Ottobre_2015 - Su ali d`aquila

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Ottobre_2015 - Su ali d`aquila
donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO ottobre 2015 numero 39
Salvate
Per secoli, ma sarebbe più corretto dire per millenni, le donne sono
state giudicate dall’uso che facevano, o più spesso che altri
facevano, del loro corpo. Dal momento che per gli uomini la
sicurezza della paternità poteva essere data solo dalla fedeltà della
donna, dal suo mantenere la parola data, ogni comportamento che
poteva indurre dei sospetti in tal senso era duramente sanzionato.
Non solo veniva condannata la singola infrazione, ma ne derivava
una condanna complessiva della donna che l’aveva commessa, e
questa diventava da quel momento una donna perduta. Ciò
accadeva anche se l’infrazione alle leggi morali non era avvenuta
per scelta, ma per violenza. Il cristianesimo, anche su questa prassi
abituale, ha fatto la differenza: dal momento che, seguendo le
parole di Gesù, ciò che conta è l’intenzione, non si poteva più
condannare la donna che aveva subito violenza, ma la si doveva
aiutare. E l’aiuto doveva essere esteso anche alle peccatrici, perché il
peccato poteva sempre essere perdonato, come ha fatto Gesù nei
vangeli. Quindi l’affermarsi del cristianesimo avrebbe dovuto
significare la fine della condanna della donna colpevole, e affermare
la sua possibilità di accoglienza e di riscatto. Anche se in una
situazione di potere patriarcale questa possibilità non è mai stata
totale, né gratuita — pensiamo solo al discredito che, ancora qualche
decennio fa, gravava anche in ambienti cristiani sulle ragazze madri
— nella storia della Chiesa si sono moltiplicate le iniziative per
salvare le donne cadute. Monasteri per le convertite — quasi sempre
intitolati a Maria Maddalena — e convitti per ragazze madri, per le
ex-prostitute che volevano cambiare vita, hanno sempre fatto parte
delle comunità cristiane. L’attenzione e la carità con cui Gesù aveva
ascoltato e amato le prostitute — o comunque le donne che, come la
samaritana, avevano trasgredito per amore — non si potevano
mettere da parte neppure in società in cui il cristianesimo tendeva a
presentarsi come una morale rigida e indiscutibile. Ancora oggi, che
la rivoluzione sessuale ha spazzato via figure come quella della
ragazza madre, o della donna colpevole perché sessualmente
trasgressiva, rimane un disinteresse generalizzato verso le donne che
subiscono violenza nelle zone calde della terra, o che sono costrette
alla prostituzione. Sono troppe, sono difficili da sistemare — spesso
le stesse famiglie le rifiutano — e se non vogliono abortire hanno
anche il problema di generare figli del nemico. In queste situazioni
difficili, dolorose, drammatiche, è quasi solo la Chiesa, o meglio le
suore missionarie, a prendersi cura di loro e dei loro figli, e a offrire
loro una possibilità di riscatto. È una fatica gigantesca, ma che dà
buoni frutti e che contribuisce in modo determinante a trasformare
in meglio la condizione delle donne nel mondo. (lucetta scaraffia)
ma le nostre congregazioni con poco riescono a fare tanto. Ormai c’è una rete Talita Kum che coordina le suore dei Paesi
di origine, di transito e di destinazione
delle donne per sottrarle alla schiavitù.
Siete state sostenute nella vostra missione?
Per esempio siete riuscite a coinvolgere le congregazioni religiose maschili?
Per ora proprio no. Facciamo un’enorme fatica a far loro capire. Le persone
sensibili sono davvero poche. Eppure sarebbe importante: se non riusciamo a farle
lavorare con noi, non cambia la cultura di
fondo. E nelle parrocchie, nelle prediche
dei sacerdoti non c’è mai un accenno alla
realtà che noi cerchiamo di combattere.
Dicono che è un affare di donne. No, rispondo, è un affare di uomini. Se ci sono
nove milioni di richieste di prostituzione
ogni mese è una questione di uomini. E,
visto che siamo in Italia, di uomini cattolici. Il nostro lavoro futuro è diretto a coinvolgere le parrocchie, le diocesi, le conferenze episcopali. Ci auguriamo che l’8
febbraio, nella seconda giornata mondiale
contro la tratta, intervenga la concretezza
di Papa Francesco.
Dal 2013 vi recate al centro di accoglienza
di Ponte Galeria, a Roma: cosa riuscite a
fare per queste donne?
Un affare di uomini
A colloquio con suor Eugenia Bonetti, impegnata da vent’anni contro la tratta delle donne
di RITANNA ARMENI
Suor Eugenia Bonetti è un fiume in piena.
Parla della sua missione, dei suoi incontri
con «le donne della strada e della notte»
con la passione di chi a questa ha dedicato una vita e ne dedicherebbe anche un’altra, se fosse possibile. Nella sede
dell’Usmi, dove coordina le suore di diverse congregazioni che lottano contro la
Il 2 novembre 1993 a Torino conobbi Maria
prostituta nigeriana malata con tre bimbi
Lei ha capovolto la mia realtà missionaria
Dopo ho conosciute molte come lei
Schiave, distrutte, oggetti disprezzati
Sfruttate dai miei connazionali
che si dicono al novanta per cento cattolici
tratta e la schiavitù, racconta iniziative e
progetti con la freschezza e l’entusiasmo
di una giovane donna. Eppure ha alle
spalle decenni di lavoro, fatica e missione.
Da vent’anni si occupa della tratta delle
donne, di quella che Francesco ha definito la
schiavitù del ventunesimo secolo. Perché?
donne chiesa mondo
Non è una mia scelta, qualcuno l’ha fatta per me. Ho lavorato per molti anni in
Africa e le donne sono state le mie maestre. Da loro ho imparato l’accoglienza, la
gioia, la condivisione. Le donne africane
nella loro povertà materiale sono straordinarie. Quando sono tornata in Italia, sono
caduta in crisi. Mi sembrava di aver tradito la mia vocazione. Volevo tornare in
Africa finché alla Caritas di Torino, dove
lavoravo, ho fatto un incontro. Lo ricordo
bene: era il 2 novembre 1993 e ho conosciuto Maria, una donna nigeriana, una
prostituta malata con tre bambini, senza
documenti. Lei ha capovolto la mia realtà
missionaria, il modo di vivere la mia vocazione. Me l’ha mandata il Signore per farmi capire che la missione non era una
questione geografica. Maria mi ha aiutato
a entrare nel mondo della notte e della
strada. Dopo ho conosciuto molte donne
come lei: schiave, distrutte, oggetti disprezzati, usa e getta. Sfruttate dai miei
connazionali che si dicono al novanta per
cento cattolici. Ho capito che dovevo star
loro vicina. E loro, come Maria, attraverso
di noi suore hanno capito la diversità fra
chi le sfruttava e chi le aiutava senza pretendere niente in cambio.
È stato quindi l’incontro con una donna che
ha dato inizio alla sua missione?
Si è aperto un mondo nuovo. A contatto con queste donne ho cominciato a capire che non avevamo a che fare con la prostituzione, ma con una nuova schiavitù. In
quegli anni neppure la polizia sapeva della esistenza della tratta. Solo noi, alcune
religiose, abbiamo capito. C’erano in quegli anni a Torino tremila donne sulle strade che “servivano” cinque regioni diverse.
Ci siamo avvicinate e abbiamo fatto proposte concrete: lo studio della lingua, l’assistenza sanitaria, il lavoro. Ho fatto da
collegamento fra il nostro mondo e il loro,
la conoscenza della loro lingua e dei loro
Paesi mi ha facilitato.
Quale era in quegli anni il vostro problema
più grande?
Potevamo aiutarle, ma non potevamo
dare loro una legalità. I passaporti erano
in mano ai trafficanti. Loro si erano sottoposte ai riti vudù ed erano convinte che
quello che facevano era voluto dalle divinità, era per il bene delle loro famiglie. Se
non lo avessero fatto il loro spirito sarebbe
volato via. Dovevano pagare il loro debito
ai trafficanti e alle “madame”. Allora erano decine di milioni. Oggi sessanta o settantamila euro. Intanto si distruggevano
nel corpo e nell’anima.
Di fronte al grande
esodo di chi fugge
da guerra e fame, in
molti oggi parlano
della necessità di
accoglienza: per lei
che cosa è?
Sono passati venti anni. Oggi lei lavora con
250 persone di 80 diverse congregazioni. Il
lavoro contro la tratta ha fatto passi avanti.
Sì. Abbiamo fatto richiesta al governo
di riconoscere l’esistenza della schiavitù,
abbiamo fatto conoscere la realtà alle donne parlamentari, abbiamo ottenuto nel
1998 una legge che interviene sulla tratta.
