antologia sull`impresa mafiosa appunti introduttivi
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antologia sull`impresa mafiosa appunti introduttivi
ANTOLOGIA SULL’IMPRESA MAFIOSA APPUNTI INTRODUTTIVI di Nando dalla Chiesa 1.L’impresa mafiosa L’impresa mafiosa è da tempo uno dei temi principali di studio nell’ambito della ricerca sociale sulla mafia. L’ interesse crescente che esso suscita è dovuto a differenti motivi. Il primo è che l’impresa è il luogo in cui le organizzazioni mafiose reinvestono i proventi delle loro attività illecite e in particolare del traffico degli stupefacenti. E’ cioè il soggetto grazie al quale esse moltiplicano tali profitti e che ha trasformato l’essenza dello stesso fenomeno mafioso stabilendone una connessione organica con la dimensione del profitto. Il secondo è che l’impresa rappresenta per le organizzazioni lo strumento ideale per allargare la propria influenza e il proprio potere, e per rafforzarne la capacità di interlocuzione sociale e di produzione del consenso. Il terzo motivo è che l’impresa si pone come il motore del fondamentale processo di integrazione della mafia (e delle altre organizzazioni similari) nell’economia e nella società legale, dando vita a una grande zona grigia in cui l’economia lecita e quella illecita (la white economy e la black economy) entrano in contatto sovrapponendosi o scambiandosi beni e servizi. Intendiamo qui per impresa mafiosa l’impresa formalmente legale che agisce in un particolare campo dell’agricoltura, dell’industria o dei servizi (dai più elementari servizi di facchinaggio ai più sofisticati servizi finanziari) con finalità previste dall’ordinamento ma rappresentando una emanazione diretta dell’organizzazione criminale. Un’entità economica, dunque, che costituisce il punto di sbocco di un’accumulazione illegale e che non dimentica mai la possibilità di disporre, magari in ultima istanza, delle risorse tipiche del soggetto che l’ha fondata, a partire dall’esercizio della violenza. Ma è chiaro che a lato di questa prospettiva ve ne è anche un’altra, che potrebbe a sua volta essere oggetto di ampia letteratura. Ed è la prospettiva analitica e di studio dell’impresa illegale in sé: ossia l’insieme delle attività economiche vietate dall’ordinamento (dai traffici di droga all’estorsione, dall’usura allo smaltimento abusivo dei rifiuti tossici) operate attraverso una struttura organizzata capace di coordinare “imperativamente” risorse di capitali, di mezzi tecnici e di personale, e dotato di una propria contabilità e di proprie specifiche funzioni. Se gli studi e anche l’attenzione dell’opinione pubblica si sono concentrati quasi essenzialmente sulla prima prospettiva è, anche inconsapevolmente, per le tre ragioni su ricordate oltre che per una certa riluttanza mentale a ricondurre alla categoria dell’ “impresa” (ritenuta espressione di valori comunque positivi) comportamenti per definizione criminosi. L’eccezione più importante in questo panorama è costituita forse dal saggio di Raimondo Catanzaro Il delitto come impresa, pubblicato nel 19881 e che si proponeva di ricostruire attraverso questa nozione più comprensiva (e certamente molto ampia) l’intera storia sociale della mafia. Mentre importanti spunti sono recentemente venuti in questa direzione dagli studi sui cartelli dei narcotrafficanti messicani2. E’ quindi all’impresa formalmente legale che ci rifaremo in questa sede. Gli scritti e le riflessioni che l’hanno riguardata, e che si sono via via infittiti e diversificati per interesse e taglio, riflettono i problemi progressivamente posti dalla realtà. Prima la constatazione che era finita l’epoca delle cosiddette “imprese cartiere”, ossia delle imprese a cui veniva assegnato l’unico scopo di produrre carte false (fatture, bolle di accompagnamento) per garantire una copertura alle attività illegali. Poi la presa d’atto di un inserimento multiforme dei capitali mafiosi nel mercato, in grado di