfondo di paesaggio.
Anche in questo caso il pavimento su cui sono disposte le figure è composto da lastre marmoree policrome la
cui rappresentazione prospettica converge verso un punto di fuga centrale che coincide con quello delle altre
tavole.
Oltre all’apposizione di una falsa firma che lo ascriveva al Bergognone, il dipinto dei Museo Getty aveva
anch’esso subito in passato ridipinture massicce, estese quasi esclusivamente all’architettura, che
mascheravano l’aggiunta di due listelli laterali di circa 7 centimetri ognuno. Il recente restauro, ancora in
corso, ha consentito di identificare a ridosso dei due pilastri che inquadrano la scena sacra le tracce di battuta
della cornice ed ha rimosso estese integrazioni nella zona superiore dei dipinto mettendo in luce parte della
sagoma centinata della superficie. Ciò dà credito all’ipotesi che tale profilo spettasse anche agli scomparti
laterali dove per l’appunto le integrazioni moderne ancora nascondono il perimetro reale della pittura antica.
La ricostruzione del complesso è del tutto confermata dalla assoluta identità di stile che accomuna i
frammenti, dalle dimensioni delle figure e dal profilo dei paesaggio che si sviluppa sui fondi senza soluzione di
continuità. Sul pannello della Collezione Bagatti Valsecchi con San Giovanni Battista, che in origine era
collocato a sinistra della tavola centrale, figura la fronda di un albero il cui fusto appare sullo sfondo del
dipinto dei Museo Getty.
Va infine rammentato che già nel 1893 G. Morelli (III, pp. 132-133) aveva supposto che ai due santi del Poldi
Pezzoli andassero collegati anche i tondi lignei raffiguranti i busti di San Gerolamo e di Sant’Ambrogio (40 cm
di diametro ognuno), conservati in questo stesso museo (cat. 24 e 25). I due dipinti, che rivelano palmari
analogie di stile con le tavole più grandi, avrebbero, in effetti, potuto trovare adeguata collocazione nel
registro superiore del polittico qui ricomposto, affiancando probabilmente una cimasa, peraltro ignota, con la
rappresentazione della Crocifissione o della «Imago Pietatis». Ouest’ipotesi permane tuttavia di diffcile
verifica, sia a causa della fattura completamente diversa delle aureole, sia perché i busti dei due santi si
stagliano su di uno sfondo scuro omogeneo, in netto contrasto con l’impostazione generale del dipinto in cui
la nota naturalistica è dominante.
La netta preminenza di santi francescani fa supporre che il complesso si trovasse in origine in una chiesa di
quest’ordine e rende estremamente verosimile la sua identificazione con la «pala divisa in più pezzi» che G.L.
Calvi (lI, 1865, p. 123) rammenta come già esistente in San Francesco di Cantù. Lo storico metteva inoltre in
evidenza che i vari elementi erano «mancanti di dorature», volendo così sottolineare che questo polittico,
d’impronta rinascimentale, si distanziava nettamente da quelli legati alla tradizione gotica. Secondo Calvi (lI,
1865, p. 123) la tavola centrale, che portava la firma di Bernardo Zenale e la data 1507, «soppressa la
chiesa, verso la fine del secolo passato fu venduta fuori di paese»; gli altri pannelli, all’epoca in cui scriveva lo
studioso, si trovavano presso la «famiglia Longhi».
Un documento recentemente scoperto (J. Scheli) anticipa al 1502 l’anno di esecuzione del polittico. La
provenienza canturina di questo complesso, era già stata avanzata, limitatamente alle tavole dei Poldi
Pezzoli, da G. Morelli (III, 1893, pp. 132-133), e fu in seguito ripresa da M.L. Ferrari ([1960], 1979, p. 71), da
B. Berenson (1968, p. 455) e da P. Loiacono Astrua (1978, p. 74). L’ipotesi di W. Suida (1957, p. 163), che
suggeriva di riconoscere nei Santi Ludovico di Tolosa e Bonaventura della Pinacoteca Ambrosiana di Milano
(nn. inv. 15, 16) e nei Santi Francesco e Antonio da Padova già nella Collezione Lazzaroni a Roma parti dello
smembrato polittico, è invece da respingere giacché queste opere spettano ad una fase assai più antica, situabile nell’arco dell’ultimo decennio del Quattrocento.
La vicenda attributiva delle tavole del Poldi Pezzoli, che nel catalogo di G. Bertini (1881, pp. 36-37)
compaiono come anonimi prodotti di scuola milanese, ha seguito le alterne fortune legate ai nomi di Vincenzo
Civerchio e dello Zenale. Al maestro cremasco furono ascritte da A. Venturi (ViI/4, 1915, p. 913), seguito in un
primo tempo da B. Berenson (1932, p. 151), da A. Morassi (1932, p. 22), da U. Ojetti, L. Dami, G. Lugli (1948,
p. 64), da F. Russoli (1955, pp. 139-140; 1972, p. 218; 1978, p. 26) e da A. Bombeili (1957, p. 28). Per F.
