FRANCO MARIA VIGANO` da `LA SOFFITTA`

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FRANCO MARIA VIGANO` da `LA SOFFITTA`
FRANCO MARIA VIGANO'
da ‘LA SOFFITTA’
Picaro
Un valzer, ecco, zoppo se vuoi, un valzer nella residenza della
principessa Eugenia; lei non c’è, è tutto per te il salone, i
candelabri sono accesi e i lampadari di cristallo gettano una luce
d’oro mentre l’oceano è furente nella notte, dalla veranda mentre
balli lo vedi, furente e geloso di quella luce d’oro tutta per te,
simile a un’ineffabile luce divina.
Forse dopo verrà, la principessa Eugenia, ora non c’è, si fa
attendere, ma tu intanto balla!, si consumano in fretta le candele
dei candelabri d’argento e i lampadari leggermente ondeggiano alla
furia ventosa dell’oceano che filtra dalla veranda. Immagina tu di
essere l’oceano e di vedere uno zoppo tutto solo che balla nel
salone vuoto della principessa Eugenia, illuminato a festa con
tutti
i
candelabri
d’argento
e
tutte
le
candele
e
tutti
i
lampadari di cristallo. Io, se fossi l’oceano, per la rabbia mi
scaglierei sulla spiaggia e ruberei tutta la sabbia mettendomela
in tasca come un monello, io, se lo fossi, spruzzerei tutta la mia
salsedine sulle grandi finestre del palazzo rosso fino a renderle
opache
e
bianche,
se
fossi
l’oceano
urlerei
tutta
la
notte
e
offuscherei la luna e le stelle con onde micidiali.
La
principessa
stanze:
accanto
Eugenia,
ai
dai
broccati
riccioli
delle
corvini,
tende:
è
siede
nelle
vicino
sue
alla
finestra: stretta nel suo corpetto bianco: sperava in un tramonto
mite: mentre la porpora del cielo sfiora come una muleta le coste
spagnole: tutte quante le leggende e i mulini a vento: picaro!,
picaro…
E già da quelle coste soffia caldo il libeccio d’africa; per
questo
t’aveva
dato
appuntamento,
per
essere
felice
stasera.
Felice come non lo era mai stata, in un ballo solitario con te nel
salone
a
innamorare
festa,
la
senza
sabbia,
nessun
la
altro
spiaggia,
invitato
le
che
onde,
te:
e
l’oceano,
far
la
scogliera, anche il maze, insomma un po’ tutto: loro, la sabbia,
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la spiaggia, le onde, l’oceano, la scogliera, il maze, innamorati
più
di
lei
stessa:
loro,
la
sabbia,
la
spiaggia,
le
onde,
l’oceano, il maze, la scogliera, il maze, forse anche te: ma era
un pensiero nascosto, una voluttà, una fantasia di picaro: picaro…
La
principessa
Eugenia
ha
visto
che
l’oceano
stasera
è
turbolento, turpe nel suo viola funereo e balza come un cane a
morder le scogliere e insaliva tutta la spiaggia; e allora anche
il cielo si specchia ed è di cento grigi e neri, e le nuvole
s’assommano, lottano come titani e si spezzano, si frastagliano,
crollano come colossi e si scagliano le une contro le altre con
odio e l’oceano le vuole unghiare, sembrerebbe un gioco ma è vera
guerra.
Non c’è nessuna scogliera spagnola in vista, nessun mulino a
vento,
nessuna
leggenda:
solo
spruzzi
d’onde
che
sembrano
oltrepassare il vetro lucido della lunga bifora e punzecchiare il
viso, ah gli spruzzi, gli spruzzi d’acqua del mare picchiettano
sul
viso
come
tantissimi
minuscolissimi
picchi
sui
tronchi
di
pino: frizzanti! Frizzante picaro, picaro amore mio, picaro...
Sfocia un lugubre canto gregoriano dalla porpora delle tende,
dal grigio buio dei muri freddi: voci fonde che salgono al cielo,
al cielo grigio e turbinoso, inni neri e foschi:
delle
terre
col
sangue
dei
toreri,
dai
dalle profondità
peccati,
dai
ghigni
dell’inquisitore: salgono alti nella stanza un’infinità di canti
gregoriani, un’esagerazione, tremano le solide pietre del palazzo,
sembrano
dirigere
il
coro
sordido
degli
elementi,
sembrano
il
respiro degli inferi, ed Eugenia ha paura, Eugenia congiunge le
mani, il respiro è stretto nel corpetto, gli occhi bambini di
Eugenia brillano imprigionando tutta la luce del mare e del cielo,
è l’unica speranza per fuggire dal vuoto, e cercano di scappare
sulle coste spagnole, immerse nella nebbia dell’oceano furente. Se
picaro era là e non fosse fuggito anche lui, le onde l’hanno
travolto in un attimo di disattenzione come le pale di un mulino e
l’oceano lo sbatacchia dovunque tutto rotto, come una leggenda,
colorato e tutto rotto, picaro mio, picaro…
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E quel puntino breve, colorato di silenzio, un rosso sgargiante
come il sangue abbagliante dei tori & dei toreri, che scende dal
cielo? tra la nuvola nera e quella nerissima, ora solca quella
bianca come la barba del bisnonno ora infila la grigio perla e
viene verso qui: verso qui in silenzio, col silenzio del rosso
sgargiante arriva il puntino tondo, sempre più tondo, possiamo
chiamarlo paffuto? quel puntino cicciotto e rosso e silenzioso,
dicci, picaro che galleggi rotto nella furia delle onde oggi e
domani nella loro quiete, quiete rotta di te, dicci su, tra un
mulino
e
una
leggenda,
prima
che
il
libeccio
arrivi
a
scarmigliarci i capelli dall’africa: cos’è?
Cos’è, picaro colorato, quel puntino col colore del silenzio?
Del colore del sangue dei tori & dei toreri (e anche di un
bimbo che l’aveva più rosso di tutti quanti): ma no? scherzi,
picaro rotto? Cosa ci fa una mongolfiera, anche se del colore del
silenzio, in mezzo alla furia degli elementi?
Fatta apposta, dici: oh picaro, che razza di fantasia !?
E chi l’ha costruita, chi l’ha riempita d’elio?
Tu?
Ma
borseggiavi
va’!
Quando
tutti
ai
crocevia,
ti
quando
prendevano
scongiuravi
in
giro,
dio
per
quando
le
tue
marachelle con falsissime lacrime: nel mentre tu soffiavi l’elio
nella mongolfiera colorata di silenzio?
E adesso che arriva nel
cielo, tra le nubi favolose nere e grigie e bianche, e tu galleggi
rotto sulle onde che ti portano come un catafalco: rispondi collo
sguardo morto che era la tua mongolfiera, la mongolfiera dei tuoi
mulini e delle tue leggende, la mongolfiera di tutti i maestrali,
il frutto dei tuoi borseggi e delle tue imprese: piccolo picaro
che galleggi, hai la febbre, la fronte ti scotta e le onde gelide
cercano di raffreddarla: il tuo delirio morto sale al cielo come
il coraggio puro, che dalla gente, dalla massa delle gente esce
tutt’a un tratto e senza nemmeno farsi largo, tutti lo lasciano
passare:
sale
mongolfiera
e
del
sale,
colore
sale
del
in
mezzo
silenzio:
al
oh,
cielo
ti
e
balza
supplica
sulla
Eugenia,
carezzando la tua fronte morta nelle onde ora leggere: picaro mio,
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non dirmi che l’hai fatta per me…
sono un
Sì mia regina, le mie parole
po’ rotte, è vero, non so se un vanto o una colpa, avevo
borseggiato di brutto perché fosse pronta proprio oggi. Sì mia
regina, anche se sono un po’ troppo morto, e non dovrei dirlo, ma
io ho fatto proprio così.
Per tutta la vita…
Proprio così, per tutta la mia miserabile
vita, mia regina.
E senza farti vedere… E’ difficile farsi vedere dal palazzo
quando
si
è
in
mezzo
a
un’infinità
di
crocevia
radenti
e
puzzolenti, mia regina.
Picaro. E’ bello che voi pronunciate il mio nome, mia regina:
mi
consola,
d’altronde
mi
dà
c’est
autostima,
la
vie
peccato
come
che
dicono
sia
un
dall’altra
po’
morto,
parte
della
scogliera.
Picaro: vieni anche tu, piccolo, sali sulla mongolfiera.
Mia
regina, io ho vissuto nel basso della polvere e ne ho viste di
tutti i colori, per questo la mongolfiera l’ho fatta del colore
del silenzio, ma un morto che sale su una mongolfiera non l’ho mai
visto e credo che sarà difficile anche per un picaro, anche se lo
potrei
sperare,
visto
che
si
tratta
di
me,
anche
se
morto,
picarescamente morto, ma sempre morto, purtroppo.
Picaro, i miei occhi sono colmi di lacrime. Figuratevi i miei,
mia regina, che lo sono e non riescono a farsi vedere. Sono colmi
di
lacrime
dentro
e
non
fuori,
perché
da
una
parte
muoio
dall’altra vedo la mia mongolfiera del colore del silenzio che
arriva
in
questa
notte
di
tregenda
e
sopra
tutto
il
vostro
meraviglioso viso così dolce sulla mia faccia morta. Con tutto il
rispetto, ci sarebbe da incazzarsi, se non fossi morto, se non
fossi
picaro:
picaro
colui
che
ride
con
la
vita
della
vita,
picaro, colui che vi ha amato dai crocevia scherzando.
Andate mia regina che così muoio del tutto col vostro viso
negli occhi morti. Andate via, vi prego: ho gli occhi troppo gonfi
di lacrime dentro. La melanconia morta di un picaro è dieci volte
la
furia del mare, cento volte la forza delle onde, mille volte
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il
nero
delle
nuvole:
ha
il
colore
delle
urla
invisibili,
sconosciute, dimenticate ed è tutta dentro a un cuore incerottato
che
scherzava
ai
crocevia,
un
cuore
morto.
L’unica
parola
è:
Basta, e se proprio volete una ciliegina: E cosìssìa.
