L`esperienza del simbolo
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L`esperienza del simbolo
Copyright © 2007 CLEAN via Diodato Lioy 19 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati È vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-101-2 Direzione editoriale Domenico Chizzoniti (coordinatore) Lamberto Amistadi Armando Dal Fabbro Luca Monica Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Letizia Cattani Grafica Luca Monica Impaginazione Costanzo Marciano Retrocopertina: Lastra tombale dell’architetto Hugues Libergier (morto nel 1263). Reims, cattedrale. con il contributo del Dipartimento di Progettazione Architettonica dellUniversità IUAV di Venezia ETACT oeir eedll aC moopisizno erAhctiteotinacL i’ed aidu anc loalans luelt oeir eedll aocpmsozioiena crihetttnoci aancs eadll aocsnpavelozeazd inu aeltn adei enosaribeld siepsroiend ioconcsneez ,tsuremtn i erptaciehn lealc sortzuoiend lep orgetto, comune a diverse scuole. In particolare, una tradizione di studi tra Milano e Venezia, ma anche tra Napoli e Torino, ha puntato sul progetto di architettura come conoscenza e come pratica dell’arte, con tutte le implicazioni di ordine letterario, filosofico ed estetico a cui queste scuole non si sono mai sottratte. Ora, i facili entusiasmi della emancipazione tecnica sembrano aver contraffatto la ricerca sul progetto, sulla composizione del progetto di architettura, attraverso procedure standardizzate. Ebbene, questo traslato tende a falsificare quel singolare procedimento artistico in cui ricerca e sperimentazione si combinano in quel “segreto religioso” che punta al progetto come sintesi poetica di arte e tecnica. La collana editoriale proposta tende a radunare, laddove certe salutari resistenze ancora operano, le esperienze di ricerca che indagano teoria e progetto, critica e pratica architettonica, riservando alla composizione un ruolo privilegiato nell’indagine e nella sperimentazione operativa. L’obiettivo è di far “ri-scoprire” agli studenti delle Facoltà di Architettura, a cui la collana si rivolge, l’altro aspetto della creatività del progetto di architettura: quello della poesia, della seduzione, del fascino della forma e della figurazione, dell’idea, dell’affabulazione e della narrazione, dell’impegno e del rigore simbolico e ideologico. L’esperienza del simbolo. Lezioni di Teoria e tecnica della progettazione architettonica Luciano Semerani (a cura di Lamberto Amistadi, Ildebrando Clemente) Sommario 1. L’aporia degli antagonismi tra bellezza, materialità, intenzionalità. Johann Joachim Winckelmann, Gottfried Semper, Alois Riegl, 4 1.1 Portico ai SS. Giovanni e Paolo Gigetta Tamaro, 20 2. Il futuro del mito, 25 2.1 Bocche del Timavo, 32 2.2 L’architettura del paesaggio Lamberto Amistadi, 37 2.3 Memoriale di Kampor Filippo Bricolo, 43 3. Una teoria della composizione, 48 3.1 Piazza Mercato a Villanova di Camposampiero Antonella Gallo, 58 4. Forma, figura, icona, 66 4.1 Campidoglio di Chandigarh Giuseppina Scavuzzo, 73 4.2 Progetto e modello Ildebrando Clemente, 77 4.3 Piazze del Capitolo e dei Patriarchi ad Aquileia , 83 4.4 L’architettura della città Luciano Semerani, Lamberto Amistadi, Fabian Carlos Giusta, 90 5. Spazio, geometria, numero, 96 Indice dei nomi, 109 1. L’aporia degli antagonismi tra bellezza, materialità, intenzionalità. Johann Joachim Winckelmann, Gottfried Semper, Alois Riegl. In questo corso le lezioni di teoria si alternano con lezioni in cui vengono presentate esperienze di progettazione. In buona sostanza, queste seconde sono lezioni di tecnica della progettazione. Non è del tutto pacifico che a fondare la nostra disciplina sia una conoscenza scientifica e che siano chiaramente definiti i contorni delle scienze dell’architettura. Pur tuttavia, è stata istituita una “laurea breve in scienze dell’architettura”. Questo significa che si è assunto che la formazione dei concetti, che costituiscono la logica del progetto di architettura, è analoga a quella delle altre scienze. Se di scienza si tratta la nostra non può essere altro che una scienza empirica e quindi la formazione delle teorie della progettazione architettonica non può non essere strettamente correlata all’esperienza ed in particolare a quella parte dell’esperienza che prende il nome di “tecnica”. Esamineremo “delle” teorie, anche fra loro “antagoniste” e non “una” teoria e tantomeno una “mia” teoria, ed uno spettro di diverse tecniche e non la “mia” tecnica della progettazione architettonica. Come di consueto anche quest’anno le mie lezioni si alterneranno con lezioni dei miei assistenti e di altri docenti invitati o altri dottori di ricerca, i quali hanno sviluppato con me esperienze di progettazione o analisi di processi progettuali in qualche modo riferibili ad alcune questioni teoriche fondamentali. Daremo tuttavia, io ed anche, penso, gli altri che faranno lezione nel corso, un’interpretazione della teoria e della tecnica fortemente motivata dall’essere noi tutti architetti operanti, attori di un processo di produzione critica, di riflessioni che nascono dal modo nostro di operare. Inoltre le teorie dell’architettura, anche se sono maturate tra il XVIII ed il XX secolo, sono per noi ancora operanti, come elementi di riferimento, sono ancora, a nostro giudizio, argomento di interesse. Ma così sarebbe anche se facessimo riferimento a Leon Battista Alberti o a Vitruvio. Per introdurre in modo chiaro, a studenti del primo anno, i temi del corso, partiremo da tre figure di studiosi e dalle loro posizioni teoriche. Le nostre tre figure di studiosi e le loro teorie rientrano in tre diversi tipi di approccio al mondo dell’architettura, e più in generale dell’arte. La prima forma di interpretazione riguarda l’aspirazione permanente che gli uomini tutti hanno alla bellezza. Il tema può essere anche posto come “desiderio di bellezza”, e, nella classicità, avrebbe richiamato la protezione di una divinità pagana, tanto Venere quanto Apollo. Il desiderio di bellezza è destinato a non essere mai soddisfatto (questo come vedrete, è anche lo spirito con cui esso viene interpretato dal nostro primo teorico, di cui parleremo dopo). Ma l’a4 Statua della divinità egizia Anubi con testa di cane. (da J.J. Winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi, 1764. Tav.VI) veva già individuata questa difficoltà, con molta semplicità, con molta chiarezza Raffaello Sanzio, quando, dovendo definire la bellezza in un volto femminile, il ritratto di una donna ideale, di una donna dotata della bellezza ideale, affermava di non conoscerne alcuna interamente dotata di quell’armonia di tratti e quella perfezione nei rapporti tale da corrispondere all’ideale. Tuttavia scegliendo tra diversi volti le parti perfette, usando le giuste proporzioni, ecco che poteva essere dipinto un volto di una bellezza ideale. Questo vuol dire che sostanzialmente questo desiderio