Ottobre_2015 - Su ali d`aquila
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Ottobre_2015 - Su ali d`aquila
donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO ottobre 2015 numero 39 Salvate Per secoli, ma sarebbe più corretto dire per millenni, le donne sono state giudicate dall’uso che facevano, o più spesso che altri facevano, del loro corpo. Dal momento che per gli uomini la sicurezza della paternità poteva essere data solo dalla fedeltà della donna, dal suo mantenere la parola data, ogni comportamento che poteva indurre dei sospetti in tal senso era duramente sanzionato. Non solo veniva condannata la singola infrazione, ma ne derivava una condanna complessiva della donna che l’aveva commessa, e questa diventava da quel momento una donna perduta. Ciò accadeva anche se l’infrazione alle leggi morali non era avvenuta per scelta, ma per violenza. Il cristianesimo, anche su questa prassi abituale, ha fatto la differenza: dal momento che, seguendo le parole di Gesù, ciò che conta è l’intenzione, non si poteva più condannare la donna che aveva subito violenza, ma la si doveva aiutare. E l’aiuto doveva essere esteso anche alle peccatrici, perché il peccato poteva sempre essere perdonato, come ha fatto Gesù nei vangeli. Quindi l’affermarsi del cristianesimo avrebbe dovuto significare la fine della condanna della donna colpevole, e affermare la sua possibilità di accoglienza e di riscatto. Anche se in una situazione di potere patriarcale questa possibilità non è mai stata totale, né gratuita — pensiamo solo al discredito che, ancora qualche decennio fa, gravava anche in ambienti cristiani sulle ragazze madri — nella storia della Chiesa si sono moltiplicate le iniziative per salvare le donne cadute. Monasteri per le convertite — quasi sempre intitolati a Maria Maddalena — e convitti per ragazze madri, per le ex-prostitute che volevano cambiare vita, hanno sempre fatto parte delle comunità cristiane. L’attenzione e la carità con cui Gesù aveva ascoltato e amato le prostitute — o comunque le donne che, come la samaritana, avevano trasgredito per amore — non si potevano mettere da parte neppure in società in cui il cristianesimo tendeva a presentarsi come una morale rigida e indiscutibile. Ancora oggi, che la rivoluzione sessuale ha spazzato via figure come quella della ragazza madre, o della donna colpevole perché sessualmente trasgressiva, rimane un disinteresse generalizzato verso le donne che subiscono violenza nelle zone calde della terra, o che sono costrette alla prostituzione. Sono troppe, sono difficili da sistemare — spesso le stesse famiglie le rifiutano — e se non vogliono abortire hanno anche il problema di generare figli del nemico. In queste situazioni difficili, dolorose, drammatiche, è quasi solo la Chiesa, o meglio le suore missionarie, a prendersi cura di loro e dei loro figli, e a offrire loro una possibilità di riscatto. È una fatica gigantesca, ma che dà buoni frutti e che contribuisce in modo determinante a trasformare in meglio la condizione delle donne nel mondo. (lucetta scaraffia) ma le nostre congregazioni con poco riescono a fare tanto. Ormai c’è una rete Talita Kum che coordina le suore dei Paesi di origine, di transito e di destinazione delle donne per sottrarle alla schiavitù. Siete state sostenute nella vostra missione? Per esempio siete riuscite a coinvolgere le congregazioni religiose maschili? Per ora proprio no. Facciamo un’enorme fatica a far loro capire. Le persone sensibili sono davvero poche. Eppure sarebbe importante: se non riusciamo a farle lavorare con noi, non cambia la cultura di fondo. E nelle parrocchie, nelle prediche dei sacerdoti non c’è mai un accenno alla realtà che noi cerchiamo di combattere. Dicono che è un affare di donne. No, rispondo, è un affare di uomini. Se ci sono nove milioni di richieste di prostituzione ogni mese è una questione di uomini. E, visto che siamo in Italia, di uomini cattolici. Il nostro lavoro futuro è diretto a coinvolgere le parrocchie, le diocesi, le conferenze episcopali. Ci auguriamo che l’8 febbraio, nella seconda giornata mondiale contro la tratta, intervenga la concretezza di Papa Francesco. Dal 2013 vi recate al centro di accoglienza di Ponte Galeria, a Roma: cosa riuscite a fare per queste donne? Un affare di uomini A colloquio con suor Eugenia Bonetti, impegnata da vent’anni contro la tratta delle donne di RITANNA ARMENI Suor Eugenia Bonetti è un fiume in piena. Parla della sua missione, dei suoi incontri con «le donne della strada e della notte» con la passione di chi a questa ha dedicato una vita e ne dedicherebbe anche un’altra, se fosse possibile. Nella sede dell’Usmi, dove coordina le suore di diverse congregazioni che lottano contro la Il 2 novembre 1993 a Torino conobbi Maria prostituta nigeriana malata con tre bimbi Lei ha capovolto la mia realtà missionaria Dopo ho conosciute molte come lei Schiave, distrutte, oggetti disprezzati Sfruttate dai miei connazionali che si dicono al novanta per cento cattolici tratta e la schiavitù, racconta iniziative e progetti con la freschezza e l’entusiasmo di una giovane donna. Eppure ha alle spalle decenni di lavoro, fatica e missione. Da vent’anni si occupa della tratta delle donne, di quella che Francesco ha definito la schiavitù del ventunesimo secolo. Perché? donne chiesa mondo Non è una mia scelta, qualcuno l’ha fatta per me. Ho lavorato per molti anni in Africa e le donne sono state le mie maestre. Da loro ho imparato l’accoglienza, la gioia, la condivisione. Le donne africane nella loro povertà materiale sono straordinarie. Quando sono tornata in Italia, sono caduta in crisi. Mi sembrava di aver tradito la mia vocazione. Volevo tornare in Africa finché alla Caritas di Torino, dove lavoravo, ho fatto un incontro. Lo ricordo bene: era il 2 novembre 1993 e ho conosciuto Maria, una donna nigeriana, una prostituta malata con tre bambini, senza documenti. Lei ha capovolto la mia realtà missionaria, il modo di vivere la mia vocazione. Me l’ha mandata il Signore per farmi capire che la missione non era una questione geografica. Maria mi ha aiutato a entrare nel mondo della notte e della strada. Dopo ho conosciuto molte donne come lei: schiave, distrutte, oggetti disprezzati, usa e getta. Sfruttate dai miei connazionali che si dicono al novanta per cento cattolici. Ho capito che dovevo star loro vicina. E loro, come Maria, attraverso di noi suore hanno capito la diversità fra chi le sfruttava e chi le aiutava senza pretendere niente in cambio. È stato quindi l’incontro con una donna che ha dato inizio alla sua missione? Si è aperto un mondo nuovo. A contatto con queste donne ho cominciato a capire che non avevamo a che fare con la prostituzione, ma con una nuova schiavitù. In quegli anni neppure la polizia sapeva della esistenza della tratta. Solo noi, alcune religiose, abbiamo capito. C’erano in quegli anni a Torino tremila donne sulle strade che “servivano” cinque regioni diverse. Ci siamo avvicinate e abbiamo fatto proposte concrete: lo studio della lingua, l’assistenza sanitaria, il lavoro. Ho fatto da collegamento fra il nostro mondo e il loro, la conoscenza della loro lingua e dei loro Paesi mi ha facilitato. Quale era in quegli anni il vostro problema più grande? Potevamo aiutarle, ma non potevamo dare loro una legalità. I passaporti erano in mano ai trafficanti. Loro si erano sottoposte ai riti vudù ed erano convinte che quello che facevano era voluto dalle divinità, era per il bene delle loro famiglie. Se non lo avessero fatto il loro spirito sarebbe volato via. Dovevano pagare il loro debito ai trafficanti e alle “madame”. Allora erano decine di milioni. Oggi sessanta o settantamila euro. Intanto si distruggevano nel corpo e nell’anima. Di fronte al grande esodo di chi fugge da guerra e fame, in molti oggi parlano della necessità di accoglienza: per lei che cosa è? Sono passati venti anni. Oggi lei lavora con 250 persone di 80 diverse congregazioni. Il lavoro contro la tratta ha fatto passi avanti. Sì. Abbiamo fatto richiesta al governo di riconoscere l’esistenza della schiavitù, abbiamo fatto conoscere la realtà alle donne parlamentari, abbiamo ottenuto nel 1998 una legge che