FRANCO MARIA VIGANO` da `LA SOFFITTA`
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FRANCO MARIA VIGANO` da `LA SOFFITTA`
FRANCO MARIA VIGANO' da ‘LA SOFFITTA’ Picaro Un valzer, ecco, zoppo se vuoi, un valzer nella residenza della principessa Eugenia; lei non c’è, è tutto per te il salone, i candelabri sono accesi e i lampadari di cristallo gettano una luce d’oro mentre l’oceano è furente nella notte, dalla veranda mentre balli lo vedi, furente e geloso di quella luce d’oro tutta per te, simile a un’ineffabile luce divina. Forse dopo verrà, la principessa Eugenia, ora non c’è, si fa attendere, ma tu intanto balla!, si consumano in fretta le candele dei candelabri d’argento e i lampadari leggermente ondeggiano alla furia ventosa dell’oceano che filtra dalla veranda. Immagina tu di essere l’oceano e di vedere uno zoppo tutto solo che balla nel salone vuoto della principessa Eugenia, illuminato a festa con tutti i candelabri d’argento e tutte le candele e tutti i lampadari di cristallo. Io, se fossi l’oceano, per la rabbia mi scaglierei sulla spiaggia e ruberei tutta la sabbia mettendomela in tasca come un monello, io, se lo fossi, spruzzerei tutta la mia salsedine sulle grandi finestre del palazzo rosso fino a renderle opache e bianche, se fossi l’oceano urlerei tutta la notte e offuscherei la luna e le stelle con onde micidiali. La principessa stanze: accanto Eugenia, ai dai broccati riccioli delle corvini, tende: è siede nelle vicino sue alla finestra: stretta nel suo corpetto bianco: sperava in un tramonto mite: mentre la porpora del cielo sfiora come una muleta le coste spagnole: tutte quante le leggende e i mulini a vento: picaro!, picaro… E già da quelle coste soffia caldo il libeccio d’africa; per questo t’aveva dato appuntamento, per essere felice stasera. Felice come non lo era mai stata, in un ballo solitario con te nel salone a innamorare festa, la senza sabbia, nessun la altro spiaggia, invitato le che onde, te: e l’oceano, far la scogliera, anche il maze, insomma un po’ tutto: loro, la sabbia, 1 la spiaggia, le onde, l’oceano, la scogliera, il maze, innamorati più di lei stessa: loro, la sabbia, la spiaggia, le onde, l’oceano, il maze, la scogliera, il maze, forse anche te: ma era un pensiero nascosto, una voluttà, una fantasia di picaro: picaro… La principessa Eugenia ha visto che l’oceano stasera è turbolento, turpe nel suo viola funereo e balza come un cane a morder le scogliere e insaliva tutta la spiaggia; e allora anche il cielo si specchia ed è di cento grigi e neri, e le nuvole s’assommano, lottano come titani e si spezzano, si frastagliano, crollano come colossi e si scagliano le une contro le altre con odio e l’oceano le vuole unghiare, sembrerebbe un gioco ma è vera guerra. Non c’è nessuna scogliera spagnola in vista, nessun mulino a vento, nessuna leggenda: solo spruzzi d’onde che sembrano oltrepassare il vetro lucido della lunga bifora e punzecchiare il viso, ah gli spruzzi, gli spruzzi d’acqua del mare picchiettano sul viso come tantissimi minuscolissimi picchi sui tronchi di pino: frizzanti! Frizzante picaro, picaro amore mio, picaro... Sfocia un lugubre canto gregoriano dalla porpora delle tende, dal grigio buio dei muri freddi: voci fonde che salgono al cielo, al cielo grigio e turbinoso, inni neri e foschi: delle terre col sangue dei toreri, dai dalle profondità peccati, dai ghigni dell’inquisitore: salgono alti nella stanza un’infinità di canti gregoriani, un’esagerazione, tremano le solide pietre del palazzo, sembrano dirigere il coro sordido degli elementi, sembrano il respiro degli inferi, ed Eugenia ha paura, Eugenia congiunge le mani, il respiro è stretto nel corpetto, gli occhi bambini di Eugenia brillano imprigionando tutta la luce del mare e del cielo, è l’unica speranza per fuggire dal vuoto, e cercano di scappare sulle coste spagnole, immerse nella nebbia dell’oceano furente. Se picaro era là e non fosse fuggito anche lui, le onde l’hanno travolto in un attimo di disattenzione come le pale di un mulino e l’oceano lo sbatacchia dovunque tutto rotto, come una leggenda, colorato e tutto rotto, picaro mio, picaro… 2 E quel puntino breve, colorato di silenzio, un rosso sgargiante come il sangue abbagliante dei tori & dei toreri, che scende dal cielo? tra la nuvola nera e quella nerissima, ora solca quella bianca come la barba del bisnonno ora infila la grigio perla e viene verso qui: verso qui in silenzio, col silenzio del rosso sgargiante arriva il puntino tondo, sempre più tondo, possiamo chiamarlo paffuto? quel puntino cicciotto e rosso e silenzioso, dicci, picaro che galleggi rotto nella furia delle onde oggi e domani nella loro quiete, quiete rotta di te, dicci su, tra un mulino e una leggenda, prima che il libeccio arrivi a scarmigliarci i capelli dall’africa: cos’è? Cos’è, picaro colorato, quel puntino col colore del silenzio? Del colore del sangue dei tori & dei toreri (e anche di un bimbo che l’aveva più rosso di tutti quanti): ma no? scherzi, picaro rotto? Cosa ci fa una mongolfiera, anche se del colore del silenzio, in mezzo alla furia degli elementi? Fatta apposta, dici: oh picaro, che razza di fantasia !? E chi l’ha costruita, chi l’ha riempita d’elio? Tu? Ma borseggiavi va’! Quando tutti ai crocevia, ti quando prendevano scongiuravi in giro, dio per quando le tue marachelle con falsissime lacrime: nel mentre tu soffiavi l’elio nella mongolfiera colorata di silenzio? E adesso che arriva nel cielo, tra le nubi favolose nere e grigie e bianche, e tu galleggi rotto sulle onde che ti portano come un catafalco: rispondi collo sguardo morto che era la tua mongolfiera, la mongolfiera dei tuoi mulini e delle tue leggende, la mongolfiera di tutti i maestrali, il frutto dei tuoi borseggi e delle tue imprese: piccolo picaro che galleggi, hai la febbre, la fronte ti scotta e le onde gelide cercano di raffreddarla: il tuo delirio morto sale al cielo come il coraggio puro, che dalla gente, dalla massa delle gente esce tutt’a un tratto e senza nemmeno farsi largo, tutti lo lasciano passare: sale mongolfiera e del sale, colore sale del in mezzo silenzio: al oh, cielo ti e balza supplica sulla Eugenia, carezzando la tua fronte morta nelle onde ora leggere: picaro mio, 3 non dirmi che l’hai fatta per me… sono un Sì mia regina, le mie parole po’ rotte, è vero, non so se un vanto o una colpa, avevo borseggiato di brutto perché fosse pronta proprio oggi. Sì mia regina, anche se sono un po’ troppo morto, e non dovrei dirlo, ma io ho fatto proprio così. Per tutta la vita… Proprio così, per tutta la mia miserabile vita, mia regina. E senza farti vedere… E’ difficile farsi vedere dal palazzo quando si è in mezzo a un’infinità di crocevia radenti e puzzolenti, mia regina. Picaro. E’ bello che voi pronunciate il mio nome, mia regina: mi consola, d’altronde mi dà c’est autostima, la vie peccato come che dicono sia un dall’altra po’ morto, parte della scogliera. Picaro: vieni anche tu, piccolo, sali sulla mongolfiera. Mia regina, io ho vissuto nel basso della polvere e ne ho viste di tutti i colori, per questo la mongolfiera l’ho fatta del colore del silenzio, ma un morto che sale su una mongolfiera non l’ho mai visto e credo che sarà difficile anche per un picaro, anche se lo potrei sperare, visto che si tratta di me, anche se morto, picarescamente morto, ma sempre morto, purtroppo. Picaro, i miei occhi sono colmi di lacrime. Figuratevi i miei, mia regina, che lo sono e non riescono a farsi vedere. Sono colmi di lacrime dentro e non fuori, perché da una parte muoio dall’altra vedo la mia mongolfiera del colore del silenzio che arriva in questa notte di tregenda e sopra tutto il vostro meraviglioso viso così dolce sulla mia faccia morta. Con tutto il rispetto, ci sarebbe da incazzarsi, se non fossi morto, se non fossi picaro: picaro colui che ride con la vita della vita, picaro, colui che vi ha amato dai crocevia scherzando. Andate mia regina che così muoio del tutto col vostro viso negli occhi morti. Andate via, vi prego: ho gli occhi troppo gonfi di lacrime dentro. La melanconia morta di un picaro è dieci volte la furia del mare, cento volte la forza delle onde, mille volte 4 il nero delle nuvole: ha il colore delle urla invisibili, sconosciute, dimenticate ed è tutta dentro a un cuore incerottato che scherzava ai crocevia, un cuore morto. L’unica parola è: Basta, e se proprio volete una ciliegina: E cosìssìa. Con estrema grazia, con dolcezza elegante, con