Con estrema grazia, con dolcezza elegante, con nobiltà soffusa
Eugenia
sale
sulla
acquietano,
le
dall’africa
arriva
mongolfiera:
nuvole
si
un
il
mare
uniformano
libeccio
caldo
si
in
che
placa,
un
le
cielo
soffia
onde
si
perlaceo:
accanto
con
tenerezza: senza parole sono le leggende, i mulini: senza parole
il
rosso
palazzo
e
la
spiaggia
bianca:
così
appaiono
dalla
mongolfiera alta. Meravigliosa e altera la principessa nell’alto
dei cieli: silente e bella, staccata da sé. Ora è un punto nel
nulla del colore del silenzio.
La lampadina blu
La
lampadina
blu
li
toglie
dall’oscurità
indifferente
dove
giacevano invisibili per non farsi notare: getta una luce leggera
al centro dell’immagine, sulle tre personcine di terracotta, il
cavallo
resta
in
ombra,
a
parte
il
pennacchio
enorme
sulla
schiena, e così pure il resto del carretto: con meraviglia Jo
guarda i tre personaggi, che ora vivono come se non avessero avuto
bisogno
che
di
una
fioca
luce
blu
per
risvegliarsi.
Hanno
cappellacci siculi, penduli all’indietro i due uomini, mentre la
donna ha un foulard verde che le avvolge i capelli, probabilmente
vanno a una festa paesana, magari al loro stesso matrimonio; e c’è
un sacco di gente in piazza; e i bambini li aspettano facendosi i
dispetti; e tutta l’altra gente con le mani in tasca al vestito
della festa; lo sposo sul carretto è bellissimo, sembra uno che
non si sposa mai e muore giovane; lei invece sembra una madonnina,
ed è tutta nervosa; il guidatore pare già ubriaco. Il cavallo è
orgoglioso dei suoi pennacchi, passare dall’aratro dei campi a
queste
feste,
far
la
figura
del
purosangue
tradito
solo
dai
garretti grossi! Con tutti che lo ammirano: sulle orecchie ha un
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altro
pennacchio
Speriamo
com’è:
solo
a
che
d’altronde
punta,
il
niente
da
invidiare
guidatore
si
ricordi
festa
così,
con
una
la
i
agli
unicorni.
strada,
due
ubriaco
giovani
più
affascinanti del paese, lui così bello che non si doveva sposare e
temevamo morisse giovane, lei una madonnina in carne ed ossa:
chissà che figli, che splendore: e tutto ciò non mi autorizza a
qualche zibibbo in più di buon mattino?
Sotto questa dolcissima luce azzurra, che è l’alba del cielo
del sud: fatta per noi, questa luce azzurra: fatta per la nostra
festa, ammesso che si trovi la strada dove la si fa.
Festa
grande
come
un
respiro
pieno: ci
sarà caldo
e anche
vento: e il tuo berretto rosso volerà via e resteranno al vento i
tuoi lunghi capelli neri: e anche il tuo foulard fuggirà nel vento
come
un
capelli
piccolo
corvini
aquilone
di
e
fianco
resteranno
ai
miei:
al
vento
finchè
i
i
tuoi
nostri
lunghi
occhi
non
sentiranno il bisogno di baciarsi come labbra, e fissandoci i tuoi
occhi corvini nei miei occhi neri, coi capelli liberi nel vento
capirò perché dovevi morire giovane: perché hai le pupille più
scure che abbia mai visto in un uomo: perché hai le labbra più
rosse che abbia mai visto in un uomo: perché hai il viso oblungo
di
un
pupo
meraviglioso,
il
capolavoro
del
maestro
artigiano:
perché hai le mani più bianche che abbia mai visto in un uomo:
perché hai i capelli più lunghi che abbia mai visto in un uomo.
Quando ti guardo così e bacio con gli occhi il tuo silenzio, il
tuo sguardo meravigliosamente spento, il mio cuore ha un sussulto:
perché sa che presto comincerà a soffrire, tanto quanto le tue
pupille sono scure e rosse le labbra,
e quanto le mani sono
bianche, e i tuoi capelli lunghi, lunghi come i miei.
Senti i bimbi che ci attorniano urlanti, e gli applausi della
gente, e le parole che volano in terribile brusio: lo senti, amore
mio?
ho
voglia
di
restare
sola
con
te,
perché
non
succederà
spesso, perché te ne andrai, perché le tue pupille non saranno per
sempre così scure e rosse le labbra, nè le mani così bianche, e
capelli lunghi come i miei.
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Ecco la musica, la musica che viene per noi: senti che ci viene
addosso come la risacca delle onde del mare sulla spiaggia, la
senti, amore mio, è una tarantella, una scatenata pizzica che tu
balli con la timidezza della paura di un burattino: e invece corri
nel cerchio, amore mio, scatena la rabbia del ragno, corrigli
dietro
e
davanti,
fuggi!,
fissalo
col
nero
delle
pupille,
inebrialo col rosso delle labbra, ipnotizzalo con le tue mani
bianche,
imprigionalo
nella
ragnatela
dei
tuoi
lunghissimi
capelli.
Lo sai bene che la tarantola è sempre in agguato, e noi
non facciamo altro che ballare per scacciare la nostra paura di
burattini: finalmente un sorriso in fondo alla tristezza sfinita
delle tue pupille: finalmente, amore mio, l’oblio momentaneo della
morte ragnatela: fammi credere che vivremo insieme per l’eternità,
che per un minuto saremo così giovani e belli: che la tua angoscia
era solo il mio nervosismo di sposa, che sotto sotto hai allegria,
e barzellette, e gioia a non finire; guarda come ti trascina la
danza, come ridi ora, e io sono felice e ringrazio il ragno, che
ci corre dietro e noi ci voltiamo veloci e l’inseguiamo ribelli, e
il cerchio si fa talmente veloce che non c’è più tempo di pensare,
di amare, solo l’ebbrezza di sudare nel vento aracnoide, come
fossimo fili di ragnatela, vortici d’aria invisibili a noi stessi,
senza
luce
blu:
innamoratissimi
ed
ebbri,
pieni
di
zibibbo
e
d’amore, con tutto il corpo attorcigliato al suono, per un minuto
e per sempre, danzando senza sfinirsi mai, perché il ragno siamo
noi.
Tanto so che dopo te ne andrai, perché non sei mai venuto,
perché ti guardavo dove non esistevi: sarà trovarsi con un pugno
di mosche, e sentire il cigolio delle ruote del carretto: sbronzo
il guidatore sotto la lampadina blu, meraviglioso tu con i tuoi
occhi
inguaribilmente
tristi
sotto
la
stessa
dolcissima
luce
soffusa: pronta a spegnersi, quando lo spleen prenderà la rincorsa
terribile come un toro ferito, quando la tigre graffierà a morte
dopo aver fatto le fusa: perché ti era capitato uno sguardo così,
e una coda dell’occhio per seguire la coda dell’amore, solo quella
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e poi alzarla alla fiochissima luce blu della tua vita solitaria:
illudermi un attimo, uno splendido attimo vestito da sposo: darmi
un bacio così profondo da farmi trasalire: troppo profondo, non un
bacio d’amore: il primo bacio e già un bacio d’addio, tanto la
luce blu è così fioca che nasconde le lacrime: andar via, non
andar via, amore mio, disperato amore: per tutte le notti che
potremmo trascorrere con le finestre aperte vicino al cielo con la
luna a spicchio: per il dolce avvinghiarci solo sognando, solo
sognando amore mio, te lo prometto sotto la luna a spicchio e la
sua sottile luce blu. Solo di questo supplico i tuoi occhi malati:
di darmi la mano come la si dà a un bambino, di perdonarmi per
nonsochè e di sorridermi: una piccola promessa, grande come una
formica.
Fioca,
esile,
blu
come
la
luce.
Tanto
so
che
te
ne
andrai; so che resterò con un pugno di mosche: nemmeno ti vedrò
andar via, sentirò solo le ruote del carro e la canzone roca del
guidatore ubriaco: guarderò la terra e solo quella, guardare la
terra è ciò che mi rimane, la profonda terra gialla, arsa e secca
e crepata, polverosa, assolata, è tutto quello che mi rimane, che
rimane ai miei occhi: guardarne i sassetti, senza memoria, senza
memoria scoprire qualche insetto che si muove, qualche formica, un
ragno veloce.
Mentre tu solo in carrozza col guidatore ubriaco sul cassettone
davanti lascerai correre i tuoi occhi come cavalli imbizzarriti,
puledri selvaggi nel fioco blu di una luce ormai solo tua: la luce
dolcissima, la lievissima luce preda della tela del ragno: dove
tutto si commuove senza gioia, col gusto del sangue innamorato che
sta
per
ferirsi,
col
coltello
dimenticato
all’ombra,
sotto
il
placido fico inerme: dove si fa la pennichella coi rutti, senza
vederlo nell’erba secca.
Lasci correre i tuoi occhi imbizzarriti
come se tu fossi una nuvola ferma che guarda un fiume veloce:
senza poterlo né volerlo fermare, senza voler potere, senza poter
volere: sotto la piccola luce blu a controllare baciando la tua
fronte che scotta di tristezza: l’unica che accettavi ti curasse,
più di me: che sapeva il segreto del ragno meglio di me illusa:
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così goffo rugoso e nero per un incantesimo facile che anche un
bambino
assonnato
avrebbe
scoperto:
dove
tutta
la
bellezza
di
qualsiasi cosa è stata semplicemente oscurata da una nuvoletta
alta: ferma in una luce così blu da non poterci neppure volare.
Per
questo
rispetti
il
tuo
destino
come
un
patto
atavico:
di
restare solo, di non sposarti mai, di arrivare fino alla festa e
poi fuggire appena dopo la tarantella: sul carro col guidatore
ubriaco: coi tuoi occhi immacolati stracolmi di spleen; restare
solo e non sposarti mai, col ragno docile nella mano e la luce blu
ancora più blu sui puledri selvaggi dei miei occhi innamorati per
niente.
Il cavo d’antenna
“Posso chiederle, gentile signora, com’è stata la sua vita, il
ramo della sua attività e dove ha imparato ad affacciarsi così
bene?”
“Certo
che
può
chiederlo,
se
si
fosse
un
po’
più
curiosi
saremmo anche un po’ più umani.