interviene sulla tratta. La legge ha aperto una grande porta. Una volta riconosciuta la tratta abbiamo potuto aprire case di accoglienza per le donne che tentavano di liberarsi dalla schiavitù. Nel 2000 mi sono trasferita a Roma per coordinare il lavoro delle congregazioni religiose che aprivano le case di accoglienza. Era l’anno del giubileo, volevamo lasciare un segno positivo, volevamo rompere davvero le catene, liberare le schiave. E farlo subito proprio quell’anno. Per questo 13 congregazioni hanno aperto le porte dei loro conventi a queste donne. E 250 religiose hanno cominciato il loro lavoro nelle case famiglia, nei centri ascolto, nelle unità di strada. Abbiamo capito che dovevamo unire le nostre forze. Tutti dovevano fare la loro parte: il governo, la Chiesa, le scuole, le famiglie, i mass media. Quello della prostituzione e della tratta è un mondo duro da scalfire: molti sforzi e scarsi risultati. È stato così anche per voi? Una donna nigeriana Vi andiamo tutti i sabati: lì incontriamo la disperazione assoluta. Queste donne non hanno niente, solo il letto nel quale dormono, e non fanno niente dal mattino alla sera. Non hanno neppure una stanza in cui stare insieme. Non sanno nulla del loro futuro. Facciamo quello che possiamo: le mettiamo in contatto con i Paesi d’origine, cerchiamo di accoglierle nelle nostre case. A volte ci sembra di non combinare niente. Qualcuno ce lo ha anche detto. Che andate a fare lì? Sa che cosa ha risposto una sorella? «Facciamo quello che la Madonna ha fatto sotto la croce». Non è riuscita a cambiare niente ma è morta con suo figlio. Nel 2000 abbiamo dato alle congregazioni la possibilità di vivere l’anno santo in modo concreto, abbiamo aperto i nostri conventi. Da allora sono state salvate più di seimila donne. Accolte e aiutate psicologicamente e social- Nata a Bubbiano (Milano) nel 1939, suor Eugenia Bonetti entra ventenne tra le missionarie della Consolata. Inviata in Kenya nel 1967, vi resta per 24 anni. Rientrata in Italia, vive prima a Torino e poi a Roma, dove è nominata responsabile dell’ufficio Tratta, donne e minori dell’Unione superiore maggiori d’Italia (Usmi). Tra i tanti premi, nel 2011 ha ricevuto il riconoscimento Servitor pacis della Path to Peace Foundation della missione permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite. mente. Abbiamo fatto ottenere loro documenti, permessi di soggiorno, passaporti. Qual è oggi la situazione della tratta? Rispetto al 2000 sono stati fatti passi avanti o c’è stato un arretramento? C’è un dato negativo: la crisi economica ha pesato sulle donne che sono riuscite a tirarsi fuori dalla schiavitù. Sono le prime a perdere il lavoro. Ed ecco che è entrata in funzione la fantasia della carità. Per venire incontro a chi non ce la fa e non riesce più a vivere in Italia abbiamo fatto un progetto di rimpatrio assistito e finanziato. Abbiamo preso contatto con le suore del Paese di origine. Abbiamo chiamato le sorelle nigeriane, abbiamo fatto conoscere la situazione, i pericoli che le donne correvano. Dal 2013 abbiamo chiesto alla Caritas fondi per un progetto. Alle ragazze nigeriane che tornano a casa, si pagano il viaggio, l’affitto della casa per due anni, si dà loro qualche risorsa per aprire un’attività. Cerchiamo di resistere; il governo ha pochi fondi, molte onlus hanno chiuso, Per me accogliere significa dare il futuro a una donna, dirle che non è sola, farle capire che nella sua vita possono esserci amore e gioia. Quale è il rapporto con la fede delle donne che incontrate sulla strada? Le nigeriane, in particolare, ci chiedono subito il rosario e la Bibbia. Si nutrono della parola di Dio, sono più religiose di noi. Vivono una terribile dicotomia. Maria mi diceva: ogni mattina prima di lasciare il marciapiede chiedevo perdono al Signore. Sapevo che quel che facevo era male ma sapevo anche che la sera sarei tornata. Tolstoj una volta ha detto: la prostituzione c’era prima di Mosè e c’è stata dopo. Ci sarà sempre. Non si può non constatare la verità delle due prime affermazioni: che cosa risponde alla terza? Davvero ci sarà sempre la prostituzione? C’è la prostituzione volontaria e quella forzata. Sono due cose diverse. Nella prima la donna usa il proprio corpo, ma la seconda è schiavitù. Una donna nelle mani dei trafficanti arriva a quattromila prestazioni per pagare il suo debito. Alla fine non è più lei. L’Africa non può permettersi di distruggere una generazione di donne. Se lo fa, muore un intero continente. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Egon Schiele, «Ragazza seduta» (1917) Lo sanno tutti nella zona Il missionario italiano è l’unico ad accogliere gli scarti umani che nessuno vuole Troppo spesso corpi di donne, a volte bambine denutriti e ridotti a una poltiglia di sangue Sottoposti dal machismo a ogni genere di pratiche bestiali Il racconto di GUDRUN SAILER La casa della speranza di padre Aldo Trento in Paraguay overa Liza. Povera Paulina. Povera Patricia. Tutte con le ali spezzate. Botte, violenze domestiche, sevizie. La via crucis ha tanti volti. E la lista dei loro nomi potrebbe continuare a lungo. Del resto, in questi anni, la casa della speranza di padre Aldo Trento, missionario in Paraguay, è conosciuta per essere una specie di porto di mare, un approdo sicuro dove trovare rifugio. Quando la polizia non sa cosa fare, alle prese con casi di violenza estrema, bussa al portone di legno della parrocchia. Da un muro di cinta di mattoncini rossi spuntano ciuffi di piante. «Benvenuti, qui si confessa ogni ora», c’è scritto. Naturalmente i poliziotti non vanno da padre Aldo per confessarsi. Sanno che è l’unico che accoglie gli scarti umani che nessuno vuole; troppo spesso corpi di donne ridotti a una poltiglia di sangue, denutriti, sottoposti a ogni genere di pratiche bestiali. Ragazzine dal vol- P Victoria e il suo bambino to di bambine pestate a sangue. Perché non è solo il racket della prostituzione a mietere vittime. Il machismo, deformazione culturale devastante, è parte sostanziale della società sudamericana. Al sinodo straordinario sulla famiglia, lo scorso autunno, sono risuonate nell’aula assembleare diverse testimonianze. Erano riflessioni angustiate sulla deriva di questo fenomeno endemico al quale la Chiesa si oppone con forza e contribuisce a fermare. Cosa certamente non facile, visto che l’imprinting popolare muta col tempo, di generazione in generazione, e così c’è bisogno di un costante impegno a livello educativo e didattico, in parrocchia, nelle scuole. In ogni caso serve determinazione e coraggio. Il silenzio non giova mai. Povera Liza, povera Paulina, povera Maria. Potrebbero essere nomi di fantasia, eppure non lo sono. Le loro vite non sono invenzioni, frutto di operazioni immaginarie. Disgraziatamente la realtà con la quale ci si scontra quando si mette piede nell’hospice di padre Aldo fotografa uno spaccato impietoso di prepotenza. Il volto oscuro della famiglia. Mariti brutali, padri orchi, padrigni senza pietà. E così nella struttura parrocchiale del missionario italiano non solo trovano riparo i malati terminali e i bambini abbandonati, ma ritrovano il sorriso anche le donne con le ali spezzate. Alcune sono lungodegenti, con patologie invalidanti riportate dopo anni di sevizie. In una stanza colpisce il volto di cartapecora di una anziana. Sembra un cameo del secolo scorso, a un primo sguardo potrebbe essere centenaria. Immobile, mantiene una posizione fissa, quasi innaturale. Mercedes, invece, ha da poco compiuto cinquantaquattro anni. A trasformarla in questo fagotto pelle e ossa sono state le botte. Tante. Per anni, al punto che l’hanno fatta diventare autistica. Dal suo mondo inghiottito nel buio la donna capta solo una voce: quella di padre Aldo. Quando le si avvicina evocando due parole sacre per gli indios guaranì, lei spalanca gli occhi: è come se una chiave avesse aperto una memoria affievolita. Mademoiselle Fifì S Il volto oscuro della famiglia di FRANCA GIANSOLDATI uor Lea Ackerman è la religiosa più famosa in Germania. Da ormai trent’anni lotta al fianco di donne private dei loro diritti, cadute vittima della tratta e della prostituzione forzata. È una donna dal carattere