La legge ha aperto una grande porta. Una
volta riconosciuta la tratta abbiamo potuto aprire case di accoglienza per le donne
che tentavano di liberarsi dalla schiavitù.
Nel 2000 mi sono trasferita a Roma per
coordinare il lavoro delle congregazioni
religiose che aprivano le case di accoglienza. Era l’anno del giubileo, volevamo lasciare un segno positivo, volevamo rompere davvero le catene, liberare le schiave. E
farlo subito proprio quell’anno. Per questo
13 congregazioni hanno aperto le porte dei
loro conventi a queste donne. E 250 religiose hanno cominciato il loro lavoro nelle case famiglia,
nei centri ascolto, nelle unità
di strada. Abbiamo capito
che dovevamo unire le nostre
forze. Tutti dovevano fare la
loro parte: il governo, la
Chiesa, le scuole, le famiglie,
i mass media.
Quello della prostituzione e della tratta è un mondo duro da
scalfire: molti sforzi e scarsi risultati. È stato così anche per
voi?
Una donna nigeriana
Vi andiamo tutti i sabati: lì incontriamo
la disperazione assoluta. Queste donne
non hanno niente, solo il letto nel quale
dormono, e non fanno niente dal mattino alla sera. Non hanno neppure una
stanza in cui stare insieme. Non sanno nulla del loro futuro. Facciamo
quello che possiamo: le mettiamo
in contatto con i Paesi d’origine,
cerchiamo di accoglierle nelle
nostre case. A volte ci sembra
di non combinare niente.
Qualcuno ce lo ha anche detto. Che andate a fare lì? Sa
che cosa ha risposto una
sorella? «Facciamo quello
che la Madonna ha fatto sotto la croce».
Non è riuscita a
cambiare
niente
ma è morta con
suo figlio.
Nel 2000 abbiamo dato alle congregazioni la possibilità
di vivere l’anno santo in modo concreto, abbiamo aperto
i nostri conventi. Da allora
sono state salvate più di seimila donne. Accolte e aiutate
psicologicamente e social-
Nata a Bubbiano (Milano) nel 1939, suor Eugenia
Bonetti entra ventenne tra le missionarie della
Consolata. Inviata in Kenya nel 1967, vi resta per
24 anni. Rientrata in Italia, vive prima a Torino e
poi a Roma, dove è nominata responsabile
dell’ufficio Tratta, donne e minori dell’Unione
superiore maggiori d’Italia (Usmi). Tra i tanti
premi, nel 2011 ha ricevuto il riconoscimento
Servitor pacis della Path to Peace Foundation della
missione permanente della Santa Sede presso le
Nazioni Unite.
mente. Abbiamo fatto ottenere loro documenti, permessi di soggiorno, passaporti.
Qual è oggi la situazione della tratta? Rispetto al 2000 sono stati fatti passi avanti o
c’è stato un arretramento?
C’è un dato negativo: la crisi economica
ha pesato sulle donne che sono riuscite a
tirarsi fuori dalla schiavitù. Sono le prime
a perdere il lavoro. Ed ecco che è entrata
in funzione la fantasia della carità. Per venire incontro a chi non ce la fa e non riesce più a vivere in Italia abbiamo fatto un
progetto di rimpatrio assistito e finanziato.
Abbiamo preso contatto con le suore del
Paese di origine. Abbiamo chiamato le sorelle nigeriane, abbiamo fatto conoscere la
situazione, i pericoli che le donne correvano. Dal 2013 abbiamo chiesto alla Caritas
fondi per un progetto. Alle ragazze nigeriane che tornano a casa, si pagano il
viaggio, l’affitto della casa per due anni, si
dà loro qualche risorsa per aprire un’attività. Cerchiamo di resistere; il governo ha
pochi fondi, molte onlus hanno chiuso,
Per me accogliere significa dare il
futuro a una donna, dirle che non è
sola, farle capire
che nella sua vita
possono
esserci
amore e gioia.
Quale è il rapporto
con la fede delle
donne che incontrate
sulla strada?
Le nigeriane, in
particolare, ci chiedono subito il rosario e la Bibbia. Si nutrono della parola di Dio, sono più religiose di noi. Vivono una terribile dicotomia. Maria mi diceva: ogni mattina prima
di lasciare il marciapiede chiedevo perdono al Signore. Sapevo che quel che facevo
era male ma sapevo anche che la sera sarei
tornata.
Tolstoj una volta ha detto: la prostituzione
c’era prima di Mosè e c’è stata dopo. Ci sarà
sempre. Non si può non constatare la verità
delle due prime affermazioni: che cosa risponde alla terza? Davvero ci sarà sempre la
prostituzione?
C’è la prostituzione volontaria e quella
forzata. Sono due cose diverse. Nella prima la donna usa il proprio corpo, ma la
seconda è schiavitù. Una donna nelle mani dei trafficanti arriva a quattromila prestazioni per pagare il suo debito. Alla fine
non è più lei. L’Africa non può permettersi di distruggere una generazione di donne. Se lo fa, muore un intero continente.
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Egon Schiele, «Ragazza seduta» (1917)
Lo sanno tutti nella zona
Il missionario italiano
è l’unico ad accogliere gli scarti umani che nessuno vuole
Troppo spesso corpi di donne, a volte bambine
denutriti e ridotti a una poltiglia di sangue
Sottoposti dal machismo a ogni genere di pratiche bestiali
Il racconto
di GUDRUN SAILER
La casa della speranza di padre Aldo Trento in Paraguay
overa Liza. Povera Paulina. Povera
Patricia. Tutte con le ali spezzate.
Botte, violenze domestiche, sevizie.
La via crucis ha tanti volti. E la lista dei loro nomi potrebbe continuare a lungo.
Del resto, in questi anni, la casa della speranza di padre Aldo Trento, missionario in Paraguay, è conosciuta per essere una specie di
porto di mare, un approdo sicuro dove trovare
rifugio. Quando la polizia non sa cosa fare,
alle prese con casi di violenza estrema, bussa
al portone di legno della parrocchia. Da un
muro di cinta di mattoncini rossi spuntano
ciuffi di piante. «Benvenuti, qui si confessa
ogni ora», c’è scritto.
Naturalmente i poliziotti non vanno da padre Aldo per confessarsi. Sanno che è l’unico
che accoglie gli scarti umani che nessuno vuole; troppo spesso corpi di donne ridotti a una
poltiglia di sangue, denutriti, sottoposti a ogni
genere di pratiche bestiali. Ragazzine dal vol-
P
Victoria e il suo bambino
to di bambine pestate a sangue. Perché non è
solo il racket della prostituzione a mietere vittime. Il machismo, deformazione culturale devastante, è parte sostanziale della società sudamericana.
Al sinodo straordinario sulla famiglia, lo
scorso autunno, sono risuonate nell’aula assembleare diverse testimonianze. Erano riflessioni angustiate sulla deriva di questo fenomeno endemico al quale la Chiesa si oppone con
forza e contribuisce a fermare. Cosa certamente non facile, visto che l’imprinting popolare
muta col tempo, di generazione in generazione, e così c’è bisogno di un costante impegno
a livello educativo e didattico, in parrocchia,
nelle scuole. In ogni caso serve determinazione e coraggio. Il silenzio non giova mai.
Povera Liza, povera Paulina, povera Maria.
Potrebbero essere nomi di fantasia, eppure
non lo sono. Le loro vite non sono invenzioni,
frutto di operazioni immaginarie. Disgraziatamente la realtà con la quale ci si scontra quando si mette piede nell’hospice di padre Aldo
fotografa uno spaccato impietoso di prepotenza. Il volto oscuro della famiglia.
Mariti brutali, padri orchi, padrigni
senza pietà.
E così nella struttura parrocchiale
del missionario italiano non solo
trovano riparo i malati terminali e i
bambini abbandonati, ma ritrovano
il sorriso anche le donne con le ali
spezzate. Alcune sono lungodegenti,
con patologie invalidanti riportate
dopo anni di sevizie.
In una stanza colpisce il
volto di cartapecora
di una anziana.
Sembra un cameo
del secolo scorso,
a un primo sguardo potrebbe essere
centenaria. Immobile, mantiene una
posizione
fissa,
quasi innaturale.
Mercedes, invece,
ha da poco compiuto cinquantaquattro anni. A
trasformarla
in
questo fagotto pelle e ossa sono state le botte. Tante.
Per anni, al punto
che l’hanno fatta
diventare autistica.
Dal suo mondo
inghiottito
nel
buio la donna capta solo una voce:
quella di padre Aldo. Quando le si
avvicina evocando
due parole sacre
per gli indios guaranì, lei spalanca
gli occhi: è come
se una chiave avesse aperto una memoria affievolita.