di bellezza è destinato a non essere soddisfatto e che l’opera d’arte serve per portarci, attraverso un oggetto visibile, alle soglie dell’invisibile. L’artista porta a noi l’immagine dell’idea, ci fa pensare l’idea e di questo trasporto dell’ideale nel reale è strumento “l’artificio”. Nella cultura del Rinascimento l’esempio del ritratto femminile è il più immediato e forse, anche oggi, il più facile da capire. La seconda teoria riguarda un altro desiderio che è innato in tutti noi e soprattutto in chi vuol fare il nostro mestiere, ed è “il desiderio di poter costruire sapendo”. Materia, Tecnica, Leggi della natura, e quindi la statica, i numeri, la matematica, la geometria e anche le proprietà dei materiali, sono gli strumenti indispensabili a realizzare un oggetto che abbiamo pensato e che ci proponiamo di produrre. La terza interpretazione possiamo configurarla come “il desiderio di esprimere con la nostra opera un’identità”, un’appartenenza. Questo terzo tipo di approccio riguarda l’intenzionalità artistica che motiva l’opera. Essa può portare, per rispondere alla realtà viva, a non rispettare l’armonia, a non inseguire la bellezza, ad ignorare le tecniche del costruire consolidate. Così fanno gli espressionisti, così fanno i selvaggi. Nascono deformazioni, caricature, opere sproporzionate rispetto all’ordine proporzionale classico, brutte rispetto al gusto consolidato. In altre parole tratteremo quest’anno, un tema monografico: “la vita delle forme”. La nascita delle forme e quindi la loro origine; la ricerca della forma appropriata, nei modelli, nella lingua, nel linguaggio dell’architettura; la metamorfosi, ovvero il passaggio attraverso diverse conformazioni nelle diverse fasi di sviluppo, del progetto; la sintesi, basata sulla strutturazione formale più eloquente. “La vita delle forme” è un “preso a prestito” da un professore di Storia dell’arte medievale, Henri Focillon, che ha pubblicato nel 1934 a Parigi un aureo libretto intitolato appunto Vie des Formes. Due giustificazioni per il furto: 5 1) l’importanza di Focillon in una scuola di pensiero che sviluppa il concetto dell’opera d’arte come espressione simbolica; 2) la possibilità di riprendere l’argomento dal nostro punto di vista, di “inventori di forme”. Non creatori o creativi, perché la creazione avviene solo dal nulla. Inventori invece sì, (da “invenio”, e cioè trovo), la mia arte preesiste, come gli oggetti, i fatti, le idee che pre-esistono. L’Artista è un Trovatore, che addirittura a volte incespica in qualcosa che non avrebbe voluto. Tutto ciò non perché le idee, la sistematizzazione teorica, la visione del mondo siano irrilevanti. Ma le teorie nascono proprio dalla necessità di mettere a frutto l’esperienza. Un’esperienza diversa, maturata in un’epoca diversa porta ad una conoscenza specifica diversa. Ma a distanza di tempo teorie un tempo contrapposte ci appaiono semplicemente come punti di vista che hanno disegnato angolature complementari per la comprensione della realtà. Non esiste conoscenza, dice Leonardo, fuori dall’esperienza. La ragione spiega il fenomeno, dopo. La ragione va dentro il fenomeno, la produzione dell’oggetto, nel caso nostro, la macchina e la sua macchinazione, l’artificio e le sue leggi interne. Torso del Belvedere. I sec. a.C. Il “desiderio di bellezza”, ovvero la teoria del bello nell’arte, si affaccia intorno alla metà del Settecento ad opera di un archeologo tedesco che è professore di lingua greca in Vaticano. In rapida sintesi diciamo che egli sostiene: a) la superiorità e l’attualità dell’arte classica greca; b) il concetto puramente ideale di bellezza; c) la necessità di rendere essenziale il valore della “materia”, utile solo in quanto necessaria ad esprimere l’intenzione e renderla visibile. La seconda teoria, che abbiamo detto corrisponde ad un “desiderio di poter costruire,” viene pubblicata intorno alla metà dell’Ottocento, circa un secolo dopo, da un architetto tedesco. Essa è, in un certo modo, un’interpretazione dell’atto artistico all’interno di quello che è lo sviluppo antropologico, di quella che è la dimensione antropologica dell’uomo. L’antropologia non è soltanto il frutto di quella interpretazione evoluzionistica data da Darwin della origine della nostra specie, ma ha un fondo molto più complesso e più ampio, nel quale l’uomo viene visto nei suoi comportamenti, nei suoi ideali, nei suoi modelli come parte di processi e comportamenti organizzati ad un rapporto col resto della natura e nel tempo. In qualche modo predomina, anche rispetto alla prima teoria (quella della superiorità dell’arte classica e dell’arte gre6 Gottfried Semper, Deposito per le scene del Teatro dell’Opera di Vienna, 1838-41. Decorazione della capriata a vista della Chiesa di S. Miniato a Monte a Firenze. (da Gottfried Semper, Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica. Manuale per tecnici, artisti e amatori, 1860. Tav.XVII-XVIII) Tempio di Minerva Medica (Ninfeo degli Horti Liciniani). III sec. D.C. 7 ca in particolare) e al discorso dell’aspirazione permanente dell’uomo alla bellezza irraggiungibile, la dimensione materiale, morale e sociale dell’uomo come membro del gruppo, che ha la propria ragion d’essere nell’agire modificando l’ambiente e modificandosi nell’ambiente. La casa, l’insediamento stabile, l’architettura e l’urbanistica sono risposte concettuali e tecniche a costumi, tradizioni, organizzazioni e valori. Alla metà dell’Ottocento la borghesia esprime ideali diversi da quelli aristocratici ed il valore della bellezza ideale diviene secondario rispetto alla risoluzione dei problemi quantitativi. La società mercantile, “borghese” perché è collegata alla realizzazione di una dimensione urbana, che dopo la rivoluzione francese ha seppellito le vecchie classi sotto un unico termine - “cittadini” - guarda ai comuni del Rinascimento italiano e in particolare Firenze. Ecco, differentemente che dall’arte classica, si assume: a) che il Rinascimento fiorentino, nella sua espressione attraverso le arti figurative, ma anche attraverso i palazzi, i monumenti, le piazze, il disegno delle città possano costituire il modello dell’architettura nuova, dell’urbanistica nuova, dell’arte nuova; b) in questa teoria, differentemente dall’impostazione prettamente idealistica che si dava a metà del Settecento, si sottolinea il valore spirituale dell’essenza tecnica dell’atto artistico, dell’essenza pragmatica, del saper-fare l’artificio costruttivo; c) e quindi, terzo punto, l’importanza della materialità, l’importanza del colore, l’importanza del rivestimento, della manualità operaia, dell’ornamento, non come orpelli aggiunti all’opera, ma come struttura dell’opera, come elementi essenziali, strutturali alla possibilità di comunicare. La terza teoria, quella che prima riassumevo come una posizione che mette in primo piano l’intenzionalità artistica, viene