stabilire differenti tipologie di relazioni con operatori economici di ogni livello. Infine gli interrogativi su quella che possiamo chiamare “la tassa mafiosa”, ossia le riflessioni sui costi dell’illegalità. Vuoi in termini di risorse pubbliche bruciate e sottratte ai circuiti virtuosi dell’economia; vuoi in termini di “effetto scoraggiamento”, inteso come quella combinazione perversa di allontanamento dal mercato di imprenditori legali e di dissuasione a manifestarsi di nuove energie imprenditoriali. La letteratura scientifica trascrive insomma tendenzialmente lo sviluppo dei fatti storici e la forza con cui essi si impongono all’attenzione della comunità. Con questa consapevolezza occorre confrontarsi con i testi di cui si suggerisce la lettura antologica: La mafia imprenditrice di Pino Arlacchi (Il Mulino,1983), La mafia siciliana di Diego Gambetta (Einaudi, 1993), Mafie vecchie e mafie nuove di Rocco Sciarrone (Donzelli, 1998), L’impresa a partecipazione mafiosa di Enzo Fantò (Dedalo, 1999), e infine il testo recentemente curato da Luigi La Spina, I costi dell’illegalità (Il Mulino, 2008). Quest’ultimo raccoglie al suo interno contributi disparati per prospettiva disciplinare e professionale. Qui se ne propongono tre. Due 1 Raimondo Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Liviana, Padova, 1988 Si veda la relazione tenuta dal magistrato messicano José Cuitlàhuac Salinas Martìnez al Congresso internazionale “Delincuencia Organizada y Nuevos Modelos de Imputaciòn Penal”, novembre 2011: La estructura y modus operandi de la delincuencia organizada en México: càrteles y otros grupos (citato in Veronica Bellino, I Cartelli messicani e il narcotraffico. La cooperazione tra Italia e Messico nella lotta alla criminalità organizzata transnazionale, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, tesi di laurea, 2012) 2 sono opera di magistrati che hanno svolto e svolgono un ruolo di rilievo nella lotta alla mafia (Criminalità organizzata ed economia illegale, di Guido Lo Forte; Le imprese tra sicurezza e legalità, di Pietro Grasso), mentre la terza è opera di un giovane ricercatore, avvocato, legato al movimento di “Addiopizzo” (Le imprese e il movimento antiracket, di Salvatore Caradonna). In questi appunti si cercherà non tanto di riassumere i contenuti dei singoli brani indicati, che devono essere apprezzati dallo studente attraverso una lettura diretta, quanto di offrirne una adeguata cornice interpretativa. 2.La mafia imprenditrice Si tratta di un testo del 1983 il cui titolo indica già con grande forza evocativa la rottura che viene operata nella tradizione degli studi di mafia. Fino a quel momento, infatti, la mafia, era stata considerata secondo approcci che possiamo così sintetizzare: a) una prospettiva folclorica (vedi in particolare gli studi di Giuseppe Pitré3); b) una prospettiva ribellistico-popolare (di nuovo Pitré, e a un differente livello le note del grande storico inglese Hobsbawm4); c) una prospettiva gangsteristica; d) una prospettiva culturalista (esemplare nel 1970 lo studio del sociologo tedesco Henner Hess5); e) e infine una prospettiva volta a indagarne la dimensione di potere. Quest’ultimo approccio, senz’altro quello più adatto a cogliere l’essenza del fenomeno, aveva a sua volta valorizzato il parassitismo mafioso, ossia il ruolo giocato nella vicenda storica della mafia dalla rendita terriera e dal suo connubio con la politica. Per quanto le vicende urbanistiche della Palermo degli anni cinquanta-sessanta avessero fatto emergere figure di imprenditori indissolubilmente legate all’ascesa del potere mafioso, queste non erano state studiate nella loro possibile, relativa autonomia, ma erano state sempre considerate pure appendici dell’intreccio tra clan e politici mafiosi. Il matrimonio tra i due concetti (“imprenditore” e “mafioso”) costituisce dunque una sorta di rivoluzione nella letteratura specialistica. I tempi d’altronde la