Mademoiselle Fifì
S
Il volto oscuro della famiglia
di FRANCA GIANSOLDATI
uor Lea Ackerman è la religiosa
più famosa in Germania. Da ormai
trent’anni lotta al fianco di donne
private dei loro diritti, cadute vittima della tratta e della prostituzione
forzata. È una donna dal carattere allegro e
combattivo, una «santa recalcitrante», come
è stata definita.
Lea nasce nella Saar nel 1933. Dopo aver
lavorato come bancaria, entra a far parte
dell’Ordine delle suore missionarie di Nostra
Signora d’Africa. Si laurea in pedagogia con
una tesi sull’educazione e la formazione in
Rwanda. A Mombasa, in Kenya, fonda nel
1985 il progetto Solwodi (Solidarity with women in distress), un’opera assistenziale per
donne coinvolte nella prostituzione. Oggi
Solwodi ha decine di centri in Africa e in
Germania.
La rivista femminista «Emma» una volta
l’ha definita una «suora infuriata»: cosa la fa
infuriare, le chiediamo. «L’incredibile ingiustizia e la brutalità nei confronti di donne e
bambini. Mi occupo di queste donne da
trent’anni e vedo che ne ricavano danni e
traumi, che sono ferite nel corpo e nell’anima, che hanno molte malattie. È mostruoso
che venga addirittura riconosciuta come una
professione e definita lavoro».
Suor Lea si sta riferendo alla legge del
2002 che ha completamente legalizzato la
prostituzione in Germania. Questa legge vale
per le donne che operano liberamente
nell’ambiente a luci rosse; la prostituzione
forzata, ovviamente, continua invece a essere
vietata. Ma è davvero possibile separare le
due cose? «In Germania, nove prostitute su
dieci vengono dall’estero», ci spiega. «Molte
non capiscono la nostra lingua e non conoscono nessuno a cui potersi rivolgere. Se
vengono accompagnate a lungo — per tre,
quattro o dieci anni — e aiutate a inserirsi, le
racconteranno tutta la loro storia. Attraverso
Solwodi ho incontrato migliaia di donne. In
trent’anni non ce n’è stata una che abbia detto: ho scelto io questa vita, è stata una mia
libera decisione».
Da molto tempo in Germania suor Lea è
la portavoce non ufficiale delle prostitute forzate e delle vittime della tratta. Ma cosa ha
fatto scattare la molla del suo impegno?
«Una volta visitai un carmelo nelle Filippine.
Davanti all’edificio c’era un tronco d’albero
nel quale era inciso a caratteri grandi: “D edicato ai sogni del Padre”. Ho chiesto alle carmelitane che cosa significasse quella scritta.
“Noi cristiani — mi hanno spiegato — crediamo che Dio è il creatore di tutti gli uomini,
padre e madre di tutti gli uomini. E noi carmelitane diciamo di voler essere l’amore nel
cuore di Dio; allora dobbiamo fare in modo
che i sogni si realizzino per tutti i suoi figli.
E ci sono figli di Dio, soprattutto figlie, che
sono figli di Dio privi di opportunità”. E sa
una cosa? Fu la mia seconda conversione.
Ero in convento già da vent’anni, ma in quel
momento pensai: giusto! Ho formato delle
insegnanti, donne che avevano già avuto
un’opportunità. Però ci sono figlie di Dio
prive di opportunità».
Poi è arrivata la fondazione di Solwodi nel
1985. «La mia comunità — racconta suor Lea
— mi ha mandato a Mombasa, in Kenya. Lì
ho visto masse di turisti del sesso. Una prostituta sedicenne mi disse: non sono giovane,
ho già un bambino di tre anni, ma là dietro,
nella stanzetta, c’è una ragazza di quattordici
anni, e ieri ha messo al mondo un bambino e
lo ha affogato nel gabinetto. Allora non si
può mettere alla gogna la ragazza, ma bisogna domandare: in quali situazioni finiscono
con il ritrovarsi quei bambini? Questi turisti
che possono permettersi di girare il mondo
arrivano a Mombasa, vedono la miseria e il
bisogno di queste donne e di questi bambini
e le comprano per pochi soldi per il loro meschino divertimento. Chiesi alle donne come
si sentivano. Mi hanno risposto con rabbia,
domandandomi a loro volta: pensa che sia
divertente andare con ogni cretino che passa?
Prendersi malattie? A volte avere soldi, altre
no? Allora per me fu chiaro: riflettiamo insie-
Margit Brandl, «Broken Dolls»
Mercedes si alza dal letto pronta ad accogliere
Il cammino da fare è in salita. Nulla è sconla benedizione con le mani giunte. Una donna tato. Al piano sottostante del centro parrocaccanto a lei osserva quello che accade. Padre chiale, nel grande salone pieno di giocattoli
Aldo sussurra altre parole di affetto. Le infer- colorati e mobili allegri, una decina di bambimiere si fanno in quattro per aiutare coloro ni si diverte. Alcuni di loro hanno solo pochi
che non sono più in
grado di essere autonome.
Apparentemente
sono tutte anziane, ma
Liza, Paulina, Patricia, Maria, Mercedes
chi può dirlo?
Tutte con le ali spezzate
Le botte che hanno
preso per anni, le hanper botte, violenze domestiche, sevizie
no sfigurate, invecchiaLa via crucis ha tanti volti
te, curvate. Padre Aldo
E la lista dei loro nomi
ha messo in piedi una
specie di welfare alterpotrebbe continuare molto a lungo
nativo. «Per noi europei il machismo è
qualcosa che non comprendiamo fino in fondo. Certo, abbiamo violenze, assistiamo a uc- mesi. Sono accuditi da cinque o sei ragazze
cisioni, ma non abbiamo una cultura maschili- che avranno sì e no una ventina d’anni.
sta così violenta e radicata. La Chiesa cattolica
In disparte c’è Liza, una adolescente paraè consapevole che bisogna difendere l’impor- lizzata, costretta su una carrozzina. Occhi netanza dell’uguaglianza tra uomo e donna, in- rissimi, capelli corvini, il suo sguardo è assensegnando il mutuo rispetto, la complementa- te. Anche lei con le ali spezzate. La sua storia
rietà dei ruoli».
ha commosso Papa Francesco quando si è re-
cato a fare visita al centro di don Aldo. La sua
è forse la vicenda più agghiacciante.
Liza è appena dodicenne, ma a vederla
sembra ancora più piccola. Per anni è stata
violentata dal padrigno che la lasciava senza
cibo, spegnendole le cicche delle sigarette sulle gambe, divertendosi a torturarla. Le cicatrici orrende non se ne andranno più. La polizia
l’ha trovata, grazie a una segnalazione, abbandonata in una casupola, nelle campagne circostanti, in condizioni indescrivibili. I suoi piedi
erano stati spezzati più volte ed è per questo
che non le sarà più possibile reggersi. Padre
Aldo l’ha accolta che non emetteva alcun suono, non apriva nemmeno gli occhi. Era incinta
di sei mesi, violentata dal padrigno. Oggi il
suo bambino, David, è un meraviglioso bebè
coccolato da alcune ragazze che si alternano a
fare le baby sitter. Ognuna di loro è portatrice
di altre storie legate al marciapiede, alla droga, al racket.
Un bambino di tre anni, Diego, corre felice
incontro al missionario e lo abbraccia. Gli
porge un giocattolo rotto. «Ora proviamo a
ripararlo». Come le ali da aggiustare di queste
donne. Un sorriso per ciascuna. Forse un
giorno torneranno a volare.
Ho incontrato migliaia di donne
In trent’anni non ce n’è stata una
che mi abbia detto:
ho scelto io questa vita
è stata una mia libera decisione
C’è una tendenza antica, nella letteratura
e nel cinema: quella di raccontare il
mondo della prostituzione in modo
romantico ed edulcorato. Uno scrittore
che segue, invece, un percorso ben diverso
è Guy de Maupassant, penna abilissima e
puntuta nel denunciare ipocrisie e
menzogne della borghesia francese del
suo tempo. E così, molti dei suoi racconti
hanno come protagoniste le prostitute, la
cui vita è ritratta in tutta la durezza,
l’umiliazione e l’emarginazione sociale
dovuta alla loro condizione. Tra le altre
storie dello scrittore che raffigurano, con
onestà, questo mondo, si distingue —
specialmente per il finale — Mademoiselle
Fifì, racconto pubblicato per la prima
volta nel 1882: tra le meschinità e
l’inutilità della guerra, le dissolutezze e le
vigliaccherie umane, si distingue Rachel,
la prostituta ebrea, il solo personaggio in
grado di incarnare l’onore francese, pur
nella sconfitta. Per una volta tanto, la
ragazza “perduta” si salva: e si salva
grazie alle sue coraggiose, e scomode,
scelte. (@GiuliGaleotti)
La grande rete di suor Lea
Il saggio
Dal 1985 il progetto Solwodi aiuta le donne vittime della tratta in Kenya e Germania
Lettere dalle case chiuse
me su quello che potreste fare di diverso.