pubblicata all’inizio del XX secolo. Non è un professore di greco, non è un architetto progressista ma è un funzionario dell’Impero d’Austria-Ungheria che la diffonde e la rende compresente con le prime due, ma sostitutiva, antagonista delle prime due. Questa terza teoria stabilisce che c’è una continuità nel processo storico della produzione artistica, che è basato, sia pure su fasi autonome e diverse tra loro e anche originali, sulla continuità: a) non è permesso stabilire delle gerarchie, né la Grecia classica, né il Rinascimento fiorentino hanno ragione per essere considerati momenti apicali dell’espressione dell’uomo, modelli, perché ogni epoca, non solo, ma ogni pratica artistica, anche quelle delle arti minori, anche il mestiere del 8 calzolaio, anche il mestiere dell’orafo, anche il mestiere della tessitrice, se indirizzati alla produzione di un’arte applicata, hanno la stessa dignità; b) secondo punto, le diverse epoche hanno la necessità di rispondere ad una diversa rappresentazione collettiva di valori diversi. E da questo, come dicevo prima, il diritto alla sproporzione, alla disarmonia, al brutto. Pittura corporale Kayapo-Xikrin, sud-est del Parà, Brasile centrale. Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Non sono, ovviamente, affermazioni puramente accademiche, per secoli si è considerata la produzione artistica dei secoli precedenti superata; fino all’Ottocento, fino al Novecento, fino a pochi anni fa ancora (e molti ancora pensano), si è sostenuta l’evoluzione dell’arte, un processo nel quale ci sarebbero delle espressioni alte e dei momenti di decadenza. Se pensate che le figure di Viligelmo o del tempietto di Cividale erano considerate dei pupazzi; se pensate che la pittura senza prospettiva veniva considerata come una espressione non ancora pronta a raggiungere la complessità della concezione dello spazio raggiunta nel Quattrocento. Se pensate che si sono disprezzate per secoli tutte le arti dei popoli altri, dei selvaggi. Se pensate che oggi alcuni sostengono la innarrestabile superiorità della visione digitale, che alle soglie del Novecento i tempi fossero maturi per una interpretazione che privilegia il valore dell’intenzionalità artistica rispetto al valore dei mezzi, delle funzioni, delle tecnologie di produzione non è cosa di scarso rilievo. Le interpretazioni della “vita e del valore delle forme” che abbiamo fin qui esaminato sono nate nel centro dell’Europa, in Germania e a Vienna. Viene raggiunta la coscienza che il mondo si è dilatato nel tempo (l’archeologia e l’antropologia hanno ripercoso i secoli ed i millenni) e nello spazio (fino all’America Latina, fino all’Africa, al Giappone, alla Cina). Alla fine dell’Ottocento il discorso si è rovesciato, si è instaurata la moda dell’arte cinese, la mania, anche, dell’arte africana, che poi verrà ripresa e ricopiata dalle avanguardie. Ma, la cosa più importante per noi è che queste teorie sono maturate tra la metà del Settecento e l’inizio del Novecento, perché è successo qualcosa di particolare, di eccezionale, di completamente nuovo nella storia dell’umanità. È successo che i grandi imperi europei sono tornati ad espandersi come l’antica Roma, come l’impero di Alessandro, come i Greci, come Bisanzio ed è giunto urgentemente, prepotentemente presente ai politici, a chi governa gli Stati, quindi agli architetti che sono i servi dei governanti, la necessità di realizzare dentro questa grande espansione delle Istituzioni nate in Europa, i palazzi di governo, i teatri, i musei, le carceri, gli ospedali, i parchi. Realizzare, possedere, mettere a punto degli strumenti tecnici e degli ele9 Frontespizio della relazione sull’omicidio di J.J. Winckelmann commesso da Francesco Arcangeli a Trieste il giorno 8 giugno 1768. Statua della divinità egizia Anubi la cui fisionomia partecipa del leone, del gatto e del cane e tiene in mano un bastone con testa di uccello. (da J.J. Winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi, 1764. Tav.V) menti di natura culturale, che consentissero di produrre rapidamente in tutte le parti del mondo, dall’America del nord, all’America del sud, dall’India, all’Africa, poi via via, in Australia, ma anche nelle città di colonia europee, di produrre delle ripetizioni di edifici, di strutture, che corrispondessero ad Istituzioni che venivano, appunto, diffuse nel mondo, sull’intera crosta terrestre. Il linguaggio è il mezzo di comunicazione attraverso il quale si diffondono dei valori; che sono i valori dell’organizzazione statuale, i valori dell’organizzazione imperiale. La rigerarchizzazione del mondo ha un sistema di più capitali, non più una capitale soltanto. Le città-capitali, Vienna, Londra, Parigi, Berlino, diventano il luogo della monumentalizzazione, in una rigerarchizzazione del sistema, dell’urbanistica e dell’architettura, che ha trasformato la terra. Anche se un secolo è trascorso e la metropoli contemporanea ha modificato le stesse nozioni di città e di città-capitale, anche se altri imperi e altre nazioni sono oggi al centro dei problemi dello sviluppo economico e demografico, l’eredità del pensiero maturato nel cuore dell’Europa tra il XVIII e il XX secolo non è stata interamente consumata. La teoria della superiorità del “Classico” viene riaffermata, a distanza di pochi mesi, ora in campo filosofico, ora in campo letterario e non è quindi solo alla base di ogni ritorno all’ordine nel mondo dell’arte e della costruzione. La teoria della normatività del saper-fare, dei mezzi e delle tecniche, è alla base del funzionalismo (insomma ogni volta che si parla dell’architettura in termini funzionali, funzionalistici, si torna ad una impostazione maturata nell’Ottocento, così come i molti che parlano dell’architettura come ricerca di bellezza hanno i loro precursori nell’estetica del Settecento) e infine la teoria della pariteticità dei valori espressi dalle diverse culture e nei diversi mestieri dall’arte, che è alla base dell’interesse per la contaminazione, l’ibridazione delle forme che c’è in tutta l’arte moderna, risale alla reimpostazione del lavoro di ordinamento museale inevitabile nella classificazione dei beni culturali del multinazionale Sacro Romano Impero d’Austria e Ungheria. Ma è ora giunto il momento di dare un nome all’archeologo del Settecento, all’architetto dell’Ottocento e allo storico del primo Novecento che abbiamo chiamato in causa. Cercheremo di conoscerli personalmente. Perché, come dicevo, le loro esperienze ci aiutano a capire la diversità della loro logica. Parte prima - “i personaggi” Incontriamo il primo personaggio in una situazione difficile. “…fu veduto ed osservato, sopra uno stramazzetto, ivi gia10 Gottfried Semper (1803-1879). Dimitris Pikionis, Parco giochi Filothei, Atene 1961-64. Dettaglio di un incastro in legno della porta. cente un uomo, con capelli tagliati cortissimamente dal che congetturasi