richiedevano, poiché la rivoluzione era già avvenuta nei fatti. Già alla fine degli anni settanta Cosa nostra, diventata protagonista mondiale del traffico di stupefacenti, si era posto il problema di come reinvestire l’enorme massa dei profitti illeciti. Per un verso aveva cercato di trovare degli sbocchi nei più ricchi contesti del nord, per altro verso aveva iniziato a investire direttamente (ossia senza intermediari) in differenti attività 3 Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll. ,Libreria L.Pedone-Lauriel di C. Clausen, Palermo, 1889 4 Eric J. Hobsbawm, I ribelli, Einaudi, Torino, 1966 (ediz. orig, 1959) 5 Henner Hess, Mafia, Laterza, Roma-Bari, 1973 (ediz. orig. 1970) produttive, a partire da quella edilizia, ma con sempre più numerose proiezioni nel turismo, nel commercio e nella ristorazione. Fu anche di fronte a questa trasformazione, e per la consapevolezza delle sue implicazioni, che il deputato comunista Pio La Torre elaborò la propria proposta di legge (il celebre articolo 416 bis del codice penale) volta a punire non solo gli ingiusti vantaggi ma anche gli ingiusti profitti realizzati dai membri dell’associazione e a colpirne i crescenti processi di accumulazione attraverso il sequestro e la confisca dei beni. Il libro di Arlacchi si colloca dunque nell’alveo di questi cambiamenti. Nel 1982 le istituzioni giungono faticosamente ad approvare una legislazione in grado di colpire la mafia e il mafioso-imprenditore, nel 1983 il sociologo introduce la nuova figura nella letteratura scientifica. Alla dimensione della rendita si sostituisce così quella del profitto, anche se il mafioso continua a essere identificato da Arlacchi attraverso le sue attribuzioni onorifiche (uomo d’onore). La scoperta del nuovo atteggiamento imprenditoriale e della rottura di metodi che esso introduce nel panorama dell’economia inducono l’autore a conferire al mafioso i tratti (sia pure perversamente declinati) dell’imprenditore schumpeteriano. Soprattutto lo portano a esaltarne la funzione innovativa, vista nel ricorso al “metodo violento” (ossia come innovazione nei metodi produttivi), e lo stretto intreccio con la famiglia (la cosca). Proprio il ricorso all’esercizio della violenza nell’agone del mercato costituisce insieme con l’intimidazione del sindacato e la disponibilità autonoma di liquiditàuno dei tre vantaggi competitivi che mettono l’impresa mafiosa in una condizione di favore rispetto alla concorrenza delle imprese legali. A questa visione è possibile obiettare come in realtà la funzione dell’imprenditore schumpeteriano sia inestricabilmente connessa con la categoria dello sviluppo economico (diversa da quella della ricchezza) e come la sua condotta e la sua psicologia di ruolo siano collocate teoricamente in quadro pacifico (per questo egli è “il guerriero della società moderna”). Dal punto di vista storico vale la pena sottolineare come nel libro di Arlacchi si trovino ancora rubricate sotto il termine mafia sia la mafia siciliana (di cui si sarebbe conosciuto solo l’anno dopo, grazie alle confessioni di Buscetta, il nome Cosa Nostra) sia la ‘ndrangheta calabrese. Il libro è stato nuovamente pubblicato nel 2007, ampliato di una seconda parte dedicata al crimine internazionale, nei suoi molteplici aspetti. In essa viene valorizzata l’esperienza condotta nel frattempo dall’autore in qualità di segretario dell’Onu a Vienna, con incarico speciale nella lotta alla droga. 