Tra le pieghe delle parole

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Tra le pieghe delle parole
LIBRO
IN
ASSAGGIO
TRA LE PIEGHE DELLE
PAROLE
DI GIAN LUIGI BECCARIA
TRA LE PIEGHE DELLE PAROLE
DI GIAN LUIGI BECCARIA
A GIULIA E A SILVIA
Capitolo primo
«Europa, melograno di lingue»
Per cause varie, e note, dallo sviluppo dell’agricoltura intensiva alla
deforestaziorie massiccia, all’urbanizzazione e industrializzazione, sul nostro
pianeta il ritmo di scomparsa delle specie viventi «è oggi fra le 1000 e le
10.000 volte superiore a quello dei grandi periodi geologici di estinzione (...)
Se la progressione continua col ritmo attuale, il 25 per cento delle specie
animali rischia di essere cancellato dal globo prima del 2025, e il 50 per cento
prima del 2100». La proporzione è simile a quella delle lingue. Oggi al mondo
ne esistono all’incirca 5000. Entro la fine del secolo potrebbe sparirne la
metà, c’è chi prevede addirittura il 90 per cento. David Crystal sostiene che ne
muore una ogni due settimane. Di questo passo a fine XXI secolo ne
resteranno ben poche. Il declino della vita rurale, l’attrazione delle città hanno
contribuito all’abbandono delle lingue native. Basta guardare all’Europa e
all’agonia delle parlate regionali. In Italia, com’è noto, l’abbandono della
propria terra, del proprio modo di vivere, sta portando all’abbandono dei
dialetti. Di proporzioni ancora più evidenti il fenomeno nel continente africano,
dove la povertà e la fame contribuiscono pesantemente alla sparizione di
lingue. Claude Hagège ricorda il caso del nubiano, tuttora parlato da una
minoranza in Egitto e in Sudan, ma che i giovani nubiani trasferiti al Cairo o
ad Alessandria stanno totalmente abbandonando. Ai propri figli parlano arabo.
E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Nel mondo sono poco più di una decina le lingue forti, alcune in espansione:
le due più diffuse sono il mandarino (lo parla circa un miliardo di persone) e
l’inglese (circa mezzo miliardo). Tra le lingue romanze, la più diffusa è lo
spagnolo, delle slave il russo; l’arabo raggiunge quasi i 250 milioni, il
portoghese circa 180 milioni (con differenze di pronuncia certo, tuttavia lingua
che rimane integra, dal Brasile all’Angola, a Mozambico, a Capo Verde, alla
Guinea-Bissau, a Sào Tomé e Principe e Timor). Seguono nell’ordine il
maleo-indonesiano, il giapponese, il francese, il tedesco. L’italiano (con circa
60 milioni di parlanti) si colloca al quindicesimo posto.
Ma la maggioranza delle lingue, come dicevo, è destinata alla scomparsa.
Non sappiamo sino a quando sarà praticato l’eschimese, parlato oggi in
Siberia in Canada in Alaska e in Groenlandia da circa 80.000 persone, di cui
45.000 in Groenlandia. Praticamente estinto è l’aleutino: nel Settecento era
ancora parlato nell’arcipelago delle Aleutine e all’estremità dell’Alaska da
20.000 persone; cinquant’anni fa non ne erano rimaste che poche centinaia in
Alaska, altrettante nel versante sovietico. Delle ventisei lingue conosciute
della famiglia algonchina diffusa nell’America settentrionale (dal Labrador sino
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alla Carolina del Sud e del Nord lungo la costa atlantica) almeno dieci sono
morte, altre quattro in via di estinzione. E l’ineluttabile corso degli eventi. Una
morte per solitudine suggeriva una indimenticabile fotografia di un’anziana
signora comparsa in prima pagina su «La Stampa» del 20 giugno 2001: Marie
Smith, così si chiamava, di 83 anni, era l’unica persona rimasta a parlare
l’eyak, una lingua dell’Alaska. «E orribile — diceva — essere rimasta sola».
Nonostante i molti amici, non trovava più nessuno con cui scambiare qualche
parola nel suo idioma. Cent’anni fa al glottologo Matteo Bartoli toccò la
ventura di raccogliere nell’isola di Veglia i resti del moribondo dalmatico, ma
«dovette interrompere le proprie ricerche orali il giorno in cui una mina uccise
il suo unico informatore, Udina Burbur, scalpellino ».
Importante (e prezioso anche per lo studio dell’indoeuropeo) era il tocario,
parlato nel Turkestan cinese: ora è estinto. In Europa estinto è il prussiano, e
sono tutte morte le lingue baltiche occidentali: in vita soltanto il lituano e il
lettone. Si è pure estinto (nel sec. xviii) il comico, la lingua della Cornovaglia,
assai simile al bretone. Dalla fine del sec. XIX si sta tentando di far diventare
il comico una ingua viva, insegnando il cosiddetto «Revived Cornish»; sono
stati ricreati (dopo la prima guerra mondiale) grammatica, vocabolario,
ortografia. Ma è una vitalità artificiale. Il Vendryes ne ha indicato la data di
morte, 27 dicembre 1777, giorno in cui spirò una vecchia domestica, l’unica
che conosceva ancora questa parlata celtica.