Io provengo da un’antica dinastia di cavi d’antenna, araldica
pura e bianca, di ottima fattura e lunga durata, ero destinata a
collegare due televisori lontani in due stanze su piani differenti
ed ero perfetta in quello, attraversando l’intonaco seppia del
muro con plastico e discreto equilibrismo: ero lunga, snella e
bella, che quando qualcuno guardava la villa da fuori diceva: Che
bel cavo bianco, e poi aggiungeva: su quella splendida villa.
Ero
nel pieno della giovinezza e lavoravo da gente snob che ti fa
sentire unica e particolare. E’ lì che ho imparato ad affacciarmi;
stavo
per
giorni
e
giorni
con
le
braccia
tese
fra
i
due
televisori, attaccata di là col primo jack, di qui con l’altro e
portavo
con
tutta
l’accortezza
possibile
senza
sciuparlo
segnale dell’antenna che mi guardava dal tetto con affetto.
il
Oltre
a ciò guardavo di fronte a me: il giardino e tutto quanto avveniva
nel giardino. Ammiravo le foglie: il loro spuntare birichino e il
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triste declino, che durava tanto ma non sembrava lento, chissà
perché la tristezza non è mai lenta anche se sembra lo sia; io le
coccolavo
ammirandole
fino
a
quando
si
staccavano:
e
loro
si
staccavano contente che io le ammirassi ancora: soprattutto quelle
rosse del faggio mio dirimpettaio: lo vedo ancora che si illumina
piano
piano
di
meravigliosi
germogli
nel
cielo
sincero
di
primavera, ci splende d’estate come un re cremisi, e si ritira, a
un tratto incerto e timido, invecchiato d’un tratto, nell’autunno
nebbioso: segretamente innamorato lui m’inviava messaggi criptati
facendo rilucere al sole certe foglie piuttosto di altre, che
diventavano
parole:
lancinanti
i
suoi
addii
autunnali,
quando
soffriva il rame delle foglie come un addio senza ritorno, perché
lui
credeva
deprimeva
ogni
come
volta
se
tutta
di
morire
la
sua
per
sempre,
memoria
fosse
ogni
volta
racchiusa
si
nelle
foglie che perdeva; io non riuscivo a dirgli nulla ma sapevo, non
per
nulla
provengo
da
un’antica
dinastia
positivista
di
cavi
d’antenna, che l’anno dopo sarebbe tornato a fiorire splendido
come sempre: amavo, profondamente, quella sua disperazione: era
così bello, quasi di più, mentre diventava scarno, così ossuto e
nero nel cielo grigio: con quel fantastico manto soffice di foglie
rosse cadute tra lui
incontro:
avrei
e me; quasi un tappeto fatto per correrci
voluto
rotolarmici,
nascondermi,
scomparire
e
marcire con loro, nel profondo odore della terra umida: d’autunno
la terra ha un profumo misteriosissimo ripescato in un angolo del
baule delle nostalgie;
ed io cercavo di espormi alla pioggia per
arrivare in primavera lucida e bella.
E poi le ortensie, le mie belle sorelle, ghigliottinate nei
loro cespugli sui vialetti per un sacco di tempo e poi in pochi
giorni esplodevano come pupazzetti nelle scatole a sorpresa.
Io
le ammiravo, così folli di petali, come visi con un’infinità di
gote radiose: variegate quasi non riuscissero mai a decidere il
colore, celeste con un po’ di viola, rosa con un azzurro, come
quando facevi gli esperimenti col gambo di un tulipano scisso in
due boccette d’inchiostro: e ne uscivano fiori bicefali deliranti;
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così tonde le mie belle sorelle, nell’infinità delle loro gote
radiose: lungo i
paffute
di
vialetti spesso in penombra miriadi d’ortensie
fronte
a
me,
crocifissa
fra
le
due
finestre
e
inchiodata ai due televisori lontani, davanti a un faggio gigolò;
e di notte il giardino si popolava di fruscii, l’oscurità scendeva
ma lasciava spazio ad impressioni di colori: ti ho sognata ed eri
così vera, che al risveglio sento una trappola sul cuore: eri così
vera, nel sogno della notte, tra le impressioni dei colori: e ti
nascondevi tra i fruscii: ti ho vista infine, le tue scarpine
bianche
sporgevano
bambini:
che
dietro
il
s’innamorano
per
leccio,
gioco
e
ci
anche
siamo
se
non
parlati
sanno
da
cos’è
l’amore, forse un petalo variegato d’ortensia: eri tu ed ero io,
nell’oscurità del sogno, tra le impressioni di colori nella loro
magica, infinita penombra di foglie; eri finalmente tu ed ero
finalmente io: timidamente ci guardavamo le scarpe, bianche le
tue, sandaletti i miei: impettiti con le mani dietro come bambini
che s’innamorano per gioco: mancava poco che avessimo il ditino
sul labbro tutti e due: con la sensazione di cose misteriosissime:
un piccolo movimento e scappiamo tutti e due, senza accorgercene e
poi io il mattino busso: mai stata qui?, come chi?, tu, stanotte!
Signore, ne è certo? Non è che sia stato un sogno, una penombra
scambiata per profilo: come le ortensie che si vedono all’ingrosso
perchè hanno i fiori troppo attaccati e sono miopi di natura, o il
faggio che fa il tragico perché pensa sempre di morire: lo sente
questo odore di terra umida, questo è il profumo giusto: tutto il
resto sono fruscii, immaginazioni della notte, quando l’oscurità
scende ma lascia spazio per impressioni di colori come ricordi di
sogni.
Un
giorno
mi
hanno
smontata,
il
campionato
di
calcio
era
finito, non sapevo nemmeno chi avesse vinto!, i giovani hanno
cominciato a staccare le due torrette di trasmissione, si potevano
forse
rivendere
o
riutilizzare,
mentre
io
diventavo
proprio
inutile; era la stagione calda e il faggio splendeva di mille e
mille foglie rosse: le ortensie resistevano ancora, anche se erano
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del colore del gambo, verdastre, itteriche. L’estate era talmente
afosa,
come
ancora
la
un’esibizionista
sua
penombra,
e
il
esagerata:
vialetto
ma
il
faggio
m’aiutava
a
mi
dava
fuggire
in
prospettiva per tutto il giardino; era così afosa l’estate mentre
giacevo inerte e mi sembrava di non essere mai stata così nuda e
così bella sotto il cielo: con le mie braccia ancora stese fra due
finestre, in una deliziosa crocifissione ormai senza scopo, tesa
col
mio
petto
ancora
giovane
a
tutto
il
mondo:
io
inerte
e
inutile, nuda libera e bella più che mai nell’estate più torrida
del mondo: io filo bianco nudo sul petto del mondo nel sudore
continuo
di
gocce
eccitate:
io
meravigliosamente
torrida
e
voluttuosa, io pazza e nuova, io donna, io che non abbassavo più
gli occhi e mordicchiavo le labbra fissando negli occhi.
Quando sai che è l’ultimissima tua estate, ma fai finta: è un
principio!, la prima frase bella!, il coraggio di un bambino, te
lo giuro: e aumenti l’età di uno o due anni per sembrare più
grande: e loro ci credono?, sorridendo; e ti arcui a più non
posso, così vedono ed imparano, più di così lo sterno va in mille
pezzi, più di così schizzi via come un elastico, sei una fionda
pronta a lanciare il tuo cuore nell’estate più torrida del mondo:
pazza e nuova, senza abbassare gli occhi mordicchiando le labbra e
fissando negli occhi.
Mi hanno avvolto in fondo con dolcezza, ci sapevano fare, mi
hanno staccato a un capo e poi all’altro delle torrette: mi hanno
arrotolata
su
me
stessa,
tutto
il
mio
petto,
tutte
le
mie
lunghissime, esili braccia bianchissime: nell’estate tanto torrida
che
s’era
dimenticata
di
me:
col
faggio
che
stormiva
come
un
ventaglio per farsi aria: con le ortensie sempre più itteriche:
col vialetto che fuggiva via da solo.
Mi
hanno
avvolto
in
cento
giri
perché
ero
lunga,
ma
delicatamente, ci sapevano fare e gentilmente hanno chiesto dove
mettermi, “Dia a me” e qualcuno mi ha portato qui in soffitta in
questo cassetto, io non guardavo, avevo chiuso gli occhi cercando
solo, chissaperché, di ricordarmi la prima frase bella: ero così
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lunga che il cassetto non si chiudeva bene, occupavo tanto posto
sopra gli altri fili, miserini, piccole prolunghe, cavetti vari; e
allora restò schiuso uno spiraglio, e io da allora mi affacciai e
se qualcuno lo apre mi affaccio ancor di più.
E’ strano perché non ho sofferto granchè: mi sono inaridita
subito tenendo chiusi gli occhi per qualche giorno e cercando
solo,
chissaperché,
di
ricordare
la
prima
frase
bella.
Ho
dimenticato tutto il resto e anche quando lo ricordo lo descrivo
come se fossi stata affacciata a vederlo passare.
La sarta bambina
Buongiorno,
ho
portato
un
bottone
da
cucire
sulla
manica
sinistra della mia giacca del vestito della festa e ho anche un
buco piccolo ma che ci passano le monetine nella tasca destra.
Il bambino ha il cappello in mano, un borsalino beige da grande
con
la
nappa
nera,
e
se
ne
sta
in
piedi
sulla
soglia
del
retrobottega: se ne sta fermo come un grande, ha anche le scarpe
lucide, mocassini neri eleganti senza stringhe; appoggia appena il
cappello
al
petto
appoggiarsi;
il
quasi
il
retrobottega
cappello
è
fosse
bello,
è
stanco
pieno
di
e
volesse
scampoli
di
stoffa e di drappi dappertutto, c’è odore di vestiti e sotto sotto
un accenno di profumo di seta.
La sarta bambina fa finta di niente per un po’; è un costume
delle sarte, procedere nel loro lavoro per un po’ senza guardarti;
sembra che stiano sognando ad occhi aperti, magari con gli spilli
in bocca, sembra che non ti sentano, che ascoltino una musica che
tu non senti.