che portava parrucca, essi capelli color grigio ossia canuti, di statura piuttosto alta e macilenta, sembrando dell’età di anni cinquanta e più, di faccia smunta, pallida, soltanto con camicia fina in su la vita, guarnita di manighetti, tutta lorda di sangue, con braghe di pelle nera indosso senza calze in piedi…” (N.27/1768 criminale contro Franc. Arcangeli in puncto omicidij). È l’8 giugno 1768. Da questa Distinta relazione del premeditato atroce proditorio omicidio commesso in Trieste l’8 giugno 1768 da Francesco Arcangeli nella persona del celebre signor Giovanni Winckelmann, Prefetto delle Antichità Pontificie, e Professore di Lingua Greca nella Biblioteca Vaticana, nonché dell’esemplare sentenza presentata contro l’Omicida ed eseguita il 20 giugno dello stesso anno. Il viaggiatore aveva da pochi giorni consegnato a Maria Teresa imperatrice d’Austria e Ungheria e al cancelliere principe Kaunitz i dispacci che in Vaticano gli aveva consegnato il Cardinale Albani, delegato ai rapporti tra Vaticano, Austria e Prussia. Aveva lasciato Vienna il 29 maggio e dopo essere passato per Lubiana era sceso a Trieste, in incognito, alla Locanda Grande. Rivelò il suo nome soltanto quando si accorse che le ferite infertegli dall’Arcangeli erano mortali: Johann Joachim Winckelmann, nato a Stendal, Prussia, il 9 dicembre 1717. Il Winckelmann afferma nei suoi diari che il momento più importante della sua vita, il momento in cui ha deciso di vivere per l’archeologia e vivere per l’arte è stato quando ha presenziato alla sepoltura di suo padre a Stendal. Dice Winckelmann: in quel momento ho capito che le cose più importanti per noi non sono visibili, ma sono invisibili, non sono sulla terra, ma sotto terra. Alla superiorità dell’arte greca, di cui prima vi parlavo, Winckelmann arriva attraverso l’esame analitico delle opere d’arte di diversa epoca. Con il Winckelmann l’archeologia ed il commercio delle opere d’arte (difatti, fa anche l’antiquario) diventa non più una questione dilettantesca, ma una scienza. È un’indagine conoscitiva vera e propria che va aldilà del gusto per la curiosità e che mette a decifrare, dentro ai reperti che vengono trovati soprattutto ad Ercolano e Pompei, e che lui porta al suo protettore, il cardinale Albani, e anche commercia in proprio, documenti veri di mondi nei quali si inseguivano idealità profonde. Le figure, che vengono ridisegnate in uno dei suoi volumi più importanti e che potevano sembrare semplicemente rappresentazioni di capricci o di divinità astruse, vengono lette finalmente come vere e proprie rappresentazioni di concetti, nei quali, come si sa, la testa del leone, il corpo umano, un bastone, la luna, la testa della 11 Gottfried Semper, Disegno per il Teatro dell’Opera di Monaco, 18641867. Pianta e sezione. Gottfried Semper, Teatro dell’Opera di Dresda, 1838-1841 (ricostruito dal 1871 al 1878). Sezione. Gottfried Semper, Disegno per il Teatro del Glass Palace di Monaco, 1865. Sezione. Teatro dell’Opera di Monaco, 18641867. Modello in legno. 12 scimmia, e ogni altro elemento assemblato nella figura, nell’icona, non è altro che una frase, che, unendo un concetto all’altro, esprime un pensiero. Così come ogni scultura, ogni divinità con i suoi segni, con i suoi simboli, dalla più lontana antichità fino ai santi del Cristianesimo, dice, in modo ermetico, chi è, qual è il suo ruolo nella vita dell’Universo, quando rappresenta la morte, quando rappresenta la vita. È vero che le allegorie hanno come presupposto l’ermetismo, è vero anche che ai giorni nostri è molto difficile attribuire ancora al sole o alla luna quella dimensione simbolica, quel valore simbolico che veniva attribuito dagli uomini agli astri (quando non si sapeva ancora che il sole era una bomba atomica permanente e che la luna era una sfera grigiastra di terra morta); però, normalmente, ancora oggi, chiunque, molti, soprattutto se sono innamorati, guardano la luna con uno struggimento interno e non possiamo sfuggire alla tentazione di vedere nel sole la vita. Il secondo personaggio è Gottfried Semper. Gottfried Semper nel 1849 ha partecipato ai moti popolari e alla rivoluzione fallita di Dresda e si è rifugiato a Londra ed a malapena riesce ad avere l’incarico di insegnante in una scuola professionale. A Dresda ha costruito opere molto importanti per il Principe, ma la sua vita cambia, le sue idee cambiano nel momento in cui incontra, dentro alla Esposizione Universale del 1853 al Cristal Palace, la capanna caraibica. Semper si esalta di fronte alla dimensione archetipica, fabbrile, il saper-fare l’architettura, il valore dei materiali, il valore del colore (pensate che le architetture e le sculture di cui parlava il Winckelmann erano ruderi, scheletri, frammenti, sempre di pietra bianca o di cotto). Ora invece, siamo alla metà dell’Ottocento, è maturata, prima in Francia, poi anche in Germania, la conoscenza di un’arte antica coloratissima in cui i fregi, i segni, i simboli, persino lo smalto degli occhi nelle sculture, è essenziale. Le costruzioni primitive, come curiosità antropologica e le costruzioni industriali, come simboli del progresso vengono esposte insieme in questa Grande Esposizione. L’Inghilterra è molto più avanti della Germania e Semper incontra locomotive, macchine, automobili (a forma di carrozza, naturalmente). In questa Grande Esposizione si riconferma in lui la convinzione dell’importanza della tecnica. E ciò si rifletterà anche nella sua progettazione dei Teatri d’Opera. Quello che però comincia a diventare subito l’argomento della sua curiosità e del suo studio è la costruzione tessile dell’architettura e dei tessuti veri e propri, la manifattura ceramica, la carpenteria in legno e in ferro. In uno dei suoi progetti più belli, un deposito per scene, al servizio del Teatro dell’Opera di Vienna la poesia della struttura metallica e della com13 Basilica di San Miniato al Monte, Firenze, XI-XIII sec. Dettaglio della facciata. plessità geometrica del tracciato viene messa al servizio di una vera e propria rivoluzione nell’impostazione strutturale dell’edificio, che trova la sua appropriatezza nel rispondere perfettamente alla geometria anomala del lotto edificabile ed insieme al controllo della lavorazione dei metalli. E infine, la stereotomia. L’arte del taglio della pietra, la stereotomia, è fortemente apparentata con le conoscenze che derivano dalla geometria proiettiva, una nuova scienza, che dà la possibilità di disegnare figure complesse dal punto di vista geometrico, con angoli, curve non regolari. L’arte dell’architetto è sì apparentata con le grandi arti, la pittura, la scultura, ma innanzitutto, per Semper è “arte cosmica”, riflette le leggi del Cosmo e quelle della Natura, la Statica, la Geometria, la Simmetria; l’architettura, come la danza, come la musica, non è un’arte imitativa. L’architettura ha soltanto dentro se stessa