allegro e combattivo, una «santa recalcitrante», come è stata definita. Lea nasce nella Saar nel 1933. Dopo aver lavorato come bancaria, entra a far parte dell’Ordine delle suore missionarie di Nostra Signora d’Africa. Si laurea in pedagogia con una tesi sull’educazione e la formazione in Rwanda. A Mombasa, in Kenya, fonda nel 1985 il progetto Solwodi (Solidarity with women in distress), un’opera assistenziale per donne coinvolte nella prostituzione. Oggi Solwodi ha decine di centri in Africa e in Germania. La rivista femminista «Emma» una volta l’ha definita una «suora infuriata»: cosa la fa infuriare, le chiediamo. «L’incredibile ingiustizia e la brutalità nei confronti di donne e bambini. Mi occupo di queste donne da trent’anni e vedo che ne ricavano danni e traumi, che sono ferite nel corpo e nell’anima, che hanno molte malattie. È mostruoso che venga addirittura riconosciuta come una professione e definita lavoro». Suor Lea si sta riferendo alla legge del 2002 che ha completamente legalizzato la prostituzione in Germania. Questa legge vale per le donne che operano liberamente nell’ambiente a luci rosse; la prostituzione forzata, ovviamente, continua invece a essere vietata. Ma è davvero possibile separare le due cose? «In Germania, nove prostitute su dieci vengono dall’estero», ci spiega. «Molte non capiscono la nostra lingua e non conoscono nessuno a cui potersi rivolgere. Se vengono accompagnate a lungo — per tre, quattro o dieci anni — e aiutate a inserirsi, le racconteranno tutta la loro storia. Attraverso Solwodi ho incontrato migliaia di donne. In trent’anni non ce n’è stata una che abbia detto: ho scelto io questa vita, è stata una mia libera decisione». Da molto tempo in Germania suor Lea è la portavoce non ufficiale delle prostitute forzate e delle vittime della tratta. Ma cosa ha fatto scattare la molla del suo impegno? «Una volta visitai un carmelo nelle Filippine. Davanti all’edificio c’era un tronco d’albero nel quale era inciso a caratteri grandi: “D edicato ai sogni del Padre”. Ho chiesto alle carmelitane che cosa significasse quella scritta. “Noi cristiani — mi hanno spiegato — crediamo che Dio è il creatore di tutti gli uomini, padre e madre di tutti gli uomini. E noi carmelitane diciamo di voler essere l’amore nel cuore di Dio; allora dobbiamo fare in modo che i sogni si realizzino per tutti i suoi figli. E ci sono figli di Dio, soprattutto figlie, che sono figli di Dio privi di opportunità”. E sa una cosa? Fu la mia seconda conversione. Ero in convento già da vent’anni, ma in quel momento pensai: giusto! Ho formato delle insegnanti, donne che avevano già avuto un’opportunità. Però ci sono figlie di Dio prive di opportunità». Poi è arrivata la fondazione di Solwodi nel 1985. «La mia comunità — racconta suor Lea — mi ha mandato a Mombasa, in Kenya. Lì ho visto masse di turisti del sesso. Una prostituta sedicenne mi disse: non sono giovane, ho già un bambino di tre anni, ma là dietro, nella stanzetta, c’è una ragazza di quattordici anni, e ieri ha messo al mondo un bambino e lo ha affogato nel gabinetto. Allora non si può mettere alla gogna la ragazza, ma bisogna domandare: in quali situazioni finiscono con il ritrovarsi quei bambini? Questi turisti che possono permettersi di girare il mondo arrivano a Mombasa, vedono la miseria e il bisogno di queste donne e di questi bambini e le comprano per pochi soldi per il loro meschino divertimento. Chiesi alle donne come si sentivano. Mi hanno risposto con rabbia, domandandomi a loro volta: pensa che sia divertente andare con ogni cretino che passa? Prendersi malattie? A volte avere soldi, altre no? Allora per me fu chiaro: riflettiamo insie- Margit Brandl, «Broken Dolls» Mercedes si alza dal letto pronta ad accogliere Il cammino da fare è in salita. Nulla è sconla benedizione con le mani giunte. Una donna tato. Al piano sottostante del centro parrocaccanto a lei osserva quello che accade. Padre chiale, nel grande salone pieno di giocattoli Aldo sussurra altre parole di affetto. Le infer- colorati e mobili allegri, una decina di bambimiere si fanno in quattro per aiutare coloro ni si diverte. Alcuni di loro hanno solo pochi che non sono più in grado di essere autonome. Apparentemente sono tutte anziane, ma Liza, Paulina, Patricia, Maria, Mercedes chi può dirlo? Tutte con le ali spezzate Le botte che hanno preso per anni, le hanper botte, violenze domestiche, sevizie no sfigurate, invecchiaLa via crucis ha tanti volti te, curvate. Padre Aldo E la lista dei loro nomi ha messo in piedi una specie di welfare alterpotrebbe continuare molto a lungo nativo. «Per noi europei il machismo è qualcosa che non comprendiamo fino in fondo. Certo, abbiamo violenze, assistiamo a uc- mesi. Sono accuditi da cinque o sei ragazze cisioni, ma non abbiamo una cultura maschili- che avranno sì e no una ventina d’anni. sta così violenta e radicata. La Chiesa cattolica In disparte c’è Liza, una adolescente paraè consapevole che bisogna difendere l’impor- lizzata, costretta su una carrozzina. Occhi netanza dell’uguaglianza tra uomo e donna, in- rissimi, capelli corvini, il suo sguardo è assensegnando il mutuo rispetto, la complementa- te. Anche lei con le ali spezzate. La sua storia rietà dei ruoli». ha commosso Papa Francesco quando si è re- cato a fare visita al centro di don Aldo. La sua è forse la vicenda più agghiacciante. Liza è appena dodicenne, ma a vederla sembra ancora più piccola. Per anni è stata violentata dal padrigno che la lasciava senza cibo, spegnendole le cicche delle sigarette sulle gambe, divertendosi a torturarla. Le cicatrici orrende non se ne andranno più. La polizia l’ha trovata, grazie a una segnalazione, abbandonata in una casupola, nelle campagne circostanti, in condizioni indescrivibili. I suoi piedi erano stati spezzati più volte ed è per questo che non le sarà più possibile reggersi. Padre Aldo l’ha accolta che non emetteva alcun suono, non apriva nemmeno gli occhi. Era incinta di sei mesi, violentata dal padrigno. Oggi il suo bambino, David, è un meraviglioso bebè coccolato da alcune ragazze che si alternano a fare le baby sitter. Ognuna di loro è portatrice di altre storie legate al marciapiede, alla droga, al racket. Un bambino di tre anni, Diego, corre felice incontro al missionario e lo abbraccia. Gli porge un giocattolo rotto. «Ora proviamo a ripararlo». Come le ali da aggiustare di queste donne. Un sorriso per ciascuna. Forse un giorno torneranno a volare. Ho incontrato migliaia di donne In trent’anni non ce n’è stata una che mi abbia detto: ho scelto io questa vita è stata una mia libera decisione C’è una tendenza antica, nella letteratura e nel cinema: quella di raccontare il mondo della prostituzione in modo romantico ed edulcorato. Uno scrittore che segue, invece, un percorso ben diverso è Guy de Maupassant, penna abilissima e puntuta nel denunciare ipocrisie e menzogne della borghesia francese del suo tempo. E così, molti dei suoi racconti hanno come protagoniste le prostitute, la cui vita è ritratta in tutta la durezza, l’umiliazione e l’emarginazione sociale dovuta alla loro condizione. Tra le altre storie dello scrittore che raffigurano, con onestà, questo mondo, si distingue — specialmente per il finale — Mademoiselle Fifì, racconto pubblicato per la prima volta nel 1882: tra le meschinità e l’inutilità della guerra, le dissolutezze e le vigliaccherie umane, si distingue Rachel, la prostituta ebrea, il solo personaggio in grado di incarnare l’onore francese, pur nella sconfitta. Per una volta tanto, la ragazza “perduta” si salva: e si salva grazie alle sue coraggiose, e scomode, scelte. (@GiuliGaleotti) La grande rete di suor Lea Il saggio Dal 1985 il progetto Solwodi aiuta le donne vittime della tratta in Kenya e Germania Lettere dalle case chiuse me su quello che potreste fare di diverso. All’epoca dissi al buon Dio: Voglio impegnarmi a favore di queste tue figlie prive di opportunità, ma tu non abbandonarmi». Dio non l’ha abbandonata. «Ho iniziato con niente: non avevo nemmeno una macchina da scrivere. Oggi ci sono trentaquattro consultori e centri di contatto in Kenya e diciassette in Germania, più sette case protette per donne e bambini che