3. L’industria della protezione Il libro di Diego Gambetta viene pubblicato dieci anni esatti dopo quello di Arlacchi. In esso viene esaltata la specificità funzionale di una particolare attività della mafia, quella della protezione. Anzi, la mafia vi viene plasticamente definita come l’industria della protezione (più precisamente: “un’industria della protezione privata”). Torna dunque in primo piano un’attività fortemente connotata dalla dimensione della rendita, nel senso che è il risultato della doppia risorsa del controllo del territorio e del monopolio della violenza fisica. Si tratta dell’attività che, insieme a quella della mediazione, si identifica più tradizionalmente con la presenza e con il dominio mafiosi. La stessa letteratura meno ostile ai clan ha d’altronde sempre privilegiato questa funzione inserendola tra quelle che vengono garantite al cittadino in sostituzione di uno Stato assente: come la mediazione, appunto, o la giustizia. Di fatto si ripropone nella sua centralità la dimensione del potere, l’unica in grado di consentire l’efficace svolgimento di questa funzione. L’approccio di Gambetta non rappresenta però un passo indietro negli studi sulla mafia. La sua tesi di fondo non implica cioè una rimozione delle acquisizioni empiriche e teoriche sullo sviluppo di atteggiamenti e attitudini imprenditoriali da parte del mafioso. Il libro va piuttosto inquadrato in uno sforzo di cogliere l’elemento unificante della storia della mafia, ciò che maggiormente ne caratterizza la continuità. Anche l’anno di pubblicazione finisce per essere in tal senso indicativo. Il volume esce nel settembre del 1992, al culmine cioè di un decennio di studi sollecitati dalla nascita di un nuovo movimento civile e intellettuale antimafia, e subito dopo le due stragi di Capaci (Falcone) e via D’Amelio (Borsellino), che rilanciano a loro volta uno sviluppo diffuso degli studi e delle ricerche sulla mafia6. E’ una stagione in cui si aprono importanti filoni di ricerca sulla base di un rapporto stretto tra accadimenti e riflessione intellettuale. Gambetta, collocandosi in questo contesto di rilettura e comprensione più profonde, punta dunque a spiegare nella sua globalità il fenomeno mafioso. E, per riuscirci, ne valorizza un aspetto identitario costante, che è insieme politico, economico e sociale. La protezione è presente nella mafia del latifondo, su cui opera a vantaggio dei proprietari assenteisti; ma su cui viene di fatto imposta pure ai contadini, altrimenti soggetti a minacce e vessazioni nei loro piccoli poderi, anche in veste di affittuari o subaffittuari. La protezione è presente nei cantieri dei lavori pubblici o dell’edilizia privata, come nei negozi o nei ristoranti o in tutte le attività comunque vulnerabili da 6 Per una discussione degli effetti, non sempre positivi, di questo nuovo slancio delle attività di studio e ricerca sulla mafia cfr. Nando dalla Chiesa, La lotta alla mafia. Tra cultura e storia sociale, introduzione a Nando dalla Chiesa (a cura di), Contro la mafia, Einaudi, Torino, 2010 un potere che trae la sua massima forza dalla strada. Il bisogno di protezione si presenta come arma persuasiva discriminante nei confronti di chi deve decidere un subappalto. Nel senso che il costo della protezione affidata a polizie private legali finisce per essere più oneroso di quella fittiziamente garantita dai clan come contropartita di subappalti o di somme in denaro. La “protezione”, dunque, come sinonimo efficacissimo di estorsione di somme o decisioni. In effetti la lunga vicenda della mafia, dai feudi agrigentini alla pianura padana, dal latifondo granario all’impresa dell’economia legale dell’hinterland milanese, rivela l’esistenza di questo filo rosso che non smentisce la nascita dell’impresa mafiosa, ma la inquadra in una storia generale e ne specifica le risorse distintive (poiché essa sempre pratica l’ “invito alla protezione”). Ne La mafia siciliana questo percorso viene studiato con particolare riferimento al funzionamento dei mercati palermitani, da quello ortofrutticolo e quello ittico a quello dei radiotaxi. E sottolineando il ruolo giocato, nel contratto di protezione, dalla dimensione della fiducia. Di particolare interesse sono le pagine dedicate nella parte finale del libro ai cosiddetti “mercati turbolenti”, ossia quelli costituiti dalle attività illecite, nelle quali nasce fisiologicamente una più alta domanda di protezione. 