Il
bambino
appoggiato
tiene
senza
appoggiato
spingerlo,
è
il
solo
cappello
stanco
ed
al
ha
petto,
solo
bisogno
di
appoggiarsi un po’: resta impettito sulla soglia del retrobottega
mentre la sarta bambina fa finta di niente; lui sa aspettare,
aspettare è come una nappa nera intorno al cappello: e poi il
retrobottega
è
bello
con
tutti
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quei
colori
di
stoffa,
e
quell’accenno di profumo di seta: e in mezzo a tutto c’è lei, la
sarta
bambina
che
muove
le
mani
come
se
danzasse,
come
se
ascoltasse una musica che tu non senti.
Sta cucendo qualcosa, la manica del doppiopetto di un barone o
il
pantalone
di
un
conte;
è
così
assorta
con
la
sua
piccola
macchina da cucire rossastra: è così delicata nei movimenti: è
così tenue fra tutti quei colori di stoffe: lavora veloce eppure
sembra così leggera da esserne incapace, l’ago punge il tessuto e
non fa male, tutto è così preciso e al tempo stesso vago.
A
un
tratto
alza
lo
sguardo,
come
se
si
fosse
accorta
di
qualcosa: come se qualcuno avesse schioccato le mani: e ti vede e
ti fissa come per capire chi sei e da dove vieni e il tuo cuore
all’improvviso ha un sussulto e batte forte, meno male che c’è il
cappello
appoggiato
davanti,
che
attutisce
il
battito
col
suo
feltro robusto.
“Torni
anche
tu
da
Urano?”,
e
ti
squadra
come
dovesse
ricordarsi di te e il suo naso curioso si appuntisce ancora un
po’,
mentre
la
sua
miopia
quasi
allegra
sembra
estendersi
a
dismisura; il suo sguardo scorre sulla parete di sinistra e allora
anche il tuo lo segue, imbarazzato, e nota un arazzo di stoffa,
forse è seta?, dai colori brillanti e foschi al tempo stesso: sono
i
pianeti
del
sistema
lontano
dall’altro,
laggiù,
l’ultimo
solare
ognuno
pianeta,
sospesi
più
poi
sul
piccolo
magari
fondo
nero,
dell’altro:
ne
hanno
e
ognuno
Urano
scoperti
e
è
ne
scopriranno ancora altri ma un tempo era l’ultimo o chi ha fatto
l’arazzo non lo sapeva.
“E’ il più lontano, per questo ci sono andata subito intanto
che non è stato ancora sfruttato dal turismo: è stata una vacanza
indimenticabile, e mi sembra di averla vista laggiù!”.
Il cuore continua a palpitare tanto c’è il cappello davanti e
detta
le
parole:
“Dovevo
andarci
ma
all’ultimo
momento
ho
rinunciato, impegni di lavoro; ma com’è comunque, ho altri amici
che vorrebbero venirci con me la prossima estate”. E’ fantastico
come un cappello ben fatto possa coprire l’emozione e le balle.
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“Non c’andate d’estate, d’estate è brullo e tutta la sabbia è
grigia e verde e secca e sembra una spiaggia senza mare; l’aria,
quella poca aria che c’è, è senza vento, e, a detta di chi ci è
stato allora, sembra di essere imprigionati, sembra che manchi il
fiato;
deve
dell’inverno
diviene
fine
andarci
di
qui,
come
la
quando
là
ci
allora
cipria
del
sono
Urano
stata
si
io,
nel
pieno
la
sabbia
trasforma,
deserto,
è
umida
e
viene
da
correre, e il vento corre in tondo continuamente, e scintille di
luce rossastra balenano avanti e indietro come nubi: gli altri
pianeti splendono e sembrano palle da biliardo: e le rocce la sera
diventano come cristalli di neon: sembrano scricchiolare di luce;
e a mezzogiorno tutto diventa grigio e il vento si ferma per una
mezz’oretta: non capisci più dove sei, dov’è la sabbia e dov’è il
cielo: è come se Urano stesse in meditazione, se stesse pregando e
si fermasse, lì in fondo al sistema solare come fosse in fondo a
una moschea nera dall’interminabile navata; è forse il momento più
bello, perché anche tu ti fermi, e non pensi a niente, e sai che
sei in fondo al sistema solare ma non ti succederà niente, che c’è
pace, che Urano te la dà volentieri in quei momenti perché ne ha
un sacco: riesci a non pensare più a niente, non capisci più dove
sei, dov’è la sabbia dov’è il cielo dove sei tu; te ne stai in
fondo alla navata interminabile: e senza far niente non pensi a
niente;
e
puoi
tenere
gli
occhi
chiusi
o
aperti,
tanto
è
lo
stesso, non pensi a niente, non capisci più dove sei, dov’è la
sabbia
dov’è
il
cielo
dove
sei
tu:
sembra
di
assistere
a
un
concerto di musica strana, un qualcosa di sconosciuto con note
bizzarre
che
rasentano
il
ridicolo:
qualche
volta
in
quelle
occasioni m’è venuto in mente il ticchettio della mia piccola
macchina per cucire, poi riprende il vento e le scintille di luce
rossastra e la sabbia diviene fine come la cipria del deserto;
allora mi viene in mente tutto il lavoro arretrato che ho da fare
e mi metto le mani nei capelli ma mi passa subito”.
“Prenderò delle ferie e c’andrò sicuramente in quel periodo,
sembra gaio e allegro, l’ideale per dei giovani amiconi scherzosi;
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ma è l’unico viaggio che ha fatto nel sistema solare?”, azzardi
all’improvviso mentre il cuore batte sempre dietro il cappello
appoggiato davanti. Ti risquadra come si ricordasse di te mentre
il suo naso curioso si appuntisce ancora un po’, ma non finisce
mai di appuntirsi?, e la sua miopia sembra scavarti negli occhi;
pone le mani sulla piccola macchina per cucire, interrompendo il
lavoro,
coprendola
proteggerla.
dolcemente
coi
polpastrelli
come
per
I retrobottega non sono mai tanto illuminati, e se
anche hanno a volte qualche luce forte non si vede bene lo stesso:
per cui non saprai mai se la sarta con la piccola macchina da
cucire è bella, se è una bambina o una grande, o un po’ e un po’:
non riuscirai a vedere bene il suo viso, solo il naso a punta, che
è già qualcosa, i nasi a punta non sono spettacolari ma mettono di
buonumore: e gli occhi miopi, che danno tranquillità perché sembra
che non ti vedano bene, e tu puoi tenerti la scarpa slacciata e il
colletto aperto, hai ancora un po’ di schiuma da barba nell’incavo
dell’orecchio, ma tanto lei è miope: devo solo stare impettito col
cappello
sul
cuore,
lei
vedrà
una
figura
eretta
ed
elegante.
Invece lei ti risquadra come si ricordasse di te e a un tratto hai
paura per la tua scarpa e il colletto e cerchi nervosamente di
toglierti senza farti notare quel po’ di schiuma da barba che
avevi notato allo specchio prima di uscire e che per pigrizia
avevi
lasciato
lì:
lei
ti
squadra
come
se
scoprisse
qualcosa
dentro di te, oltre il cappello oltre il cuore, e tutt’a un tratto
senti i tuoi segreti in pericolo: non sono colossali, non son
proprio misteri, ma sono miei: lei sta ferma,
con le mani che
coprono dolcemente la piccola macchina da cucire e ti osserva da
dietro la sua interminabile miopia o forse fa finta o forse è il
suo modo di guardare, quello che usano su urano, con tutti gli
ultravioletti che ci sono là.
“Non è su Urano, è su Saturno!”, la sua voce è stranamente
secca, come se si fosse cucita.
“Su Saturno cosa?”, hai il cappello che ondeggia paurosamente e
il cuore che ti chiede se per caso sei ubriaco.
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“E’ su Saturno che si devono socchiudere gli occhi al massimo;
sai socchiudere gli occhi al massimo? Te lo insegnano quando vai
là:
non
servono
occhiali,
solo
devi
educare
le
ciglia
e
le
palpebre: le palpebre devono abbassarsi lentamente come le dighe
di
una
chiusa,
piano
piano,
e
devi
aver
la
sensazione
dell’acqua che s’abbassa, piano piano, che va via.
come
Finchè vedi le
ciglia, quelle di sopra e quelle di sotto che tendono a unirsi
come stalattiti e stalagmiti, come le serrande della chiusa: in
pratica vedi come nuvole trasparenti in sovrapposizione, e c’è una
sfocatura di fondo, quasi ci fosse un piccolo terremoto e tutto si
muovesse: in quel momento devi fermarti e lasciare che la tua
pupilla pigli la circonferenza giusta e la retina si prepari come
un mazziere di baseball: allora sei davvero pronto a vedere gli
anelli di Saturno. Lo sai, vero, cosa sono sono gli anelli di
Saturno, la conosci la loro storia?”
“Euh!
adesso
Certo!”
quando
meno
mai
male che
c’è il
racconterai
cappello, se
frottole:
è
non menti
l’occasione
per
diventare grande: fare il gagà sugli anelli di saturno: il sottile
piacere
di
bambinetti
diventare
laggiù
ciclopico
piccolissimi
nel
coi
cielo
della
palloncini
menzogna
colorati
coi
che
ti
ammirano ad occhi spalancati: il tuo doppiopetto si scurisce e il
cappello di feltro s’inspessisce: solamente ancora un filino di
dubbio che ricompare, una scheggia di vetro di bottiglia verde
imboscata sotto il battiscopa: “Ci sono varie versioni, però”, che
però è solo un coccettino di vetro per il resto è grande bugia
imperatrice,
è
Sissi
la
bella,
che
accompagna
l’asburgo
che
racconta balle per non invecchiare, per non crollare nella cripta,
per lasciare i cigni correre, quasi volare, sui laghi dorati, le
nevi
bianche
continua
dei
attaccarsi
soldati
alle
vette
impertinenti,
sull’acciottolato
nobile
di
nella
marcia
Vienna,
nella
loro danza senza più nemico: il cuore tace dietro il cappello.
“Oh, io ne so solo una!”, risponde la piccola sarta tenendo
ferme
le
cucire;
mani
con
la
che
coprono
sua
dolcemente
interminabile
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la
miopia
piccola
sembra
macchina
che
da
guardi
sull’arazzo, come un invito,
e anche tu sposti lo sguardo e fissi
i grandi, meravigliosi anelli colorati di saturno.
Non sapevi che erano così belli, gli anelli, come corone di
acquerelli: e non sai affatto la loro storia (i cigni corrono,
quasi volano, sui laghi dorati, le nevi bianche si attaccano alle
vette impertinenti) .