vivono in situazioni di violenza». Qual è oggi in Europa l’esempio classico della tratta? «Per la maggior parte le donne arrivano qui attirate da false promesse. Una di loro mi ha raccontato così la sua storia: “Vivevamo in un Paese dell’Europa dell’est; papà e mamma avevano un lavoro, i soldi erano molto scarsi, ma ho ricevuto una formazione”. Poi il padre ebbe un infarto e la Non possiamo limitarci a dire «che brutta cosa quella che fai» Dobbiamo cercare con tutte le forze delle alternative per ognuna di loro madre iniziò a bere, non c’erano soldi per le medicine, tutti hanno guardato a lei. In quella situazione ha letto un annuncio: tre mesi in Germania, tremila euro. Aveva intuito che si trattava di prostituzione. Ma ha pensato: per tre mesi resisto, così posso aiutare i miei genitori. In Germania è stata violentata già la prima sera. Non aveva più il passaporto, non sapeva in che città si trovasse, non conosceva la lingua. Fu portata in un postribolo. Lì ha visto come una donna, che voleva tirarsi indietro, è stata trascinata giù dalle scale per i capelli ed è stata violentata con una bottiglia rotta. Questo doveva servire a mostrarle che cosa sarebbe accaduto se fosse scappata. E io le ho domandato: liberamente? Fino a che punto, liberamente?». Le religiose cattoliche combattono in prima linea contro la tratta e contro la prostituzione forzata. Negli ultimi anni sono nate anche delle reti, come Renate o Talitha Kum. Nella società civile, chiedo a suor Lea, vede anche altri che si preoccupano allo stesso modo delle vittime della prostituzione forzata? «Ci sono gruppi femminili, spesso della nicchia di sinistra, che, come noi, sono contrari alla prostituzione e al suo riconoscimento come professione. Tuttavia ciò che fanno le religiose e le reti va oltre all’attività lobbistica ed è un’azione concreta. Aiutiamo le donne a trovare un mestiere, ad avere spazi protetti, a prendersi cura dei figli. Il mio principio è: non possiamo dire “oh, che brutta cosa quella che fai”, e limitarci a questo. Dobbiamo cercare con tutte le forze delle alternative per ognuna di queste donne». Quali sono le radici dell’impegno, in particolare delle religiose cattoliche, contro la tratta? «Le religiose si sono occupate da sempre di situazioni drammatiche o di carenze nella società. La formazione delle ragazze è iniziata con le religiose. Per secoli gli ospedali sono esistiti perché le religiose vi si sono gettate a capofitto. Esistiamo per iniziare a edificare già qui e adesso il Regno di Dio. Gesù è di tutti coloro che sono nel bisogno. Ero nudo e mi hai vestito. Ero carcerato e sei venuto a trovarmi. Il nostro compito è di individuare questa miseria nelle sue forme sempre nuove e di attenuarla». A causa di questo tipo di miseria anche lei ha preso in affidamento alcuni bambini, insieme con il padre pallottino Fritz Köster, con il quale per decenni, fino alla sua morte avvenuta due anni fa, ha abitato in comunione celibataria in una casa parrocchiale. «Spesso abbiamo ospitato donne che volevano proseguire la loro formazione, ma che avevano appena avuto dei bambini. Allora abbiamo cercato dei genitori affidatari, e per quattro bambini siamo diventati noi stessi i genitori affidatari. Oggi questi bambini hanno tutti dai 25 ai 27 anni, tutti hanno seguito la loro strada, e lo stesso hanno fatto le loro madri. A Natale e a Pasqua avevamo sempre una casa piena, con almeno venti persone, le madri, altre donne con bambini. Era così bello! È questa la comunione cristiana. Vorrei che fossero molte di più le case parrocchiali aperte a questo servizio. È stato un vero dono». E una forma particolare di vita religiosa. Cosa significa oggi per lei il tempo passato con padre Köster? «È stato meraviglioso. Ci siamo rafforzati reciprocamente nel nostro rispettivo impegno religioso. Padre Köster era professore di teologia, riflessivo, aperto al mondo, un uomo buono, molto amato anche dai più piccoli. Per molti, e non solo per me e per i bambini, era una persona che sapeva veramente rispettare gli altri. Una donna mi disse una volta che le aveva restituito la sua dignità. Padre Köster mi ha aiutata a costruire Solwodi. Si è impegnato fin dal primo istante». Una convivenza celibataria mista tra una religiosa e un religioso: i superiori religiosi o i vescovi non hanno mai sollevato delle obiezioni disciplinari? «No, mai. Della nostra forma di vita sono per così dire stati testimoni anche i bambini che avevamo in affidamento. Avrebbero visto, una volta cresciuti, se non ci fossimo comportati l’una con l’altro come suora e sacerdote. Si sarebbero trovati in una comunità di menzogne, nella quale molte cose avvenivano di nascosto. Invece è stato proprio il contrario. Avevamo una casa apertissima. Tutti potevano venire. Venite e vedete! È stato proprio questo a rendere sin dall’inizio tanto attraente il cristianesimo». La fondatrice di Solwodi ha 78 anni: da dove prende la forza per portare avanti il suo impegno oggi? «Sicuramente sono di salute robusta», risponde. «Naturalmente mi chiedo quanto potrà ancora durare. Allora sorgono anche le domande e qualche volta il dubbio se quello che credo è tutto vero. E poi chiedo subito scusa e dico: caro Dio, perdonami. Quando guardo a tutto ciò che è nato dal nulla, senza nemmeno sapere come è nato, allora posso solo dire che da sola non ce l’avrei mai fatta. Poteva essere fatto solo con l’aiuto di Dio». La senatrice Lina Merlin, insieme con Carla Barberis, per sostenere la sua proposta di legge a favore dell’abolizione delle case chiuse, decise di pubblicare (Lettere dalle case chiuse, Milano-Roma, Edizioni Avanti, 1955) le lettere che aveva ricevuto dalle prostitute, quasi tutte favorevoli all’abolizione e soprattutto alla fine di una prassi che le inchiodava a questo destino, cioè la schedatura da parte della polizia, che impediva loro di rifarsi una vita onesta. Le lettere testimoniano vicende penose, donne sopraffatte dalla miseria o dalla prepotenza dei parenti, interessati solo a sfruttarle. Quasi tutte intensamente legate a un figlio o a una figlia che hanno dovuto affidare a delle famiglie a cui devono passare una parte cospicua del loro salario, e sognano solo di poter condurre una vita onesta per riavere con sé il bambino. «Ci salvi tutte, onorevole, e che più nessuna ragazza entri in queste case come ci sono entrata io e che nessuna debba più essere sfruttata da nessuno e minacciata anche dalla polizia» conclude in modo eloquente una ragazza. Peccato però che anche la chiusura delle case non sia bastata a porre fine allo sfruttamento. (@LuceScaraffia) Il film La bella gente Susanna, psicologa cinquantenne, lavora con donne maltrattate: per questo, quando sulla strada che porta alla sua casa di campagna vede una giovanissima prostituta malmenata da un uomo, non può restare con le mani in mano. Convinto (a fatica) il marito, la prende in casa, per “salvarla”. All’inizio la ragazzina Nadya è terrorizzata, ma piano piano inizia a fidarsi della coppia. Tutto sembra procedere per il meglio, finché qualcosa viene a turbare i (falsi) equilibri familiari dei salvatori. La metamorfosi di Susanna è strisciante e crudele: perché Nadya non si limita a essere il gattino riconoscente capace solo a dire grazie ogni secondo? Perché ha sentimenti e speranze come qualsiasi ragazzina della sua età? Susanna resta travolta da quella che lei percepisce essere una inaccettabile confusione di piani: la vita della sua famiglia e la vita di Nadya. E così, la sola soluzione che le resta è di riportare la ragazzina — “arricchita” di una busta di soldi — là dove è stata trovata. La forza del film La bella gente (2009) di Ivano De Matteo sta tutta nella dura verosimiglianza della involuzione che racconta. Susanna e suo marito sono molti di noi, quando entriamo — per sentirci gratificati — nella vita del prossimo bisognoso, incapaci di gesti di vera gratuità. E capacissimi, invece, di fare così davvero male. (@GiuliGaleotti) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women RITROVATA LA TOMBA DI MARIANELA GARCÍA VILLAS È il 13 marzo 1983 quando, a soli 34 anni, Marianela García Villas viene torturata e uccisa, tre anni dopo l’omicidio