4. Tipologie di imprese Mafie vecchie, mafie nuove di Rocco Sciarrone è, per gli studi sull’impresa mafiosa, un libro di svolta per lo sforzo analitico e concettuale che vi viene proposto a partire da una ricerca sul campo. In particolare per la costruzione di una precisa e articolata tipologia delle imprese che esprimono una natura mafiosa o che vengono in contatto con la mafia e le sue imprese. Il libro, pubblicato nel 1998 e riedito con ampliamenti nel 2009, raccoglie saggi scritti in momenti diversi. Il più importante, nella nostra prospettiva antologica, è senz’altro quello sulla piana di Gioia Tauro, anche se notazioni di grande interesse si ricavano pure dalla lettura del capitolo sulla presenza della’ ndrangheta in Piemonte. Gioia Tauro e la sua piana rappresentano da sempre un essenziale punto di svolgimento della storia ‘ndranghetista calabrese. L’autore lo indaga, con il sostegno di un ricco materiale giudiziario, tenendo l’occhio precipuamente rivolto all’impresa e alle relazioni tra imprese. Se l’unità di analisi prescelta lo avvicina ad Arlacchi, Sciarrone se ne distanzia però per occuparsi di un fenomeno diventato nel frattempo di straordinaria urgenza: il contatto e l’intreccio sempre più frequenti tra l’impresa di mafia e l’impresa che formalmente non si caratterizza per origini e comportamenti criminali. Siamo cioè entrati in una nuova fase. Se gli anni ottanta rivelano la nascita di una mafia imprenditrice, gli anni novanta rivelano soprattutto la diffusione e lo sventagliamento di una molteplicità di figure di impresa che si collocano nella sfera di influenza mafiosa, talora oscillanti tra la black economy e la grey economy. Sono imprese che si limitano a pagare il pizzo (e che a volte finiscono per risultare le più fortunate e più libere, osserva amaramente Sciarrone). Oppure imprese costrette a entrare in società con quelle mafiose a partire da un prestito usurario o da una altrui pretesa di ingresso in affari ritenuti remunerativi. Oppure ancora imprese che scelgono di stabilire con quelle mafiose accordi vantaggiosi per una più favorevole partecipazione al sistema di appalti e subappalti. Da qui la costruzione delle tipologie ricordate. Sciarrone muove dalla fondamentale distinzione tra imprenditori subordinati e imprenditori collusi, disposti su una scala di coinvolgimento criminale che vede sul gradino più alto gli imprenditori mafiosi in senso stretto. Più precisamente, i subordinati sono quelli ai quali viene imposta una protezione passiva e che subiscono un rapporto di assoggettamento alla mafia. I collusi invece fruiscono di una protezione che si può definire “attiva”, nel senso che stabiliscono con la mafia un rapporto di associazione fondato su un principio di convenienza. La prima categoria viene poi scomposta dall’autore in ulteriori varianti, che individuano più specifiche modalità di condotte e di relazione con l’ organizzazione mafiosa. Si può dire che tutte le gradazioni di coinvolgimento siano portatrici, alla fine, di una quota di rischio. La subordinazione implica il rischio di un continuo innalzamento del livello delle pretese mafiose, fino all’impossibilità di restare sul mercato. L’associazione alle finalità dell’impresa mafiosa implica invece il rischio della sanzione penale, compreso il sequestro dei beni, di nuovo con ricadute potenzialmente decisive per i destini aziendali. L’approccio di Sciarrone sposa dunque la categoria centrale di Arlacchi (l’impresa) con quella di Gambetta (la protezione) in un quadro empirico contemporaneo dotato di una indubbia ricchezza di sfumature. In esso privilegia una visione della mafia come power syndicate (ossia come organizzazione di controllo del territorio) rispetto alla visione come enterprise syndicate (organizzazione di affari e traffici illeciti). Per quanto sia stato elaborato prendendo a riferimento la concreta vicenda della piana di Gioia Tauro, questo approccio presenta però una sua alta applicabilità anche alla situazione