Oggi in Europa pratichiamo lingue che sono tra le più vitali nel mondo
(Europa, «melograno di lingue», scrive Andrea Zanzotto in un suo luminoso
saggetto). Tre i gruppi principali: romanzo, germanico, slavo. Sei i ‘marginali’:
greco, albanese, celtico, baltico, armeno e indoario, quest’ultimo presente
soltanto nelle parlate zingare. Si tratta di lingue «indoeuropee», nome che per
ragioni geografiche è stato dato a un’amplissima famiglia linguistica che
comprende la parte maggiore delle lingue d’Europa e che, attraverso l’Iran e
l’Afghanistan, si estende sino alla metà settentrionale dell’India. A
settentrione, incontriamo lingue del gruppo celtico, germanico, baltico, slavo,
tocario; a mezzogiorno lingue del gruppo latino, del gruppo albanese, greco,
armeno, indoiranico.
Dal latino discendono, si sa, le varietà romanze: portoghese, spagnolo,
catalano, francese, provenzale, italiano, sardo, a Oriente il romeno, inoltre
una serie di ‘minoranze’, dal ladino al romancio (la lingua del Canton dei
Grigioni), al galiziano in Spagna.
Altro grande gruppo europeo è costituito dal germanico: l’occidentale
comprende inglese, frisone, tedesco, ne(d)erlandese; il settentrionale le
lingue scandinave: danese, norvegese, svedese e islandese.
Complessivamente, circa 450 milioni di persone che hanno una lingua
germanica come lingua materna.
La componente europea di maggioranza relativa è costituita dal gruppo slavo,
1/3 degli abitanti del continente (russo, ucraino, polacco, slovacco, ceco,
bulgaro, macedone, serbo-croato, sloveno). Lo slavo non occupa un territorio
continuo: una fascia di stati non slavi (Austria, Ungheria, Romania) s’insinua
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tra russo, bielorusso, polacco, ucraino, ceco, slovacco da una parte, e serbo,
croato, bulgaro dall’altra. L’unità slava è stata spezzata nell’896 dall’invasione
magiara, popolazione ugrofinnica, appartenente alla macrofamiglia uralica
(come finlandese, lappone, estone).
La lingua slava più diffusa è il russo. Di molto peso è l’ucraino, praticato da
poco più di milioni di persone, la seconda fra le lingue slave per diffusione, e
con un suo prestigio letterario, da quando, circa due secoli e mezzo fa, si è
fissata come lingua letteraria indipendente.
Un ramo a sé della grande famiglia indoeuropea è costituito dall’armeno, oggi
lingua ufficiale della più meridionale delle repubbliche dell’ex Unione
Sovietica, parlato da 5 milioni e mezzo di persone.
Tra i gruppi superstiti del celtico, va annoverato il nucleo britannico (gallese e
bretone) e il nucleo gaelico (l’irlandese e il gaelico di Scozia).
Ci sono in Europa anche lingue non indoeuropee, come il basco, che
potrebbe essere la lingua dei discendenti di quegli antichi Aquitani di cui parla
Cesare nel De bello gallico. Non indoeuropeo era l’etrusco, lingua (in parte
ancora ‘misteriosa’, nonostante i confronti condotti volta a volta dai linguisti
con le lingue italiche, con il greco, l’armeno, l’ittita, il basco, il caucasico,
l’ugrofinnico) che domina fino al 300 a.C. in Etruria. Delle lingue non
indoeuropee che ancora si parlano in Europa, va annoverata nel cuore del
Mediterraneo una lingua semitica, il maltese, che è un arabo maghrebino
intriso di elementi inglesi e romanzi (siciliano, italiano, francese).
Nel nostro continente c’è infine una dozzina di lingue della famiglia uralica
(ungherese, estone, finnico, lappone), alcune in pericolo di scomparsa, per
esempio le samoiede, in area sibenana. Non godono di buona salute il
calmucco, parlato lungo il corso inferiore del Volga, lingua della famiglia
mongola, e una ezza dozzina di lingue della famiglia turca: il ciuvasco, nel
medio Volga, lo jakuto, che si parla nella Siberia orientale, l’uzbeco dell’Asia
centrale, e il turkmeno, il kirghiso, il kasako.
L’Europa, «melograno» di lingue. Ma anche babele, in specie se si guarda la
carta linguistica a Oriente, dove incontri lo sloveno, il serbocroato, poi
l’ungherese, i dialetti romeni, l’ucraino, e il russo, il bulgaro, il macedone,
l’albanese, il neogreco, il turco. In quell’area l’unica lingua romanza è il
romeno, parlato in Romania, in Bessarabia, in parte della Bucovina e del
Banato, in qualche villaggio della Bulgaria e dell’Ungheria, con diramazioni
dialettali nel moldavo (dov’è scritto però in caratteri cirillici arcaici). Accanto al
gruppo principale romeno, o meglio Dacoromeno, c’è poi un secondo gruppo,
il Macedorumeno (o Arumeno), parlato in Tessaglia, nell’Epiro, nella
Musacchia albanese, nella Macedonia ex jugoslava e in Bulgaria; e un terzo
gruppo, il Meglenorumeno, diffuso in una piccola area a nordovest di
Salonicco; infine l’Istrorumeno, parlato in Istria, poco lontano da Fiume. Un
intrico, una babele che si farebbe ancor più fitta se ci si inoltrasse nei Balcani,
luogo di differenti fedi ed etnie. In quel territorio abitarono gli Illiri (o Messapi o
Dauni), un popolo indoeuropeo menzionato dai classici, e a noi noto soltanto
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attraverso poche testimonianze epigrafiche rinvenute in Puglia e in Calabria,
perché li avevano fondato delle colonie.
Aggiornata il martedì 15 gennaio 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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