Compiacersi di essere dispiaciuti
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Compiacersi di essere dispiaciuti
COMPIACERSI DI ESSERE DISPIACIUTI Nat Thrall recensisce La Mia Terra Promessa: Israele, trionfo e tragedia, di Ari Shavit Ari Shavit è un editorialista d Haaretz ammirato dai sionisti liberali degli Stati Uniti, dove il suo libro è stato oggetto di grande attenzione. Nell'aprile del 1897 il suo bisnonno, Herbert Bentwich partì per Jaffa, a capo di una delegazione di 21 Sionisti che dovevano accertare se la Palestina fosse un posto adatto come patria ebraica. Theodor Herzl, il cui saggio Lo stato ebraico era stato pubblicato l'anno prima, non era mai stato in Palestina e sperava che il gruppo di Bentwich avrebbe presentato un rapporto esauriente della sua visita al primo congresso sionista, che doveva tenersi in agosto a Basilea. Bentwich era benestante, europeo occidentale e religioso. Herzl come molti dei primi sionisti era sopratutto interessato ad aiutare i poveri e perseguitati ebrei dell'Europa orientale, mentre Bentwich era più preoccupato del gran numero dei laici ed emancipati ebrei dell'Europa Occidentale che si stavano assimilando. Una soluzione di entrambi i problemi, egli pensava, poteva essere costituita dalla rinascita della Terra di Israele in Palestina. Alla fine del 1700 circa 250 mila persone vivevano in Palestina, inclusi 6500 ebrei quasi tutti sefarditi. Nel 1897, quando Bentwich compì la sua visita, la percentuale di ebrei era più che triplicata, raggiungendo l'8%, grazie alla immigrazione di sionisti askenaziti. Bentwich, scrive Shavit, sembra non aver notato che vi era una grande maggioranza di non ebrei – i portuali arabi che l'avevano fatto sbarcare, i mercanti arabi del bazar di Jaffa, le guide e i portatori della sua spedizione. Guardando dall'alto di una torre dell'acquedotto al centro della Palestina, egli non vide le migliaia di musulmani e cristiani che c'erano giù in basso, né il mezzo milione di arabi che costituivano la popolazione di venti città e di centinaia di villaggi. Non li vide, dice Shavit, perché molti vivevano in piccoli nuclei abitati circondati da grandi aree vuote; perché vedeva la terra di Israele estesa ben oltre gli abitati palestinesi, fin dentro al deserto dell'attuale Giordania; e perché non esisteva l'idea di una identità nazionale palestinese, per cui i palestinesi non esistevano. La cecità di Bentwich fu gravissima, dice Shavit, ma fu necessaria per salvare gli ebrei. Nell'aprile del 1903, 49 ebrei vennero uccisi in un pogrom a Kishinew, capitale della Moldavia. Più di un milione di ebrei lasciarono l'Europa dell'est nel decennio successivo, la maggioranza verso l'America. La maggior parte dei 35.000 che emigrarono in Palestina erano laici e idealisti. Essi pensavano che la Palestina potesse ospitare ebrei e e arabi. Essi vissero in comuni agricole e trasformarono il pallido e debole ebreo del ghetto nell'abbronzato e virile pioniere dei kibbutz socialisti. Nel 1935 gli Ebrei erano diventati più di un quarto della popolazione della Palestina e in innumerevoli luoghi gli affittuari agricoli palestinesi erano stati sostituiti da aranceti e da colonie agricole ebraiche. Ma l'arrivo di capitali, tecnologie e cure mediche, scrive Shavit, non beneficiarono solo gli ebrei. In proposito cita un articolo scritto nel 1936 dal rappresentante dei coltivatori di aranci di Rehovot: 'Mai un progetto coloniale ha portato tante benedizioni come quelle portate al territorio e ai suoi abitanti dal nostro progetto”. Con l'avvento di Hitler, molti più ebrei vollero immigrare in Palestina. La violenza della rivolta araba del 1936-1939, una insurrezione nazionalistica contro il Mandato Inglese e la massiccia immigrazione ebraica, provocò la morte di 5000 palestinesi e di 300 ebrei, e fu uno shock per la comunità ebraica. L'opposizione palestinese alla immigrazione ebraica non era nuova, ma prima disordini e violenze erano stati brevi e sporadici. La fase del sionismo utopistico terminò bruscamente, scrive Shavit, per lasciare il posto alla constatazione che conflitto etnico e spostamenti di popolazione erano inevitabili. Quando l'ONU propose la sparizione della Palestina tra uno stato ebraico e uno palestinese, gli ebrei costituivano meno di un terzo della popolazione e possedevano il 7% della terra. La proposta ONU, che fu respinta dai dirigenti palestinesi e dalla Lega Araba, assicurava alla minoranza ebrea il 56% del territorio. Il piano fu ugualmente approvato, e la guerra scoppiò il 29 novembre 1947.Quando ci fu l'intervento arabo nel maggio del 1948, vi erano già stati 1000 morti per parte e circa 300.000 palestinesi erano scappati o erano stati espulsi. Nel luglio del 1948 l'esercito israeliano attaccò il villaggio di Lydda, tra Tel Aviv e Gerusalemme. I