lombarda, così come ci è stata narrata nelle sue ambiguità di relazioni e condotte dalle più recenti indagini giudiziarie e da importanti libri di inchiesta giornalistica.7 7 Si veda in particolare Marta Chiavari, La quinta mafia, Milano, Ponte alle Grazie, 2011 5.La partecipazione mafiosa Il libro di Enzo Fantò, L’impresa a partecipazione mafiosa, pubblicato nel 1999, arricchisce l’impianto di Sciarrone aggiungendovi un tipo diverso e particolare di impresa: quella che non è né subordinata né collusa né mafiosa ma che è partecipata direttamente dall’organizzazione mafiosa. Fantò è un ex deputato calabrese che si è dedicato allo studio della criminalità organizzata e in particolare della ‘ndrangheta8. Proprio indagando la realtà calabrese egli riscontra la diffusione di una inedita specie di modello imprenditoriale. Un modello nel quale alla proprietà tradizionale e dal volto pulito si affiancano, nella stessa compagine societaria, i capitali di provenienza illecita. Il risultato è una creatura economica bifronte. Per un verso essa espone il nome di un proprietario o di un amministratore privo di precedenti penali o addirittura dotato di una apprezzabile reputazione storica; per altro verso essa ingloba dietro il nome di facciata interessi, capitali e personggi riconducibili alle organizzazioni mafiose. E’, di fatto, il vero problema che inquina e minaccia alcuni settori dell’economia settentrionale, nei quali le strategie di contrasto preventivo fondate sulla documentazione antimafia hanno sostanzialmente dimostrato, proprio perciò, la loro inefficacia. La realtà indica come questo ingresso di capitali mafiosi in imprese pulite possa avere tendenzialmente due premesse: da un lato le condizioni disperate dell’azienda e la conseguente contrazione di un prestito usurario non solvibile; dall’altro, all’opposto, il florido andamento dell’ azienda e il conseguente progetto di acquisirla da parte dei clan in cerca di affari redditizi. Progetto che può realizzarsi in virtù dell’intimidazione come dell’allettamento economico-finanziario, e che per un verso risponde a una pura esigenza di riciclaggio dei capitali sporchi, per l’altro risponde a una più aggressiva strategia di conquista dall’interno dell’economia. Fantò non si limita però a illustrare i meccanismi della penetrazione fisica dei capitali illeciti nei progetti imprenditoriali ritenuti (per questa o quella ragione) più interessanti. Ma dedica un ampio spazio della sua riflessione anche alle cosiddette joint ventures tra imprese mafiose e non mafiose. Sia che tra queste ultime figurino le imprese di piccole dimensioni sia che tra esse (come in certi lavori pubblici) spicchino imprese di maggiori dimensioni, il fenomeno descrive un progressivo effetto-matrimonio, che non fa che allargare inevitabilmente quell’area che Umberto Santino ha chiamato di borghesia mafiosa9. Grazie a tale effetto si sviluppano infatti 8 Enzo Fantò (a cura di), Mafia, camorra e ‘ndrangheta dopo la legge La Torre, Gangemi, Roma-Reggio Calabria, 1989; Enzo Fantò, L’impresa a partecipazione mafiosa, in “Democrazia e Diritto”, 1995, n. 2; Enzo Fantò, Da Palermo a Milano. Le nuove frontiere della mafia nell’Italia del nord, in “Meridiana”, n. 30, 1997 9 Umberto Santino e Giovanni La Fiura, L’impresa mafiosa, Angeli, Milano, 1990 processi di contaminazione e di ibridazione di economia legale e di economia illegale, che affiancano quelli generati dall’impresa collusa e (in misura minore) dall’impresa subordinata e che, nel loro insieme, attraggono quote non irrilevanti di imprenditorialità nell’orbita degli interessi mafiosi. E’ interessante notare, a dieci anni dalla pubblicazione del libro di Fantò, come la fattispecie dell’impresa a partecipazione mafiosa abbia rivelato una sua potente e insidiosa presenza nel tessuto economico della Lombardia nell’ambito delle più recenti inchieste giudiziarie. E come al contrario tre anni prima della pubblicazione (ossia nel 1995) la denuncia del fenomeno, prospettato dalla procura della Repubblica di Palmi con riferimento alle vicende della centrale termoelettrica di Gioia Tauro, sia stata liquidata dalla Corte d’Assise della stessa città come “feuilleton giudiziario” in cui confluivano “tutti i limiti della costruzione teorematica e sillogistica”. 