All’epoca dissi al buon Dio: Voglio impegnarmi a favore di queste tue figlie prive di
opportunità, ma tu non abbandonarmi».
Dio non l’ha abbandonata. «Ho iniziato
con niente: non avevo nemmeno una macchina da scrivere. Oggi ci sono trentaquattro
consultori e centri di contatto in Kenya e diciassette in Germania, più sette case protette
per donne e bambini che vivono in situazioni
di violenza».
Qual è oggi in Europa l’esempio classico
della tratta? «Per la maggior parte le donne
arrivano qui attirate da false promesse. Una
di loro mi ha raccontato così la sua storia:
“Vivevamo in un Paese dell’Europa dell’est;
papà e mamma avevano un lavoro, i soldi
erano molto scarsi, ma ho ricevuto una formazione”. Poi il padre ebbe un infarto e la
Non possiamo limitarci a dire
«che brutta cosa quella che fai»
Dobbiamo cercare
con tutte le forze delle alternative
per ognuna di loro
madre iniziò a bere, non c’erano soldi per le
medicine, tutti hanno guardato a lei. In quella situazione ha letto un annuncio: tre mesi
in Germania, tremila euro. Aveva intuito che
si trattava di prostituzione. Ma ha pensato:
per tre mesi resisto, così posso aiutare i miei
genitori. In Germania è stata violentata già
la prima sera. Non aveva più il passaporto,
non sapeva in che città si trovasse, non conosceva la lingua. Fu portata in un postribolo.
Lì ha visto come una donna, che voleva tirarsi indietro, è stata trascinata giù dalle scale
per i capelli ed è stata violentata con una
bottiglia rotta. Questo doveva servire a mostrarle che cosa sarebbe accaduto se fosse
scappata. E io le ho domandato: liberamente? Fino a che punto, liberamente?».
Le religiose cattoliche combattono in prima linea contro la tratta e contro la prostituzione forzata. Negli ultimi anni sono nate
anche delle reti, come Renate o Talitha
Kum. Nella società civile, chiedo a suor Lea,
vede anche altri che si preoccupano allo stesso modo delle vittime della prostituzione forzata? «Ci sono gruppi femminili, spesso della nicchia di sinistra, che, come noi, sono
contrari alla prostituzione e al suo riconoscimento come professione. Tuttavia ciò che
fanno le religiose e le reti va oltre all’attività
lobbistica ed è un’azione concreta. Aiutiamo
le donne a trovare un mestiere, ad avere spazi protetti, a prendersi cura dei figli. Il mio
principio è: non possiamo dire “oh, che brutta cosa quella che fai”, e limitarci a questo.
Dobbiamo cercare con tutte le forze delle alternative per ognuna di queste donne».
Quali sono le radici dell’impegno, in
particolare delle religiose cattoliche,
contro la tratta? «Le religiose si sono
occupate da sempre di situazioni drammatiche o di carenze nella società. La
formazione delle ragazze è iniziata con
le religiose. Per secoli gli ospedali sono
esistiti perché le religiose vi si sono gettate a capofitto. Esistiamo per iniziare a
edificare già qui e adesso il Regno di
Dio. Gesù è di tutti coloro che sono
nel bisogno. Ero nudo e mi hai vestito.
Ero carcerato e sei venuto a trovarmi. Il nostro compito è di individuare questa miseria
nelle sue forme sempre nuove e di attenuarla».
A causa di questo tipo di miseria anche lei
ha preso in affidamento alcuni bambini, insieme con il padre pallottino Fritz Köster, con il
quale per decenni, fino alla sua morte avvenuta due anni fa, ha abitato in comunione celibataria in una casa parrocchiale. «Spesso abbiamo ospitato donne che volevano proseguire
la loro formazione, ma che avevano appena
avuto dei bambini. Allora abbiamo cercato dei
genitori affidatari, e per quattro bambini siamo diventati noi stessi i genitori affidatari.
Oggi questi bambini hanno tutti dai 25 ai 27
anni, tutti hanno seguito la loro strada, e lo
stesso hanno fatto le loro madri. A Natale e a
Pasqua avevamo sempre una casa piena, con
almeno venti persone, le madri, altre donne
con bambini. Era così bello! È questa la comunione cristiana. Vorrei che fossero molte di
più le case parrocchiali aperte a questo servizio. È stato un vero dono». E una forma particolare di vita religiosa.
Cosa significa oggi per lei il tempo passato
con padre Köster? «È stato meraviglioso. Ci
siamo rafforzati reciprocamente nel nostro rispettivo impegno religioso. Padre Köster era
professore di teologia, riflessivo, aperto al
mondo, un uomo buono, molto amato anche
dai più piccoli. Per molti, e non solo per me
e per i bambini, era una persona che sapeva
veramente rispettare gli altri. Una donna mi
disse una volta che le aveva restituito la sua
dignità. Padre Köster mi ha aiutata a costruire Solwodi. Si è impegnato fin dal primo
istante».
Una convivenza celibataria mista tra una
religiosa e un religioso: i superiori religiosi o
i vescovi non hanno mai sollevato delle obiezioni disciplinari? «No, mai. Della nostra
forma di vita sono per così dire stati testimoni anche i bambini che avevamo in affidamento. Avrebbero visto, una volta cresciuti,
se non ci fossimo comportati l’una con l’altro
come suora e sacerdote. Si sarebbero trovati
in una comunità di menzogne, nella quale
molte cose avvenivano di nascosto. Invece è
stato proprio il contrario. Avevamo una casa
apertissima. Tutti potevano venire. Venite e
vedete! È stato proprio questo a rendere sin
dall’inizio tanto attraente il cristianesimo».
La fondatrice di Solwodi ha 78 anni: da
dove prende la forza per portare avanti il suo
impegno oggi? «Sicuramente sono di salute
robusta», risponde. «Naturalmente mi chiedo quanto potrà ancora durare. Allora sorgono anche le domande e qualche volta il dubbio se quello che credo è tutto vero. E poi
chiedo subito scusa e dico: caro Dio, perdonami. Quando guardo a tutto ciò che è nato
dal nulla, senza nemmeno sapere come è nato, allora posso solo dire che da sola non ce
l’avrei mai fatta. Poteva essere fatto solo con
l’aiuto di Dio».
La senatrice Lina Merlin, insieme con
Carla Barberis, per sostenere la sua
proposta di legge a favore dell’abolizione
delle case chiuse, decise di pubblicare
(Lettere dalle case chiuse, Milano-Roma,
Edizioni Avanti, 1955) le lettere che aveva
ricevuto dalle prostitute, quasi tutte
favorevoli all’abolizione e soprattutto alla
fine di una prassi che le inchiodava a
questo destino, cioè la schedatura da parte
della polizia, che impediva loro di rifarsi
una vita onesta. Le lettere testimoniano
vicende penose, donne sopraffatte dalla
miseria o dalla prepotenza dei parenti,
interessati solo a sfruttarle. Quasi tutte
intensamente legate a un figlio o a una
figlia che hanno dovuto affidare a delle
famiglie a cui devono passare una parte
cospicua del loro salario, e sognano solo
di poter condurre una vita onesta per
riavere con sé il bambino. «Ci salvi tutte,
onorevole, e che più nessuna ragazza entri
in queste case come ci sono entrata io e
che nessuna debba più essere sfruttata da
nessuno e minacciata anche dalla polizia»
conclude in modo eloquente una ragazza.
Peccato però che anche la chiusura delle
case non sia bastata a porre fine allo
sfruttamento. (@LuceScaraffia)
Il film
La bella gente
Susanna, psicologa cinquantenne, lavora
con donne maltrattate: per questo,
quando sulla strada che porta alla sua
casa di campagna vede una giovanissima
prostituta malmenata da un uomo, non
può restare con le mani in mano.
Convinto (a fatica) il marito, la prende in
casa, per “salvarla”. All’inizio la ragazzina
Nadya è terrorizzata, ma piano piano
inizia a fidarsi della coppia. Tutto sembra
procedere per il
meglio, finché
qualcosa viene a
turbare i (falsi)
equilibri familiari
dei salvatori. La
metamorfosi di
Susanna è
strisciante e
crudele: perché
Nadya non si limita
a essere il gattino
riconoscente capace
solo a dire grazie
ogni secondo?