soldati lanciarono bombe a mano nelle case, spararono granate anticarro contro una moschea affollata e fecero fuoco coi fucili mitragliatori contro i sopravvissuti. Gli uccisi furono più di 200. Il primo ministro David Ben Gurion diede ordini a Igal Allon, che comandava l'operazione, di deportare gli abitanti sopravvissuti. Un altro comandante, Ythzhak Rabin, precisò: “Gli abitanti di Lydda vanno espulsi alla svelta, senza badare all'età”. Questi e altri episodi di quella che Shavit chiama 'pulizia' non furono una aberrazione, ma parte integrale della missione sionista di creare uno stato con la più ampia possibile maggioranza ebraica. ”Se il sionismo doveva imporsi, Lydda doveva sparire” scrive. “Se Lydda doveva restare, non poteva esserci il sionismo”. “Una cosa è chiara per me”, prosegue Shavit: “il comandante della brigata e lo stato maggiore militare avevano ragione di prendersela coi liberali israeliani dal cuore sanguinante degli anni successivi, che condannano quello che essi fecero in Lydda ma godono i frutti del loro lavoro..Se necessario, io sto dalla parte dei da dannati. Perché so che se non fosse stato per loro Israele non sarebbe nato”. Dopo la guerra, lo sviluppo ebbe la precedenza sulla riflessione, scrive Shavit. Sopravvivere era tutto. La nazione mise radici: l'olocausto non venne menzionato; la cultura sefardita e degli ebrei mediorientali venne marginalizzata; i profughi palestinesi vennero dimenticati. La storia venne cancellata. Cognomi ebrei sostituirono quelli dell'Europa orientale. Nomi delle località bibliche sostituirono quelli delle città arabe. Nel decennio dopo la guerra, quattrocento villaggi palestinesi abbandonati venne demoliti e ne furono costruiti altrettanti di ebraici. Grandi sfide dovette affrontare lo stato neonato: razionamento, povertà, l'arrivo dei traumatizzati superstiti dell'olocausto. In meno di quattro anni la popolazione ebraica raddoppiò. Contro ogni probabilità, scrive Shavit, l'entità si irrobustì e divenne uno stato egualitario e socialdemocratico. Scienza, industria e agricoltura fiorirono. Nel deserto fu costruito un reattore nucleare. Tuttavia, con grande dispiacere di Shavit, l'Israele illuminato costruito da Ben Gurion non durò a lungo. Dopo il trionfo del 1967, quando Israele conquistò il Sinai e il resto della Palestina del mandato, arrivò la devastante sorpresa dell'attacco portato da Israele e Siria nel 1973. Il partito Laburista, che con varie denominazioni era stata la forza politica dominante fin da prima della fondazione dello stato, non si riprese più. Cercando di riempire il vuoto lasciato dal vecchio movimento dei coloni sionisti laburisti, sionisti religiosi sparsero lungo le alture di Giudea e Samaria, luoghi di maggior significato biblico rispetto al territorio costiero occupato da Israele prima del 1967. Dalle ceneri del partito laburista nacque un movimento pacifista. Shavit se ne considerava un membro, ma col tempo arrivò a vederne gli errori. La sua base era una ristretta élite di Askenazi e i suoi leaders, scrive Shavit, erano dei dilettanti. Usavano gli appelli alla pace come clava contro i coloni e la destra.. Il suo moralistico, ingannevole insistere sulla relativamente semplice questione della occupazione del 1967 era un modo per negare la loro responsabilità per quella che Shavit vede come la irresolubile tragedia del 1948. Si concentrava sui coloni nella West Bank, ritiene Shavit, per distrarre l'attenzione dai villaggi palestinesi evacuati nel territorio dello stato israeliano dove appunto i leader pacifisti vivevano. Promettendo una visione utopistica, non meno messianica di quella dei coloni, il pacifismo spacciava la fine dell'occupazione per la pace, ignorando le aspirazioni palestinesi e la cultura politica araba. Il movimento contava, dice Shavit, su una controparte pacifista che non esisteva, ingannava se stesso circa la natura del conflitto e la brutalità del Medio Oriente. Gli scontri tra palestinesi e israeliani non erano cominciati nel 1967; la fine dell'occupazione non era l'unica richiesta dei palestinesi. Se anche l'occupazione cessasse, i cittadini palestinesi di Israele vorranno comunque cambiare la natura ebraica dello stato. I profughi non rinunceranno a tornare a Lydda. Lydda, scrive Shavit, è l'essenza del conflitto. E Lydda è un problema insolubile. Divisa equamente tra ricordi, storia popolare e polemica, “La mia terra promessa” porta pesanti argomenti contro la soluzione dei due stati, ma non da una delle due posizioni politiche tipicamente associate a questa conclusione, l'estrema sinistra e l'estrema destra. Fornisce invece una luce per vedere nel pensiero di una larga parte degli elettorato israeliano, quell'amorfo e conflittuale centro che, dopo il fallimento di Oslo, la seconda intifada e i problemi conseguenti