Il caffè Gambrinus
Meglio non dire più niente alla mamma della canasta, meglio
camminarle a fianco lungo tutto il sentiero accanto al fiume; è
giovedì e si va al gambrinus: torcetti e cioccolata a iosa con
panna
fresca a volontà; se s’arrabbia è capace di farmi tornare
indietro, e io a
tutto rinuncerei, anche al mio povero regno
immaginario di fate e troll e gatti graffianti sul serio, per la
cioccolata del gambrinus.
E’ lunga la strada, è infinito il sentiero, e terribilmente
noioso
il
fiume;
sciacquando,
che
fa
di
strusciandosi
tutto
sulle
per
attirare
rocce,
l’attenzione,
gorgogliando
ma
senza
successo; solo il gambrinus, la sua idea, la sua speranza, rende i
passi morbidi e non troppo faticosi, come un cammino verso la
terra promessa: la promessa di un cioccolato fondente che più
fondente
non
si
può,
di
una
panna
che
non
sa
di
latte,
è
distillato estatico di ruminar di mucca, senti l’aroma dell’erba
crogiuolato tra le mandibole possenti: il tutto mentre stormi di
torcetti zuccherati, fragranti di burro paradisiaco oscurano il
cielo
come
aquiloni
acrobatici
e
ti
sfrecciano
sotto
il
naso
lasciando il profumo del burro, dello zucchero, di tutto ciò che è
più
dolcemente
dolce
in
questa
vita,
in
qualsiasi
vita:
la
dolcezza diabetica dell’universo.
Mamma, siamo forse morti?
Senza accorgercene siamo precipitati
nel fiume, scivolando sulle rocce: siamo caduti e abbiamo battuto
la testa, e siamo volati in cielo con l’unico rimpianto di una
partita a canasta persa; io, cosa vuoi, sono bambino, ho appena
18
assaporato i giorni tiepidi della vita, non so come saranno gli
altri ma ci rinuncio volentieri se posso volare con te: sei bella,
mamma, tra le nuvole, il sole ti illumina d’oro; hai un sorriso
che non guarda più me, ma tutto l’universo: hai perso il pensiero:
mi fai quasi paura perché io ti volo accanto, c’è ancora qualche
cirro, ma tu non mi vedi più, non mi vedi più da dove ti guardo e
sì che son vicino: vicinissimo, accanto a te, sotto al tuo seno,
sotto al tuo seno nel cielo limpido: il sole ti illumina d’oro, il
tuo sorriso è d’oro: mamma, hai già dimenticato d’aver perso a
canasta? Torna da me!
Io nella mia piccola vita non ho ancora
giocato a canasta, non so neppure come si fa:
gioco a briscola e
mi diverto un sacco: e a rubamazzetto, ma tu t’annoiavi e facevi
finta
di
no;
una
mamma
è
così
dolce
quando
fa
finta
annoiarsi a rubamazzetto; non dirmi che ti piaceva!
di
non
A volte mi
annoiavo anch’io, ma vedevo che tu sorridevi, sorridevi come la
vita, eri la vita, mamma: una cosa che sorride, questo è la vita e
niente
più;
sorride
dovunque
come
la
gioconda:
e
ti
ruba
il
mazzetto e poi glielo rubi tu: e si avanti così finchè poi scivoli
dalle rocce e voli con la tua mamma d’oro fra le nuvole: e arrivi
diretto in paradiso, lo chiamano paradiso, di fatto è il caffè
gambrinus.
Lo chiamano tutti così, paradiso, in verità è una casa bella,
non troppo villa ma nemmeno solo casa: ha il tetto spiovente ed è
un po’ più su della strada e ci si arriva per un sentiero pieno di
aiuole di fiori di montagna e rododendri: ci sono piccoli tavoli
dovunque tra i fiori, come si conviene al paradiso, e un piccolo
ruscello scende a cascatine di lato; mamma, dove ci mettiamo? Ci
sediamo
lì,
io
di
qua,
così
vedo
chi
arriva,
mi
piace
tanto
guardare chi arriva: tu invece guardi la montagna, e la montagna
guarda te, sei una mamma d’oro e la montagna ti vuol bene e non
gliene importa nulla se perdi a canasta.
e torcetti, e panna a volontà!
Oh sì, mamma, cioccolata
Nel paradiso non si paga nulla, si
freme di gioia e basta: ordiniamo, dai, anche se possiamo stare
qui per tutta l’eternità!
19
Ecco che scende: scende la padrona, la dolce signora, è la
signora della melodia, mamma?; quella anziana signora in costume,
col copricapo a rete di pizzo dorato, e il corpetto rosso sulla
camicetta immacolata e la lunga gonna nera: è per caso la madonna,
mamma, è lei? È la vera madonna? È lei che porta la cioccolata,
vero? È lei che fa i torcetti? Vive sola nella grande casa-villa?
Come fa a far tutto?
Parla tu, mamma, io non riesco: è così anziana, e immacolata di
pelle;
piena
di
straordinaria:
rughe
e
il
bianche,
sorriso
di
col
un
ricordo
rossetto
di
una
bellezza
inquietante:
così
rosso, rosso come il sangue, e puro, tutto in lei è immacolato: le
lunghe mani un po’ tremule che scrivono la nostra ordinazione: il
mio
silenzio,
di
me
che
guardo
per
terra
i
sassetti
per
non
giungere al suo sguardo: sguardo immacolato d’occhi d’acqua, verde
marino, che ci fa qui in montagna, occhi aguzzi con una traccia
esile e stupenda di mascara: mamma, ma la madonna si trucca? Da
quando in qua?
Non oso, non oso guardare quegli occhi; oso, sì oso un po’, li
alzo, i miei occhi, li alzo un po’ e s’arrampicano, per un attimo
di un attimo, su quel viso, quel viso immacolato: viso bianco,
dolcissimo di rughe fantastiche di una bellezza straordinaria: e
per un attimo di un attimo, quegli occhi aguzzi, occhi d’acqua,
verde
marini,
mi
sfiorano,
mi
colgono,
s’incrociano
coi
miei:
mamma, che occhi, che occhi gli occhi della madonna, altro che i
tuoi,
scusa
squarcio
qui
continuamente
mamma,
negli
nel
ma
mi
hanno
occhi,
momento
dove
in
cui
ferito;
m’hanno
mi
non
so
come,
guardato:
sfiorano,
erano
li
ho
uno
rivedo
occhi
di
tigre, occhi magnifici, ingordi, esili e perfetti: ho addirittura
avuto
un
colpo
di
tosse,
ho
chiuso
i
miei
e
la
retina
in
quell’attimo li ha stampati, i suoi occhi, sulla palpebra, nel
cervello, nel cuore, in triplice copia. Un attimo di un attimo, un
attimo di paradiso, un attimo dolorosissimo: perché quando sfiori
quello sguardo è dolore, lancinante spasimo d’arpione: così belli,
così meravigliosi, così perfetti, così acquosi, così aguzzi, così
20
verde
marino:
e
se
ne
va,
dopo
l’ordinazione:
cammina
sul
sentiero, di spalle, accanto ai rododendri: cammina e sembra che
non tocchi terra: che non pesi nulla: che m’ha guardato e ora sta
pensando a me; che mi porterà un torcetto in più, che porgerà la
caraffa di cioccolata e l’appoggerà un po’ più vicino a me: che
dirà: Ecco la panna! E mi guarderà, serena, felice: come la vita,
una cosa che sorride e niente più.
‘Mi giri la testa per favore?’
Era come immaginavo, una stanza buia, con le finestre appena
socchiuse, ma così socchiuse che sembrano chiuse, ed entra solo un
filo d’aria, ma proprio un filo, come un filo di lana, come un
capello, una cosa così ma così sottile, perché non faccia male,
perché non ti faccia prendere la broncopolmonite; e poca luce che
non ti bruci, che ti faccia apparire qualcosa, qualche colore e
qualche profilo ma non ti dia fastidio agli occhi; che ti lasci
intatto nel lettone bianco, quasi matrimoniale, ma che bisogno
c’era, per te, che sei piccolo piccolo, sei adulto e ben più
vecchio di me ma così piccolo, piccolo piccolo come un infante,
così piccolo e tenero e non ti muovi, non ti muovi affatto, sembra
che prendi in giro, che sei bravissimo a stella stellina, sei
immobile, immobile piccolo ed infante: ma hai una grande faccia,
una faccia adulta in quel corpo piccino da neonato; hai occhi
enormi
che
riempiono
la
stanza,
non
ho
mai
visto
occhi
così
grandi, davvero: e così chiari, e freddi: “mi giri la testa, per
favore?” vuoi guardarmi vero?, vuoi vedermi è per questo che vuoi
che
ti giri
la testa?
Ma girarti la testa è come toccare un
cristallo: mi fa impressione, ho paura di farti male: ma è dolce,
dolcissimo, così tenero girarti la testa: la tua voce è d’uomo e
io guardo indietro per vedere chi ha parlato, ma sei tu davanti:
hai una bel timbro metallico, come filtrato da una grondaia di
rame; una voce di rame; ti ho girato la testa e mi parli dal tuo
corpicino immobile nel grande letto matrimoniale bianco; parliamo
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del più e del meno ma non di sport: parliamo di tutto, ma proprio
di tutto, non voglio che tu non sappia qualcosa, voglio che tu
sappia tutto del mondo, che la stanza sia piena di notizie; anche
di pettegolezzi; e di barzellette stupide che
però non apprezzi,
sono io il volgare, quello che scade, quello che non tiene il
ritmo,
per
forza
non
sono
immobile
come
te,
tu
hai
il
ritmo
perfetto, sei fermo da sempre: eri il sole del tuo universo e
tutto ruotava intorno a te: tutto, ma proprio tutto, anche le
barzellette stupide, anch’io.