i modelli, e dentro il suo farsi, imita se stessa. Il “Teatro” è un modello architettonico per antonomasia. Il che non esclude le innovazioni. A Dresda, con il “foyer”, la scena, la platea, i palchi, il loggione c’è un nuovo personaggio: il retropalco. A Dresda il retropalco ha un’importanza enorme, perché il principe si affaccia dall’interno del Teatro sulla piazza e allora ribalta la funzione del teatro: il teatro è lui e lui va in questo punto centrale della facciata, su un grande balcone sovrastato da una nicchia, e saluta il popolo. E quindi il teatro ha questo rovesciamento in funzione dell’Uno, il Principe che è spettacolo. Nell’architettura di Semper la ragion d’essere della costruzione, la sua “tipologia” è tra i fattori fondamentali. La ragion d’essere, lo scopo (se volete la funzione) può essere estremamente nobile, non è detto che sia una ragion pratica soltanto, ma può essere veramente “l’idea”. Il teatro che Gottfried Semper progetta per Richard Wagner è innanzitutto una risposta ad una nuova idea di rappresentazione teatrale. Il musicista, dopo aver realizzato alcune opere all’italiana (il melodramma), inventa una idea dello spettacolo teatrale nel quale la parola, la musica, l’azione scenica, la scena e lo spazio dentro il quale sta il pubblico, devono rispondere ad un clima particolare, ad una condizione particolare. Il teatro come azione scenica e il teatro come scatola magica che presuppone lo spettacolo sono sempre stati un tutt’uno. Le rappresentazioni che Wagner vuol realizzare affondano le loro radici nel mito, eroi e divinità teutoniche sprofondate nella leggenda. Il rito recupera la cavea del teatro greco, il proscenio del teatro romano, un solo ordine di posti, ai piedi del quale si scava “il Golfo Mistico”, lo spazio per l’orchestra. Dirà il musicista: 14 Modelli parietali assiri. Stile antico (in alto). Stile tardo (in basso). (da Gottfried Semper, Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica. Manuale per tecnici, artisti e amatori, 1860. Tav.XII). Sant’Apollinare. Mosaico absidale nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, VI sec. “La mia impostazione dell’orchestra invisibile, dava al genio del famoso architetto col quale mi sentivo familiare, la possibilità di trattare questo tema, di studiare questo spazio intermedio tra la prima fila degli spettatori ed il proscenio, ma in questo spazio c’è un vuoto: è la fossa mistica che separa il realismo dall’idealismo, ed il maestro la chiuse con un ampio proscenio seguito da un secondo proscenio più stretto tale da creare un effetto di allontanamento illusorio”. Confrontate i tre teatri di Semper, quello di Dresda, quello di Monaco e quello per Bayreuth, e capirete cosa significa lavorare dentro una tipologia, una categoria del progetto che è tanto più disponibile alla re-invenzione quanto invece la forma è definita, apparentemente indisponibile. In realtà nello studio delle forme, ne “la morfologia”, troveremo un altro campo di sperimentazioni inventive, quello delle composizioni, degli assemblaggi, degli innesti e dei trapianti. Tuttavia, perché la ricerca non sia guidata solo dal capriccio e dall’originalità, la fedeltà al genere, l’approppriatezza, l’importanza data alla ragion d’essere della cosa, “la tipologia”, costituiranno parametri di controllo e stimoli indispensabili al raggiungimento della qualità. Il teatro è fondamentalmente un rito. Lo vuole Wagner, ma lo vuole anche la borghesia che va a teatro; che ama nel foyer dare spettacolo di sé. Dentro l’invenzione delle forme c’è la metamorfosi, dove un corpo passa da una forma ad un’altra. Il che nel processo progettuale appare di frequente. Un funzionario dell’Impero d’Austria-Ungheria, Alois Riegl, che a 28 anni era stato messo a dirigere il settore tessile dell’Österreiches Museum, in una certa misura al “poterfare” di Gottfried Semper, contrappone l’istanza del “volerfare”: prioritaria sarà la mia intenzione, i mezzi seguiranno. Prioritaria la mia volontà di esser bizantino anziché romano, l’esser a Ravenna invece che in Grecia. Kunstwollen si contrappone a Kunstkönnen, Kunst è arte, können è costruire (poter costruire, sapere), wollen è volere. La questione è stata riassunta molto bene da Jean Clair, in un bel libro che vi consiglio di acquistare: Critica della Modernità, del 1983. Per Semper, l’opera d’arte è il prodotto di tre fattori: uno scopo utilitario, un materiale, una tecnica. L’opera è un “saper-fare”. La storia dell’arte è la storia di un sapere: la messa in opera di un potere su una materia definita, messa al servizio di una determinata destinazione sociale. A questa idea di Kunstkönnen (pubblicata nel 1878) Riegl nel 1910 oppose l’idea di un Kunstwollen, di un “voler-fare” artistico, indipendente dall’oggetto e dal modo di creazione. L’esigenza latente di creare delle forme preesiste a qualunque cono15 scenza e basta ad orientare le caratteristiche dello stile. Il dominio della casa d’Asburgo andava dalla Boemia all’Ungheria, alla Lombardia, al Veneto, e disponeva quindi di un patrimonio di oggetti d’arte vasto ed estremamente eterogeneo. Alois Riegl viene incaricato di stendere un testo di legge su quelli che noi oggi chiameremmo i Beni Culturali, una legge per la protezione, la conservazione e la classificazione dei Beni Culturali dell’Impero di Austria-Ungheria. Non può fare più come il Winckelmann lo scherzo di trovare un’espressione apicale, un’espressione prima, superiore, nel mondo dell’arte; non può neanche più soltanto porre la questione, come fa l’architetto Semper, dei mezzi attraverso i quali si sa produrre l’oggetto artistico. Alois Riegl deve porsi il problema di come possono essere messi uno accanto all’altro, con la stessa parità, dei vetri di Boemia con delle granate incapsulate nei bracciali d’oro celtici o unni, o dei tessuti o degli smalti; come porre la questione del Barocco. Il Barocco era stato considerato una forma degenerata dell’arte. Ancora nell’Ottocento il Milizia, qui a Venezia, scriveva di quanto orribile fosse la Chiesa della Salute realizzata dal Longhena senza rispettare i canoni della classicità. Ma non c’era soltanto il Barocco, c’era questo mondo che veniva avanti dalle colonie e che produceva questa dilatazione universale degli oggetti d’arte studiati da considerare, da conservare, da classificare; classificare e conservare voleva dire stabilire i valori. Ecco, quello che ci insegna, che dobbiamo imparare da Riegl, dai suoi scritti, è l’autopsia, che egli fa, dei materiali che ha nella sua sezione dei tessuti dell’Österreichisches Museum di Vienna. Per quindici anni, a partire dai 28, lui scrive e studia tessuti; del resto anche Semper si era interessato a questo procedimento minimale, primitivo, tesser pelli, cucire, il momento primo dell’esperienza fabbrile dell’uomo, che in questo caso spesso è la donna, perché l’uomo è cacciatore. In