al ritiro da Gaza nel 2005, si è rivolto verso la destra, pur senza identificarvisi completamente. E' un affettuoso ritratto dei sopravvissuti all'olocausto che hanno terminato la loro esistenza negli alloggi statali di un Israele appena fondato; delle imprese tecnologiche che spingono una economia che comporta una quota pericolosamente alta e crescente di popolazione inattiva; e i giovani coloni della Cisgiordania coi loro zucchetti di maglia che ammirano il Laburismo storico ma disprezzano “quello che il laburismo è diventato”. Shavit critica la sua stessa tribù, l'élite dei sionisti laburisti askenaziti: egli descrive il loro disdegno per gli ebrei venuti in Israele dai paesi arabi e che erano stati spruzzati di DDT e chiusi in campi di raccolta, alcuni dei quali circondati dal filo spinato; la loro paura che gli ebrei arabofoni e gli ultraortodossi potessero impadronirsi del 'loro' paese, trasformandolo in un altro stato confessionale medioorientale, distruggendone i fondamenti occidentali; la loro confusione tra condannare la destra per le sue politiche e disprezzarla per essere sostenuta da poveri; e la loro vuota visione della pace, dove 'mancavano gli arabi', come dice Shavit, e veniva usata come strumento per attaccare le classi più basse che nel 1977 diedero il patere al Likud di Menachem Begin. Shavit descrive la sua delusione verso la sinistra israeliana, e come è arrivato alla conclusione, condivisa da gran parte della destra, che il nazionalismo israeliano e quello arabo sono inconciliabili. Egli condanna la destra perché si comporta come se il conflitto con i palestinesi fosse iniziato nel 1967 e potesse essere risolto ponendo fine all'occupazione militare. Shavit li accusa di usare il 1967 per distrarre l'attenzione dalla responsabilità di Israele per il 1948, dove è la vera base del conflitto. Ma concentrando la sua attenzione sulle espulsioni del 1948, lo stesso Shavit fa qualcosa di simile, dirigendo l'attenzione sulla guerra araba, mentre sorvola su gran parte delle lotte precedenti e successive. Una ragione per cui gli israeliani e i loro capi hanno avuto una tale difficoltà a riconoscere una responsabilità anche parziale per le espulsioni del 1948 è che essi non hanno ancora preso in considerazione il modo in cui i palestinesi vedono i decenni prima della guerra araba. I palestinesi non cercano scuse per gli errori tattici commessi durante la guerra. Essi vogliono che Israele riconosca l'ingiustizia delle deportazioni che hanno subito fin dagli albori del sionismo. Shavit va lodato per non aver nascosto le malefatte dei soldati israeliani nel 1948, documentate negli ultimi decenni dai revisionisti israeliani noti come i Nuovi Storici – per esempio Benny Morris, Avi Shlaim e Tom Segev - anche se si congratula un po' troppo con se stesso per aver osato 'scottarsi col fuoco'. Ma egli non si limita a descrivere ciò che accadde nel 1948: tenta di giustificarlo, e il suo libro è in gran parte una difesa morale delle sofferenze inflitte dal sionismo alle popolazioni locali. Curiosamente per un libro così preoccupato di legittimare il Sionismo,”La mia terra promessa” non tratta il più forte e ovvio argomento a sostegno del diritto degli ebrei di autodeterminarsi in quello che è l'attuale stato di Israele: il fatto di essere consacrato in una legge internazionale, sotto forma della Risoluzione n.,181 dell'ONU, diritto riaffermato nella dichiarazione di indipendenza sia di Israle nel 1948 sia della Palestina nel 1988. Quelli che siano stati i comportamenti dei predecessori, ci sono oggi in Israele più di 6 milioni di ebrei, cioè il 75% della popolazione. E negare agli ebrei il loro paese vorrebbe dire cercare di porre rimedio alle passate ingiustizie creandone di nuove. Invece di presentare il caso israeliano sulla base di questi limitati ma incontrovertibili aspetti, Shavit sceglie un approccio più ambizioso e pesante: una storia di Israele nella quale il 1948 appare come l'eccezione che conferma la moralità del suo paese. Così Shavit mette nell'ombra altri difficili momenti della storia di Israele. Il miscuglio che ne risulta, di leggende e di fatti, non è un terreno così solido da fondarvi una pretesa morale, ed egli fa molte affermazioni che sono facili da contestare: che i primi sionisti erano ignari dell'esistenza di una popolazione indigena; che vi erano poche alternative disponibili per gli ebrei nell'Europa occidentale; che il diritto storico degli ebrei di affermare la loro sovranità nella loro antica patria prevaleva sui diritti e i desideri della popolazione locale che viveva lì da più di mille anni; e poi il boom economico goduto dagli arabi grazie ala immigrazione sionista; il socialismo egualitario del kibbutz come giustificazione morale del sionismo; l'Olocausto come giustificazione