6. La tassa mafiosa I costi dell’illegalità (sottotitolo: Mafia ed estorsioni in Sicilia) rappresenta esemplarmente infine l’ ultimo capitolo degli studi di sociologia economica sul fenomeno mafioso. Figlio di una nuova sensibilità e consapevolezza in materia, esso affronta sotto differenti prospettive il tema dei costi che le organizzazioni mafiose impongono alla collettività. La loro presenza vi viene vista cioè come una sorta di tassa che colpisce le possibilità di sviluppo, il libero manifestarsi delle energie imprenditoriali, così come la qualità della vita associata, dell’ambiente e di ogni altra voce che concorra a determinare in forma più ampia il Pil di una nazione o di una regione. Non dunque la mafia come erogatrice di benessere (per quanto distorto) o di occupazione sostitutiva di quella non garantita dallo Stato, ma la mafia come causa di disoccupazione e di più ridotte possibilità di sviluppo. Il testo, promosso dalla fondazione Chinnici (intitolata al capo dell’ufficio istruzione palermitano Rocco Chinnici ucciso nel 1983), è stato curato dal sociologo del diritto Antonio La Spina. Tra i contributi ospitati spicca quello del magistrato Guido Lo Forte, che approfondisce il tema dell’impresa mafiosa, riconducendo sotto questa definizione tutte le imprese “funzionali alla realizzazione di condotte di riciclaggio” o per i precedenti penali e di polizia dell’imprenditore e /o dei dirigenti o per la provenienza illecita dei capitali10. Vi ricade dunque senz’altro l’impresa a partecipazione mafiosa. E vi ricadono a pieno titolo quelle che pongono in essere una 10 Per l’importanza del concetto di “funzionalità” nella definizione delle aree contigue di comportamenti criminali, si veda Nando dalla Chiesa, I crimini dei colletti bianchi. Prospettive di ricerca, in Alessandra Dino (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso, Mimesis, Milano-Udine, 2009 interessata attività di fiancheggiamento dell’organizzazione mafiosa. Mentre non vi rientrano, ad avviso dell’autore, le imprese che accettano “fatalisticamente” l’imposizione mafiosa. Lo Forte sottolinea come esista una imprenditoria mafiosa soprattutto nei settori dell’edilizia e dei lavori pubblici, in cui Cosa Nostra in Sicilia (ma lo stesso si potrebbe dire per la ‘ndrangheta in certe aree della Lombardia, del Piemonte o dell’Emilia) ha realizzato un regime di tipo monopolistico. L’autore si diffonde poi in un’analisi delle forme in cui si manifestano (e in cui possono essere colte) alcune attività tipiche dell’organizzazione mafiosa, come l’usura, l’estorsione e il riciclaggio. La stessa terminologia usata nel saggio per descrivere il mondo dell’economia illegale, le differenze che la caratterizzano rispetto ad altri autori, indicano tutta la difficoltà analitica implicita nella lettura delle forme oggi assunte dagli interessi mafiosi e dei comportamenti di cui questi si possono giovare. Se ad esempio la nozione di “impresa mafiosa” appare estensiva rispetto a quella di Fantò, al contempo essa appare più indulgente di quella moralmente adottata dalla Confindustria siciliana, che negli ultimi anni ha notoriamente previsto l’espulsione dei soci che risultino avere pagato il “pizzo”, “fatalisticamente” o meno. L’ampiezza delle definizioni varia con evidenza in funzione delle prospettive disciplinari adottate, oltre che della loro finalità (analisi sociologica, politica associativa, sanzione giudiziaria)11. Le imprese e il movimento antiracket di Salvatore Caradonna muove invece, come già accennato, dalla sensibilità civile che ha originato il movimento siciliano di Addiopizzo, diventato