Perché ha
sentimenti e
speranze come qualsiasi ragazzina della
sua età? Susanna resta travolta da quella
che lei percepisce essere una inaccettabile
confusione di piani: la vita della sua
famiglia e la vita di Nadya. E così, la sola
soluzione che le resta è di riportare la
ragazzina — “arricchita” di una busta di
soldi — là dove è stata trovata. La forza
del film La bella gente (2009) di Ivano De
Matteo sta tutta nella dura
verosimiglianza della involuzione che
racconta. Susanna e suo marito sono
molti di noi, quando entriamo — per
sentirci gratificati — nella vita del
prossimo bisognoso, incapaci di gesti di
vera gratuità. E capacissimi, invece, di fare
così davvero male. (@GiuliGaleotti)
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RITROVATA
LA TOMBA DI
MARIANELA GARCÍA VILLAS
È il 13 marzo 1983 quando, a soli 34 anni, Marianela
García Villas viene torturata e uccisa, tre anni dopo
l’omicidio dell’arcivescovo con cui la giovane aveva
condiviso battaglie e speranze. Come Romero e altre
centinaia di migliaia di persone, anche lei vittima del
sanguinario regime che resse a lungo il Paese. Nata a El
Salvador nel 1948, fin dall’adolescenza Marianela, figlia
della ricca borghesia, resta scossa dalle ingiustizie sociali.
Durante l’università (si laureerà in legge) entra a far parte
dell’Azione cattolica e si forma discutendo i documenti
del Concilio e di Medellín e analizzando i testi sulla
teologia della liberazione. Allo studio affianca presto la
militanza nella Democrazia cristiana, mentre inizia
l’immedesimazione con gli ultimi. Nel 1974 entra in
Parlamento grazie al sostegno delle donne dei mercati,
madri e mogli di periferia che l’hanno vista combattere in
tribunale per difendere, da avvocato, i loro uomini e i
loro diritti. Più tardi comincia a visitare le famiglie che
abitano nelle zone più difficili. Ma l’impegno che più le
assorbe le energie è quello svolto come presidente della
Commissione per i diritti umani di El Salvador, una
realtà fondamentale per conoscere la verità sulla storia
contemporanea del Paese. Estromessa dal partito,
Marianela comincia a immortalare con la sua macchina
fotografica il volto più crudele del regime, raccogliendo
immagini di cadaveri abbandonati sul ciglio della strada o
ritrovati sotto terra dopo giorni di ricerca, devastati dalle
torture. Le foto servono a dare risposte alla disperazione
dei familiari e documentare un orrore che ha la pretesa di
negare l’evidenza. Fu lei la vittima civile numero 43337, e
per molto tempo, anche dopo la sua uccisione, la
dittatura ha continuato a definirla guerrigliera sovversiva,
mentre l’abogada del pueblo, anche sulla scelta della non
violenza, era in assoluta sintonia con Romero. Se il
mondo negli anni è venuto piano piano a conoscenza
della vera storia di questa ragazza, ora un nuovo tassello
è venuto ad aggiungersi: l’associazione Marianela García
Villas di Sommariva del Bosco (Cuneo) è stata infatti
capace di individuare la tomba della giovane martire,
ritrovata nel cimitero principale di San Salvador, in una
cappella chiusa da una cancellata, che reca l’iscrizione
Beneficiencia española (il padre, infatti, era spagnolo).
«Finalmente — ha commentato l’associazione — sarà
possibile per chiunque portare un fiore sulla sua tomba».
PERD ONO
IN CAMBIO DI VERITÀ
«Siamo disposte a perdonare gli assassini, chiunque essi
siano e qualsiasi crimine abbiano commesso contro i
nostri cari, pur di conoscere la verità su quello che è
accaduto ai nostri mariti, figli, fratelli e sorelle». Così
hanno dichiarato una trentina di donne e vedove
musulmane di etnia tamil, durante un incontro a
Negombo, centro a circa quaranta chilometri dalla
capitale dello Sri Lanka. Il raduno, ha raccontato Melani
Manel Perera di Asia News, è stato organizzato
dall’associazione Families of the Disappeared (Fod), che
fornisce assistenza ai parenti delle vittime della guerra
civile che ha insanguinato il Paese dal 1983 al 2009. «Non
ci interessa punire chi ha fatto loro del male, vogliamo
solo che tornino a casa. Vogliamo sapere cosa è successo
loro e dove si trovano». Da quando si è concluso il
conflitto civile che ha visto opposti, con reciproca
crudeltà, l’esercito regolare e i ribelli delle Tigri Tamil, è
la prima volta che le famiglie delle vittime e delle persone
scomparse manifestano pubblicamente la loro
disponibilità a perdonare gli aguzzini. Durante l’incontro,
le donne hanno lanciato un appello alle autorità di
Colombo, che di recente hanno riconsegnato dei terreni a
tamil sfollati: «Diteci la verità. Se sono rinchiusi nei
campi di detenzione, per favore rilasciateli. Non vogliamo
sapere dove siano i campi, vogliamo solo che tornino a
casa. E se li avete uccisi, diteci quando e perché.
Abbiamo il diritto di sapere». L’incontro è stato
occasione per condividere le ricerche delle persone
scomparse: le famiglie delle vittime non si limitano a
ricercare nelle province del Paese dove si è concentrato il
conflitto, ma hanno allargato il campo di azione a tutta
l’isola, nella speranza di ottenere risposte. Le donne sono
convinte che occhio per occhio, dente per dente in
risposta alle offese ricevute non dia risultati: «Per questo
dobbiamo perdonare e ottenere giustizia subito. Ormai
abbiamo passato fin troppo tempo a manifestare,
protestare e marciare in cerca dei nostri parenti». Brito
Fernando, presidente del Fod, aggiunge che l’associazione
continuerà a fornire sostegno ai parenti degli scomparsi:
«Li sosterremo anche nei processi. Abbiamo bisogno di
andare avanti con un nuovo atteggiamento positivo.
Dobbiamo utilizzare la non violenza per raggiungere i
nostri obiettivi».
L’AIUOLA
DI
ILDEGARDA
Un’aiuola organizzata secondo il concetto di viriditas del
dottore della Chiesa Ildegarda di Bingen (1098-1179): è
questo il fiore all’occhiello di un nuovo orto botanico
nato sulle colline vicino a Firenze, nella Pieve di
Sant’Andrea a Doccia. «L’aiuola è a spirale», spiega
Paolo Luzzi, curatore dell’Orto botanico del Museo di
Mensile dell’Osservatore Romano
ottobre 2015 numero 39
A cura di LUCETTA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTI
Redazione: RITANNA ARMENI, CATHERINE AUBIN, RITA MBOSHU KONGO, SILVINA PÉREZ
(www.osservatoreromano.va, per abbonamenti: [email protected])
Storia naturale di Firenze, «per suggerire l’idea della
tensione verso l’alto e verso Dio. Le piante inserite sono
piante aromatiche utili come medicine o condimento in
cucina ma utili anche per l’anima, piante da meditazione
e riflessione. All’aiuola si accede passando attraverso due
alberi-simbolo: un fico, simbolo del peccato originale
perdonato da Cristo tramite Maria, che con il suo sì ha
riscattato l’umanità; e un ulivo, simbolo di Gesù, unto
del Signore. Dopo i due alberi, Maria continua
ad accompagnarci con alcune rose bianche simbolo della
sua purezza verso due melograni, simboli della Chiesa, e
quindi all’aiuola di Ildegarda circondata da una corona di
margherite, simbolo del Paradiso terrestre riconquistato».
RAZIA,
PAKISTANA E CRISTIANA, SALVATA DALLA POVERTÀ
Su AsiaNews, Shafique Khokhar racconta la storia di
Razia Irshad, 46 anni e 7 figli, che vive nella campagna
di Tehsil Samundri, in Pakistan. Il marito era l’unico a
lavorare, ma i soldi erano pochi e per i bimbi la scuola
restava un miraggio. Poi, due anni fa, Razia ha ottenuto
un piccolo prestito da Award (Association for Women’s
Awareness and Rural Development) che promuove lo
sviluppo delle aree rurali del Paese, e tutto è cambiato:
«Con quei soldi — racconta — ho comprato semi e
fertilizzanti e il mio lavoro continua ad andare avanti.
Anche se lo scorso anno abbiamo dovuto affrontare gravi
perdite nel raccolto a causa delle forti piogge, questo non
ci ha scoraggiato ma ci ha spinto a lottare. Ora vivo una
vita felice insieme alla mia famiglia e le persone mi
stimano». L’inizio non è stato facile: la famiglia e il
vicinato disapprovavano la decisione, troppo libera per
una società conservatrice come quella pakistana. Solo il
marito l’ha sempre sostenuta e alla lunga la coppia ha
avuto ragione: oggi Razia ha guadagnato il rispetto della
comunità e viene considerata una «donna coraggiosa».
Dopo aver partecipato a diversi corsi di formazione
organizzati da Award Pakistan, oggi gestisce un negozio e
coltiva verdure su due acri di terreno. Riesce a
risparmiare circa duemila rupie pakistane al giorno (17
euro) e sta cercando di comprare un terreno più grande.