realtà entrambi cercano, nell’autopsia dei tessuti, nella decostruzione degli elementi primari che costituiscono il disegno di un tappeto, di una stoffa, di una tenda, di un vestito, di un abito, di uno scialle, di una coperta, i motivi primari, l’origine. E quindi aprono, tanto Semper che Alois Riegl, una dimensione metastorica, nella quale cercare gli archetipi, le forme o le figure che sono depositate nell’inconscio e che costituiscono l’origine di tutte le forme. Semper pensa di aver trovato l’origine nella capanna caraibica, nel suo tessere coperture e pareti e tappeti e fuochi, in un modo particolare. Riegl pensa ad una origine comune a tutte le pratiche manuali che nell’incidere i vetri, nello stampare e cucinare smalti, nel tessere tessuti gli uomini hanno sviluppato, nelle diverse parti del mondo, da Babilonia ad oggi. Riegl opera sostanzialmente una rivoluzione in cui l’arte clas16 sica viene compresa in tutte le sue deformazioni prodotte dal Barocco, l’arte e l’architettura tardoromana. Nel San Lorenzo a Milano l’architettura tardoromana scopre uno spazio anomalo: doppio deambulatorio, cappelle e pronao eteronimi rispetto ai canoni dell’architettura romana classica. Secondo Riegl queste esperienze, questa nuova interpretazione del rapporto tra la figura e lo sfondo, questo nuovo rapporto tra la massa e il vuoto, questo nuovo lavorare sul ritmo, sull’ombra e sulla luce, sulla superficie e la profondità, sul piano e sullo spazio sono gli elementi di una nuova cultura. Ma anche l’introduzione da parte di Riegl di questi temi e strumenti di lettura dell’oggetto diventano una conquista della storia dell’arte. La cupola del Pantheon. II sec. d.C. Tempio di Minerva Medica (Ninfeo degli Horti Liciniani). III sec. d.C. Pianta. Martin Golubitsky, Ian Melbourne, uno dei 27 tipi di colonna tortile. Basilica di San Lorenzo Maggiore a Milano. IV sec. d.C. Pianta. G.B. Piranesi, Veduta del tempio di Minerva Medica, 1750 ca. Parte seconda - “i testi” Tra le sculture più amate dal Professore di Lingua Greca in Vaticano era il Torso del Belvedere: “Domandate a quelli che conoscono quanto di più bello esiste nella natura umana, se essi videro mai un fianco da paragonarsi al fianco sinistro del Torso. L’azione e la reazione dei suoi muscoli sono mirabilmente equilibrati attraverso una saggia misura di movimento alternato e di agile vigore; così è reso atto a quanto voglia intraprendere. Come la superficie tranquilla del mare, quando comincia ad agitarsi, si va a poco a poco gonfiando producendo un nebuloso tumulto nei suoi flutti, dove un’onda è incalzata dall’altra e poi se ne distacca di nuovo; così vediamo qui, con le medesime dolci sinuosità, e le medesime leggere curve, un muscolo fondersi nell’altro, e un terzo muscolo che tra essi si innalza e sembra rafforzare il movimento, esserne invece assorbito; e così si perde anche il nostro sguardo…Dall’aspetto delle cosce sono condotto fino ai limiti delle sue fatiche e fino ai monumenti delle colonne dove poggiò il suo piede; cosce di forza inesauribile e di lunghezza propria ai soli dei…Mi pare di veder sorgere dal dorso, curvo in profonda riflessione, una testa che con letizia ricorda le sue prodigiose gesta. E mentre una simile testa, piena di maestà e di sapienza, appare al mio sguardo, anche le altre membra mancanti incominciano a formarsi nel mio pensiero; si raccoglie una emanazione da ciò che esiste e ne nasce quasi un improvviso completamento”. È anche un frammento, è un’esegesi che anticipa le teorie del frammento, il valore del non-finito, e la stessa teoria più moderna sul rapporto tra quello che viene chiamato con una brutta parola, il fruitore e l’opera d’arte, e cioè l’andar dentro, l’esser presi, non soltanto comprendere l’opera, ma essere compresi dall’opera, desiderio nello spettatore a lavorare su questa immagine, su queste icone e produrne mentalmente delle altre. 17 Da quel torso si staccavano le braccia, proseguivano gli arti. Nella nostra esperienza si introduce la dimensione estetica, la dimensione concettuale che ti fa vedere ciò che non c’è nell’opera. Non la storia, quella di cui parlano gli storici o i filosofi, non i fatti, ma la battaglia dei segni, la forza delle icone, la forza dei segni che sono la ragion d’essere della figura. La colonna dorica sarà sempre il segno di un ordine, che si chiama così perché parte dell’equilibrio, dell’armonia cosmica. Quando la figura della donna viene squartata da Picasso o da Duchamp o montata in una macchina celibe, torna in qualche modo insieme ad altri temi, quello della possibilità di raggiungere l’invisibile attraverso il visibile. Frank Lloyd Wright, Casa di Francis W. Little, Wayzata, Minnesota, 1913. Soggiorno. Gottfried Semper è stato accusato di materialismo e funzionalismo, ma il movente, per lui come per Riegl, è quello della ricerca dell’autenticità, della ricerca della ragion d’essere, anche dell’appropriatezza della cosa. Il focolare accanto a cui, nel suo peregrinare, siede il nomade, con la rudimentale impalcatura del tetto che lo protegge, è rimasto nel corso del tempo il sacro simbolo del vivere civile, un simbolo che nell’altare e nella cella del tempio ha ricevuto e conservato la sua più alta consacrazione religiosa. Se a ciò si aggiungono il recinto per delimitare lo spazio e il basamento a salvaguardia del focolare, in questi pochi, elementari motivi presi in prestito dalla prima coppia umana è già contenuto tutto ciò che l’architettura avrebbe poi inventato. Il tetto, quello per Semper è “Deck”, la copertura, la tenda lo ritroviamo in Frank Lloyd Wright. In Semper il rivestimento e l’incrostazione davano un valore spirituale alla decorazione. Un po’ la necessità della patina nelle antiche sculture, la necessità dello smalto nel bianco e nella pupilla dell’occhio, non tanto per raggiungere una verosimiglianza, ma per realizzare quella dimensione spirituale, che la divinità deve raggiungere, non soltanto nella fisiognomica, non soltanto nell’espressione, ma come apparizione. Apollo è il dio dell’armonia, ma anche la divinità che presiede alla divinazione, che detta la profezia. È il dio della luce, ma anche il dio dell’oscurità; è il dio che porta dall’ignoto, dall’inconscio i messaggi. Riegl nella sua lettura del Pantheon e del tempio di Minerva Medica scopre l’essenza dell’architettura, “lo spazio”. Lo spazio dell’architettura non è più lo spazio della geometria, della fisica, non è lo spazio dell’astronomia o della cosmologia, né lo spazio curvo o quello a nove dimensioni. Lo spazio dell’architettura ha al suo centro la presenza dell’uomo, ha al suo centro la dimensione narrativa. “Escludendo il portico a volta che gli è stato addossato, si tratta di una pura rotonda…l’unità formale centrale…vi è 18 Pablo Picasso, Petite fille sautant à la corde, Vallauris, 1950. attuata in grado assai più alto di quello mai prima