a posteriori della colonizzazione sionista avvenuta più di cinquanta anni prima; e la bontà della democrazia instauratasi dopo la fondazione di Israele. Molti di questi punti hanno qualche merito, ma tutti sono presentati con evidenti omissioni e alterazioni, tali anche rispetto agli standard della prevalente storiografia sionista. -oShavit è un laico che vede la decisione di realizzare una patria nazionale ebraica in Palestina come fondata su consistenti e ampie ragioni universali – la necessità di un popolo perseguitato di avere u n rifugio – e non sulla credenza che gli ebrei possiedano quella terra in virtù della promessa di dio ad Abramo. Salvo che per brevi riferimenti alla Terra Santa e all'antica sede della nazione ebraica, la religione è quasi del tutto assente dalla sua descrizione del sionismo delle origini. Tuttavia, Anita Shapira, che è tra i più recisi critici dei Nuovi Storici, mostra nel suo novo libro: “Israele, una storia”, idee religiose, tradizioni e scritture erano al centro della impresa fin dall'inizio. Nell'Yshuv, la comunità ebraica che precedette lo stato, 'la Bibbia era il testo fondamentale', 'Esso era depositario della memoria storica...e dava concretezza alle Terra d'Israele, creando un legame diretto tra passato e presente' . Come chiarisce la Shapira, la fede religiosa degli ebrei dell'Europa Orientale fu la principale ragione per la quale i dirigenti laici del movimento sionista scelsero di insediarsi in Palestina e non in Argentina o in East Africa, nei territori offerti dal governo inglese. Shavit scrive che se gli ebrei non fossero andati in Palestina alla fine dell'800, per essi non ci sarebbe stato futuro. Ma le cose non stavano affatto così, come puntualizza la Shapira: milioni di ebrei dell'Europa Occidentale fuggirono all'ovest, sopratutto in America, e una buona parte della piccola minoranza sionista scelse di non rimanere in Palestina. Ahad Ha'am, uno dei più influenti teorici del sionismo, che Shavit definisce 'il leader morale della nazione', pensava che molti ebrei dovessero andare a vivere begli Stati Uniti e che solo una piccola scelta minoranza dovesse stabilire il suo centro morale in Palestina, come modello di società da imitare dagli ebrei della diaspora. Facendo eco al vecchio slogan sonista “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, Shavit scrive che “guardando le terre disabitate nel 1897, Bentwich vede la tranquillità, il vuoto, la promessa”. Alcuni degli eminenti sionisti del tempo, incluso Ahad Ha'am, non videro affatto il vuoto. Anzi, notarono gli abitanti arabi e previdero il conflitto con loro. Sei anni prima dell'arrivo di Bentwich in Palestina, Ahad Ha'am aveva scritto: Dobbiamo sicuramente imparare, dalla nostra storia passata e presente, quanta cura dobbiamo mettere per non provocare la rabbia della popolazione nativa danneggiandola..E cosa fanno i nostri fratelli? Esattamente l'opposto...Trattano gli arabi in modo ostile e crudele, li oltraggiano ingiustamente, li percuotono vergognosamente senza ragione, e perfino se ne vantano...anche se gli arabi tacciono e sono sempre contenuti, tengono la rabbia in cuore. E questo popolo si vendicherà come nessun altro...questa società...dovrà affrontare la prospettiva di una guerra interna ed esterna. Come Shapira evidenzia, dopo il Settimo Congresso Sionista tenuto a Basilea nel 1905, scoppio un rovente dibattito circa a convenienza della Palestina come territorio nazionale, vista la sua ampia popolazione araba. Una conferenza di Itzhak Epstein “Un problema nascosto” aiutò a infiammare il dibattito, esacerbando la tensione tra i territorialisti, che volevano stabilire l'autonomia ebraica dovunque fosse possibile, e i Sionisti di Sion, che insistevano su una patria sionista in Palestina. “Quelli che verranno spossessati rimarranno zitti e accetteranno quello che gli stiamo infliggendo?” si domandava Epstein. “Alla fine, si sveglieranno e ci restituiranno in bastonate quello che noi gli abbiano rapinato col nostro oro”. Queste discussioni interne sono totalmente ignorate da Shavit, una omissione che colpisce in un'opera così preoccupata della difesa morale. Invece egli afferma che le colonie sioniste erano giustificate dal bisogno degli ebrei dell'Europa Orientale di sottrarsi alle persecuzioni, ma glissa sulla questione morale sottostante: le persecuzioni in Europa comportano che i profughi ebrei dovessero sistemarsi dovunque fosse loro possibile, o c'era la specifica necessità di farlo in Palestina? Gli ebrei perseguitati hanno solo il diritto di rifugiarsi in Palestina, o anche quello di farlo creando laggiù un loro stato, anche se ciò significa rimuovere la popolazione locale? Era legittimo che gli inglesi promettessero agli ebrei una patria in Palestina? Evitando questi argomenti, Shavit non ci porta a capire il modo in cui i Palestinesi vedono la loro storia, e blinda una narrativa di 'giustezza morale' che impedirà qualunque riconciliazione. Nonostante metta in discussione le azioni dei sionisti nella guerra del 1948, Shavit non ha dubbi sulla giustezza della loro causa prima di allora. 