Il marito racconta la gioia di coltivare un terreno di
proprietà: «Ora viviamo una vita dignitosa. Sono
orgoglioso di mia moglie che ha lavorato duro per lo
sviluppo della nostra casa. Grazie al suo lavoro, stiamo
consolidando la nostra posizione sociale e riusciamo a far
studiare i bambini. Mi auguro che altre donne seguano il
suo esempio e contribuiscano a rendere prospera la
società pakistana». Christina Peter, direttore di Award
Pakistan, riferisce che altre trenta donne hanno ricevuto
prestiti. «Ringrazio Award — conclude Razia — per il
sostegno che mi ha dato e ancora di più Gesù Cristo, per
la forza e il coraggio».
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne
Non mento mai
Una scena del film «Grbavica. Il segreto di Esma» (2006) di Jasmina Žbani
Reparata, santa del mese, raccontata da Daria Bignardi
A vent’anni dalla fine della guerra nella ex Jugoslavia
Quando l’orrore
incontra l’ascolto
di NICOLE JANIGRO
uò capitare quando meno te lo aspetti, per strada o al bar,
in coda o in un negozio. Vent’anni dopo gli accordi di Dayton (14 dicembre 1995), che sanciscono la fine della guerra
in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, è ancora possibile che la
vittima di stupro incontri per caso il proprio carnefice.
Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aia
ha trasferito le sue competenze ai tribunali locali, ma questi faticano ancora oggi a condannare i colpevoli, e alle vittime non è
sempre facile chiedere il sostegno economico a cui hanno diritto.
La violenza sessuale è un crimine che i politici sono abili nello
sfruttare, ma per chi l’ha vissuta è un processo infinito da elaborare. In molte realtà pubbliche e private lo stupro rimane un tabù, è
la parola della vergogna, quella che fa tenere gli occhi bassi, una
violenza che nella mente non si cancella.
Un crimine antico che si ripresenta in ogni guerra, ma in quelle
inter-jugoslave di fine Novecento assume caratteristiche particolari: è una costante bellica di cui nessuna delle parti — croata, serba,
bosniaca — può dirsi innocente, ma diventa un’arma di guerra
delle operazioni di “pulizia etnica” in Bosnia ed Erzegovina. Qui
il corpo delle donne è stato il campo di battaglia su cui lasciare
l’impronta. Migliaia di “stupri etnici” hanno avuto uno scopo
strategico: sradicare le basi fondanti della comunità dell’avversario. Perché non si torna in un villaggio nel quale sono state violentate le donne; e questa è stata anche una guerra di villaggi, rimasti poi spesso deserti.
Il termine stupro etnico mette in secondo piano l’individuo, che
sia uomo (meno diffusa, ma presente anche la violenza sessuale
nei confronti dei maschi) o donna. Inchioda alla nazionalità, non
concede possibilità di scelta al singolo — uno dei presupposti e
degli obiettivi del conflitto — rende difficile anche la comunicazione tra le diverse associazioni femminili. Perché, se parlo di “stupro” metto l’accento sul fattore donna, e quindi sulle donne
all’universale, se aggiungo “etnico” conta la nazionalità: croata,
serba, bosniaca, albanese. Lo stupro di massa non è stato una
conseguenza dell’ebbrezza da vittoria, come per i soldati russi che
liberano Berlino, si è trattato di un “crimine premeditato”, deciso
a freddo e spesso imposto anche a chi lo ha compiuto. In mille
villaggi bosniaci si ripete sempre lo stesso copione: arriva la milizia serba, gli uomini vengono immediatamente uccisi, deportati o
costretti alla fuga. Lo stesso accade alle donne che vengono però
in gran parte imprigionate in luoghi segreti: case, alberghi, prefabbricati, scuole trasformate in bordelli del guerriero (così suona il
titolo di un testo del filosofo e antropologo belgradese Ivan Čolović) dove, nell’estate del 1992, le violenze avvengono in maniera
prolungata e continuata. Qui, un crimine che colpisce l’intimità e
il privato, avviene in pubblico, alla presenza di spettatori-testimoni, dove più del 90 per cento delle donne conosce chi le sta violentando e dove la vittima e il carnefice parlano la stessa lingua.
Considerate il “nemico riproduttivo”, le donne prigioniere sono
state volutamente ingravidate. Un ulteriore oltraggio per segnare
la conquista del territorio, per inseguire una purezza etnica che
riesce a produrre il paradosso di un figlio misto. Molte donne
verranno uccise, muoiono durante le violenze, si tolgono la vita.
Un numero altissimo si ritrova incinta di fronte a un dilemma tragico. Il film Grbavica. Il segreto di Esma (2006) di Jasmina Žbani,
ambientato a Sarajevo, parla del rapporto di una donna con la figlia adolescente alla quale, a un certo punto, questa madre racconterà, o meglio confesserà, chi è il padre e come è stata concepita. Una storia che riesce ad affrontare in modo non didascalico
l’ambivalenza della situazione che pone la vittima in bilico: tra il
bisogno d’intervenire e denunciare e il desiderio di mantenere il
segreto e di tacere.
Eppure, c’è un momento in cui l’Orrore incontra l’Ascolto e la
barbarie incrocia sulla sua strada la modernità. Donne di ogni età
e condizione, donne in fuga da sperduti e minuscoli villaggi della
Bosnia, parlano, raccontano, testimoniano. In molti casi lo faranno una volta sola e poi mai più. Nei campi profughi alle porte
delle città, nelle stazioni ferroviarie trasformate in bivacchi, spesso
in transito dal luogo di prigionia verso l’ignoto dell’esilio incontrano altre donne pronte ad accoglierle. Donne di Lubiana, Zagabria, Belgrado, Sarajevo, Tuzla e Mostar, cresciute in realtà urbane dove esistevano telefoni SOS per la violenza contro le donne,
case per le donne maltrattate, reti di salvataggio e di solidarietà
femminili e femministe. Insieme a molte altre, giornaliste, psicologhe, questi gruppi di attiviste, proprio perché già formate
all’ascolto di un trauma come lo stupro, hanno reso possibile che
lo shock e lo sconvolgimento trovassero, in tempo quasi reale, le
“parole per dirlo”.
Un’esperienza unica che ha permesso di raccogliere un materiale immenso. Il resoconto orale è diventato stenogramma, testimonianza essenziale per il lavoro del Tribunale dell’Aia. La comunicazione orale si è poi spesso trasformata in testo scritto: un’antropologia della sofferenza che continua a raccontarsi. Un materiale
che pone interrogativi e riflessioni sulla particolarità del caso jugoslavo. Come conciliare una realtà di emancipazione e libertà
femminile, ormai consolidata, con gli “eccessi di violenza” e la
crudeltà che colpiscono il “sesso più bello”? In questo conflitto,
diversamente da quanto era accaduto in Jugoslavia, ma non solo,
durante la Resistenza, la parte femminile della popolazione non
ha vissuto alcun momento di emancipazione in prossimità delle
battaglie (il fenomeno delle volontarie arruolate appare poco significativo). Anzi, i processi sociali e politici che hanno accompagnato gli avvenimenti bellici hanno reso dappertutto più precaria
e marginale la condizione della parte femminile della popolazione. Che la guerra ha fatto diventare il capro espiatorio dello scontro, tuttora latente, tra campagna e città, modernisti e tradizionalisti.
Il caso jugoslavo ha influenzato il diritto internazionale. Il 20
giugno 2008 il Consiglio di sicurezza dell’Onu vota all’unanimità
una mozione che riconosce lo stupro come arma di guerra. Lo dichiara una forma di schiavitù e, come tale, crimine contro l’umanità.
P
nnunziata non voleva lasciare la Palestina, per questo
abbiamo ritardato la partenza, mentre Onorata, Immacolata, Consolata, Fortunata
e Addolorata hanno accettato subito: loro mi ascoltano sempre, anche se sono la
sorella più piccola. Consolata mi chiama
«la nostra piccola stella» e dice che
quando sono nata io c’era una cometa,
nel cielo di Palestina, più piccola di
quella di quando è nato Gesù ma c’era
— dice — anche se nessuna delle altre sorelle se la ricorda.
Onorata è più pratica: ha capito subito che umiliarci pubblicamente era quel
che serviva all’imperatore, e si è data da
fare per partire in fretta. Ha preparato
focacce azzime, un piccolo vaso d’olio, i
calzari buoni, le vesti e quel poco d’oro
che ci hanno lasciato i nostri nobili genitori.
Immacolata non vedeva l’ora di portare per il mondo la Parola, Addolorata
invece aveva paura. Fortunata non credeva che Decio avrebbe fatto quel che
annunciava, ma sentiva che il nostro
tempo a Cesarea era finito da quando i
nostri genitori sono morti. Lei lo aveva
detto allora che dovevamo partire: Fortunata sente le cose prima che avvengano, ma se non la ascolti subito non le ripete.
L’imperatore parlava ai peggiori istinti, sperava di restaurare il suo potere
perseguitando noi cristiani, ma è finito
peggio di noi.