raggiunto nel tempio greco e perfino in quello egizio arcaico…ogni rifrazione cristallina in piane superfici esterne e distinte, è stata eliminata; in luogo del piano di assoluto riposo, caro agli artisti egizi, è sostituita la irrequieta curva, ansiosa di profondità; invece dello smembramento in forme parziali, che abbiamo osservato nella casa a colonne, troviamo il concorrere indiscriminato di tutte le possibili parti, anche minime, nella forma complessiva… Quello che è assolutamente nuovo nel Pantheon è…lo spazio contenuto nel suo interno…nel Pantheon tutto è calcolato in modo da risvegliare la coscienza dei limiti materiali;…Chi entra…deduce la eguaglianza delle misure di profondità e larghezza; e a ciò si accompagna la immediata percezione che altezza, profondità e larghezza sono eguali…La prima epoca imperiale romana ha risolto il problema dello spazio interno trattandolo come materia cubica, e lo ha fissato con misure assolutamente uguali e perciò chiare… …il cosiddetto tempio di Minerva Medica…è…un edificio di masse, ché le absidi, le quali nel Pantheon erano disposte solo all’interno, sono qui evidenti anche all’esterno, e incidono sul contorno dell’insieme, per quanto siano dominate completamente dal nucleo centrale. Ma non meno importante innovazione è la comparsa di finestre nel tamburo (e perfino nella volta della cupola)... Con le finestre che aprono lo sguardo... nello spazio si annuncia per la prima volta una nuova arte futura che vuole rappresentare la singola forma…in unione con l’incommensurabile infinito”. Ecco, questa finestra, così semplicemente scoperta da Alois Riegl, viene dalla lettura analitica dei tessuti svolta per anni, tentando di distinguere gli elementi e le parti, individuare quindi i morfemi, le combinazioni di forme, i sintagmi, le relazioni, gli elementi della lingua e la sintassi. Come nelle lingue scritte, parlate non si possono dire delle stesse cose in tedesco, in francese, in latino, in italiano. Ogni lingua può dire determinate cose e non altre, è precisa, è efficace per dire determinate cose e non altre. E molte volte noi ci accorgiamo durante il progetto, facendo un progetto, che il progetto non accetta degli elementi, che mentalmente a noi sembrerebbe di dover inserire dentro la composizione. Altre volte risulta che il progetto da solo ha chiesto, attraverso il caso, di prendere una determinata strada. Quella richiesta progettuale, l’esperienza progettuale, ha a monte dei temi, delle teorie, delle conoscenze, un sapere, senza il quale non si può far niente, e tuttavia nella sperimentazione entra anche il caso, all’interno di un processo in cui c’è la lunga fatica di correzioni, di modifiche, di integrazioni…il progetto è fatica, il progetto è gioia e fatica. 19 Il progetto è un lavoro. 1.1 Portico ai SS. Giovanni e Paolo Gigetta Tamaro La tecnica del contrasto. L’opera di cui parliamo brevemente oggi è l’inserimento in una nostra opera costruita da tempo ed ancora in funzione di una addizione nuova. L’opera costruita è il Dipartimento d’Urgenza dell’Ospedale civile dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia. L’addizione nuova occupa una parte dell’alto portico che avevamo progettato nel lontano 1978 al di sotto di un reparto di degenza concepito come una lunga manica conventuale. La testata sulla laguna, destinata alla diagnostica ed alla terapia d’urgenza era invece concepita come edificio a corte. La darsena, come modo d’accesso, la corte, come luogo di aggregazione, danno alla testa della costruzione il carattere di un fondaco. Il portico e l’ampio sviluppo lineare danno alla degenza il carattere della facciata conventuale interna, punto di congiunzione tra attenzione e straniamento. I nostri progetti sia che siano ospedali, cimiteri, uffici comunali, sono fatti, molto più per un’idea dell’ “uomo” che non per alcuni determinati uomini, per una idea di “città” più che a partire dai misfatti che si sono perpetrati in quella città. Abbiamo ricomposto un oggetto che è città ed appartiene ad essa, abbiamo accuratamente mimetizzato ciò che contiene; non sapremo se c’è sofferenza o non sofferenza, non sappiamo in quanti piani queste si dispongono. Il monumento misterioso appartiene alle acque che corrono in mezzo alle isole di terra, si confonde con i 20 monumenti che le punteggiano; questa fabbrica non si confronta con le entità edilizie che configurano il tessuto connettivo della città, si confronta con i grandi conventi, con l’Arsenale, con i grandi vuoti d’acqua. L’acqua vi penetra fino ad entrare nella pancia del grande Fondaco, nella sua corte. nella pagina successiva L.S., Gigetta Tamaro, Ospedale dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia, 1978-2006. Il portico con il nuovo intervento. L’ultima aggiunta. Ora tratto della descrizione specifica della facciata principale del Dipartimento SS. Giovanni e Paolo e della curiosa questione dell’ampliamento, che ci è stato chiesto di realizzare dentro il nostro portico. “Progettare addosso” all’esistente è una prassi antica. Trattando il realizzato come un trovato, già fuori di noi, già vivente di vita autonoma. L’architettura può avere il privilegio di invecchiare e di radicarsi nei luoghi attraverso il tempo. Se si sceglie di assecondare questo privilegio si devono effettuare delle scelte di carattere, costruttivo e formale, opposte a quelle di chi pensa che gli oggetti che si progettano si usano e poi si buttano. Si tratta di aderire non solo ad un mondo poetico o culturale L.S., Gigetta Tamaro, Ospedale dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia, 1978-2006. Il portico prima del secondo intervento. Il corpo delle degenze. Prospetto del secondo intervento interno al portico del corpo delle degenze. Particolare del modello in legno del corpo delle degenze. 21 altro da quello della tradizione dell’architettura, ma anche ad un altro mondo politico; si sceglie il mondo del fare per buttare, senza pena per il destino degli oggetti, senza segni nel futuro. L’altra architettura è per me come i figli, cresce nel tempo pur nel suo degradarsi, ossia nel suo perdere l’algidità del primo giorno diventerà rovina (forse) ma non apparirà come il cadavere tragico di una trovata pubblicitaria che è fatta per il presente immediato e nessuno può impegnarsi a ben conservare. Le architetture della firmitas, quelle che vogliono rimanere nel tempo, come forme comunicanti non hanno paura di piccole ingiurie, di modifiche, è come quando ci si cambia d’abito ci si mette un’altra cosa addosso ma si rimane sempre noi, quel che conta è quello che siamo noi. Questo edificio che noi abbiamo progettato è stato realizzato da tante mani: dagli operai, dai capocantiere, dai tecnici, dagli assistenti, dai direttori lavori, tutte persone che lavorano con sapienza e che trasferiscono questa loro sapienza sull’oggetto da essi “creato”, costruito e così