'Nella primavera del 1935' scrive 'il sionismo è solo un movimento nazionale' che rappresentava 'una assoluta, universale giustizia che non può essere negata. Fino a quel momento, l'ingiustizia causata agli arabi dal progetto sionista era limitata'. Questa secca valutazione, e altre consimili, potrebbero essere più convincenti se Shavit ci spiegasse perché il secondo primo ministro israeliano, Moshe Sharrett, poi conosciuto come Shertok, disse nel 1936 che 'non c'è un solo arabo che non sia stato danneggiato dall'arrivo degli ebrei in Palestina'. O per quale ragione Ben Gurion disse nel 1938: 'Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi ci limitiamo a difenderci, - è solo una mezza verità....gli scontri sono solo un aspetto del conflitto, che è essenzialmente politico. E politicamente siamo noi gli aggressori, mentre gli altri si difendono' . Più di settanta anni dopo che il più eminente dei sionisti aveva fatto queste affermazioni, Shavit al confronto dimostra un ottuso manicheismo. Egli ripetutamente invoca il socialismo dei kibbutz come giustificazione del sionismo, come se l'armonia del kibbutz potesse giustificare il comportamento sionista verso i non ebrei. “Senza il lato comunitario dei kibbutz' egli scrive' il socialismo sionista mancherebbe di legittimità e sarebbe percepito come un ingiusto movimento colonialista..Lavorando la terra con le nude mani e vivendo poveramente, intraprendendo un azzardato e mai sperimentato modello sociale, essi respingono ogni accusa di essere dediti a rubare una terra che non è loro'. Il kibbutz egualitario, la coltivazione di aranci, l'essere vicini alla natura e lavorare la terra, - tutto ciò è presentato da Shavit come l'essenza della vita in Palestina durante il Mandato inglese. Gli Arabi prosperavano accanto agli ebrei, l'ingiustizia verso i locali era compensata dai progressi portati dal sionismo. Tutto questo va bene per le storie raccontate ai bambini nei campi estivi sionisti, ma alcuni tasselli essenziali mancano dall'immagine fornita da Shavit: la promozione del 'lavoro ebraico', la 'terra ebraica', i 'prodotti ebraici' e gli sforzi per escludere i lavoratori arabi dall'economia ebraica; le ripetuto petizioni degli Arabi contro l'immigrazione ebraica, a partire dal 1891; la vita borghese, cittadina, scelta dai più degli immigrati nonostante la spinta verso un ideale rustico e pionieristico. 'Nonostante tutte le esortazioni' scrive Shapira 'nel 1931 solo il 19% degli ebrei in Palestina vivevano in colonie agricole, e in seguito questa percentuale si ridusse'. “La rivolta araba del 1936-1939” scrive Shavit “spinse il sionismo da uno stato di utopistica felicità in quello di un conflitto distopico”, segnando la strada per il 1948. Ma questa età dell'innocenza è una invenzione della sua immaginazione. Nel 1886 una sommossa araba contro i coloni ebrei venne descritta dalla stampa sionista come un pogrom, altre sommosse si ebbero nel 1920, 1921, 1929 e 1933. Quando Shavit afferma che la guerra del 1948 fu un'inevitabile conseguenza del sionismo egli sembra dimenticare il suo (precedente) quadro di una felice coesistenza nei primi anni dell'Yshuv. “L'occupazione di Lydda e le espulsioni da Lydda non furono un incidente' egli scrive. “Esse erano l'inevitabile fase della rivoluzione sionista, che ponevano le fondamenta dello stato sionista. Lydda è una integrale ed essenziale parte della nostra storia. E quando cerco di essere onesto in proposito, il vedo che la scelta è secca: o rigettare il sionismo a causa di Lydda, o accettarlo insieme a Lydda.” Ma Shavit non da sostegno alla sua tesi che l'espulsione da Lydda fosse inevitabile. Lydda era situata in un territorio riservato agli arabi dal piano Onu di spartizione del 1947. Diversamente dal villaggio meridionale di Isdud (oggi Ashdod) o dalla citta settentrionale di Nazareth, l'espulsione da Lydda non era necessaria per correggere i confini sbagliati del piano di spartizione, che divideva la stato israeliano in tre parti scollegate. Al tempo della occupazione di Lydda nel luglio 1948, scrive Shapira, i combattenti arabi erano male equipaggiati, semi addestrati, soverchiati in numero dalle forze ebraiche (e così fu per il resto della guerra) e 'senza coordinazione né comando centrale'. Shavit scrive che prendere Lydda, esperne gli abitanti e proibire il loro ritorno fu necessario, ma egli non spiega perché così non fosse per la città vecchia di Gerusalemme, per Betlemme e per nessuno degli altri villaggi palestinesi