Gli ignoranti sono tanti, povera gente
che ha paura. Bisogna aver conosciuto
l’amore, per saperlo dare e ricevere, e io
ho solo pena per chi non crede in quello
di Cristo. La chiamano pax deorum ma a
Gaio Messio Quinto Traiano Decio non
importava nulla di Giove e Marte o di
Diana e Giunone: lui voleva il potere in
terra, meschino, pur di non perderlo era
capace di ogni crimine. Pensare che era
uomo di aristocrazia, non come l’Arabo,
eppure lo straniero Filippo è stato meno
crudele di lui.
Ma farmi uccidere non gli è servito a
niente: Decio è morto poche settimane
A
Sono sempre rimasta qui
nella terra gialla di Palestina
E qui resterò fino alla risurrezione
Ho visto tante bimbe assassinate da allora
in questa terra dolorosa e santa
Molte erano anche più piccole di me
che avevo già compiuto dodici anni
dopo di me. I goti volevano restituire il
bottino e andarsene, ma lui si era messo
in testa di distruggerli. Così, nella battaglia di Abrittus, ha perso non solo la vita e l’impero, ma anche la discendenza,
il figlio Erennio Etrusco, trafitto da una
freccia.
Dicono che alla notizia della morte di
Erennio, per rincuorare i soldati, Decio
abbia detto «nessuno sia triste, la perdita di un solo uomo non deve intaccare
le forze della Repubblica», ma poi si sia
scagliato contro il nemico cercando vendetta, forse la morte. Ed è stata la prima
volta che un imperatore romano è caduto per mano di un nemico straniero.
Onorata è riuscita a scappare con le
altre sorelle: avevo detto a tutte che ci
saremmo incontrate all’Orto grande, sotto al fico, all’alba. Credevo davvero di
riuscire ad andarci, non ho mentito, non
mento mai. Mentre mi picchiavano mi
hanno rinfacciato anche quello, dicevano che ero superba, presuntuosa, e ridevano. Ora che sono morta posso ammetterlo: il dolore è osceno.
Non la morte: si comincia a morire
nel momento in cui si nasce, la morte è
santa e naturale come la vita, ma vivere
cinque o cinquant’anni in più o in meno
non cambia nulla, di fronte all’eternità.
La tortura è orribile e umiliante: avrei
fatto qualunque cosa perché smettessero,
tranne che rinnegare Dio o tradire le sorelle. Fingevano di essere arrabbiati perché non onoravo gli Dei Consenti ma io
sapevo che volevano solo dimostrare al
popolo la forza di Decio.
Uno mi picchiava con un tralcio di vite. L’altro mi strizzava i seni. Per fortuna il terzo soldato mi ha tramortita con
un colpo di clava, quello che mi ha ucciso. Credo l’abbia fatto per pietà, aveva
uno sguardo diverso dagli altri, più triste.
Qualcuno ha raccontato che mi hanno tagliato la testa e hanno messo il mio
corpo su una barca, e che gli angeli
l’hanno portato a Nizza. La faccenda
della testa è vera, quella della barca no,
o almeno non era il mio, quel cadavere
nella barca. Non mi hanno portata in
nessuno dei luoghi che hanno detto, né
a Nizza, né ad Atri, né a Teano: sono
sempre rimasta qui, nella terra gialla di
Palestina, e qui resterò fino al giorno
della risurrezione. Ho visto tante bambine assassinate da allora, in questa terra
dolorosa e santa, molte erano anche più
piccole di me, che avevo già compiuto i
dodici anni.
E ancora, come allora, fingono di uccidere in nome di Dio. Peggio fa chi si
uccide e uccide invocando il Dio che
non esiste, pensando al paradiso che
non c’è: solo Cristo ci ama davvero, oggi come allora.
Per fortuna tutte le mie sorelle hanno
portato nel mondo la parola di Gesù, fino in Italia e in Francia. È questa la mia
consolazione, non il martirio, no. Il
martirio è inutile.
Nessuna di loro è mai più tornata in
Palestina, solo io, Reparata, sono rimasta qui, polvere in questa terra e tra queste pietre che da quasi duemila anni sono la mia tomba.
Giornalista
soprattutto
televisiva — da
circa dieci anni
conduce «Le
invasioni
barbariche» su
La7 — D aria
Bignardi (1961)
è autrice di
diversi libri
tradotti in
varie lingue,
tra cui Non vi
lascerò orfani
(2009),
L’acustica
perfetta (2012),
L’amore che ti
meriti (2014),
Santa degli
impossibili
(2015).
Andrea Pisano, «Santa Reparata»
(Museo dell’Opera del Duomo, Firenze)
Foto di Marco Aime
di PHILOMENA N. MWAURA
L
donne chiesa mondo
ottobre 2015
La famiglia in Africa
dell’età, del sesso e dello status sociale. Le
norme culturali, sociali e morali della
comunità, che venivano applicate nella
famiglia allargata, aiutavano l’individuo a
diventare un membro produttivo e rispettato
della comunità. Quelle norme fungevano per
lui da progetto di vita. La famiglia allargata
era — ed è — anche la prima comunità
religiosa di appartenenza dell’individuo. Era
attraverso i genitori, i nonni e altri membri
che si imparava a conoscere l’eredità religiosa
e spirituale. Era lì che probabilmente si
veniva a conoscenza di Dio, degli spiriti, degli
antenati e della vita dopo la morte. La
famiglia allargata era ed è anche un mezzo di
sostegno reciproco. Il principio che guida le
relazioni è quello dell’ubuntu, ovvero “tu sei
perché noi siamo”, e così la famiglia allargata
diventa un mezzo di sostegno sociale,
psicologico, morale, materiale e spirituale nel
bene e nel male. La società africana ha
vissuto grandissimi cambiamenti in ogni
aspetto della vita, compresi la struttura della
famiglia e il matrimonio. Vorrei citarne solo
alcuni che, dal mio punto di vista, sono
attinenti al tema. I cambiamenti nella
struttura della famiglia rispecchiano le
tensioni continue tra i valori e le strutture
tradizionali, cristiani o religiosi e quelli
moderni. Sebbene si senta spesso parlare di
famiglie che abbandonano usanze tradizionali
fondamentali a favore di quelle moderne, la
tendenza principale continua a essere il
matrimonio e la creazione di
un’organizzazione familiare, facendo
riferimento alle norme sia tradizionali sia
moderne. La caratteristica dominante delle
famiglie africane è la capacità di “trasformare
le cose vecchie in nuove” e di continuare ad
attingere nuove soluzioni dalle risorse
tradizionali delle istituzioni familiari.
Pertanto, la tendenza verso la modernità è
stata implicata nella trasformazione graduale
del matrimonio e dell’organizzazione familiare
africana, che si allontana dalla parentela
corporata e dalle famiglie allargate per andare
verso le famiglie nucleari, specialmente nelle
aree urbane e tra le persone istruite. Tale
cambiamento deriva in parte dal crollo dei
sistemi collettivi di produzione e riproduzione
orientati alla parentela. Malgrado le
differenze interne tra gli ambienti urbani e
quelli rurali e tra le regioni africane, i lenti
tassi di crescita economica e la mancata
l’autrice
a famiglia in Africa è
un’istituzione complessa ed è
impossibile descriverla senza
cadere nelle trappole delle
generalizzazioni e del
riduzionismo. A ogni modo, in
Africa la famiglia è l’unità
sociale di base, fondata sulla
parentela, il matrimonio e
l’adozione, come anche su altri
aspetti relazionali. La famiglia,
poi, può essere patriarcale,
matrilineare, patrilineare,
multilocale,
multigenerazionale, multietnica e
multireligiosa a causa della migrazione, del
matrimonio e della conversione. È inoltre
caratterizzata da tensioni tra valori culturali
africani, insegnamenti cristiani, secolarismo,
religioni e altre ideologie. La famiglia è —
come scrivono Betty Bigombe e Gilbert M.
Khadiagala — un’unità di produzione,
consumo, riproduzione e accumulo. Nella sua
forma più semplice è composta da marito,
moglie e figli, mentre nella sua forma
complessa e più comune è allargata, fino a
includere figli, genitori, nonni, zii, zie, fratelli
e sorelle, che a loro volta possono avere figli
propri o altri parenti prossimi. L’appartenenza
alla famiglia nelle diverse comunità africane
va dai figli adottati, e quelli affidati, ai servi,
gli schiavi e i loro figli, come tra i Baganda in
Uganda. Nella società tradizionale
precoloniale veniva praticata la poligamia, e
questo tipo di matrimonio contribuiva
all’ampliamento delle relazioni familiari,
incorporando molte persone. Jomo Kenyatta,
John S. Mbiti e Aylward Shorter osservano
che una famiglia allargata comprende anche i
suoi membri defunti, insieme a quelli che
ancora devono nascere, poiché i nascituri
assicurano la sopravvivenza della famiglia. La
famiglia allargata costituiva e ancora
costituisce la base di ogni cooperazione e
responsabilità sociale. Nella società
tradizionale, la famiglia allargata era il luogo
principale in cui l’individuo esercitava la
propria libertà. L’individuo esisteva in
rapporto a un gruppo più grande, che
comprendeva la sua famiglia allargata.