dell’arcivescovo con cui la giovane aveva condiviso battaglie e speranze. Come Romero e altre centinaia di migliaia di persone, anche lei vittima del sanguinario regime che resse a lungo il Paese. Nata a El Salvador nel 1948, fin dall’adolescenza Marianela, figlia della ricca borghesia, resta scossa dalle ingiustizie sociali. Durante l’università (si laureerà in legge) entra a far parte dell’Azione cattolica e si forma discutendo i documenti del Concilio e di Medellín e analizzando i testi sulla teologia della liberazione. Allo studio affianca presto la militanza nella Democrazia cristiana, mentre inizia l’immedesimazione con gli ultimi. Nel 1974 entra in Parlamento grazie al sostegno delle donne dei mercati, madri e mogli di periferia che l’hanno vista combattere in tribunale per difendere, da avvocato, i loro uomini e i loro diritti. Più tardi comincia a visitare le famiglie che abitano nelle zone più difficili. Ma l’impegno che più le assorbe le energie è quello svolto come presidente della Commissione per i diritti umani di El Salvador, una realtà fondamentale per conoscere la verità sulla storia contemporanea del Paese. Estromessa dal partito, Marianela comincia a immortalare con la sua macchina fotografica il volto più crudele del regime, raccogliendo immagini di cadaveri abbandonati sul ciglio della strada o ritrovati sotto terra dopo giorni di ricerca, devastati dalle torture. Le foto servono a dare risposte alla disperazione dei familiari e documentare un orrore che ha la pretesa di negare l’evidenza. Fu lei la vittima civile numero 43337, e per molto tempo, anche dopo la sua uccisione, la dittatura ha continuato a definirla guerrigliera sovversiva, mentre l’abogada del pueblo, anche sulla scelta della non violenza, era in assoluta sintonia con Romero. Se il mondo negli anni è venuto piano piano a conoscenza della vera storia di questa ragazza, ora un nuovo tassello è venuto ad aggiungersi: l’associazione Marianela García Villas di Sommariva del Bosco (Cuneo) è stata infatti capace di individuare la tomba della giovane martire, ritrovata nel cimitero principale di San Salvador, in una cappella chiusa da una cancellata, che reca l’iscrizione Beneficiencia española (il padre, infatti, era spagnolo). «Finalmente — ha commentato l’associazione — sarà possibile per chiunque portare un fiore sulla sua tomba». PERD ONO IN CAMBIO DI VERITÀ «Siamo disposte a perdonare gli assassini, chiunque essi siano e qualsiasi crimine abbiano commesso contro i nostri cari, pur di conoscere la verità su quello che è accaduto ai nostri mariti, figli, fratelli e sorelle». Così hanno dichiarato una trentina di donne e vedove musulmane di etnia tamil, durante un incontro a Negombo, centro a circa quaranta chilometri dalla capitale dello Sri Lanka. Il raduno, ha raccontato Melani Manel Perera di Asia News, è stato organizzato dall’associazione Families of the Disappeared (Fod), che fornisce assistenza ai parenti delle vittime della guerra civile che ha insanguinato il Paese dal 1983 al 2009. «Non ci interessa punire chi ha fatto loro del male, vogliamo solo che tornino a casa. Vogliamo sapere cosa è successo loro e dove si trovano». Da quando si è concluso il conflitto civile che ha visto opposti, con reciproca crudeltà, l’esercito regolare e i ribelli delle Tigri Tamil, è la prima volta che le famiglie delle vittime e delle persone scomparse manifestano pubblicamente la loro disponibilità a perdonare gli aguzzini. Durante l’incontro, le donne hanno lanciato un appello alle autorità di Colombo, che di recente hanno riconsegnato dei terreni a tamil sfollati: «Diteci la verità. Se sono rinchiusi nei campi di detenzione, per favore rilasciateli. Non vogliamo sapere dove siano i campi, vogliamo solo che tornino a casa. E se li avete uccisi, diteci quando e perché. Abbiamo il diritto di sapere». L’incontro è stato occasione per condividere le ricerche delle persone scomparse: le famiglie delle vittime non si limitano a ricercare nelle province del Paese dove si è concentrato il conflitto, ma hanno allargato il campo di azione a tutta l’isola, nella speranza di ottenere risposte. Le donne sono convinte che occhio per occhio, dente per dente in risposta alle offese ricevute non dia risultati: «Per questo dobbiamo perdonare e ottenere giustizia subito. Ormai abbiamo passato fin troppo tempo a manifestare, protestare e marciare in cerca dei nostri parenti». Brito Fernando, presidente del Fod, aggiunge che l’associazione continuerà a fornire sostegno ai parenti degli scomparsi: «Li sosterremo anche nei processi. Abbiamo bisogno di andare avanti con un nuovo atteggiamento positivo. Dobbiamo utilizzare la non violenza per raggiungere i nostri obiettivi». L’AIUOLA DI ILDEGARDA Un’aiuola organizzata secondo il concetto di viriditas del dottore della Chiesa Ildegarda di Bingen (1098-1179): è questo il fiore all’occhiello di un nuovo orto botanico nato sulle colline vicino a Firenze, nella Pieve di Sant’Andrea a Doccia. «L’aiuola è a spirale», spiega Paolo Luzzi, curatore dell’Orto botanico del Museo di Mensile dell’Osservatore Romano ottobre 2015 numero 39 A cura di LUCETTA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTI Redazione: RITANNA ARMENI, CATHERINE AUBIN, RITA MBOSHU KONGO, SILVINA PÉREZ (www.osservatoreromano.va, per abbonamenti: [email protected]) Storia naturale di Firenze, «per suggerire l’idea della tensione verso l’alto e verso Dio. Le piante inserite sono piante aromatiche utili come medicine o condimento in cucina ma utili anche per l’anima, piante da meditazione e riflessione. All’aiuola si accede passando attraverso due alberi-simbolo: un fico, simbolo del peccato originale perdonato da Cristo tramite Maria, che con il suo sì ha riscattato l’umanità; e un ulivo, simbolo di Gesù, unto del Signore. Dopo i due alberi, Maria continua ad accompagnarci con alcune rose bianche simbolo della sua purezza verso due melograni, simboli della Chiesa, e quindi all’aiuola di Ildegarda circondata da una corona di margherite, simbolo del Paradiso terrestre riconquistato». RAZIA, PAKISTANA E CRISTIANA, SALVATA DALLA POVERTÀ Su AsiaNews, Shafique Khokhar racconta la storia di Razia Irshad, 46 anni e 7 figli, che vive nella campagna di Tehsil Samundri, in Pakistan. Il marito era l’unico a lavorare, ma i soldi erano pochi e per i bimbi la scuola restava un miraggio. Poi, due anni fa, Razia ha ottenuto un piccolo prestito da Award (Association for Women’s Awareness and Rural Development) che promuove lo sviluppo delle aree rurali del Paese, e tutto è cambiato: «Con quei soldi — racconta — ho comprato semi e fertilizzanti e il mio lavoro continua ad andare avanti. Anche se lo scorso anno abbiamo dovuto affrontare gravi perdite nel raccolto a causa delle forti piogge, questo non ci ha scoraggiato ma ci ha spinto a lottare. Ora vivo una vita felice insieme alla mia famiglia e le persone mi stimano». L’inizio non è stato facile: la famiglia e il vicinato disapprovavano la decisione, troppo libera per una società conservatrice come quella pakistana. Solo il marito l’ha sempre sostenuta e alla lunga la coppia ha avuto ragione: oggi Razia ha guadagnato il rispetto della comunità e viene considerata una «donna coraggiosa». Dopo aver partecipato a diversi corsi di formazione organizzati da Award Pakistan, oggi gestisce un negozio e coltiva verdure su due acri di terreno. Riesce a risparmiare circa duemila rupie pakistane al giorno (17 euro) e sta cercando di comprare un terreno più grande. Il marito racconta la gioia di coltivare un terreno di proprietà: «Ora viviamo una vita dignitosa. Sono orgoglioso di mia moglie che ha lavorato duro per lo sviluppo della nostra casa. Grazie al suo lavoro, stiamo consolidando la nostra posizione sociale e riusciamo a far studiare i bambini. Mi auguro che altre donne seguano il suo esempio e contribuiscano a rendere prospera la società pakistana». Christina Peter, direttore di Award Pakistan, riferisce che altre trenta donne hanno ricevuto prestiti. «Ringrazio Award — conclude Razia — per il sostegno che mi ha dato e ancora di più Gesù Cristo, per la forza e il coraggio». donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Non mento mai Una scena del film «Grbavica. Il segreto di Esma» (2006) di Jasmina Žbani Reparata, santa del mese, raccontata da Daria Bignardi A vent’anni dalla fine della guerra nella ex Jugoslavia Quando l’orrore incontra l’ascolto di NICOLE JANIGRO uò capitare quando meno te lo aspetti, per strada o al bar, in coda o in un negozio. Vent’anni dopo gli accordi di Dayton (14 dicembre 1995), che sanciscono la fine della guerra in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, è ancora possibile che la vittima di stupro incontri per caso il proprio carnefice. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aia ha trasferito le sue competenze ai tribunali locali, ma questi faticano ancora oggi a condannare i colpevoli, e alle vittime non è sempre facile chiedere il sostegno economico a cui hanno diritto. La violenza sessuale è un crimine che i politici sono abili nello sfruttare, ma per chi l’ha vissuta è un processo infinito da elaborare. In molte realtà pubbliche e private lo stupro rimane un tabù, è la parola della vergogna, quella che fa tenere gli occhi bassi, una violenza che nella mente non si cancella. Un crimine antico che si ripresenta in ogni guerra, ma in quelle inter-jugoslave di fine Novecento assume caratteristiche particolari: è una costante bellica di cui nessuna delle parti — croata, serba, bosniaca — può dirsi innocente, ma diventa un’arma di guerra delle operazioni di “pulizia etnica” in Bosnia ed Erzegovina. Qui il corpo delle donne è stato il campo di battaglia su cui lasciare l’impronta. Migliaia di “stupri etnici” hanno avuto uno scopo strategico: sradicare le basi fondanti della comunità dell’avversario. Perché non si torna in un villaggio nel quale sono state violentate le donne; e questa è stata anche una guerra di villaggi, rimasti poi spesso deserti. Il termine stupro etnico mette in secondo piano l’individuo, che sia uomo (meno diffusa, ma presente anche la violenza sessuale nei confronti dei maschi) o donna. Inchioda alla nazionalità, non concede possibilità di scelta al singolo — uno dei presupposti e degli obiettivi del conflitto — rende difficile anche la comunicazione tra le diverse associazioni femminili. Perché, se parlo di “stupro” metto l’accento sul fattore donna, e quindi sulle donne all’universale, se aggiungo “etnico” conta la nazionalità: croata, serba, bosniaca, albanese. Lo stupro di massa non è stato una conseguenza dell’ebbrezza da vittoria, come per i soldati russi che liberano Berlino, si è trattato di un “crimine premeditato”, deciso a freddo e spesso imposto anche a chi lo ha compiuto. In mille villaggi bosniaci si ripete sempre lo stesso copione: arriva la milizia serba, gli uomini vengono immediatamente uccisi, deportati o costretti alla fuga. Lo stesso accade alle donne che vengono però in gran parte imprigionate in luoghi segreti: case, alberghi, prefabbricati, scuole trasformate in bordelli del guerriero (così suona il titolo di un testo del filosofo e antropologo belgradese Ivan Čolović) dove, nell’estate del 1992, le violenze avvengono in maniera prolungata e continuata. Qui, un crimine che colpisce l’intimità e il privato, avviene in pubblico, alla presenza di spettatori-testimoni, dove più del 90 per cento delle donne conosce chi le sta violentando e dove la vittima e il carnefice parlano la stessa lingua. Considerate il “nemico riproduttivo”, le donne prigioniere sono state volutamente ingravidate. Un ulteriore oltraggio per segnare la conquista del territorio, per inseguire una purezza etnica che riesce a produrre il paradosso di un figlio misto. Molte donne verranno uccise, muoiono durante le violenze, si tolgono la vita. Un numero altissimo si ritrova incinta di fronte a un dilemma tragico. Il film Grbavica. Il segreto di Esma (2006) di Jasmina Žbani, ambientato a Sarajevo, parla del rapporto di una donna con la figlia adolescente alla quale, a un certo punto, questa madre racconterà, o meglio confesserà, chi è il padre e come è stata concepita. Una storia che riesce ad affrontare in modo non didascalico l’ambivalenza della situazione che pone la vittima in bilico: tra il bisogno d’intervenire e denunciare e il desiderio di mantenere il segreto e di tacere. Eppure, c’è un momento in cui l’Orrore incontra l’Ascolto e la barbarie incrocia sulla sua strada la modernità. Donne di ogni età e condizione, donne in fuga da sperduti e minuscoli villaggi della Bosnia, parlano, raccontano, testimoniano. In molti casi lo faranno una volta sola e poi mai più. Nei campi profughi alle porte delle città, nelle stazioni ferroviarie trasformate in bivacchi, spesso in transito dal luogo di prigionia verso l’ignoto dell’esilio incontrano altre donne pronte ad accoglierle. Donne di Lubiana, Zagabria, Belgrado, Sarajevo, Tuzla e Mostar, cresciute in realtà urbane dove esistevano telefoni SOS per la violenza contro le donne, case per le donne maltrattate, reti di salvataggio e di solidarietà femminili e femministe. Insieme a molte altre, giornaliste, psicologhe, questi gruppi di attiviste, proprio perché già formate all’ascolto di un trauma come lo stupro, hanno reso possibile che lo shock e lo sconvolgimento trovassero, in tempo quasi reale, le “parole per dirlo”. Un’esperienza unica che ha permesso di raccogliere un materiale immenso. Il resoconto orale è diventato stenogramma, testimonianza essenziale per il lavoro del Tribunale dell’Aia. La comunicazione orale si è poi spesso trasformata in testo scritto: un’antropologia della sofferenza che continua a raccontarsi. Un materiale che pone interrogativi e riflessioni sulla particolarità del caso jugoslavo. Come conciliare una realtà di emancipazione e libertà femminile, ormai consolidata, con gli “eccessi di violenza” e la crudeltà che colpiscono il “sesso più bello”? In questo conflitto, diversamente da quanto era accaduto in Jugoslavia, ma non solo, durante la Resistenza, la parte femminile della popolazione non ha vissuto alcun momento di emancipazione in prossimità delle battaglie (il fenomeno delle volontarie arruolate appare poco significativo). Anzi, i processi sociali e politici che hanno accompagnato gli avvenimenti bellici hanno reso dappertutto più precaria e marginale la condizione della parte femminile della popolazione. Che la guerra ha fatto diventare il capro espiatorio dello scontro, tuttora latente, tra campagna e città, modernisti e tradizionalisti. Il caso jugoslavo ha influenzato il diritto internazionale. Il 20 giugno 2008 il Consiglio di sicurezza dell’Onu vota all’unanimità una mozione che riconosce lo stupro come arma di guerra. Lo dichiara una forma di schiavitù e, come tale, crimine contro l’umanità. P nnunziata non voleva lasciare la Palestina, per questo abbiamo ritardato la partenza, mentre Onorata, Immacolata, Consolata, Fortunata e Addolorata hanno accettato subito: loro mi ascoltano sempre, anche se sono la sorella più piccola. Consolata mi chiama «la nostra piccola stella» e dice che quando sono nata io c’era una cometa, nel cielo di Palestina, più piccola di quella di quando è nato Gesù ma c’era — dice — anche se nessuna delle altre sorelle se la ricorda. Onorata è più pratica: ha capito subito che umiliarci pubblicamente era quel che serviva all’imperatore, e si è data da fare per partire in fretta. Ha preparato focacce azzime, un piccolo vaso d’olio, i calzari buoni, le vesti e quel poco d’oro che ci hanno lasciato i nostri nobili genitori. Immacolata non vedeva l’ora di portare per il mondo la Parola, Addolorata invece aveva paura. Fortunata non credeva che Decio avrebbe fatto quel che annunciava, ma sentiva che il nostro tempo a Cesarea era finito da quando i nostri genitori sono morti. Lei lo aveva detto allora che dovevamo partire: Fortunata sente le cose prima che avvengano, ma se non la ascolti subito non le ripete. L’imperatore parlava ai peggiori istinti, sperava di restaurare il suo potere perseguitando noi cristiani, ma è finito peggio di noi. Gli ignoranti sono tanti, povera gente che ha paura. Bisogna aver conosciuto l’amore, per saperlo dare e ricevere, e io ho solo pena per chi non crede in quello di Cristo. La chiamano pax deorum ma a Gaio Messio Quinto Traiano Decio non importava