“Mi asciughi un po’ il sudore?”, certo: mi alzo, prendo il
fazzoletto che hai accanto sul cuscino bianco, e lo passo sulla
tua fronte: hai la fronte grandissima, come una vallata che ha
approfittato di essere in mezzo alle montagne; te la sfioro con
una
certa
pressione:
voglio
“Buongiorno, signore dita,
pomeriggio
della
festa
e
che
tu
senta
le
mie
da dove venite di bello?”
andavamo
a
braccetto
per
dita:
“Oh, è il
le
vie
del
paese, chissà che qualche bel giovinotto non ci veda; siamo tutte
sorelle, ma c’è sempre la più bella, è lei quella che sorride di
più; si cammina bene sulla sua fronte, sembra quasi una pista da
ballo;
le
diamo
forse
fastidio
coi
tacchi
a
spillo?”
“Oh
no,
gentili signore, mi piace sentirvi camminare sulla mia fronte, è
come qualcuno che cammina al piano di sopra, qualcuno che c’è e
anche se sei arrabbiato fa sempre piacere sapere che qualcuno
c’è.” “ Davvero è arrabbiato?” “No, si dice così, ma non è vero:
io non sono arrabbiato col mio pezzo di soffitto; perché se non mi
girano la testa io vivo in simbiosi col mio pezzo di soffitto; è
bianco e ne vedo quasi tutti gli stucchi, non sono granchè, a me
poi
il
affresco
liberty
da
non
mille
e
ha
una
mai
entusiasmato;
notte
o
una
avrei
scena
di
preferito
un
libertinaggio
sfrenato; non mi sembra il caso di essere così tirchi con uno che
non ha che un pezzo di soffitto nella vita, darglielo bianco con
stucchi semiliberty; non riesco a fantasticarci su più di tanto;
aspetto solo che qualcuno mi asciughi la fronte o mi giri la testa
per avere qualche emozione: cerco addirittura di sudare apposta
22
per farmi asciugare, non ci riesco molto bene; ma mi fa un gran
piacere sentire i vostri tacchi a spillo di sopra”. “E le mani?
Vuole che le spostiamo? Sono così immobili, ci fanno impressione e
tenerezza, per noi che ci muoviamo sempre? Sono piccole e belle,
sono pugnetti d’infante; ora che abbiamo finito di asciugarle la
fronte, possiamo spostargliele un po’?”
“Non ci badate, alle mie
mani, loro sono felici così, di starsene sotto i miei braccini a
riposare da sempre: non sanno cos’è il movimento: sono immobili
dall’inizio del mondo; sono felici così; o almeno non sanno di
essere infelici, perché non hanno mai conosciuto il movimento. No,
continuate
ad
quando
fate
lo
asciugarmi
io
la
chiudo
fronte
le
se
palpebre,
potete;
questo
è
così
almeno
bello
e
riesco
a
farlo, basta la forza di un uccellino: e sento tutti i vostri
tacchi a spillo sopra, sulla mia fronte, che è una pista da ballo:
e sento che ballate, ballate pure, ho appena lucidato il parquet
col mio sudore, ballate, vorticosamente, che ne venga fuori una
sontuosa scena asburgica: un ballo di società farcito di valzer;
danzate pure battendo i tacchi, che io vi senta bene di sotto e
riesca a ricomporre la scena da sotto gli occhi chiusi: così mi
ecciterò ed entrerò nel vostro mondo come un principe invisibile:
perché voi tutti sapete che l’imperatore c’è ma è triste e non
vuole farsi vedere: e quello sono io, l’ultimo piccolo francesco
giuseppe dalle mani ferme e dalla grande fronte: e voi gli avete
appena
asciugato
il
sudore
triste
di
tutte
le
sue
pene;
voi
sorelle che vivete nell’alto della sua corte e avete il privilegio
di vederlo, di spostargli la testa, voi che gli fate chiudere le
palpebre e sognare senza sonno: lasciandogli i pugni fermi come si
conviene a un re: che quando ve ne andrete tornerà alla tristezza
sudata del suo pezzo di soffitto, ma almeno avrà un ricordo nuovo:
che
è
un
soffio
d’aria
che
entra
nella
stanza
buia,
con
le
finestre appena socchiuse, ma così socchiuse che sembrano chiuse”.
23
Il marinaio felice e il nostromo svizzero
‘C’era una volta, ma non tanto tempo fa, un marinaio bellissimo
che aveva due figlie in un piccolo villaggio del nord; lui ogni
anno partiva quando i comignoli fumavano e girava il mondo in
barca, tutto il mondo, dal freddo al caldo, per poi tornare al suo
villaggio e stare una settimana in loro compagnia. Giusto una
settimana e non di più, il tempo di ammirarle cresciute ma non
fissarle troppo nel ricordo: infatti lui era bellissimo e alzava
appena lo sguardo e sorrideva sempre, quasi rideva, perché non gli
piaceva parlare; al settimo giorno ripartiva mentre i comignoli
fumavano e girava il mondo in barca, dal freddo al caldo, e il
loro ricordo sbiadiva piano piano nel mare come soffiando l’aria
dai polmoni e quando dopo un anno tornava prima di attraccare
andava sul
ponte per vederle di nuovo, le sue figlie, cresciute
di un anno, alzando appena lo sguardo: erano sempre più belle,
perché gli assomigliavano e anche lui era sempre più bello, perché
assorbiva il verde del mare nei suoi occhi e tanto salata l’acqua
altrettanto dolce il suo sorriso; stava una settimana di nuovo in
loro
compagnia,
alzando
appena
lo
sguardo,
sorridendo,
quasi
ridendo, perché non gli piaceva parlare, ammirandole e poi partiva
mentre loro lo salutavano dal molo.
Appena in mare aperto lui
schiudeva i suoi meravigliosi occhi verdi e ascoltava la musica
delle onde: girava il mondo un altr’anno finchè il loro ricordo
era sbiadito come un respiro finito e poi tornava al suo villaggio
del nord, giusto in tempo per vederle cresciute di un altr’anno,
ancora
più
belle,
come
lui.
Anno
dopo
anno,
così,
mentre
i
comignoli fumavano, girando il mondo, alzando appena lo sguardo,
ammirandole, crescendo senza ricordarsi troppo, sorridendo, quasi
ridendo.
Finchè
un
anno
al
ritorno
notò dal
ponte un
fumo lontano,
all’altezza del villaggio, che non era dei comignoli: e quando la
nave approdò al molo, vide che tutto il villaggio era distrutto e
che non c’era nessuno ad aspettarlo, anche alzando ancor più piano
lo sguardo; c’era stata la guerra, che era venuta di soppiatto,
24
anche a lei non piaceva parlare se non con segnali di fumo.
Non
aveva
più
il
loro
ricordo, che
era sbiadito
del tutto
durante il viaggio; non aveva più niente, così si accoccolò sul
molo con le mascelle forti fra le gambe mentre il villaggio fumava
dietro di lui.
Restò un sacco di tempo così, con gli occhi chiusi, giocando al
buio col verde del mare che avevano assorbito e tanto salate erano
le
lacrime
altrettanto
dolce
rimaneva
il
suo
sorriso
tra
le
mascelle forti.
Finchè sentì un dito che lo pizzicava sulle scapole muscolose,
in mezzo alla maglietta a strisce, e due o tre parole sconnesse
mormorate in tedesco; alzò piano lo sguardo, come sempre, e vide
da sotto in su un tipetto mingherlino un po’ prognate e la pelle
di bambino colla frangetta di capelli bianchi come il latte che
gesticolava bizzarramente con mani e piedi, col baricentro un po’
all’indietro. Era un nostromo svizzero, che lo fissava con occhi
spalancati, e mormorava parole incomprensibili muovendo le gambe
con l’andare dei pulcini: e l’invitava a far qualcosa, ma il suo
parlare era così strano e i suoi movimenti così goffi che non si
capiva nulla di cosa volesse dire e fare: il suo viso era così
piccolo
e
dentro
tutti
i
tratti
erano
piccoli,
come
per
risparmiare: la bocca soprattutto, come fosse nascosta; anche lo
sguardo
era
minuscolo,
sulla
pelle
liscia
di
bimbo;
chiedeva
qualcosa, indicando i suoi piedi che facevano piccoli passi da
pulcino; allora il marinaio, che aveva viaggiato per tanti anni
per tutto il mondo, dal caldo al freddo, sorridendo, quasi ridendo
perché non gli piaceva parlare, riconobbe la polonaise, una danza
antica e capì che il nostromo svizzero ne era fanatico, che era
l’unica luce per lui, che voleva che qualcuno la ballasse con lui,
che non sarebbe andato via finchè non l’avesse trovato.
Allora si levò, era notte e si sentiva solo l’odore del fumo:
alzò per un attimo lo sguardo e prese a danzare sorridendo, infine
ridendo: felice: ballava accostando velocemente i sandali e poi
girando su se stesso, schioccando le dita delle mani e lanciandole
25
su verso il cielo e poi in basso verso la terra: con gli occhi
chiusi, seguendo con le labbra le parole di canzoni immaginarie,
quasi
fosse
nel
più
bello
dei
paradisi:
come
se
il
viaggio
riprendesse subito nel più bello dei mondi: e i mari si stessero
incravattando
per
far
bella
figura
con
lui:
e
i
tramonti
già
truccandosi le gote per essere porpora più che mai: e la luna il
più
velata possibile per non svegliare il cielo.
Il nostromo svizzero continuava a procedere a passettini di
pulcino
con
la
sua
polonaise
ritmata
ed
era
contento
di
aver
trovato qualcuno che l’accompagnasse nella danza, anche la sua
frangetta bianca danzava sulla fronte senza rughe. E siccome il
marinaio
prendeva
tutto
lo
spazio
della
piazzetta
del
porto
nell’ebbrezza del suo ballo, lui discretamente continuò la sua
polonaise
dietro,
contro
i
muri
delle
case
buie,
fino
alle
banchine e poi continuò sulla passerella di una barca per finire
il giro di polonaise e ci salì sopra. Il marinaio spalancò solo un
attimo i suoi meravigliosi occhi verdi, come per respirare, e
seguì il nostromo sulla barca che riprendeva a piccoli passettini
una nuova di polonaise; salì anche lui sulla barca e lasciò liberi
gli ormeggi di poppa mentre il nostromo a passettini recuperava
l’ancora a prua: e partivano, dal villaggio che fumava, ballando
sulla barca che ci pensava lei a tenere il mare, di notte, sotto
una luna velata per non svegliare il cielo.