nobiltà soffusa Eugenia sale sulla acquietano, le dall’africa arriva mongolfiera: nuvole si un il mare uniformano libeccio caldo si in che placa, un le cielo soffia onde si perlaceo: accanto con tenerezza: senza parole sono le leggende, i mulini: senza parole il rosso palazzo e la spiaggia bianca: così appaiono dalla mongolfiera alta. Meravigliosa e altera la principessa nell’alto dei cieli: silente e bella, staccata da sé. Ora è un punto nel nulla del colore del silenzio. La lampadina blu La lampadina blu li toglie dall’oscurità indifferente dove giacevano invisibili per non farsi notare: getta una luce leggera al centro dell’immagine, sulle tre personcine di terracotta, il cavallo resta in ombra, a parte il pennacchio enorme sulla schiena, e così pure il resto del carretto: con meraviglia Jo guarda i tre personaggi, che ora vivono come se non avessero avuto bisogno che di una fioca luce blu per risvegliarsi. Hanno cappellacci siculi, penduli all’indietro i due uomini, mentre la donna ha un foulard verde che le avvolge i capelli, probabilmente vanno a una festa paesana, magari al loro stesso matrimonio; e c’è un sacco di gente in piazza; e i bambini li aspettano facendosi i dispetti; e tutta l’altra gente con le mani in tasca al vestito della festa; lo sposo sul carretto è bellissimo, sembra uno che non si sposa mai e muore giovane; lei invece sembra una madonnina, ed è tutta nervosa; il guidatore pare già ubriaco. Il cavallo è orgoglioso dei suoi pennacchi, passare dall’aratro dei campi a queste feste, far la figura del purosangue tradito solo dai garretti grossi! Con tutti che lo ammirano: sulle orecchie ha un 5 altro pennacchio Speriamo com’è: solo a che d’altronde punta, il niente da invidiare guidatore si ricordi festa così, con una la i agli unicorni. strada, due ubriaco giovani più affascinanti del paese, lui così bello che non si doveva sposare e temevamo morisse giovane, lei una madonnina in carne ed ossa: chissà che figli, che splendore: e tutto ciò non mi autorizza a qualche zibibbo in più di buon mattino? Sotto questa dolcissima luce azzurra, che è l’alba del cielo del sud: fatta per noi, questa luce azzurra: fatta per la nostra festa, ammesso che si trovi la strada dove la si fa. Festa grande come un respiro pieno: ci sarà caldo e anche vento: e il tuo berretto rosso volerà via e resteranno al vento i tuoi lunghi capelli neri: e anche il tuo foulard fuggirà nel vento come un capelli piccolo corvini aquilone di e fianco resteranno ai miei: al vento finchè i i tuoi nostri lunghi occhi non sentiranno il bisogno di baciarsi come labbra, e fissandoci i tuoi occhi corvini nei miei occhi neri, coi capelli liberi nel vento capirò perché dovevi morire giovane: perché hai le pupille più scure che abbia mai visto in un uomo: perché hai le labbra più rosse che abbia mai visto in un uomo: perché hai il viso oblungo di un pupo meraviglioso, il capolavoro del maestro artigiano: perché hai le mani più bianche che abbia mai visto in un uomo: perché hai i capelli più lunghi che abbia mai visto in un uomo. Quando ti guardo così e bacio con gli occhi il tuo silenzio, il tuo sguardo meravigliosamente spento, il mio cuore ha un sussulto: perché sa che presto comincerà a soffrire, tanto quanto le tue pupille sono scure e rosse le labbra, e quanto le mani sono bianche, e i tuoi capelli lunghi, lunghi come i miei. Senti i bimbi che ci attorniano urlanti, e gli applausi della gente, e le parole che volano in terribile brusio: lo senti, amore mio? ho voglia di restare sola con te, perché non succederà spesso, perché te ne andrai, perché le tue pupille non saranno per sempre così scure e rosse le labbra, nè le mani così bianche, e capelli lunghi come i miei. 6 Ecco la musica, la musica che viene per noi: senti che ci viene addosso come la risacca delle onde del mare sulla spiaggia, la senti, amore mio, è una tarantella, una scatenata pizzica che tu balli con la timidezza della paura di un burattino: e invece corri nel cerchio, amore mio, scatena la rabbia del ragno, corrigli dietro e davanti, fuggi!, fissalo col nero delle pupille, inebrialo col rosso delle labbra, ipnotizzalo con le tue mani bianche, imprigionalo nella ragnatela dei tuoi lunghissimi capelli. Lo sai bene che la tarantola è sempre in agguato, e noi non facciamo altro che ballare per scacciare la nostra paura di burattini: finalmente un sorriso in fondo alla tristezza sfinita delle tue pupille: finalmente, amore mio, l’oblio momentaneo della morte ragnatela: fammi credere che vivremo insieme per l’eternità, che per un minuto saremo così giovani e belli: che la tua angoscia era solo il mio nervosismo di sposa, che sotto sotto hai allegria, e barzellette, e gioia a non finire; guarda come ti trascina la danza, come ridi ora, e io sono felice e ringrazio il ragno, che ci corre dietro e noi ci voltiamo veloci e l’inseguiamo ribelli, e il cerchio si fa talmente veloce che non c’è più tempo di pensare, di amare, solo l’ebbrezza di sudare nel vento aracnoide, come fossimo fili di ragnatela, vortici d’aria invisibili a noi stessi, senza luce blu: innamoratissimi ed ebbri, pieni di zibibbo e d’amore, con tutto il corpo attorcigliato al suono, per un minuto e per sempre, danzando senza sfinirsi mai, perché il ragno siamo noi. Tanto so che dopo te ne andrai, perché non sei mai venuto, perché ti guardavo dove non esistevi: sarà trovarsi con un pugno di mosche, e sentire il cigolio delle ruote del carretto: sbronzo il guidatore sotto la lampadina blu, meraviglioso tu con i tuoi occhi inguaribilmente tristi sotto la stessa dolcissima luce soffusa: pronta a spegnersi, quando lo spleen prenderà la rincorsa terribile come un toro ferito, quando la tigre graffierà a morte dopo aver fatto le fusa: perché ti era capitato uno sguardo così, e una coda dell’occhio per seguire la coda dell’amore, solo quella 7 e poi alzarla alla fiochissima luce blu della tua vita solitaria: illudermi un attimo, uno splendido attimo vestito da sposo: darmi un bacio così profondo da farmi trasalire: troppo profondo, non un bacio d’amore: il primo bacio e già un bacio d’addio, tanto la luce blu è così fioca che nasconde le lacrime: andar via, non andar via, amore mio, disperato amore: per tutte le notti che potremmo trascorrere con le finestre aperte vicino al cielo con la luna a spicchio: per il dolce avvinghiarci solo sognando, solo sognando amore mio, te lo prometto sotto la luna a spicchio e la sua sottile luce blu. Solo di questo supplico i tuoi occhi malati: di darmi la mano come la si dà a un bambino, di perdonarmi per nonsochè e di sorridermi: una piccola promessa, grande come una formica. Fioca, esile, blu come la luce. Tanto so che te ne andrai; so che resterò con un pugno di mosche: nemmeno ti vedrò andar via, sentirò solo le ruote del carro e la canzone roca del guidatore ubriaco: guarderò la terra e solo quella, guardare la terra è ciò che mi rimane, la profonda terra gialla, arsa e secca e crepata, polverosa, assolata, è tutto quello che mi rimane, che rimane ai miei occhi: guardarne i sassetti, senza memoria, senza memoria scoprire qualche insetto che si muove, qualche formica, un ragno veloce. Mentre tu solo in carrozza col guidatore ubriaco sul cassettone davanti lascerai correre i tuoi occhi come cavalli imbizzarriti, puledri selvaggi nel fioco blu di una luce ormai solo tua: la luce dolcissima, la lievissima luce preda della tela del ragno: dove tutto si commuove senza gioia, col gusto del sangue innamorato che sta per ferirsi, col coltello dimenticato all’ombra, sotto il placido fico inerme: dove si fa la pennichella coi rutti, senza vederlo nell’erba secca. Lasci correre i tuoi occhi imbizzarriti come se tu fossi una nuvola ferma che guarda un fiume veloce: senza poterlo né volerlo fermare, senza voler potere, senza poter volere: sotto la piccola luce blu a controllare baciando la tua fronte che scotta di tristezza: l’unica che accettavi ti curasse, più di me: che sapeva il segreto del ragno meglio di me illusa: 8 così goffo rugoso e nero per un incantesimo facile che anche un bambino assonnato avrebbe scoperto: dove tutta la bellezza di qualsiasi cosa è stata semplicemente oscurata da una nuvoletta alta: ferma in una luce così blu da non poterci neppure volare. Per questo rispetti il tuo destino come un patto atavico: di restare solo, di non sposarti mai, di arrivare fino alla festa e poi fuggire appena dopo la tarantella: sul carro col guidatore ubriaco: coi tuoi occhi immacolati stracolmi di spleen; restare solo e non sposarti mai, col ragno docile nella mano e la luce blu ancora più blu sui puledri selvaggi dei miei occhi innamorati per niente. Il cavo d’antenna “Posso chiederle, gentile signora, com’è stata la sua vita, il ramo della sua attività e dove ha imparato ad affacciarsi così bene?” “Certo che può chiederlo, se si fosse un po’ più curiosi saremmo anche un po’ più umani. Io provengo da un’antica dinastia di cavi d’antenna, araldica pura e bianca, di ottima fattura e lunga durata, ero destinata a collegare due televisori lontani in due stanze su piani differenti ed ero perfetta in quello, attraversando l’intonaco seppia del muro con plastico e discreto equilibrismo: ero lunga, snella e bella, che quando qualcuno guardava la villa da fuori diceva: Che bel cavo bianco, e poi aggiungeva: su quella splendida villa. Ero nel pieno della giovinezza e lavoravo da gente snob che ti fa sentire unica e particolare. E’ lì che ho imparato ad affacciarmi; stavo per giorni e giorni con le braccia tese fra i due televisori, attaccata di là col primo jack, di qui con l’altro e portavo con tutta l’accortezza possibile senza sciuparlo segnale dell’antenna che mi guardava dal tetto con affetto. il Oltre a ciò guardavo di fronte a me: il giardino e tutto quanto avveniva nel giardino. Ammiravo le foglie: il loro spuntare birichino e il 9 triste declino, che durava tanto ma non sembrava lento, chissà perché la tristezza non è mai lenta anche se sembra lo sia; io le coccolavo ammirandole fino a quando si staccavano: e loro si staccavano contente che io le ammirassi ancora: soprattutto quelle rosse del faggio mio dirimpettaio: lo vedo ancora che si illumina piano piano di meravigliosi germogli nel cielo sincero di primavera, ci splende d’estate come un re cremisi, e si ritira, a un tratto incerto e timido, invecchiato d’un tratto, nell’autunno nebbioso: segretamente innamorato lui m’inviava messaggi criptati facendo rilucere al sole certe foglie piuttosto di altre, che diventavano parole: lancinanti i suoi addii autunnali, quando soffriva il rame delle foglie come un addio senza ritorno, perché lui credeva deprimeva ogni come volta se tutta di morire la sua per sempre, memoria fosse ogni volta racchiusa si nelle foglie che perdeva; io non riuscivo a dirgli nulla ma sapevo, non per nulla provengo da un’antica dinastia positivista di cavi d’antenna, che l’anno dopo sarebbe tornato a fiorire splendido come sempre: amavo, profondamente, quella sua disperazione: era così bello, quasi di più, mentre diventava scarno, così ossuto e nero nel cielo grigio: con quel fantastico manto soffice di foglie rosse cadute tra lui incontro: avrei e me; quasi un tappeto fatto per correrci voluto rotolarmici, nascondermi, scomparire e marcire con loro, nel profondo odore della terra umida: d’autunno la terra ha un profumo misteriosissimo ripescato in un angolo del baule delle nostalgie; ed io cercavo di espormi alla pioggia per arrivare in primavera lucida e bella. E poi le ortensie, le mie belle sorelle, ghigliottinate nei loro cespugli sui vialetti per un sacco di tempo e poi in pochi giorni esplodevano come pupazzetti nelle scatole a sorpresa. Io le ammiravo, così folli di petali, come visi con un’infinità di gote radiose: variegate quasi non riuscissero mai a decidere il colore, celeste con un po’ di viola, rosa con un azzurro, come quando facevi gli esperimenti col gambo di un tulipano scisso in due boccette d’inchiostro: e ne uscivano fiori bicefali deliranti; 10 così tonde le mie belle sorelle, nell’infinità delle loro gote radiose: lungo i paffute di vialetti spesso in penombra miriadi d’ortensie fronte a me, crocifissa fra le due finestre e inchiodata ai due televisori lontani, davanti a un faggio gigolò; e di notte il giardino si popolava di fruscii, l’oscurità scendeva ma lasciava spazio ad impressioni di colori: ti ho sognata ed eri così vera, che al risveglio sento una trappola sul cuore: eri così vera, nel sogno della notte, tra le impressioni dei colori: e ti nascondevi tra i fruscii: ti ho vista infine, le tue scarpine bianche sporgevano bambini: che dietro il s’innamorano per leccio, gioco e ci anche siamo se non parlati sanno da cos’è l’amore, forse un petalo variegato d’ortensia: eri tu ed ero io, nell’oscurità del sogno, tra le impressioni di colori nella loro magica, infinita penombra di foglie; eri finalmente tu ed ero finalmente io: timidamente ci guardavamo le scarpe, bianche le tue, sandaletti i miei: impettiti con le mani dietro come bambini che s’innamorano per gioco: mancava poco che avessimo il ditino sul labbro tutti e due: con la sensazione di cose misteriosissime: un piccolo movimento e scappiamo tutti e due, senza accorgercene e poi io il mattino busso: mai stata qui?, come chi?, tu, stanotte! Signore, ne è certo? Non è che sia stato un sogno, una penombra scambiata per profilo: come le ortensie che si vedono all’ingrosso perchè hanno i fiori troppo attaccati e sono miopi di natura, o il faggio che fa il tragico perché pensa sempre di morire: lo sente questo odore di terra umida, questo è il profumo giusto: tutto il resto sono fruscii, immaginazioni della notte, quando l’oscurità scende ma lascia spazio per impressioni di colori come ricordi di sogni. Un giorno mi hanno smontata, il campionato di calcio era finito, non sapevo nemmeno chi avesse vinto!, i giovani hanno cominciato a staccare le due torrette di trasmissione, si potevano forse rivendere o riutilizzare, mentre io diventavo proprio inutile; era la stagione calda e il faggio splendeva di mille e mille foglie rosse: le ortensie resistevano ancora, anche se erano 11 del colore del gambo, verdastre, itteriche. L’estate era talmente afosa, come ancora la un’esibizionista sua penombra, e il esagerata: vialetto ma il faggio m’aiutava a mi dava fuggire in prospettiva per tutto il giardino; era così afosa l’estate mentre giacevo inerte e mi sembrava di non essere mai stata così nuda e così bella sotto il cielo: con le mie braccia ancora stese fra due finestre, in una deliziosa crocifissione ormai senza scopo, tesa col mio petto ancora giovane a tutto il mondo: io inerte e inutile, nuda libera e bella più che mai nell’estate più torrida del mondo: io filo bianco nudo sul petto del mondo nel sudore continuo di gocce eccitate: io meravigliosamente torrida e voluttuosa, io pazza e nuova, io donna, io che non abbassavo più gli occhi e mordicchiavo le labbra fissando negli occhi. Quando sai che è l’ultimissima tua estate, ma fai finta: è un principio!, la prima frase bella!, il coraggio di un bambino, te lo giuro: e aumenti l’età di uno o due anni per sembrare più grande: e loro ci credono?, sorridendo; e ti arcui a più non posso, così vedono ed imparano, più di così lo sterno va in mille pezzi, più di così schizzi via come un elastico, sei una fionda pronta a lanciare il tuo cuore nell’estate più torrida del mondo: pazza e nuova, senza abbassare gli occhi mordicchiando le labbra e fissando negli occhi. Mi hanno avvolto in fondo con dolcezza, ci sapevano fare, mi hanno staccato a un capo e poi all’altro delle torrette: mi hanno arrotolata su me stessa, tutto il mio petto, tutte le mie lunghissime, esili braccia bianchissime: nell’estate tanto torrida che s’era dimenticata di me: col faggio che stormiva come un ventaglio per farsi aria: con le ortensie sempre più itteriche: col vialetto che fuggiva via da solo. Mi hanno avvolto in cento giri perché ero lunga, ma delicatamente, ci sapevano fare e gentilmente hanno chiesto dove mettermi, “Dia a me” e qualcuno mi ha portato qui in soffitta in questo cassetto, io non guardavo, avevo chiuso gli occhi cercando solo, chissaperché, di ricordarmi la prima frase bella: ero così 12 lunga che il cassetto non si chiudeva bene, occupavo tanto posto sopra gli altri fili, miserini, piccole prolunghe, cavetti vari; e allora restò schiuso uno spiraglio, e io da allora mi affacciai e se qualcuno lo apre mi affaccio ancor di più. E’ strano perché non ho sofferto granchè: mi sono inaridita subito tenendo chiusi gli occhi per qualche giorno e cercando solo, chissaperché, di ricordare la prima frase bella. Ho dimenticato tutto il resto e anche quando lo ricordo lo descrivo come se fossi stata affacciata a vederlo passare. La sarta bambina Buongiorno, ho portato un bottone da cucire sulla manica sinistra della mia giacca del vestito della festa e ho anche un buco