Malaguzzi Valeri (1907, pp. 163-164), che pure qualche anno prima aveva formulato il nome dello Zenale
(1902, p. 74), i due pannelli erano riferibili ad un artista anonimo, attivo nella cerchia di Vincenzo Foppa,
autore degli affreschi della cappella di San Giuseppe (o della Vergine) in San Pietro in Gessate a Milano; su
di un’opinione analoga si allinearono C.J. Ffoulkes e R. Maiocchi (1909, p. 250). W. Suida (1902, p. 334;
1919, p. 271) collegava invece i dipinti alla medesima personalità che eseguì il trittico già nell’oratorio di
Santa Maria Assunta della Passione e attualmente in Sant’Ambrogio, identificata oggi dalla critica in Bernardo
Zenale il cui nome è d’altronde attestato da una ricevuta di pagamento in data 1494 (Malaguzzi Valeri, 1905,
p. 175). Al pittore di Treviglio, infine, furono attribuiti da W. von Seidlitz (1885, p. 76; 1903, p. 32: solo il
Sant’Antonio da Padova, mentre il pannello compagno fu ritenuto opera di scuola), da G. Morelli (III, 1893, pp.
132-133), dal Catalogue of Pictures..., (1899, p. XXIII), da V. Costantini (1921, p. 112), da E. Sandberg
Vavalà (The Reintegration..., 1929, pp. 209, 213, 222), da P. Arrigoni (1947, p. 456), M.L. Ferrari
([1960],1979, pp. 58-59, 61-62, 66, 71; [1963], 1979, p. 93; [1967], 1979, p. 154), E. Cassa Salvi (1966, senza
n.p.) B. Berenson (1968, p. 455), e P. Loiacono Astrua (1978, p. 74).
La conoscenza della personalità artistica di Bernardo Zenale, che dal 1485 appare associato a Bernardino
Butinone nell’esecuzione del grande polittico della chiesa di San Martino a Treviglio, si fonda essenzialmente
su di un pannello firmato rappresentante Cristo schernito della Collezione Borromeo all’Isola Bella e su di un
gruppo di dipinti assai simili a quello per stile, già riferiti al cosiddetto Pseudo Civerchio o Maestro dei
monogramma LX (LX) (da una tavola così siglata e con la data 1491 raffigurante la Circoncisione al Museo
del Louvre, n. inv. M.l. 568). La ricostruzione dell’attività dei pittore proposta dagli studiosi (Ferrari
[1960],1979, pp. 58-59, 61-62, 66, 71; [1963],1979, p. 93; [1967], 1979, p. 154; Lolacono Astrua, 1978, p.
74), tuttora incerta per quanto concerne la sua produzione più antica (ma vedi Loiacono Astrua, Uno Zenale a
Padova, 1977, pp. 43-47), appare del tutto attendibile in relazione alle opere databili al primo decennio del
Cinquecento, ove ricorrono le componenti essenziali dello stile dell’artista, formatosi sugli esempi di Vincenzo
Foppa e in seguito determinato dalla pratica prospettica di Bramante e Bramantino e dai modelli di Leonardo.
Da quest’ultimo sembrano ispirati, nel polittico qui ricomposto, il motivo del Bambino seduto che compare
nella tavola centrale, libera interpretazione di quello che figura nella Vergine delle Rocce (la cui seconda
versione, Londra, National Gallery, è databile agli anni 1506-1508) e l’importanza accordata al paesaggio, di
cui si può cogliere appieno l’ampiezza restituendo mentalmente al complesso smembrato il suo assetto
originario. Questa stessa attenzione agli elementi naturalistici, interpretati secondo un diaframma fantastico di
cui ancora è ignoto il senso (che prende forma in svariati motivi antropomorfi riconoscibili negli agglomerati
rocciosi), caratterizza anche opere cronologicamente vicine, come la Deposizione della chiesa di San
Giovanni Evangelista a Brescia o la più tarda Madonna con il Bambino e Santi della Collezione Kress in
deposito all’Art Museum a Denver, Colorado (n. inv. K 1626).
Il richiamo a Vincenzo Foppa è invece perfettamente avvertibile nel tono livido e dimesso dei santi dei Poldi
Pezzoli e della Collezione Bagatti Valsecchi e in quei particolare accento di gravità che isola le figure nello
spazio.
Il polittico di cui facevano parte i dipinti del Poldi Pezzoli occupa quindi una posizione importante in quella
fase di «revisione espressiva del... linguaggio figurativo» (Loiacono Astrua, 1978, p. 74) durante la quale lo
Zenale concilia le forme più vive della tradizione pittorica lombarda del Quattrocento con gli apporti di
Bramante e di Leonardo, e che coincide con il periodo centrale della sua attività.
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