Acquisiva la propria identità dal gruppo e dal
gruppo dipendeva per la sopravvivenza fisica
e sociale. Attraverso diversi riti di passaggio,
diventava man mano più pienamente membro
della società e assumeva un ruolo
nell’assicurare la sopravvivenza del gruppo
attraverso il matrimonio e la procreazione.
Mbiti afferma che «nella vita tradizionale,
l’individuo non esiste e non può esistere da
solo, se non corporativamente. Deve la
propria esistenza ad altre persone (…) la
comunità, pertanto, deve fare, creare o
produrre l’individuo (…) solo in termini di
altre persone l’individuo diventa consapevole
dei suoi doveri, dei suoi privilegi e delle sue
responsabilità verso se stesso e gli altri». La
famiglia allargata dava all’individuo
un’identità personale e fisica. Si era assegnati
a una particolare comunità, con ruoli chiari
attribuiti nelle varie fasi della vita sulla base
Nata in Kenya, Philomena N.
Mwaura insegna presso il Dipartimento di filosofia e studi
religiosi e dirige il Center for
Gender Equity and Empowerment dell’università Kenyatta di
Nairobi. Già presidente dell’associazione internazionale di
studi missionari, è coordinatrice
regionale africana della commissione teologica dell’associazione ecumenica dei teologi del
terzo mondo e membro del
Circle of Concerned African
Women Theologians. Tra le sue
pubblicazioni, Spirituality and
Healing in African Indigenous
Cultures and Contemporary Society (in Seeing New Facets of the
Diamond); Christianity as a
Universal Faith. Essays in Honour of Kwame Bediako, 2014;
Christianity and other Religions
with Particular Reference to African Religions and African Women Christologies (in Christus
und Die Religionen, 2015).
corrispondenza tra risultati educativi e
opportunità di lavoro hanno imposto
dimensioni più ridotte alla famiglia. Bigome e
Khadiagala osservano che «nella maggior
parte delle aree urbane, i fattori quale il
lavoro retribuito, l’economia monetizzata e il
costo della vita hanno alterato il valore dei
figli. Inoltre, mentre le reti familiari in
passato mitigavano gli effetti negativi delle
grandi famiglie, le risorse limitate e il declino
economico hanno contribuito alla riduzione
delle dimensioni delle famiglie e impoverito le
strutture istituzionali della famiglia allargata».
Peraltro, una costante critica negli schemi
familiari africani è il persistere della poliginia,
per cui il declino delle famiglie poligamiche,
tanto atteso dai sociologi, nella maggior parte
delle società africane è ancora ben lungi
dall’essere una realtà sociale. Nelle aree rurali
la poliginia sopravvive principalmente a causa
dell’imperativo dato dalla divisione del lavoro
secondo i sessi che caratterizza la sfera
agricola, mentre nelle aree urbane assume
forme diverse. Un altro mutamento sociale
che sta minando la famiglia basata sulla
parentela è il prevalere della
monogenitorialità, specialmente tra le donne
nelle aree urbane. Man mano che un numero
crescente di donne si è unito alla forza lavoro,
le famiglie costituite da persone singole o con
capofamiglia donne sono diventate uno
schema riconoscibile nel panorama sociale
africano. Tali tendenze rispecchiano i
cambiamenti secolari nello status educativo,
nel lavoro e nella mobilità occupazionale, per
non parlare di altri fattori come i decessi
dovuti all’Aids/Hiv. Gli insediamenti
informali sovrappopolati dell’Africa sono
pieni di donne non sposate, sole e povere, che
devono affrontare sfide immense per superare
la dislocazione e la migrazione la privazione.
In alcuni Paesi come il Kenya, il Ghana, il
Sud Africa e l’Etiopia le donne costituiscono
oltre un terzo dei capifamiglia. Altre famiglie
hanno a capo nonni e figli. In Sud Africa, le
politiche dell’apartheid hanno inciso in
molteplici modi sulla coesione familiare e
rafforzato l’impatto distruttivo che il lavoro
migrante, l’urbanizzazione e
l’industrializzazione hanno avuto sulla
famiglia. Quindi, una conseguenza
dell’eredità dell’apartheid è l’alto numero di
famiglie monogenitoriali, dovute per la
maggior parte a gravidanze al di fuori del
matrimonio e al divorzio. Molti bambini
crescono in famiglie a cui fanno capo delle
donne, con sostegni finanziari scarsi o nulli.
Qualcuno ha affermato che la famiglia nera in
Sud Africa ha continuato a subire una
disgregazione maggiore rispetto alle altre
famiglie del continente. L’affidamento è
invece una caratteristica che continua a
rimanere viva nella struttura familiare
africana, dove la sopravvivenza della famiglia
rurale dipende dai legami con le famiglie
urbane. Un aspetto essenziale di ciò è l’invio
di rimesse dai lavoratori urbani ai parenti
nelle zone rurali attraverso il sostegno
educativo e altre forme di aiuto economico e
sociale. In buona parte dell’Africa la
migrazione è un fattore importante dei sistemi
di sopravvivenza delle famiglie. Per anni, la
migrazione dalle aree rurali a quelle urbane è
stata il meccanismo fondamentale per quanto
riguarda le opportunità di lavoro, la mobilità
sociale e il trasferimento del reddito. Quasi il
trentadue per cento degli africani subsahariani
nel 1996 viveva nelle aree urbane, con un
aumento dell’undici per cento rispetto al 1950.
Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite,
quasi il cinquanta per cento della popolazione
africana subsahariana nel 2015 sarà urbana.
Sono emerse nuove strutture familiari a causa
del fenomeno della migrazione. La
globalizzazione ha favorito anche nuove
forme di migrazione, poiché gli africani
cercano migliori opportunità economiche in
Europa, negli Stati Uniti, in Medio oriente,
in Australia, in Canada, e così via. Per la
maggior parte di queste persone, la
migrazione fa parte della lotta contro la
povertà debilitante, come pure contro le
forme implicite ed esplicite di oppressione
politica. Anche la lunga serie di guerre civili,
conflitti, e l’instabilità politica in Africa hanno
contribuito in larga misura alla migrazione e
alla disgregazione della famiglia africana.
Come la migrazione dalle aree rurali a quelle
urbane, la migrazione internazionale è una
lama a doppio taglio per le famiglie, fornendo
benefici economici attraverso le rimesse, ma
spezzando al contempo i vincoli sociali che
sostengono le famiglie. Il traffico di bambini
attraverso i confini con i Paesi vicini ha
parimenti inciso sulla famiglia africana. I
trafficanti mantengono le vittime in uno stato
di subordinazione attraverso la violenza fisica,
la servitù per debiti, la confisca del
passaporto e le minacce di violenza nei
confronti della loro famiglia. Spesso la
giustizia per le vittime di questi crimini è
piuttosto elusiva. Un’altra piaga che ha
portato alla spirale discendente per la famiglia
africana è la violenza domestica, argomento
tabù che, malgrado leggi ben intenzionate,
continua senza tregua a distruggere famiglie.
La violenza basata sul genere riguarda le
persone di ogni ceto sociale, credo, razza o
etnicità. La famiglia e la casa — che
dovrebbero essere lo spazio più sicuro per
donne, uomini e bambini — sono diventate
luoghi di scontro, dolore, abuso, disinteresse e
disintegrazione. L’indagine più recente su
salute e demografia in Kenya (2013) rivela che
il quarantacinque per cento delle donne e il
dieci per cento degli uomini hanno
denunciato di aver subito violenze da un
partner intimo. La violenza in famiglia è una
conseguenza dei cambiamenti che si sono
verificati e che, come già indicato, hanno
portato all’instabilità dell’unità familiare.
Molti matrimoni ora sono neolocali, dove le
coppie vivono lontano dalle proprie famiglie.
Tali famiglie tendono a essere individualiste e
le coppie non beneficiano più dei consigli
degli anziani. In caso di difficoltà e di
conflitto, la separazione e il divorzio sono
diventati la norma. A ogni modo, malgrado
tutte queste sfide, i sistemi di sostegno
familiare continuano in qualche misura a
essere vivi in Africa. La famiglia è sempre il
luogo di trasmissione di valori e di
acquisizione d’identità e offre un quadro
d’inclusione a prescindere dal carattere,
dall’età, dallo status, e così via. Un proverbio
Gikuyu riassume proprio questo concetto.
Afferma che, una volta che un bambino è
nato, non lo si può abbandonare.