Il mattino, al risveglio, il marinaio sorrideva, e rideva senza
pensare: apriva per un attimo i suoi stupendi occhi verdi per
mostrarli al mare, alzava appena lo sguardo e porgeva l’orecchio
alle onde: poi cominciava a danzare felice mentre il nostromo già
dall’alba percorreva tutto il ponte in su e in giù coi passettini
della sua polonaise. Danzava libero il marinaio felice, mentre la
barca ci pensava lei a tenere il mare: con la mascella quadrata e
dolce; come se fosse il più bello dei paradisi, in viaggio bello
nel mondo più bello, dal caldo al freddo, tra i mari incravattati
e i tramonti dalle gote truccate: fino a notte tarda, quando la
barca
dava
loro
la
buonanotte
aspettando
26
l’ultimo
passo
della
polonaise, sotto la luna velata per non svegliare il cielo, che
già dormiva pieno di sogni di
stelle.
Così girando il mondo, dal caldo al freddo, senza fermarsi per
un
anno,
poi
mettendosi
alla
fonda,
dentro
qualche
fiordo
ghiacciato, giusto per una settimana, per non far sbiadire.
E dopo sette giorni ripartono, e riprendono a danzare: io li ho
visti,
quando
stavo
per
essere
ingoiato
dalla
balena,
e
il
marinaio era così felice e bello quando la murata della barca mi
passò accanto mentre la cravatta delle onde mi portava a picco:
era così forte la sua mascella e dolce nella tempesta, così chiusi
i
suoi
occhi,
così
puro
il
suo
ballo
mentre
il
nostromo
gli
passava intorno con cassettini da pulcino; alzò appena lo sguardo
e per un attimo aprì i suoi meravigliosi occhi verdi, mi vide e mi
fece un cenno con la mano aperta seguitando a ballare: e io lo
ricambiai e mi salutò alzando le braccia anche il nostromo che
continuava coi suoi passettini.
Il
marinaio
felice
gira per
tutti i
mari incravattati
e
i
tramonti dalle gote truccate, ogni anno, con la barca che ci pensa
lei a tenere il mare, dal caldo al freddo, insieme col nostromo
svizzero fanatico di polonaise: tranne una settimana, quando si
ancorano in baie nascoste, per non far sbiadire la luna, sotto le
stelle
appuntate
sul
petto
del
cielo,
che
già
dorme
come
un
pulcino.’
Cavour
Ecco
cos’erano
quei
allora, non erano ghiri!
rumorini
che
sentivo
nel
dormiveglia,
Devo ammettere che l’idea non è cattiva,
uno statista ammette le buone idee dei suoi collaboratori, li
guarda da dietro gli occhiali spessi come Cavour, si meraviglia
che l’idea non sia venuta a lui ma li stima senza darlo troppo a
vedere: li guarda negli occhi
tu sei imbarazzatissimo che per la
prima volta Cavour ti squadri così, prima hai pensato male invece
ora realizzi che ti squadra perché ti sta stimando: abbassi un po’
27
gli
occhi,
un
soddisfazione,
continua
a
po’
ma
li
alzi,
come
fissarti
fai:
come
non
vuoi
davanti
se
avesse
a
darla
uno
a
vedere
statista
scoperto
un
la
tua
così!
Che
collaboratore
significativo, colui che lo aiuterà forse più degli altri nella
costruzione dell’unità d’Italia e che pensava fino a poco tempo fa
fosse solo uno sguattero o poco più; addirittura si scaldano le
sue lenti spesse tanto penetrante è il suo sguardo, lo sguardo di
uno statista: che ti immagina già giovin governatore a Napoli,
viste tutte le tue fantasie e il tuo fare da scugnizzo, altro che
quel torinese bamboccio e perplesso che i savoia peroravano; tu
con la tua fantasia e il tuo imbarazzo sincero, il tuo fare da
sciuscià;
giusto
per
Napoli,
quanto
prima;
e
tu
continui
ad
abbassare e alzare lo sguardo, come stessi facendo ginnastica con
gli occhi, davanti a quegli occhiali spessi che ti squadrano:
fantastichi
di
tornare
nei
vicoli
di
spaccanapoli,
con
gli
scugnizzi colorati che ti corrono incontro, vestito di porpora col
cappello giallo a falda larghissima, e ti toccano e implorano e
ridono a piedi scalzi e le facce sudicie; e ringrazi di cuore
nella tua mente Cavour, un torinese atipico: uno che si stupiva,
squadrava e infine firmava il tutto con un infinitesimale sorriso,
che
anche
perspicace,
leonardo
uno
avrebbe
statista:
avuto
che
difficoltà:
apprezzava
uno
fantasia
terribilmente
e
scugnizzi
sorridendo da gioconda col cervello quadrato.
‘In occasione della mia venuta a Napoli in veste di giovin
governatore, (urla di giubilo della folla) per rinsaldare l’amore
per questa terra da cui provengo (gridolini di femminielle), in
nome e su incarico di
Camillo Benso conte di Cavour (mormorii di
sospetto) su procura del Regno d’Italia (ghiacciolini di silenzio
e omertà, è meglio che la smetta coi Savoia), con la fraterna
benedizione di Giuseppe Garibaldi (qualche applauso, Garibaldi è
meglio dell’aspirina), propongo, amici miei (è tutta una vita che
sogno di dirlo, ‘amici miei’ lo dicono solo le persone importanti:
solo una volta e per un attimo, la vertigine di essere sull’alto
della ruota in cima al mondo, poi basta!, un attimo di superbia
28
per l’ex-scugnizzo dei savoia!, vi prego, amici miei!) in questa
piazza baciata da ‘o sole mio, ‘o sole nostro, di dare inizio alle
danze: tamurriate e nulla più!’
E il popolo che balla: come balla bene nell’anfiteatro davanti
al suo governatore di porpora col cappello giallo a falda larga:
s’avvinghiano dolcemente i corpi: come in un tiepido pomeriggio
del mondo, soffiato dalla brezza del mare: senza pensieri, a parte
quello, celato negli occhi birichini e foschi, dell’amore: ballano
le
donzelle,
e
gli
scugnizzi
come
nobildonne fissano con bramosia il
sono
aggraziati:
tutte
le
governatore ambito, facendosi
aria coi ventagli di seta arrivati ieri dalla Cina: lo fissano con
occhi grandiosi e neri, sottolineati di trucchi lievi come il
mare, come le onde del mare, come la brezza delle onde.
Lo fissano sotto il grande triangolo nero, offuscato dal velo
gentile del caldo, del Vesuvio, che incombe dietro l’anfiteatro.
Magnifico,
ragnatele
spettrale:
le
corde
dalla
cui
sottili
ombra
dei
sembrano
burattini
sfilarsi
che
ballano,
come
anche
quella del cappello giallo del governatore, che ride e si commuove
con lacrimoni agli occhi: rimuginando i vicoli bui e zozzi con le
statuette di madonnine, i ratti grassi e le pantegane in cravatta,
le mani rigate di sporco umido come linee della vita, di quand’era
uno di qui: servo suo, conte di Cavour ...
Balla il popolo: come balla bene nell’anfiteatro: davanti al
suo
governatore
rimpiazzati
sentire,
da
di
porpora:
altri
ancora
più
in
i
musici
coda,
virtuosi,
pronti
per
sfiniti
per
vengono
suonare,
partecipare
alla
subito
per
farsi
festa
del
regno. Suonano così bene che non si ha orecchie che per loro e
occhi per i ballerini: nella superbia del popolo felice ed ebbro
d’amore.
Irascibile,
stizzoso,
trascurato:
il
Vesuvio
esplode:
senza
farsi sentire, senza farsi vedere: con una nube tosta di fuoco,
fiammeggiante
superbo,
di
lava
s’asciuga
il
rossa
e
viso
il
nera
di
fumo:
governatore
e
balla
le
il
popolo,
nobildonne
lo
fissano con bramosia agitando nervosamente i ventagli cinesi: solo
29
le
femminielle
alzano
gli
occhi
leggeri
stupite
dal
rombo
invisibile, da quell’ultrasuono incantato: e indicano quella nube
rossonera di fuoco sopra il triangolo possente del Vesuvio: più di
un tramonto fiammeggiante, più di mille cumuli in lotta: la fucina
del dio: anche lui voleva ballare e nessuno l’ha invitato: tutti
superbi,
nessuno
dal
governatore
sciuscià
a
all’ultimo
lucidargli
le
scugnizzo,
scarpe
nessuno
impolverate.
umile,
Così
lui
s’autoinvita e viene, da solo, a ballare: arriva con tutto il suo
fuoco: ipnotizza col fumo, trascinato in carrozza dal vento che
fagocita la brezza del mare: guarda un attimo le femminielle, così
belle,
che
indicano
con
la
boccuccia
a
o
e
l’unghia
laccata
dell’indice la montagna che brucia: e investe con tutta l’irruenza
del suo fuoco: vendetta d’amore, da tarantato sui generis: ci
sarebbe
da
ridire,
se
addosso: piomba giù
Come
balla
governatore
avessimo
tutta
questa
lava
rovente
il Vesuvio, geloso, permaloso, viziato.
bene
di
non
il
popolo
porpora:
coi
nell’anfiteatro:
musici
sfiniti:
davanti
tutti
al
suo
fotografati
dalla lava di fuoco: immobili sotto il calco fumante. Rutta ed
erutta
il
Vesuvio,
come
un
dio
goffo
e
potente
colla
broncopolmonite: contento di aver fatto casino e di aver rovinato
la
festa:
rovinata?
così
tutte
nell’anfiteatro
governatore
che
imparano
a
quelle
nero,
si
invitarmi;
figurine
come
fa
non
di
nere,
marmo:
aria
col
ma
davvero
di
marmo,
come
davanti
cappello
l’hai
a
quel
giallo
buffo
a
falda
largissima: e le nobildonne col ventaglio di seta importata: e le
esili femminielle col dito puntato, tutti come di marmo: non è uno
spettacolo? Quando mai troverai una tamurriata così: un’istantanea
così? Quando mai riuscirai a fermare ancora la gioia e l’amore nel
suo
acme?