piccolo ma che ci passano le monetine nella tasca destra. Il bambino ha il cappello in mano, un borsalino beige da grande con la nappa nera, e se ne sta in piedi sulla soglia del retrobottega: se ne sta fermo come un grande, ha anche le scarpe lucide, mocassini neri eleganti senza stringhe; appoggia appena il cappello al petto appoggiarsi; il quasi il retrobottega cappello è fosse bello, è stanco pieno di e volesse scampoli di stoffa e di drappi dappertutto, c’è odore di vestiti e sotto sotto un accenno di profumo di seta. La sarta bambina fa finta di niente per un po’; è un costume delle sarte, procedere nel loro lavoro per un po’ senza guardarti; sembra che stiano sognando ad occhi aperti, magari con gli spilli in bocca, sembra che non ti sentano, che ascoltino una musica che tu non senti. Il bambino appoggiato tiene senza appoggiato spingerlo, è il solo cappello stanco ed al ha petto, solo bisogno di appoggiarsi un po’: resta impettito sulla soglia del retrobottega mentre la sarta bambina fa finta di niente; lui sa aspettare, aspettare è come una nappa nera intorno al cappello: e poi il retrobottega è bello con tutti 13 quei colori di stoffa, e quell’accenno di profumo di seta: e in mezzo a tutto c’è lei, la sarta bambina che muove le mani come se danzasse, come se ascoltasse una musica che tu non senti. Sta cucendo qualcosa, la manica del doppiopetto di un barone o il pantalone di un conte; è così assorta con la sua piccola macchina da cucire rossastra: è così delicata nei movimenti: è così tenue fra tutti quei colori di stoffe: lavora veloce eppure sembra così leggera da esserne incapace, l’ago punge il tessuto e non fa male, tutto è così preciso e al tempo stesso vago. A un tratto alza lo sguardo, come se si fosse accorta di qualcosa: come se qualcuno avesse schioccato le mani: e ti vede e ti fissa come per capire chi sei e da dove vieni e il tuo cuore all’improvviso ha un sussulto e batte forte, meno male che c’è il cappello appoggiato davanti, che attutisce il battito col suo feltro robusto. “Torni anche tu da Urano?”, e ti squadra come dovesse ricordarsi di te e il suo naso curioso si appuntisce ancora un po’, mentre la sua miopia quasi allegra sembra estendersi a dismisura; il suo sguardo scorre sulla parete di sinistra e allora anche il tuo lo segue, imbarazzato, e nota un arazzo di stoffa, forse è seta?, dai colori brillanti e foschi al tempo stesso: sono i pianeti del sistema lontano dall’altro, laggiù, l’ultimo solare ognuno pianeta, sospesi più poi sul piccolo magari fondo nero, dell’altro: ne hanno e ognuno Urano scoperti e è ne scopriranno ancora altri ma un tempo era l’ultimo o chi ha fatto l’arazzo non lo sapeva. “E’ il più lontano, per questo ci sono andata subito intanto che non è stato ancora sfruttato dal turismo: è stata una vacanza indimenticabile, e mi sembra di averla vista laggiù!”. Il cuore continua a palpitare tanto c’è il cappello davanti e detta le parole: “Dovevo andarci ma all’ultimo momento ho rinunciato, impegni di lavoro; ma com’è comunque, ho altri amici che vorrebbero venirci con me la prossima estate”. E’ fantastico come un cappello ben fatto possa coprire l’emozione e le balle. 14 “Non c’andate d’estate, d’estate è brullo e tutta la sabbia è grigia e verde e secca e sembra una spiaggia senza mare; l’aria, quella poca aria che c’è, è senza vento, e, a detta di chi ci è stato allora, sembra di essere imprigionati, sembra che manchi il fiato; deve dell’inverno diviene fine andarci di qui, come la quando là ci allora cipria del sono Urano stata si io, nel pieno la sabbia trasforma, deserto, è umida e viene da correre, e il vento corre in tondo continuamente, e scintille di luce rossastra balenano avanti e indietro come nubi: gli altri pianeti splendono e sembrano palle da biliardo: e le rocce la sera diventano come cristalli di neon: sembrano scricchiolare di luce; e a mezzogiorno tutto diventa grigio e il vento si ferma per una mezz’oretta: non capisci più dove sei, dov’è la sabbia e dov’è il cielo: è come se Urano stesse in meditazione, se stesse pregando e si fermasse, lì in fondo al sistema solare come fosse in fondo a una moschea nera dall’interminabile navata; è forse il momento più bello, perché anche tu ti fermi, e non pensi a niente, e sai che sei in fondo al sistema solare ma non ti succederà niente, che c’è pace, che Urano te la dà volentieri in quei momenti perché ne ha un sacco: riesci a non pensare più a niente, non capisci più dove sei, dov’è la sabbia dov’è il cielo dove sei tu; te ne stai in fondo alla navata interminabile: e senza far niente non pensi a niente; e puoi tenere gli occhi chiusi o aperti, tanto è lo stesso, non pensi a niente, non capisci più dove sei, dov’è la sabbia dov’è il cielo dove sei tu: sembra di assistere a un concerto di musica strana, un qualcosa di sconosciuto con note bizzarre che rasentano il ridicolo: qualche volta in quelle occasioni m’è venuto in mente il ticchettio della mia piccola macchina per cucire, poi riprende il vento e le scintille di luce rossastra e la sabbia diviene fine come la cipria del deserto; allora mi viene in mente tutto il lavoro arretrato che ho da fare e mi metto le mani nei capelli ma mi passa subito”. “Prenderò delle ferie e c’andrò sicuramente in quel periodo, sembra gaio e allegro, l’ideale per dei giovani amiconi scherzosi; 15 ma è l’unico viaggio che ha fatto nel sistema solare?”, azzardi all’improvviso mentre il cuore batte sempre dietro il cappello appoggiato davanti. Ti risquadra come si ricordasse di te mentre il suo naso curioso si appuntisce ancora un po’, ma non finisce mai di appuntirsi?, e la sua miopia sembra scavarti negli occhi; pone le mani sulla piccola macchina per cucire, interrompendo il lavoro, coprendola proteggerla. dolcemente coi polpastrelli come per I retrobottega non sono mai tanto illuminati, e se anche hanno a volte qualche luce forte non si vede bene lo stesso: per cui non saprai mai se la sarta con la piccola macchina da cucire è bella, se è una bambina o una grande, o un po’ e un po’: non riuscirai a vedere bene il suo viso, solo il naso a punta, che è già qualcosa, i nasi a punta non sono spettacolari ma mettono di buonumore: e gli occhi miopi, che danno tranquillità perché sembra che non ti vedano bene, e tu puoi tenerti la scarpa slacciata e il colletto aperto, hai ancora un po’ di schiuma da barba nell’incavo dell’orecchio, ma tanto lei è miope: devo solo stare impettito col cappello sul cuore, lei vedrà una figura eretta ed elegante. Invece lei ti risquadra come si ricordasse di te e a un tratto hai paura per la tua scarpa e il colletto e cerchi nervosamente di toglierti senza farti notare quel po’ di schiuma da barba che avevi notato allo specchio prima di uscire e che per pigrizia avevi lasciato lì: lei ti squadra come se scoprisse qualcosa dentro di te, oltre il cappello oltre il cuore, e tutt’a un tratto senti i tuoi segreti in pericolo: non sono colossali, non son proprio misteri, ma sono miei: lei sta ferma, con le mani che coprono dolcemente la piccola macchina da cucire e ti osserva da dietro la sua interminabile miopia o forse fa finta o forse è il suo modo di guardare, quello che usano su urano, con tutti gli ultravioletti che ci sono là. “Non è su Urano, è su Saturno!”, la sua voce è stranamente secca, come se si fosse cucita. “Su Saturno cosa?”, hai il cappello che ondeggia paurosamente e il cuore che ti chiede se per caso sei ubriaco. 