nulla di Giove e Marte o di Diana e Giunone: lui voleva il potere in terra, meschino, pur di non perderlo era capace di ogni crimine. Pensare che era uomo di aristocrazia, non come l’Arabo, eppure lo straniero Filippo è stato meno crudele di lui. Ma farmi uccidere non gli è servito a niente: Decio è morto poche settimane A Sono sempre rimasta qui nella terra gialla di Palestina E qui resterò fino alla risurrezione Ho visto tante bimbe assassinate da allora in questa terra dolorosa e santa Molte erano anche più piccole di me che avevo già compiuto dodici anni dopo di me. I goti volevano restituire il bottino e andarsene, ma lui si era messo in testa di distruggerli. Così, nella battaglia di Abrittus, ha perso non solo la vita e l’impero, ma anche la discendenza, il figlio Erennio Etrusco, trafitto da una freccia. Dicono che alla notizia della morte di Erennio, per rincuorare i soldati, Decio abbia detto «nessuno sia triste, la perdita di un solo uomo non deve intaccare le forze della Repubblica», ma poi si sia scagliato contro il nemico cercando vendetta, forse la morte. Ed è stata la prima volta che un imperatore romano è caduto per mano di un nemico straniero. Onorata è riuscita a scappare con le altre sorelle: avevo detto a tutte che ci saremmo incontrate all’Orto grande, sotto al fico, all’alba. Credevo davvero di riuscire ad andarci, non ho mentito, non mento mai. Mentre mi picchiavano mi hanno rinfacciato anche quello, dicevano che ero superba, presuntuosa, e ridevano. Ora che sono morta posso ammetterlo: il dolore è osceno. Non la morte: si comincia a morire nel momento in cui si nasce, la morte è santa e naturale come la vita, ma vivere cinque o cinquant’anni in più o in meno non cambia nulla, di fronte all’eternità. La tortura è orribile e umiliante: avrei fatto qualunque cosa perché smettessero, tranne che rinnegare Dio o tradire le sorelle. Fingevano di essere arrabbiati perché non onoravo gli Dei Consenti ma io sapevo che volevano solo dimostrare al popolo la forza di Decio. Uno mi picchiava con un tralcio di vite. L’altro mi strizzava i seni. Per fortuna il terzo soldato mi ha tramortita con un colpo di clava, quello che mi ha ucciso. Credo l’abbia fatto per pietà, aveva uno sguardo diverso dagli altri, più triste. Qualcuno ha raccontato che mi hanno tagliato la testa e hanno messo il mio corpo su una barca, e che gli angeli l’hanno portato a Nizza. La faccenda della testa è vera, quella della barca no, o almeno non era il mio, quel cadavere nella barca. Non mi hanno portata in nessuno dei luoghi che hanno detto, né a Nizza, né ad Atri, né a Teano: sono sempre rimasta qui, nella terra gialla di Palestina, e qui resterò fino al giorno della risurrezione. Ho visto tante bambine assassinate da allora, in questa terra dolorosa e santa, molte erano anche più piccole di me, che avevo già compiuto i dodici anni. E ancora, come allora, fingono di uccidere in nome di Dio. Peggio fa chi si uccide e uccide invocando il Dio che non esiste, pensando al paradiso che non c’è: solo Cristo ci ama davvero, oggi come allora. Per fortuna tutte le mie sorelle hanno portato nel mondo la parola di Gesù, fino in Italia e in Francia. È questa la mia consolazione, non il martirio, no. Il martirio è inutile. Nessuna di loro è mai più tornata in Palestina, solo io, Reparata, sono rimasta qui, polvere in questa terra e tra queste pietre che da quasi duemila anni sono la mia tomba. Giornalista soprattutto televisiva — da circa dieci anni conduce «Le invasioni barbariche» su La7 — D aria Bignardi (1961) è autrice di diversi libri tradotti in varie lingue, tra cui Non vi lascerò orfani (2009), L’acustica perfetta (2012), L’amore che ti meriti (2014), Santa degli impossibili (2015). Andrea Pisano, «Santa Reparata» (Museo dell’Opera del Duomo, Firenze) Foto di Marco Aime di PHILOMENA N. MWAURA L donne chiesa mondo ottobre 2015 La famiglia in Africa dell’età, del sesso e dello status sociale. Le norme culturali, sociali e morali della comunità, che venivano applicate nella famiglia allargata, aiutavano l’individuo a diventare un membro produttivo e rispettato della comunità. Quelle norme fungevano per lui da progetto di vita. La famiglia allargata era — ed è — anche la prima comunità religiosa di appartenenza dell’individuo. Era attraverso i genitori, i nonni e altri membri che si imparava a conoscere l’eredità religiosa e spirituale. Era lì che probabilmente si veniva a conoscenza di Dio, degli spiriti, degli antenati e della vita dopo la morte. La famiglia allargata era ed è anche un mezzo di sostegno reciproco. Il principio che guida le relazioni è quello dell’ubuntu, ovvero “tu sei perché noi siamo”, e così la famiglia allargata diventa un mezzo di sostegno sociale, psicologico, morale, materiale e spirituale nel bene e nel male. La società africana ha vissuto grandissimi cambiamenti in ogni aspetto della vita, compresi la struttura della famiglia e il matrimonio. Vorrei citarne solo alcuni che, dal mio punto di vista, sono attinenti al tema. I cambiamenti nella struttura della famiglia rispecchiano le tensioni continue tra i valori e le strutture tradizionali, cristiani o religiosi e quelli moderni. Sebbene si senta spesso parlare di famiglie che abbandonano usanze tradizionali fondamentali a favore di quelle moderne, la tendenza principale continua a essere il matrimonio e la creazione di un’organizzazione familiare, facendo riferimento alle norme sia tradizionali sia moderne. La caratteristica dominante delle famiglie africane è la capacità di “trasformare le cose vecchie in nuove” e di continuare ad attingere nuove soluzioni dalle risorse tradizionali delle istituzioni familiari. Pertanto, la tendenza verso la modernità è stata implicata nella trasformazione graduale del matrimonio e dell’organizzazione familiare africana, che si allontana dalla parentela corporata e dalle famiglie allargate per andare verso le famiglie nucleari, specialmente nelle aree urbane e tra le persone istruite. Tale cambiamento deriva in parte dal crollo dei sistemi collettivi di produzione e riproduzione orientati alla parentela. Malgrado le differenze interne tra gli ambienti urbani e quelli rurali e tra le regioni africane, i lenti tassi di crescita economica e la mancata l’autrice a famiglia in Africa è un’istituzione complessa ed è impossibile descriverla senza cadere nelle trappole delle generalizzazioni e del riduzionismo. A ogni modo, in Africa la famiglia è l’unità sociale di base, fondata sulla parentela, il matrimonio e l’adozione, come anche su altri aspetti relazionali. La famiglia, poi, può essere patriarcale, matrilineare, patrilineare, multilocale, multigenerazionale, multietnica e multireligiosa a causa della migrazione, del matrimonio e della conversione. È inoltre caratterizzata da tensioni tra valori culturali africani, insegnamenti cristiani, secolarismo, religioni e altre ideologie. La famiglia è — come scrivono Betty Bigombe e Gilbert M. Khadiagala — un’unità di produzione, consumo, riproduzione e accumulo. Nella sua forma più semplice è composta da marito, moglie e figli, mentre nella sua forma complessa e più comune è allargata, fino a includere figli, genitori, nonni, zii, zie, fratelli e sorelle, che a loro volta possono avere figli propri o altri parenti prossimi. L’appartenenza alla famiglia nelle diverse comunità africane va dai figli adottati, e quelli affidati, ai servi, gli schiavi e i loro figli, come tra i Baganda in Uganda. Nella società tradizionale precoloniale veniva praticata la poligamia, e questo tipo di matrimonio contribuiva all’ampliamento delle relazioni familiari, incorporando molte persone. Jomo Kenyatta, John S. Mbiti e Aylward Shorter osservano che una famiglia allargata comprende anche i suoi membri defunti, insieme a quelli che ancora devono nascere, poiché i nascituri assicurano la sopravvivenza della famiglia. La famiglia allargata costituiva e ancora costituisce la base di ogni cooperazione e responsabilità sociale. Nella società tradizionale, la famiglia allargata era il luogo principale in cui l’individuo esercitava la propria libertà. L’individuo esisteva in rapporto a un gruppo più grande, che comprendeva la sua