Dimmi
quando,
amore
mio:
dove
lo
troverai
un
altro
anfiteatro di statuine così belle: con sopra il cielo così terso,
puro e azzurro e il grande triangolo nero in mezzo, al centro
dell’attenzione, senza neppure il velo gentile del caldo:
e sotto
il mare, e le onde del mare, e la brezza delle onde. Dispiacerà
solo un po’ al conte di Cavour: un torinese atipico: uno che si
30
stupiva, squadrava e infine firmava il tutto con un infinitesimale
sorriso,
che
anche
leonardo
avrebbe
avuto
difficoltà:
uno
terribilmente perspicace, uno statista: che apprezzava fantasia e
scugnizzi: che dovrà rivolgersi ora a quel torinese bamboccio e
perplesso perorato dai savoia.
Marilyn & Jimmy
(Quanto t’ho adorato, marylin: in tutte le tue stampe a colori,
che detestavo e trasferivo poi in bianco e nero, lo contrastavo
molto: per sognarti a due tinte e basta, il bianco del tuo bacio e
il nero del tuo labbro, il bianco del tuo pianto e il nero del tuo
riso: tu bianca io nero: senza mezzitoni: sono arrivato a toccarti
la guancia: eri così stupita, come una bambina: e ti sei messa il
dito sulla bocca: come una bambina: e io ho sorriso e sbuffato,
come se mi chiudessi le mani sulla faccia e mi stringessi le
tempie).
Anche per questo ti sfido, Jimmy, e rombiamo i motori in folle,
e accanto a quelli affiliamo i nostri sorrisi tristissimi, quella
specie di ghigno, la pennellata giapponese di spleen per cui non
ho rivali, forse giusto te, che ghigni abbassando gli occhi, io
non lo so fare, io ghigno e vado di lato, io preferisco te ma non
lo so fare, però siamo lì, coi motori e col ghigno: vicini a
sfidarci mentre le ragazze urlano disperate e ammirate.
Roba da
bulli, da malati; roba da noi, nati per ghignare sbuffando; lo
senti come premo sull’acceleratore in folle, premo più di te,
ghigno più di te. Ma tu reagisci come il pianista più bravo che
lascia sfogare l’avversario, io avversario?, non t’accendi neppure
una
sigaretta:
mi
lasci
nella
confusione
del
mio
delirio
grassoccio, pomposo, pieno di smog: e azzecchi, come sempre, la
tua
ascia:
il
colpo
secco
al
socchiudere
gli
occhi,
tagliarli
collo,
e
la
insieme
tua
superiorità:
abbassarli
con
uno
sbuffo che non posso sentire, il motore romba, non lo sentirò mai,
ma lo intuisco, so che c’è e digrigno i denti, perché hai vinto,
31
non posso competere: io non posso avere la seconda nostalgia del
mondo: ma so che non saprò mai raggiungerti e allora mi lancio in
avanti, stacco la prima e corro giù per la distesa: con in fondo
il dirupo, il massimo dirupo, lo schianto, le scogliere bianche.
Perché solo così devi imitarmi: per l’invidia del tuo spleen, che
non può fermarsi se io scappo: deve inseguirmi, raggiungermi con
lo sguardo e poi, solo poi, guardare giù sbuffando.
E lo può fare
solo se mi raggiungi, sabato sera, che corro come un matto giù per
la
distesa:
dubbio,
con
jimmy:
stringerci
la
in
fondo
se
sei
mano
e
il
più
massimo
pazzo
tu
tranquillamente
dirupo.
Anche
od
se
non
potevamo
passeggiare
sui
sentieri
io,
tu
hai
un
melensi delle nostre vite pacifiche: appena un po’ groggy, ma con
tutto
il
profumo
e
i
colori
di
marilyn
dietro
e
accanto.
Se
eravamo appena un po’ più furbi: se ci fermavamo in tempo; se la
smettevamo di fare i bulli e gli orgogliosi. Così tu mi stracci
nel ghigno giù con sbuffo, ma mi guardi col cuore a bocca aperta
dal
finestrino
mentre
mi
precipito
giù
per
la
distesa.
E
comprendiamo a 200 all’ora di essere identici, più che fratelli,
più che gemelli; oh, potevamo stringerci la mano e tranquillamente
passeggiare sui sentieri melensi delle nostre vite pacifiche…
Ma
i motori rombano e le macchine corrono con le lancette al massimo:
e io ho infilato la cravatta nella porta, apposta, come un fermo,
perché non si apra quando avrò paura: dovrò restarci dentro, come
in una cella, mentre tu all’ultimo ti getterai fuori e la tua auto
precipiterà sulle scogliere fracassandosi senza te: tu per terra a
vederla
esplodere
con
marylin
che
ti
raggiunge
e
ti
piange
disperata sulle spalle, in bianco e nero, un po’ contrastato: io
che
vado e
vado e
vado, e volo, io solo, parallelo alla tua
macchina vuota: io con la mia bella cravatta inceppata apposta, mi
sono tagliuzzato un po’ anche le vene, ho bevuto un sacco di
anticrittogamici blu, mamma che schifo: me ne sto al volante con
una nausea terribile e una gran voglia di vomitare, ho sonno per
le scatole di lorazepam che mi sono succhiato: il ghigno che mi
viene è un po’ da mongolo, sono contento che tu non lo vedi,
32
jimmy: non è bello. E’ povero e brutto, per due esteti come noi:
come quando si vomita, come quando si muore per niente, solo per
orgoglio: giusto per il gusto del bianco e nero. Mi piacciono le
scogliere, mentre precipito, la schiuma delle onde si confonde con
la mia bava mentre vomito: bello e brutto insieme: biancoenero,
ah, jimmy, la prossima volta mi dai la tua parte nel film, almeno
posso sentire il dolce corpo di marylin sulla schiena, faccio
finta di soffrire, di ghignare, e intanto mi eccito fra lei e
l’erba: i suoi seni, le sue cosce, i fili d’erba, la turgidità
della terra… tutto in uno scenario di nostalgia
sullo schermo
fosco, con me che sudo nel sogno, col cuore a bocca aperta, che mi
spezzo
la
schiena,
che
mi
rompo
i
denti,
che
sento
che
mi
squarcio, come quando i macellai aprono i quarti di maiale e ti
preparano le lombate per il pranzo del giorno della festa (era
pasqua o natale? Del ringraziamento no, là è solo tacchino: si
hanno strane idee, fra le scogliere e la schiuma è tutta diversa
da come la si immagina).
Cecco Beppe
Geometria pura, linee e silenzio; un benessere astratto, senza
la sensazione di averlo; seta.
Esser lì e non ricordare affatto perché si è lì, e neppure
pensare di non ricordarlo affatto; fissare il grigio riflesso da
un vetro smerigliato rettangolare, una specie di finestra chiusa,
radioso: seta. Naturalmente
in piedi: aspettando senza guardare
il soffitto; con le mani sui fianchi senza sfiorarsi i pantaloni:
e le scarpe parallele, le gambe appena divaricate.
Il bianco; socchiudere gli occhi e non veder nessun formicolio
sulle palpebre perché la retina è finalmente libera: e danza, la
retina, nella nostra mente: il ballo della regina, il valzer di
capodanno con la freddezza di una vecchia neve: danza ad occhi
chiusi negando se stessa al principe consorte: fra lo stupore
generale: e l’indignazione solenne della nobiltà austro-ungarica.
33
Danza libera, felice, ad occhi chiusi, la mia retina nel nulla:
è
un
salone
battaglie
d’armi
più
interminabile
lunghe
degli
dove
arazzi;
si
potevano
nessun
fare
formicolio
vere
sulle
palpebre, perché ora è lei la regina: una sovrana imbarazzante per
tutti
questi
moustaches
tradizionalisti,
per
questi
corsetti
stretti con il verdugale goffo. Un nuovo anno, l’ultimissimo di
un’infinità di secoli, finalmente finito il formicolio del tempo!
Nulla più proiettato sulle palpebre: perché la retina è libera e
felice e danza nel nulla: snella tra i goffi matusa con la divisa
grondante di medaglie: tra le beghine austere indignate per lo
scandalo: danza tutta sola la mia retina nel nulla della sala
d’armi: felice correndo tra gli arazzi delle battaglie: scivolando
sul
parquet
d’antica
quercia,
sotto
i
cassettoni
del
soffitto
affrescato di cielo e firmamenti: senza nessun formicolio sulle
palpebre: finalmente libera nel nulla.
Anche Cecco Beppe sorride, infine, senza farsi notare: per la
felicità della sua amata, la sua leggerezza, la sua fantasia,
costi quel che costi, la caduta di un impero, una rovina già
imminente nata col suo splendore. Sorride e scivola discreto nella
loggia buia, annerita dal tempo; e di lì esce sulla balconata
segreta,
coi
frivoli
gerani
rossi
tutti
in
cerchio
come
un
battaglione; guarda lontano, senza fissare, senza neppure vedere
troppo:
già
se è troppo tardi, se è già l’alba, se per caso non sia
arrivato
l’ultimissimo
anno.
Sorride,
senza
farsi
notare
nemmeno a se stesso; lontano, per non farsi vedere ai suo occhi;
silenzioso, per non farsi sentire dalle sue orecchie. Sorride,
felice e libero pur senza ballare: come se il cuore non esistesse
più,
e
lui
fosse
tutto
un
cuore,
senza
farlo
notare
ai
suoi
sentimenti, che girano impettiti e sospettosi con le zampe da
gazze nervose; è tutto solo, Cecco Beppe, così solo che neanche la
sua solitudine se ne accorge: e avanza verso il parapetto: vede
nella
fontana
nutriti,
che
sotto
i
pesci
s’abbuffano
rossi,
scuotendo
grossi
pesci
l’acqua
grassi
per
ben
qualcosa
precipitato di recente dal cielo: briciole di michetta, forse,
34
qualcosa che gli piace un mondo: sono tutti così contenti stamani,
proprio come fosse la prima e l’ultima alba del mondo; come se
dovesse succedere tutto e niente: un ghiaccio infinito: seta.
Distrattamente,
Cecco
Beppe
dà
un’occhiata
furtiva
all’orologio, l’abitudine noiosa di un imperatore austro-ungarico
puntuale: le 7 e cinque! Sono già, finalmente le 7 e cinque! Senza
sporgersi
allarga
autorizzando
la
la
zia,
mano,
mia
e
zia,
la
a
stende
suonare
verso
definitivamente
senz’altri indugi il campanello metallico d’ottone.
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l’orizzonte,
e