16 “E’ su Saturno che si devono socchiudere gli occhi al massimo; sai socchiudere gli occhi al massimo? Te lo insegnano quando vai là: non servono occhiali, solo devi educare le ciglia e le palpebre: le palpebre devono abbassarsi lentamente come le dighe di una chiusa, piano piano, e devi aver la sensazione dell’acqua che s’abbassa, piano piano, che va via. come Finchè vedi le ciglia, quelle di sopra e quelle di sotto che tendono a unirsi come stalattiti e stalagmiti, come le serrande della chiusa: in pratica vedi come nuvole trasparenti in sovrapposizione, e c’è una sfocatura di fondo, quasi ci fosse un piccolo terremoto e tutto si muovesse: in quel momento devi fermarti e lasciare che la tua pupilla pigli la circonferenza giusta e la retina si prepari come un mazziere di baseball: allora sei davvero pronto a vedere gli anelli di Saturno. Lo sai, vero, cosa sono sono gli anelli di Saturno, la conosci la loro storia?” “Euh! adesso Certo!” quando meno mai male che c’è il racconterai cappello, se frottole: è non menti l’occasione per diventare grande: fare il gagà sugli anelli di saturno: il sottile piacere di bambinetti diventare laggiù ciclopico piccolissimi nel coi cielo della palloncini menzogna colorati coi che ti ammirano ad occhi spalancati: il tuo doppiopetto si scurisce e il cappello di feltro s’inspessisce: solamente ancora un filino di dubbio che ricompare, una scheggia di vetro di bottiglia verde imboscata sotto il battiscopa: “Ci sono varie versioni, però”, che però è solo un coccettino di vetro per il resto è grande bugia imperatrice, è Sissi la bella, che accompagna l’asburgo che racconta balle per non invecchiare, per non crollare nella cripta, per lasciare i cigni correre, quasi volare, sui laghi dorati, le nevi bianche continua dei attaccarsi soldati alle vette impertinenti, sull’acciottolato nobile di nella marcia Vienna, nella loro danza senza più nemico: il cuore tace dietro il cappello. “Oh, io ne so solo una!”, risponde la piccola sarta tenendo ferme le cucire; mani con la che coprono sua dolcemente interminabile 17 la miopia piccola sembra macchina che da guardi sull’arazzo, come un invito, e anche tu sposti lo sguardo e fissi i grandi, meravigliosi anelli colorati di saturno. Non sapevi che erano così belli, gli anelli, come corone di acquerelli: e non sai affatto la loro storia (i cigni corrono, quasi volano, sui laghi dorati, le nevi bianche si attaccano alle vette impertinenti) . Il caffè Gambrinus Meglio non dire più niente alla mamma della canasta, meglio camminarle a fianco lungo tutto il sentiero accanto al fiume; è giovedì e si va al gambrinus: torcetti e cioccolata a iosa con panna fresca a volontà; se s’arrabbia è capace di farmi tornare indietro, e io a tutto rinuncerei, anche al mio povero regno immaginario di fate e troll e gatti graffianti sul serio, per la cioccolata del gambrinus. E’ lunga la strada, è infinito il sentiero, e terribilmente noioso il fiume; sciacquando, che fa di strusciandosi tutto sulle per attirare rocce, l’attenzione, gorgogliando ma senza successo; solo il gambrinus, la sua idea, la sua speranza, rende i passi morbidi e non troppo faticosi, come un cammino verso la terra promessa: la promessa di un cioccolato fondente che più fondente non si può, di una panna che non sa di latte, è distillato estatico di ruminar di mucca, senti l’aroma dell’erba crogiuolato tra le mandibole possenti: il tutto mentre stormi di torcetti zuccherati, fragranti di burro paradisiaco oscurano il cielo come aquiloni acrobatici e ti sfrecciano sotto il naso lasciando il profumo del burro, dello zucchero, di tutto ciò che è più dolcemente dolce in questa vita, in qualsiasi vita: la dolcezza diabetica dell’universo. Mamma, siamo forse morti? Senza accorgercene siamo precipitati nel fiume, scivolando sulle rocce: siamo caduti e abbiamo battuto la testa, e siamo volati in cielo con l’unico rimpianto di una partita a canasta persa; io, cosa vuoi, sono bambino, ho appena 18 assaporato i giorni tiepidi della vita, non so come saranno gli altri ma ci rinuncio volentieri se posso volare con te: sei bella, mamma, tra le nuvole, il sole ti illumina d’oro; hai un sorriso che non guarda più me, ma tutto l’universo: hai perso il pensiero: mi fai quasi paura perché io ti volo accanto, c’è ancora qualche cirro, ma tu non mi vedi più, non mi vedi più da dove ti guardo e sì che son vicino: vicinissimo, accanto a te, sotto al tuo seno, sotto al tuo seno nel cielo limpido: il sole ti illumina d’oro, il tuo sorriso è d’oro: mamma, hai già dimenticato d’aver perso a canasta? Torna da me! Io nella mia piccola vita non ho ancora giocato a canasta, non so neppure come si fa: gioco a briscola e mi diverto un sacco: e a rubamazzetto, ma tu t’annoiavi e facevi finta di no; una mamma è così dolce quando fa finta annoiarsi a rubamazzetto; non dirmi che ti piaceva! di non A volte mi annoiavo anch’io, ma vedevo che tu sorridevi, sorridevi come la vita, eri la vita, mamma: una cosa che sorride, questo è la vita e niente più; sorride dovunque come la gioconda: e ti ruba il mazzetto e poi glielo rubi tu: e si avanti così finchè poi scivoli dalle rocce e voli con la tua mamma d’oro fra le nuvole: e arrivi diretto in paradiso, lo chiamano paradiso, di fatto è il caffè gambrinus. Lo chiamano tutti così, paradiso, in verità è una casa bella, non troppo villa ma nemmeno solo casa: ha il tetto spiovente ed è un po’ più su della strada e ci si arriva per un sentiero pieno di aiuole di fiori di montagna e rododendri: ci sono piccoli tavoli dovunque tra i fiori, come si conviene al paradiso, e un piccolo ruscello scende a cascatine di lato; mamma, dove ci mettiamo? Ci sediamo lì, io di qua, così vedo chi arriva, mi piace tanto guardare chi arriva: tu invece guardi la montagna, e la montagna guarda te, sei una mamma d’oro e la montagna ti vuol bene e non gliene importa nulla se perdi a canasta. e torcetti, e panna a volontà! Oh sì, mamma, cioccolata Nel paradiso non si paga nulla, si freme di gioia e basta: ordiniamo, dai, anche se possiamo stare qui per tutta l’eternità! 19 Ecco che scende: scende la padrona, la dolce signora, è la signora della melodia, mamma?; quella anziana signora in costume, col copricapo a rete di pizzo dorato, e il corpetto rosso sulla camicetta immacolata e la lunga gonna nera: è per caso la madonna, mamma, è lei? È la vera madonna? È lei che porta la cioccolata, vero? È lei che fa i torcetti? Vive sola nella grande casa-villa? Come fa a far tutto? Parla tu, mamma, io non riesco: è così anziana, e immacolata di pelle; piena di straordinaria: rughe e il bianche, sorriso di col un ricordo rossetto di una bellezza inquietante: così rosso, rosso come il sangue, e puro, tutto in lei è immacolato: le lunghe mani un po’ tremule che scrivono la nostra ordinazione: il mio silenzio, di me che guardo per terra i sassetti per non giungere al suo sguardo: sguardo immacolato d’occhi d’acqua, verde marino, che ci fa qui in montagna, occhi aguzzi con una traccia esile e stupenda di mascara: mamma, ma la madonna si trucca? Da quando in qua? Non oso, non oso guardare quegli occhi; oso, sì oso un po’, li alzo, i miei occhi, li alzo un po’ e s’arrampicano, per un attimo di un attimo, su quel viso, quel viso immacolato: viso bianco, dolcissimo di rughe fantastiche di una bellezza straordinaria: e per un attimo di un attimo, quegli occhi aguzzi, occhi d’acqua, verde marini, mi sfiorano, mi colgono, s’incrociano coi miei: mamma, che occhi, che occhi gli occhi della madonna, altro che i tuoi, scusa squarcio qui continuamente mamma, negli nel ma mi hanno occhi, momento dove in cui ferito; m’hanno mi non so come, guardato: sfiorano, erano li ho uno rivedo occhi di tigre, occhi magnifici, ingordi, esili e perfetti: ho addirittura avuto un colpo di tosse, ho chiuso i miei e la retina in quell’attimo li ha stampati, i suoi occhi, sulla palpebra, nel cervello, nel cuore, in triplice copia. Un attimo di un attimo, un attimo di paradiso, un attimo dolorosissimo: perché quando sfiori quello sguardo è dolore, lancinante spasimo d’arpione: così belli, così meravigliosi, così perfetti, così acquosi, così aguzzi, così 20 verde marino: e se ne va, dopo l’ordinazione: cammina sul sentiero, di spalle, accanto ai rododendri: cammina e sembra che non tocchi terra: che non pesi nulla: che m’ha guardato e ora sta pensando a me; che mi porterà un torcetto in più, che porgerà la caraffa di cioccolata e l’appoggerà un po’ più vicino a me: che dirà: Ecco la panna! E mi guarderà, serena, felice: come la vita, una cosa che sorride e niente più. ‘Mi giri la testa per favore?’ Era come immaginavo, una stanza buia, con le finestre appena socchiuse, ma così socchiuse che sembrano chiuse, ed entra solo un filo d’aria, ma proprio un filo, come un filo di lana, come un capello, una cosa così ma così sottile, perché non faccia male, perché non ti faccia prendere la broncopolmonite; e poca luce che non ti bruci, che ti faccia apparire qualcosa, qualche colore e qualche profilo ma non ti dia fastidio agli occhi; che ti lasci intatto nel lettone bianco, quasi matrimoniale, ma che bisogno c’era, per te, che sei piccolo piccolo, sei adulto e ben più vecchio di me ma così piccolo, piccolo piccolo come un infante, così piccolo e tenero e non ti muovi, non ti muovi affatto, sembra che prendi in giro, che sei bravissimo a stella stellina, sei immobile, immobile piccolo ed infante: ma hai una grande faccia, una faccia adulta in quel corpo piccino da neonato; hai occhi enormi che riempiono la stanza, non ho mai visto occhi così grandi, davvero: e così chiari, e freddi: “mi giri la testa, per favore?” vuoi guardarmi vero?, vuoi vedermi è per questo che vuoi che ti giri la testa? Ma girarti la testa è come toccare un cristallo: mi fa impressione, ho paura di farti male: ma è dolce, dolcissimo, così tenero girarti la testa: la tua voce è d’uomo e io guardo indietro per vedere chi ha parlato, ma sei tu davanti: hai una bel timbro metallico, come filtrato da una grondaia di rame; una voce di rame; ti ho girato la testa e mi parli dal tuo corpicino immobile nel grande letto matrimoniale bianco; parliamo 21 del più e del meno ma non di sport: parliamo di tutto, ma proprio di tutto, non voglio che tu non sappia qualcosa, voglio che tu sappia tutto del mondo, che la stanza sia piena di notizie; anche di pettegolezzi; e di barzellette stupide che però non apprezzi, sono io il volgare, quello che scade, quello che non tiene il ritmo, per forza non sono immobile come te, tu hai il ritmo perfetto, sei fermo da sempre: eri il sole del tuo universo e tutto ruotava intorno a te: tutto, ma proprio tutto, anche le barzellette stupide, anch’io. “Mi asciughi un po’ il sudore?”, certo: mi alzo, prendo il fazzoletto che hai accanto sul cuscino bianco, e lo passo sulla tua fronte: hai la fronte grandissima, come una vallata che ha approfittato di essere in mezzo alle montagne; te la sfioro con una certa pressione: voglio “Buongiorno, signore dita, pomeriggio della festa e che tu senta le mie da dove venite di bello?” andavamo a braccetto per dita: “Oh, è il le vie del paese, chissà che qualche bel giovinotto non ci veda; siamo tutte sorelle, ma c’è sempre la più bella, è lei quella che sorride di più; si cammina bene sulla sua fronte, sembra quasi una pista da ballo; le diamo forse fastidio coi tacchi a spillo?” “Oh no, gentili signore, mi piace sentirvi camminare sulla mia fronte, è come qualcuno che cammina al piano di sopra, qualcuno che c’è e anche se sei arrabbiato fa sempre piacere sapere che qualcuno c’è.” “ Davvero è arrabbiato?” “No, si dice così, ma non è vero: io non sono arrabbiato col mio pezzo di soffitto; perché se non mi girano la testa io vivo in simbiosi col mio pezzo di soffitto; è bianco e ne vedo quasi tutti gli stucchi, non sono granchè, a me poi il affresco liberty da non mille e ha una mai entusiasmato; notte o una avrei scena di preferito un libertinaggio sfrenato; non mi sembra il caso di essere così tirchi con uno che non ha che un pezzo di soffitto nella vita, darglielo bianco con stucchi semiliberty; non riesco a fantasticarci su più di tanto; aspetto solo che qualcuno mi asciughi la fronte o mi giri la testa per avere qualche emozione: cerco addirittura di sudare apposta 22 per farmi asciugare, non ci riesco molto bene; ma mi fa un gran piacere sentire i vostri tacchi a spillo di sopra”. “E le mani? Vuole che le spostiamo? Sono così immobili, ci fanno impressione e tenerezza, per noi che ci muoviamo sempre? Sono piccole e belle, sono pugnetti d’infante; ora che abbiamo finito di asciugarle la fronte, possiamo spostargliele un po’?” “Non ci badate, alle mie mani, loro sono felici così, di starsene sotto i miei braccini a riposare da sempre: non sanno cos’è il movimento: sono immobili dall’inizio del mondo; sono felici così; o almeno non sanno di essere infelici, perché non hanno mai conosciuto il movimento. No, continuate ad quando fate lo asciugarmi io la chiudo fronte le se palpebre, potete; questo è così almeno bello e riesco a farlo, basta la forza di un uccellino: e sento tutti i vostri tacchi a spillo sopra, sulla mia fronte, che è una pista da ballo: e sento che ballate, ballate pure, ho appena lucidato il parquet col mio sudore, ballate, vorticosamente, che ne venga fuori una sontuosa scena asburgica: un ballo di società farcito di valzer; danzate pure battendo i tacchi, che io vi senta bene di sotto e riesca a ricomporre la scena da sotto gli occhi chiusi: così mi ecciterò ed entrerò nel vostro mondo come un principe invisibile: perché voi tutti sapete che l’imperatore c’è ma è triste e non vuole farsi vedere: e quello sono io, l’ultimo piccolo francesco giuseppe dalle mani ferme e dalla grande fronte: e voi gli avete appena asciugato il sudore triste di tutte le sue pene; voi sorelle che vivete nell’alto della sua corte e avete il privilegio di vederlo, di spostargli la testa, voi che gli fate chiudere le palpebre e sognare senza sonno: lasciandogli i pugni fermi come si conviene a un re: che quando ve ne andrete tornerà alla tristezza sudata del suo pezzo di soffitto, ma almeno avrà un ricordo nuovo: che è un soffio d’aria che entra nella stanza buia, con le finestre appena socchiuse, ma così socchiuse che sembrano chiuse”. 23 Il marinaio felice e il nostromo svizzero ‘C’era una volta, ma non tanto tempo fa, un marinaio bellissimo che aveva due figlie in un piccolo villaggio del nord; lui ogni anno partiva quando i comignoli fumavano e girava il mondo in barca, tutto il mondo, dal freddo al caldo, per poi tornare al suo villaggio e stare una settimana in loro compagnia. Giusto una settimana e non di più, il tempo di ammirarle cresciute ma non fissarle troppo nel ricordo: infatti lui era bellissimo e alzava appena lo sguardo e sorrideva sempre, quasi rideva, perché non gli piaceva parlare; al settimo giorno ripartiva mentre i comignoli fumavano e girava il mondo in barca, dal freddo al caldo, e il loro ricordo sbiadiva piano piano nel mare come soffiando l’aria dai polmoni e quando dopo un anno tornava prima di attraccare andava sul ponte per vederle di nuovo, le sue figlie, cresciute di un anno, alzando appena lo sguardo: erano sempre più belle, perché gli assomigliavano e anche lui era sempre più bello, perché assorbiva il verde del mare nei suoi occhi e tanto salata l’acqua altrettanto dolce il suo sorriso; stava una settimana di nuovo in loro compagnia, alzando appena lo sguardo, sorridendo, quasi ridendo, perché non gli piaceva parlare, ammirandole e poi partiva mentre loro lo salutavano dal molo. Appena in mare aperto lui schiudeva i suoi meravigliosi occhi verdi e ascoltava la musica delle onde: girava il mondo un altr’anno finchè il loro ricordo era sbiadito come un respiro finito e poi tornava al suo villaggio del nord, giusto in tempo per vederle cresciute di un altr’anno, ancora più belle, come lui. Anno dopo anno, così, mentre i comignoli fumavano, girando il mondo, alzando appena lo sguardo, ammirandole, crescendo senza ricordarsi troppo, sorridendo, quasi ridendo. Finchè un anno al ritorno notò dal ponte un fumo lontano, all’altezza del villaggio, che non era dei comignoli: e quando la nave approdò al molo, vide che tutto il villaggio era distrutto e che non c’era nessuno ad aspettarlo, anche alzando ancor più piano lo sguardo; c’era stata la guerra, che era venuta di soppiatto, 24 anche a lei non piaceva parlare se non con segnali di fumo. Non aveva più il loro ricordo, che era sbiadito del tutto durante il viaggio; non aveva più niente, così si accoccolò sul molo con le mascelle forti fra le gambe mentre il villaggio fumava dietro di lui. Restò un sacco di tempo così, con gli occhi chiusi, giocando al buio col verde del mare che avevano assorbito e tanto salate erano le lacrime altrettanto dolce rimaneva il suo sorriso tra le mascelle forti. Finchè sentì un dito che lo pizzicava sulle scapole muscolose, in mezzo alla maglietta a strisce, e due o tre parole sconnesse mormorate in tedesco; alzò piano lo sguardo, come sempre, e vide da sotto in su un tipetto mingherlino un po’ prognate e la pelle di bambino colla frangetta di capelli bianchi come il latte che gesticolava bizzarramente con mani e piedi, col baricentro un po’ all’indietro. Era un nostromo svizzero, che lo fissava con occhi spalancati, e mormorava parole incomprensibili muovendo le gambe con l’andare dei pulcini: e l’invitava a far qualcosa, ma il suo parlare era così strano e i suoi movimenti così goffi che non si capiva nulla di cosa volesse dire e fare: il suo viso era così piccolo e dentro tutti i tratti erano piccoli, come per risparmiare: la bocca soprattutto, come fosse nascosta; anche lo sguardo era minuscolo, sulla pelle liscia di bimbo; chiedeva qualcosa, indicando i suoi piedi che facevano piccoli passi da pulcino; allora il marinaio, che aveva viaggiato per tanti anni per tutto il mondo, dal caldo