che confinavano con il nuovo stato. Come Shapira mostra, dopo discussioni i leader israeliani decisero di non conquistare altro territorio per espellerne i residenti, anche se potevano farlo. Verso la fine della guerra, scrive Shapira, Ben Gurion 'respinse la proposta di Ygal Allon di conquistare la West Bank, che era militarmente realizzabile. Egli era sensibile al problema demografico di governare centinaia di migliaia di arabi, e fece di tutto per evitare la trappola'. In senso generale, Shavit può avere ragione che la deportazione di palestinesi, anche se non in quella scala, era nei progetti fin dall'inizio, e che le espulsioni del 1948 erano la naturale estensione degli obiettivi della maggioranza dei sionisti che volevano creare uno stato ebraico per una minoranza sopratutto dell'Europa orientale nonostante la contrarietà della maggioranza araba. “Il parziale spossessamento di un altro popolo” Scrive Shavit “è il nocciolo dell'impresa sionista”. Tuttavia Shavit lascia curiosamente inesplorata l'ideologia vecchia di decenni che portò a questo spossessamento. Egli si libera della questione dicendo che o uno accetta il sionismo o non lo accetta. In altri momenti egli definisce l'olocausto come 'l'argomento definitivo del sionismo', il che implica che la giustificazione del sionismo di prima della guerra è principalmente retroattiva. Né egli fa un serio tentativo di difendere il sionismo su basi particolaristiche – il diritto degli ebrei alla terra promessa da dio, o come eredi dei suoi antichi abitanti - e non cerca di rispondere alle obiezioni universalistiche rivolte al sionismo fin dai primi tempi, come ad esempio la questione posta da una delegazione di palestinesi islamici e cristiani in risposta a una relazione scritta nel 1921 dalle autorità del Mandato britannico: 'Pensate alla confusione si creerebbe da per tutto se questo principio sul quale gli ebrei basano la loro 'legittima' pretesa fosse invocato in altre parti del mondo! Che spostamenti di popoli dovrebbe seguirne! Gli spagnoli dovrebbero fare spazio agli arabi e ai berberi che hanno conquistato e dominato la Spagna per più di sette secoli” Shavit evita anche di far risalire le radici dell'ideologia sionista al romantico, esclusivista, popolare nazionalismo dell'Europa Orientale e dei paesi tedeschi dai quali proveniva la maggioranza dei sionisti. Salvo un caso, non si chiede se quella ideologia abbia avuto una parte nelle espulsioni del 1948 nelle politiche statali successive alla guerra, alcune delle quali continuano ancor oggi. Fa solo eccezione per la colonizzazione della West Back, della quale si chiede se sia 'una benigna continuazione del sionismo o una sua maligna mutazione', per concludere che, per quanto il suo modus operandi sia simile alle prime colonizzazioni sioniste, 'il contesto storico e concettuale è completamente diverso', per cui ne è 'una aberrante, grottesca reincarnazione'. Lungo il suo libro, Shavit parla ingannevolmente di un sionismo unitario, ignorando le notevoli differenze all'interno del movimento. La sua versione del sionismo procede senza scosse dalla fine del XIX sec. fino a oggi, col solo arresto del 1948. E' come se avesse preso le più rozze anti-colonialiste e antimperialiste critiche di Israele – nelle quali ogni malefatta nella storia del sionismo è una predeterminata conseguenza del sionismo tout court – e le abbia rovesciate. In ogni caso, salvo il 1948, le connessioni tra le ideologie sioniste e le azioni di Israele nei confronti dei palestinesi, particolarmente di quelli con cittadinanza israeliana, sono minimizzate. Shavit ha ragione di puntualizzare che gli arabi non erano solo vittime passive. Molti dei comportamenti di Israele sono stati determinati da un effettivo senso di minaccia causato dalla opposizione degli arabi: il massacro di Hebron del 1929, il sostegno alla Germania nazista da parte del gran Mufti di Gerusalemme, l'antisemitismo che impregna la propaganda araba, i numerosi attacchi militari contro Israele, gli attentati suicidi contro civili israeliani nella seconda intifada. Ma Shavit non rende un buon servizio alla sua difesa tacendo troppe cose. Il suo racconto della storia di Israele dopo la guerra maschera o omette del tutto alcuni fatti sgradevoli. Come Shapira, Morris e altri storici hanno raccontato, negli anni dopo l'armistizio molte migliaia dei 750.000 palestinesi espulsi dalle loro terre e case furono uccisi quando tentavano di ritornarvi furtivamente col favore della notte; Israele distrusse, espropriò e cercò di cancellare i segni della vita precedente nei villaggi già palestinesi, compresi quelli dove avevano vissuto 75.000 palestinesi spostati in altre zone di Israele; e tra il 1949 e il 1956 decine di migliaia di palestinesi, compresi gli abitanti della attuale Ashkelon e