esso vive di vita autonoma, e tu, tu progettista, diventi uno spettatore, non sei più il padrone della cosa e ogni tanto vai a vedere cos’è successo alla costruzione, ed è successo che invecchia, che i marmi si deteriorano, che i colori sbiadiscono ma questo invecchiamento è compatibile con una architettura realizzata che compatisce se stessa ed invecchia anch’essa come noi. Ogni costruzione ha una sua regola interna sia essa fatta di calcestruzzo, o legno o ferro o mattoni, ha una sua regola insita alla sua manifattura con la quale bisogna saper fare i conti e bisogna sapere quali sono le prestazioni nel tempo che si chiede a questa architettura. Ci sono delle architetture fatte tutte di vetro, diafane o tutte di ferro che nel tempo si mostreranno come quelle persone che invece di avere un viso vero hanno un viso imbellettato e i capelli tinti, che se quindi perdono la tintura o non si imbellettano non sono più loro, altre architetture, invece, che assomigliano di più alle persone sagge, invecchiano nella bellezza di diventare vecchi con serenità. Convenzionalmente noi abbiamo pensato che il padiglione già costruito potesse essere assimilato al vestito che Palladio ha realizzato sulla basilica di Vicenza, e che il nuovo volume, che avrebbe riempito il portico poteva essere pensato come un “interno” preesistente. Ovviamente non siamo arrivati subito a questa interpretazione paradossale. Bisognava iniziare a ragionare e dare a quella cosa che aveva già una vita autonoma un contributo nuovo, riempirne il portico. Abbiamo prima provato a ripetere, spostandoli, i partiti architettonici presenti nel già costruito. Alla fine abbiamo immaginato la parte nuova come costruita in un periodo antecedente rispetto a quella già esistente. La facciata già costruita, tanto nel volume pieno che nel vuoto, si riferiva ad un mondo veneziano quattro/cinquecentesco. La parte da costruire non poteva non riferirsi, invece, al mondo medievale/gotico di Venezia. Ovviamente sempre in termini di riscrittura, di reinterpretazione mai attraverso una citazione pedissequa della quale, peraltro, 23 non saremmo capaci. Abbiamo costruito dopo il “vecchio”. Dentro il “nuovo”. Un paradosso che comporta non solo scelte di materiali e di linguaggio ma anche contrasti di ritmo. L’algido Codussi è stato costretto a mostrare dentro di sé i maestri muratori di un tempo gotico che lo hanno preceduto. Il passato, il presente ed il futuro si trovano schiacciati su di un solo piano. Il tempo è un’unica sezione temporale, anzi un punto, come l’universo nelle ultime teorie della fisica teorica. Il portico monumentale non è ancora nato - è già nato potrebbe ancora essere riscoperto. Esaminiamo allora le regole compositive del costruito da noi a suo tempo progettato: - la regola della leggerezza - la regola dell’inversione della tettonica in un sorprendente passaggio del pesante in alto ed il sempre più leggero verso il basso: il tutto appare come un sistema capovolto, un paradosso statico che si duplica dieci volte - la regola della iterazione semplice è infatti l’ultima regola 10 campate uguali i 2 corpi di collegamento e/o conclusivi è quanto realizzato tuttavia attraverso diversi passaggi, a partire da una composizione basica (1ª versione) costituita nella parte centrale della campata da una griglia quadratica semplice vetrata, un coronamento a semicerchio liscio e pieno ad una successiva più complessa costituita nella parte centrale della campata da una griglia a moduli di diversa dimensione con montanti e traversi marmorei contenenti le parti vetrate, un coronamento pieno ma delimitato da cornice fortemente aggettante e contenente inserti geometrici in marmi di diversi colori. In profondità il modulocampata da aggregare si sviluppa su 3 campate quadratiche di misura fissa 6 m e 60 cm x 6 m e 60 cm ed una mezza campata aggiuntiva di 6 m e 60 cm di larghezza x 3 m e 30 cm di profondità. Con questa mezza campata si realizza un doppio ordine monumentale di colonne. Nel portico a doppia altezza c’è un elemento aggiunto che diviene passaggio più stretto, non più quadratico, un’enfasi retorica geometrica ed una ridondanza strutturale. Il sistema è composto da una sequenza di 10 campate concluse e racchiuse da murature di tamponamento in facciata ed in profondità, con uno slittamento geometrico di 17,5 cm a favore dei lati perpendicolari di chiusura della scatola complessiva in questo modo definitivamente “finita”. È per questo motivo che i due corpi terminali accostati paratatticamente sono autonomi anche strutturalmente. Il sistema costituito all’apparenza di 12 campate accoglie alcuni capricci edilizi di enfatizzazione della narrazione: la scala di sicurezza all’estremità ovest ne è un esempio fortemente ridondante di plastiche modellazioni. Essa fa “pendant” ai torrini posti agli angoli del vicino “fondaco”. Nell’ultima integrazione il corpo “basilicale” accoglie dunque una nuova facciata inserita nel portico, possiamo intenderla come un ulteriore e forse non ultimo capriccio, non come un completamento, che altrimenti il progetto precedente sarebbe stato incompiuto; come capriccio che in quanto tale nega le regole dell’integrazione. 2. Il futuro del mito La nuova facciata arretrata segue canoni affatto diversi nella composizione orizzontale e verticale, nella partitura della sequenza. I moduli non sono più 1+1+1+1... in orizzontale x 10 volte e 3+3+3+3…in verticale, e si ha invece un aggregato con ritmo specchiato e sincopato forzato su 2+2 campate. La composizione 2+2 specchiato per 1+1 specchiato in altezza acquista rigore e inderogabilità nella rigidità del modulo base che è il mattone (cm 25x12x6) più il legante di malta 1 cm al contorno. I mattoni hanno regola compositiva di “texture” che deriva dalla loro possibilità aggregativa. Questo oggetto che noi consideriamo alla fine come un “trovato fatto”, ha richiesto una elaborazione attenta del procedimento costruttivo che diventa “texture”. Una facciata in mattoni che vuol durare deve fare i conti con la giustezza delle misure e con la manualità del lavoro. Sono state studiate le giustapposizioni degli strati, perché i mattoni possono essere spezzati solo a metà o al terzo e non in altre maniere e possono avanzare o rientrare dal filo di facciata secondo la loro modularità. Le ragioni pratiche ci sono sempre ma non possono esistere da sole, ci dev’essere un’intenzione in più: che l’architettura trovi in se stessa la sua finitezza, in sé, una cosa che parla di sé, e poi dentro di sé 24 sceglie tra una coesistenza di diversi elementi legati per armonia ed una coesistenza di temi diversi tenuti insieme da un attento contrasto. Ospedale dei SS. Giovanni e Paolo: dettaglio della lunetta della facciata. Bogdan Bogdanović, Memoriale di Travnik, Bosnia, 1971. Bogdan Bogdanović, Monumento dedicato alla lotta popolare di liberazione, Vukovar, 1984. 25