al freddo, sorridendo, quasi ridendo perché non gli piaceva parlare, riconobbe la polonaise, una danza antica e capì che il nostromo svizzero ne era fanatico, che era l’unica luce per lui, che voleva che qualcuno la ballasse con lui, che non sarebbe andato via finchè non l’avesse trovato. Allora si levò, era notte e si sentiva solo l’odore del fumo: alzò per un attimo lo sguardo e prese a danzare sorridendo, infine ridendo: felice: ballava accostando velocemente i sandali e poi girando su se stesso, schioccando le dita delle mani e lanciandole 25 su verso il cielo e poi in basso verso la terra: con gli occhi chiusi, seguendo con le labbra le parole di canzoni immaginarie, quasi fosse nel più bello dei paradisi: come se il viaggio riprendesse subito nel più bello dei mondi: e i mari si stessero incravattando per far bella figura con lui: e i tramonti già truccandosi le gote per essere porpora più che mai: e la luna il più velata possibile per non svegliare il cielo. Il nostromo svizzero continuava a procedere a passettini di pulcino con la sua polonaise ritmata ed era contento di aver trovato qualcuno che l’accompagnasse nella danza, anche la sua frangetta bianca danzava sulla fronte senza rughe. E siccome il marinaio prendeva tutto lo spazio della piazzetta del porto nell’ebbrezza del suo ballo, lui discretamente continuò la sua polonaise dietro, contro i muri delle case buie, fino alle banchine e poi continuò sulla passerella di una barca per finire il giro di polonaise e ci salì sopra. Il marinaio spalancò solo un attimo i suoi meravigliosi occhi verdi, come per respirare, e seguì il nostromo sulla barca che riprendeva a piccoli passettini una nuova di polonaise; salì anche lui sulla barca e lasciò liberi gli ormeggi di poppa mentre il nostromo a passettini recuperava l’ancora a prua: e partivano, dal villaggio che fumava, ballando sulla barca che ci pensava lei a tenere il mare, di notte, sotto una luna velata per non svegliare il cielo. Il mattino, al risveglio, il marinaio sorrideva, e rideva senza pensare: apriva per un attimo i suoi stupendi occhi verdi per mostrarli al mare, alzava appena lo sguardo e porgeva l’orecchio alle onde: poi cominciava a danzare felice mentre il nostromo già dall’alba percorreva tutto il ponte in su e in giù coi passettini della sua polonaise. Danzava libero il marinaio felice, mentre la barca ci pensava lei a tenere il mare: con la mascella quadrata e dolce; come se fosse il più bello dei paradisi, in viaggio bello nel mondo più bello, dal caldo al freddo, tra i mari incravattati e i tramonti dalle gote truccate: fino a notte tarda, quando la barca dava loro la buonanotte aspettando 26 l’ultimo passo della polonaise, sotto la luna velata per non svegliare il cielo, che già dormiva pieno di sogni di stelle. Così girando il mondo, dal caldo al freddo, senza fermarsi per un anno, poi mettendosi alla fonda, dentro qualche fiordo ghiacciato, giusto per una settimana, per non far sbiadire. E dopo sette giorni ripartono, e riprendono a danzare: io li ho visti, quando stavo per essere ingoiato dalla balena, e il marinaio era così felice e bello quando la murata della barca mi passò accanto mentre la cravatta delle onde mi portava a picco: era così forte la sua mascella e dolce nella tempesta, così chiusi i suoi occhi, così puro il suo ballo mentre il nostromo gli passava intorno con cassettini da pulcino; alzò appena lo sguardo e per un attimo aprì i suoi meravigliosi occhi verdi, mi vide e mi fece un cenno con la mano aperta seguitando a ballare: e io lo ricambiai e mi salutò alzando le braccia anche il nostromo che continuava coi suoi passettini. Il marinaio felice gira per tutti i mari incravattati e i tramonti dalle gote truccate, ogni anno, con la barca che ci pensa lei a tenere il mare, dal caldo al freddo, insieme col nostromo svizzero fanatico di polonaise: tranne una settimana, quando si ancorano in baie nascoste, per non far sbiadire la luna, sotto le stelle appuntate sul petto del cielo, che già dorme come un pulcino.’ Cavour Ecco cos’erano quei allora, non erano ghiri! rumorini che sentivo nel dormiveglia, Devo ammettere che l’idea non è cattiva, uno statista ammette le buone idee dei suoi collaboratori, li guarda da dietro gli occhiali spessi come Cavour, si meraviglia che l’idea non sia venuta a lui ma li stima senza darlo troppo a vedere: li guarda negli occhi tu sei imbarazzatissimo che per la prima volta Cavour ti squadri così, prima hai pensato male invece ora realizzi che ti squadra perché ti sta stimando: abbassi un po’ 27 gli occhi, un soddisfazione, continua a po’ ma li alzi, come fissarti fai: come non vuoi davanti se avesse a darla uno a vedere statista scoperto un la tua così! Che collaboratore significativo, colui che lo aiuterà forse più degli altri nella costruzione dell’unità d’Italia e che pensava fino a poco tempo fa fosse solo uno sguattero o poco più; addirittura si scaldano le sue lenti spesse tanto penetrante è il suo sguardo, lo sguardo di uno statista: che ti immagina già giovin governatore a Napoli, viste tutte le tue fantasie e il tuo fare da scugnizzo, altro che quel torinese bamboccio e perplesso che i savoia peroravano; tu con la tua fantasia e il tuo imbarazzo sincero, il tuo fare da sciuscià; giusto per Napoli, quanto prima; e tu continui ad abbassare e alzare lo sguardo, come stessi facendo ginnastica con gli occhi, davanti a quegli occhiali spessi che ti squadrano: fantastichi di tornare nei vicoli di spaccanapoli, con gli scugnizzi colorati che ti corrono incontro, vestito di porpora col cappello giallo a falda larghissima, e ti toccano e implorano e ridono a piedi scalzi e le facce sudicie; e ringrazi di cuore nella tua mente Cavour, un torinese atipico: uno che si stupiva, squadrava e infine firmava il tutto con un infinitesimale sorriso, che anche perspicace, leonardo uno avrebbe statista: avuto che difficoltà: apprezzava uno fantasia terribilmente e scugnizzi sorridendo da gioconda col cervello quadrato. ‘In occasione della mia venuta a Napoli in veste di giovin governatore, (urla di giubilo della folla) per rinsaldare l’amore per questa terra da cui provengo (gridolini di femminielle), in nome e su incarico di Camillo Benso conte di Cavour (mormorii di sospetto) su procura del Regno d’Italia (ghiacciolini di silenzio e omertà, è meglio che la smetta coi Savoia), con la fraterna benedizione di Giuseppe Garibaldi (qualche applauso, Garibaldi è meglio dell’aspirina), propongo, amici miei (è tutta una vita che sogno di dirlo, ‘amici miei’ lo dicono solo le persone importanti: solo una volta e per un attimo, la vertigine di essere sull’alto della ruota in cima al mondo, poi basta!, un attimo di superbia 28 per l’ex-scugnizzo dei savoia!, vi prego, amici miei!) in questa piazza baciata da ‘o sole mio, ‘o sole nostro, di dare inizio alle danze: tamurriate e nulla più!’ E il popolo che balla: come balla bene nell’anfiteatro davanti al suo governatore di porpora col cappello giallo a falda larga: s’avvinghiano dolcemente i corpi: come in un tiepido pomeriggio del mondo, soffiato dalla brezza del mare: senza pensieri, a parte quello, celato negli occhi birichini e foschi, dell’amore: ballano le donzelle, e gli scugnizzi come nobildonne fissano con bramosia il sono aggraziati: tutte le governatore ambito, facendosi aria coi ventagli di seta arrivati ieri dalla Cina: lo fissano con occhi grandiosi e neri, sottolineati di trucchi lievi come il mare, come le onde del mare, come la brezza delle onde. Lo fissano sotto il grande triangolo nero, offuscato dal velo gentile del caldo, del Vesuvio, che incombe dietro l’anfiteatro. Magnifico, ragnatele spettrale: le corde dalla cui sottili ombra dei sembrano burattini sfilarsi che ballano, come anche quella del cappello giallo del governatore, che ride e si commuove con lacrimoni agli occhi: rimuginando i vicoli bui e zozzi con le statuette di madonnine, i ratti grassi e le pantegane in cravatta, le mani rigate di sporco umido come linee della vita, di quand’era uno di qui: servo suo, conte di Cavour ... Balla il popolo: come balla bene nell’anfiteatro: davanti al suo governatore rimpiazzati sentire, da di porpora: altri ancora più in i musici coda, virtuosi, pronti per sfiniti per vengono suonare, partecipare alla subito per farsi festa del regno. Suonano così bene che non si ha orecchie che per loro e occhi per i ballerini: nella superbia del popolo felice ed ebbro