beduini del nord e del Negev, furono indotti ad andarsene o forzatamente deportati nel Sinai, a Gaza, in Syria o altrove. Shavit non ricorda che i primi ministri israeliani approvarono nei primi anni '50 piani per trasferire migliaia di arabi cristiani in Argentina o in Brasile, o che imposero un governo militare ai suoi cittadini arabi fino alla fine del 1966, negò loro la possibilità di ricorrere al sistema giudiziario israeliano, censurò la loro stampa e limitò i loro movimenti. Invece per Shavit 'Israele negli anni '50 fu una giusta democrazia sociale... una delle 'più egualitarie...del mondo'. Shavit ignora il progetto statale di colonizzazione accelerata dopo la guerra del 1948, che limitò la crescita dei villaggi arabi, espropriò le loro terre e li circondò con nuovi insediamenti ebraici che dovevano, secondo quanto dichiarato da esponenti del governo, 'giudaizzare' le aree abitate da arabi e i territori lungo i confini. E non vede il fatto che dopo la conquista nel 1967 della West Bank, di Gaza del Sinai e del Golan, furono i leader laburisti – non dei religiosi fanatici – i maggiori ideologi della espansione territoriale. Ancor più stupefacente che Shavit non esplori la continuità tra le azioni di Israele nel 1948 e la sue attuali politiche: le restrizioni alla vendita o affitto di terre agli arabi; la punizione delle organizzazioni israeliane che commemorano la Nakba, cioè la catastrofe palestinese del 1948; l'Organizzazione Mondale Sionista, Settore Colonie, progetta di 'giudaizzare la Galilea' e di espandere la continuità territoriale degli ebrei alle zone abitate dai cittadini palestinesi di Israele..Ogni settimana i giornali descrivono i tentativi di rafforzare il carattere ebraico di Israele a spese dei cittadini palestinesi, mentre nel racconto di Shavit è come se la guerra del 1948 fosse stata l'ultima volta in cui Israele aveva tolto diritti a quel quarto di cittadini che non sono ebrei. -oIl .libro di Shavit è stato scritto per un pubblico americano, in inglese e non in ebraico, e ha ricevuto più lodi dagli ebrei americani di qualunque altro libro su Israele pubblicato negli ultimi dieci anni. Il direttore dell' Anti Defamation League Abe Foxman, il corrispondente di Atlantic Jeff Goldberg,e il direttore di Mew Republic Franklin Foer hanno fatto entusiastiche presentazioni del libro, così come l'ex premier israeliano Ehud Barak.Il libro ha ricevuto il premio Natan, un nuovo premio che finanzia la pubblicità, il marketing e la distribuzione del libro vincitore. L'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) ha distribuito copie del libro ai suoi giovani attivisti. Thomas Friedman e David Brooks hanno entrambi dedicato al libro una colonna di lodi sul New York Times. Il direttore di New Yorker, David Remnick, che Shavit definisce come il 'padrino' del suo libro, ha parlato in molte sedi per pubblicizzare il libro, che lui ha aiutato a rivedere, ne ha pubblicato estratti sula sua rivista, definendolo 'il più straordinario libro' su Israele da decenni, e 'un argomento a favore del sionismo liberale'. In un panegirico sulla New York Times B, Leon Wiesilter , il direttore letterario di New Republic, lo descrive come un 'libro sionista non accecato dal sionismo'. Sondaggi di opinione indicano che la maggioranza degli ebrei americani si considerano 'liberal' e democratici e provano affetto per Israele. Molti respingono l'ipotesi che vi sia una qualche contrasto tra la loro fede liberale e il loro sionismo. Il racconto fondamentalmente favorevole di Shavit, la sua celebrazione di Israele, conferma ai liberali americani che il contrasto non esiste. La sua dichiarazione di dolorosa presa di coscienza su Lydda consente a lui e ai suoi lettori di essere contenti del proprio disagio. Egli può dire ai profughi palestinesi di andare oltre, mentre lui ci versa sopra una lacrima. Come del resto lui stesso aveva ammonito un ipotetico interlocutore palestinese parlando alla radio nazionale: “Io riconosco Lydda, ma voi non dovete restare attaccati e Lydda. Dovete lasciarvela alle spalle”. Ai palestinesi si chiede di dimenticare la loro storia, mentre nella stessa intervista dice agli ebrei di ricordare la loro: '(noi ebrei) abbiamo perso questa fondamentale nozione, che noi siano le vere vittime del 20° secolo”. L'enfasi di Shavit sulla tragica inevitabilità del disagio provocato da Israele rassicura i suoi lettori che essi possono assolverlo dalle ingiustizie commesse in passato – quello che era successo era, dopo tutto, inevitabile – e che vi è ben poco che Israele e i suoi sostenitori possa oggi fare per porvi rimedio. Egli 'bacchetta' la sinistra per aver mancato di riconoscere la centralità del problema dei rifugiati, ma non perché egli pensi che il bisogno dei profughi debba essere soddisfatto. Shavit, come