un vero punto di riferimento nel quadro dell’associazionismo antimafioso e più in generale nell’ambito dei movimenti di “consumo critico”. In questo caso è proprio l’accettazione fatalistica della tassa mafiosa a essere rifiutata. L’autore valorizza il ruolo delle associazioni antiracket e antiusura, proponendo la centralità della nozione e della pratica della “rete” in contrapposizione alla sperimentata capacità di “fare rete” tipica della criminalità organizzata. L’atteggiamento nei confronti di imprenditori e commercianti taglieggiati ma reticenti davanti ai magistrati o alle forze dell’ordine rivela qui una severità assai simile a quella espressa dalla Confindustria. L’autore, che è anche avvocato, sposa infatti la scelta di Addiopizzo di costituirsi parte civile nei processi per estorsione non solo contro i mafiosi e gli estorsori ma anche contro i commercianti reticenti, accusabili di favoreggiamento aggravato, indipendentemente dalla motivazione psicologica della loro condotta. Si tratta, come si capisce agevolmente, di un campo dove convivono posizioni molto 11 Cfr. Raimondo Catanzaro, L’impresa mafiosa. Un concetto problematico, in Alessandra Dino (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso, op.cit. diverse, ma dove l’urgenza di difendersi dall’intimidazione e dal “metodo mafioso” chiede dei processi di “semplificazione concettuale” nella individuazione delle responsabilità penali. Vale la pena ricordare ancora una volta che problemi analoghi si sono presentati, in tutta la loro complessità, anche nei processi per ‘ndrangheta in Lombardia, dove analoghe condotte reticenti sono state tenute dalla quasi totalità degli imprenditori taglieggiati. Il libro viene chiuso da un saggio del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso (Le imprese tra sicurezza e legalità). L’autore pone al centro della propria riflessione la categoria del “mercato”, sottolineando come le potenzialità e i contenuti di libertà e di efficienza del mercato vengano colpiti dai meccanismi dell’economia mafiosa. Grasso amplia, rispetto a Lo Forte, i settori tipici dell’imprenditoria mafiosa. E a quelli dell’edilizia e degli appalti pubblici aggiunge il settore agroalimentare, il settore sanitario, oltre che quello finanziario e dei rifiuti. Disegna dunque un sistema economico nel quale, grazie alla estensione dei settori di intervento dei clan, viene messo diffusamente in mora il principio della concorrenza e in cui si forma una struttura di ingiusti vantaggi per una vasta popolazione di imprese. E’ quando questo fenomeno si fa legge, e diventa termine obbligato di riferimento per i diversi soggetti in campo, che la tassa mafiosa si fa più visibile e insopportabile. Facendo riferimento ai dati relativi al mancato sviluppo delle imprese meridionali e alla fuga delle imprese straniere dalle opportunità di investimento nel sud Italia, Grasso denuncia l’effetto depressivo sull’economia e sull’occupazione giocato dalla presenza delle organizzazioni mafiose. E su questa falsariga dichiara anch’egli apprezzamento per le posizioni radicali assunte sul tema dalla Confindustria siciliana e dal movimento Addiopizzo. Si tratta in effetti di un punto focale del dibattito. Al centro sta il ruolo che le organizzazioni mafiose giocano effettivamente nel contesto economico e sociale. Portano o tolgono ricchezza? Danno o tolgono lavoro?12 Il libro curato da La Spina rappresenta senz’altro un impulso a continuare una riflessione meno succube dei luoghi comuni sui “meriti” della mafia e a dare a questa riflessione sempre più spazio nella letteratura scientifica e civile13. 12 Si veda in questa prospettiva Serena Danna (a cura di), Prodotto interno mafia, Einaudi, Torino,2011 Cfr. in proposito anche il successivo I costi dell’illegalità. Camorra ed estorsioni in Campania, sempre promosso dalla Fondazione Chinnici e a cura di Giacomo Di Gennaro e Antonio La Spina, Il Mulino, Bologna, 2010 13