famiglia allargata. Acquisiva la propria identità dal gruppo e dal gruppo dipendeva per la sopravvivenza fisica e sociale. Attraverso diversi riti di passaggio, diventava man mano più pienamente membro della società e assumeva un ruolo nell’assicurare la sopravvivenza del gruppo attraverso il matrimonio e la procreazione. Mbiti afferma che «nella vita tradizionale, l’individuo non esiste e non può esistere da solo, se non corporativamente. Deve la propria esistenza ad altre persone (…) la comunità, pertanto, deve fare, creare o produrre l’individuo (…) solo in termini di altre persone l’individuo diventa consapevole dei suoi doveri, dei suoi privilegi e delle sue responsabilità verso se stesso e gli altri». La famiglia allargata dava all’individuo un’identità personale e fisica. Si era assegnati a una particolare comunità, con ruoli chiari attribuiti nelle varie fasi della vita sulla base Nata in Kenya, Philomena N. Mwaura insegna presso il Dipartimento di filosofia e studi religiosi e dirige il Center for Gender Equity and Empowerment dell’università Kenyatta di Nairobi. Già presidente dell’associazione internazionale di studi missionari, è coordinatrice regionale africana della commissione teologica dell’associazione ecumenica dei teologi del terzo mondo e membro del Circle of Concerned African Women Theologians. Tra le sue pubblicazioni, Spirituality and Healing in African Indigenous Cultures and Contemporary Society (in Seeing New Facets of the Diamond); Christianity as a Universal Faith. Essays in Honour of Kwame Bediako, 2014; Christianity and other Religions with Particular Reference to African Religions and African Women Christologies (in Christus und Die Religionen, 2015). corrispondenza tra risultati educativi e opportunità di lavoro hanno imposto dimensioni più ridotte alla famiglia. Bigome e Khadiagala osservano che «nella maggior parte delle aree urbane, i fattori quale il lavoro retribuito, l’economia monetizzata e il costo della vita hanno alterato il valore dei figli. Inoltre, mentre le reti familiari in passato mitigavano gli effetti negativi delle grandi famiglie, le risorse limitate e il declino economico hanno contribuito alla riduzione delle dimensioni delle famiglie e impoverito le strutture istituzionali della famiglia allargata». Peraltro, una costante critica negli schemi familiari africani è il persistere della poliginia, per cui il declino delle famiglie poligamiche, tanto atteso dai sociologi, nella maggior parte delle società africane è ancora ben lungi dall’essere una realtà sociale. Nelle aree rurali la poliginia sopravvive principalmente a causa dell’imperativo dato dalla divisione del lavoro secondo i sessi che caratterizza la sfera agricola, mentre nelle aree urbane assume forme diverse. Un altro mutamento sociale che sta minando la famiglia basata sulla parentela è il prevalere della monogenitorialità, specialmente tra le donne nelle aree urbane. Man mano che un numero crescente di donne si è unito alla forza lavoro, le famiglie costituite da persone singole o con capofamiglia donne sono diventate uno schema riconoscibile nel panorama sociale africano. Tali tendenze rispecchiano i cambiamenti secolari nello status educativo, nel lavoro e nella mobilità occupazionale, per non parlare di altri fattori come i decessi dovuti all’Aids/Hiv. Gli insediamenti informali sovrappopolati dell’Africa sono pieni di donne non sposate, sole e povere, che devono affrontare sfide immense per superare la dislocazione e la migrazione la privazione. In alcuni Paesi come il Kenya, il Ghana, il Sud Africa e l’Etiopia le donne costituiscono oltre un terzo dei capifamiglia. Altre famiglie hanno a capo nonni e figli. In Sud Africa, le politiche dell’apartheid hanno inciso in molteplici modi sulla coesione familiare e rafforzato l’impatto distruttivo che il lavoro migrante, l’urbanizzazione e l’industrializzazione hanno avuto sulla famiglia. Quindi, una conseguenza dell’eredità dell’apartheid è l’alto numero di famiglie monogenitoriali, dovute per la maggior parte a gravidanze al di fuori del matrimonio e al divorzio. Molti bambini crescono in famiglie a cui fanno capo delle donne, con sostegni finanziari scarsi o nulli. Qualcuno ha affermato che la famiglia nera in Sud Africa ha continuato a subire una disgregazione maggiore rispetto alle altre famiglie del continente. L’affidamento è invece una caratteristica che continua a rimanere viva nella struttura familiare africana, dove la sopravvivenza della famiglia rurale dipende dai legami con le famiglie urbane. Un aspetto essenziale di ciò è l’invio di rimesse dai lavoratori urbani ai parenti nelle zone rurali attraverso il sostegno educativo e altre forme di aiuto economico e sociale. In buona parte dell’Africa la migrazione è un fattore importante dei sistemi di sopravvivenza delle famiglie. Per anni, la migrazione dalle aree rurali a quelle urbane è stata il meccanismo fondamentale per quanto riguarda le opportunità di lavoro, la mobilità sociale e il trasferimento del reddito. Quasi il trentadue per cento degli africani subsahariani nel 1996 viveva nelle aree urbane, con un aumento dell’undici per cento rispetto al 1950. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, quasi il cinquanta per cento della popolazione africana subsahariana nel 2015 sarà urbana. Sono emerse nuove strutture familiari a causa del fenomeno della migrazione. La globalizzazione ha favorito anche nuove forme di migrazione, poiché gli africani cercano migliori opportunità economiche in Europa, negli Stati Uniti, in Medio oriente, in Australia, in Canada, e così via. Per la maggior parte di queste persone, la migrazione fa parte della lotta contro la povertà debilitante, come pure contro le forme implicite ed esplicite di oppressione politica. Anche la lunga serie di guerre civili, conflitti, e l’instabilità politica in Africa hanno contribuito in larga misura alla migrazione e alla disgregazione della famiglia africana. Come la migrazione dalle aree rurali a quelle urbane, la migrazione internazionale è una lama a doppio taglio per le famiglie, fornendo benefici economici attraverso le rimesse, ma spezzando al contempo i vincoli sociali che sostengono le famiglie. Il traffico di bambini attraverso i confini con i Paesi vicini ha parimenti inciso sulla famiglia africana. I trafficanti mantengono le vittime in uno stato di subordinazione attraverso la violenza fisica, la servitù per debiti, la confisca del passaporto e le minacce di violenza nei confronti della loro famiglia. Spesso la giustizia per le vittime di questi crimini è piuttosto elusiva. Un’altra piaga che ha portato alla spirale discendente per la famiglia africana è la violenza domestica, argomento tabù che, malgrado leggi ben intenzionate, continua senza tregua a distruggere famiglie. La violenza basata sul genere riguarda le persone di ogni ceto sociale, credo, razza o etnicità. La famiglia e la casa — che dovrebbero essere lo spazio più sicuro per donne, uomini e bambini — sono diventate luoghi di scontro, dolore, abuso, disinteresse e disintegrazione. L’indagine più recente su salute e demografia in Kenya (2013) rivela che il quarantacinque per cento delle donne e il dieci per cento degli uomini hanno denunciato di aver subito violenze da un partner intimo. La violenza in famiglia è una conseguenza dei cambiamenti che si sono verificati e che, come già indicato, hanno portato all’instabilità dell’unità familiare. Molti matrimoni ora sono neolocali, dove le coppie vivono lontano dalle proprie famiglie. Tali famiglie tendono a essere individualiste e le coppie non beneficiano più dei consigli degli anziani. In caso di difficoltà e di conflitto, la separazione e il divorzio sono diventati la norma. A ogni modo, malgrado tutte queste sfide, i sistemi di sostegno familiare continuano in qualche misura a essere vivi in Africa. La famiglia è sempre il luogo di trasmissione di valori e di acquisizione d’identità e offre un quadro d’inclusione a prescindere dal carattere, dall’età, dallo status, e così via. Un proverbio Gikuyu riassume proprio questo concetto. Afferma che, una volta che un bambino è nato, non lo si può abbandonare.