i governanti di Israele, non è disposto a prendere in considerazione il ritorno di un significativo numero di palestinesi. In sostanza, giustifica l'inerzia, ma la maschera con la simpatia. In una conversazione con Remnick, Shavit ha detto che lui non se la sentirebbe di condannare quelli che commisero massacri nel 1948: Shavit: Quelli se la sono presa con alcuni scrittori israeliani dal cuore esulcerato, che ben conosciamo. Essi hanno detto 'noi abbiano fatto il lavoro sporco. E loro vivono sulla terra che non abbiamo sgombrato per loro, e adesso questi dicono che abbiamo commesso crimini di guerra'. Questo e un discorso. Ora io penso che sia molto importante ricordare, come ho detto in alcune altre occasioni, che questo paese (gli Stati uniti) è fondato su crimini molto peggiori di Lydda. Voglio dire, quando sento liberali americani, liberali canadesi, liberali australiani, liberali Neozelandesi, che il loro liberalismo e i loro valori universali, sono basati sul fatto che, sostanzialmente, loro hanno ammazzato gli 'altri', e adesso si permettono di criticarci. Remnick: E quale è la differenza? Shavit: Cento anni. Remnick: Esattamente questa. Niente affatto. Naturalmente, Shavit ha ragione a dire cento anni prima del 1948 gli indiani d'America subirono un destino molto peggiore di quello dei palestinesi, che non sono stati uccisi in un numero sufficiente a privarli del loro vantaggio numerico sugli ebrei di Israele. Ma questo non vuol dire che l'attenzione oggi dedicata al problema palestinese sia ipocrita, o dovuta solo al fatto che il sionismo è arrivato dopo. E' difficile immaginare un commentatore americano che arrivi a dire ai nativi americani che egli si rifiuta di condannare le violenze del passato, o che le sofferenze dei nativi erano necessarie per il maggior benessere dell'America, e che vi era 'un morale e ragionevole obbligo (dei nativi) di superare quel trauma', così come ha detto Shavit a Charlie Rose a proposito delle espulsioni e dei massacri del 1948. Shavit offre agli ebrei americani una voce apparentemente liberale da Israele, con la quale molti di loro possono identificarsi – una voce che non è né troppo sciovinista, come lo sono settori della destra israeliana, né troppo pessimista e critica verso Israele come certi settori della sinistra israeliana. In Israele, tuttavia, le opinioni di Shavit non sono considerate liberali. Nei suoi articoli si presenta come la voce della ragionevole maggioranza silenziosa, e così negli ultimi anni le sue posizioni, anche se incostanti, hanno seguito il continuo spostamento verso destra del centro politico, i cui membri includono i più 'falchi' dei laburisti al pari di Netanyahu e dei più moderati elementi del Likud. Shavit è lì per confortarli con la sua sapienza. Ancora nel 1997, egli si oppose agli accordi di Oslo, definendoli ''un atto collettivo di ubriachezza messianica” e difendendo il loro più noto oppositore, Netanyahu, dalla accusa di essere in parte colpevole del loro fallimento. Durante la seconda Intifada, elogiò Sharon per aver 'condotto la campagna militare con pazienza, intelligenza e calma' e la 'campagna diplomatica con notevole talento'. Nell'ultima settimana della guerra a Gaza di quest'estate, che è costata la vita a 72 israeliani e a più di 2100 palestinesi, Shavit ha scritto che le forti critiche alla condotta di Israele non erano giustificate ed erano dovute a fanatismo antisemita: “Noi siamo una piccola nazione di minoranza sotto attacco, e diffondere critiche verso questa nazione è come diffonderle sui neri, i gay o la minoranza Yazida”. Shavit è stato tra i più importanti sostenitori dell'opinione che non vi sia 'nessun partner' per la pace tra i dirigenti palestinesi, proclamando che Barak aveva 'offerto ai Palestinesi il mondo intero'. Egli dice di essere favorevole alla fine dell'occupazione ma subito aggiunge che questo passaggio è 'problematico' e 'capace di fomentare ondate di violenza che colpiranno Israele e ne metteranno in percolo l'esistenza'. Nel 2006 ha ripetutamente attaccato il piano di Olmert di ritirarsi da gran parte dei Territori, e ha affermato, durante una discussione presso il Consiglio per le Relazioni Internazionali, che un ritiro anche solo fino al muro di separazione, che lascerebbe la maggioranza dei coloni al di qua del muro, sarebbe un errore. Shavit ha spesso preannunciato la bomba atomica iraniana, a meno di un attacco militare contro l'Iran, al punto da apparire come il portavoce di Netanyahu. Oggi, nella Cisgiordania, egli auspica un lento, cauto e graduale cambiamento, con i soldati e le basi militari lasciate dove sono – una versione della 'pace economica' di Netanyahu. E tutto questo negli Stati Uniti viene spacciato per liberalismo. London Review of Books, 9 ottobre 2014. Traduzione di S.Comis