d’amore. Irascibile, stizzoso, trascurato: il Vesuvio esplode: senza farsi sentire, senza farsi vedere: con una nube tosta di fuoco, fiammeggiante superbo, di lava s’asciuga il rossa e viso il nera di fumo: governatore e balla le il popolo, nobildonne lo fissano con bramosia agitando nervosamente i ventagli cinesi: solo 29 le femminielle alzano gli occhi leggeri stupite dal rombo invisibile, da quell’ultrasuono incantato: e indicano quella nube rossonera di fuoco sopra il triangolo possente del Vesuvio: più di un tramonto fiammeggiante, più di mille cumuli in lotta: la fucina del dio: anche lui voleva ballare e nessuno l’ha invitato: tutti superbi, nessuno dal governatore sciuscià a all’ultimo lucidargli le scugnizzo, scarpe nessuno impolverate. umile, Così lui s’autoinvita e viene, da solo, a ballare: arriva con tutto il suo fuoco: ipnotizza col fumo, trascinato in carrozza dal vento che fagocita la brezza del mare: guarda un attimo le femminielle, così belle, che indicano con la boccuccia a o e l’unghia laccata dell’indice la montagna che brucia: e investe con tutta l’irruenza del suo fuoco: vendetta d’amore, da tarantato sui generis: ci sarebbe da ridire, se addosso: piomba giù Come balla governatore avessimo tutta questa lava rovente il Vesuvio, geloso, permaloso, viziato. bene di non il popolo porpora: coi nell’anfiteatro: musici sfiniti: davanti tutti al suo fotografati dalla lava di fuoco: immobili sotto il calco fumante. Rutta ed erutta il Vesuvio, come un dio goffo e potente colla broncopolmonite: contento di aver fatto casino e di aver rovinato la festa: rovinata? così tutte nell’anfiteatro governatore che imparano a quelle nero, si invitarmi; figurine come fa non di nere, marmo: aria col ma davvero di marmo, come davanti cappello l’hai a quel giallo buffo a falda largissima: e le nobildonne col ventaglio di seta importata: e le esili femminielle col dito puntato, tutti come di marmo: non è uno spettacolo? Quando mai troverai una tamurriata così: un’istantanea così? Quando mai riuscirai a fermare ancora la gioia e l’amore nel suo acme? Dimmi quando, amore mio: dove lo troverai un altro anfiteatro di statuine così belle: con sopra il cielo così terso, puro e azzurro e il grande triangolo nero in mezzo, al centro dell’attenzione, senza neppure il velo gentile del caldo: e sotto il mare, e le onde del mare, e la brezza delle onde. Dispiacerà solo un po’ al conte di Cavour: un torinese atipico: uno che si 30 stupiva, squadrava e infine firmava il tutto con un infinitesimale sorriso, che anche leonardo avrebbe avuto difficoltà: uno terribilmente perspicace, uno statista: che apprezzava fantasia e scugnizzi: che dovrà rivolgersi ora a quel torinese bamboccio e perplesso perorato dai savoia. Marilyn & Jimmy (Quanto t’ho adorato, marylin: in tutte le tue stampe a colori, che detestavo e trasferivo poi in bianco e nero, lo contrastavo molto: per sognarti a due tinte e basta, il bianco del tuo bacio e il nero del tuo labbro, il bianco del tuo pianto e il nero del tuo riso: tu bianca io nero: senza mezzitoni: sono arrivato a toccarti la guancia: eri così stupita, come una bambina: e ti sei messa il dito sulla bocca: come una bambina: e io ho sorriso e sbuffato, come se mi chiudessi le mani sulla faccia e mi stringessi le tempie). Anche per questo ti sfido, Jimmy, e rombiamo i motori in folle, e accanto a quelli affiliamo i nostri sorrisi tristissimi, quella specie di ghigno, la pennellata giapponese di spleen per cui non ho rivali, forse giusto te, che ghigni abbassando gli occhi, io non lo so fare, io ghigno e vado di lato, io preferisco te ma non lo so fare, però siamo lì, coi motori e col ghigno: vicini a sfidarci mentre le ragazze urlano disperate e ammirate. Roba da bulli, da malati; roba da noi, nati per ghignare sbuffando; lo senti come premo sull’acceleratore in folle, premo più di te, ghigno più di te. Ma tu reagisci come il pianista più bravo che lascia sfogare l’avversario, io avversario?, non t’accendi neppure una sigaretta: mi lasci nella confusione del mio delirio grassoccio, pomposo, pieno di smog: e azzecchi, come sempre, la tua ascia: il colpo secco al socchiudere gli occhi, tagliarli collo, e la insieme tua superiorità: abbassarli con uno sbuffo che non posso sentire, il motore romba, non lo sentirò mai, ma lo intuisco, so che c’è e digrigno i denti, perché hai vinto, 31 non posso competere: io non posso avere la seconda nostalgia del mondo: ma so che non saprò mai raggiungerti e allora mi lancio in avanti, stacco la prima e corro giù per la distesa: con in fondo il dirupo, il massimo dirupo, lo schianto, le scogliere bianche. Perché solo così devi imitarmi: per l’invidia del tuo spleen, che non può fermarsi se io scappo: deve inseguirmi, raggiungermi con lo sguardo e poi, solo poi, guardare giù sbuffando. E lo può fare solo se mi raggiungi, sabato sera, che corro come un matto giù per la distesa: dubbio, con jimmy: stringerci la in fondo se sei mano e il più massimo pazzo tu tranquillamente dirupo. Anche od se non potevamo passeggiare sui sentieri io, tu hai un melensi delle nostre vite pacifiche: appena un po’ groggy, ma con tutto il profumo e i colori di marilyn dietro e accanto. Se eravamo appena un po’ più furbi: se ci fermavamo in tempo; se la smettevamo di fare i bulli e gli orgogliosi. Così tu mi stracci nel ghigno giù con sbuffo, ma mi guardi col cuore a bocca aperta dal finestrino mentre mi precipito giù per la distesa. E comprendiamo a 200 all’ora di essere identici, più che fratelli, più che gemelli; oh, potevamo stringerci la mano e tranquillamente passeggiare sui sentieri melensi delle nostre vite pacifiche… Ma i motori rombano e le macchine corrono con le lancette al massimo: e io ho infilato la cravatta nella porta, apposta, come un fermo, perché non si apra quando avrò paura: dovrò restarci dentro, come in una cella, mentre tu all’ultimo ti getterai fuori e la tua auto precipiterà sulle scogliere fracassandosi senza te: tu per terra a vederla esplodere con marylin che ti raggiunge e ti piange disperata sulle spalle, in bianco e nero, un po’ contrastato: io che vado e vado e vado, e volo, io solo, parallelo alla tua macchina vuota: io con la mia bella cravatta inceppata apposta, mi sono tagliuzzato un po’ anche le vene, ho bevuto un sacco di anticrittogamici blu, mamma che schifo: me ne sto al volante con una nausea terribile e una gran voglia di vomitare, ho sonno per le scatole di lorazepam che mi sono succhiato: il ghigno che mi viene è un po’ da mongolo, sono contento che tu non lo vedi, 32 jimmy: non è bello. E’ povero e brutto, per due esteti come noi: come quando si vomita, come quando si muore per niente, solo per orgoglio: giusto per il gusto del bianco e nero. Mi piacciono le scogliere, mentre precipito, la schiuma delle onde si confonde con la mia bava mentre vomito: bello e brutto insieme: biancoenero, ah, jimmy, la prossima volta mi dai la tua parte nel film, almeno posso sentire il dolce corpo di marylin sulla schiena, faccio finta di soffrire, di ghignare, e intanto mi eccito fra lei e l’erba: i suoi seni, le sue cosce, i fili d’erba, la turgidità della terra… tutto in uno scenario di nostalgia sullo schermo fosco, con me che sudo nel sogno, col cuore a bocca aperta, che mi spezzo la schiena, che mi rompo i denti, che sento che mi squarcio, come quando i macellai aprono i quarti di maiale e ti preparano le lombate per il pranzo del giorno della festa (era pasqua o natale? Del ringraziamento no, là è solo tacchino: si hanno strane idee, fra le scogliere e la schiuma è tutta diversa da come la si immagina). Cecco Beppe Geometria pura, linee e silenzio; un benessere astratto, senza la sensazione di averlo; seta. Esser lì e non ricordare affatto perché si è lì, e neppure pensare di non ricordarlo affatto; fissare il grigio riflesso da un vetro smerigliato rettangolare, una specie di finestra chiusa, radioso: seta. Naturalmente in piedi: aspettando senza guardare il soffitto; con le mani sui fianchi senza sfiorarsi i pantaloni: e le scarpe parallele, le gambe appena divaricate. Il bianco; socchiudere gli occhi e non veder nessun formicolio sulle palpebre perché la retina è finalmente libera: e danza, la retina, nella nostra mente: il ballo della regina, il valzer di capodanno con la freddezza di una vecchia neve: danza ad occhi chiusi negando se stessa al principe consorte: fra lo stupore generale: e l’indignazione solenne della nobiltà austro-ungarica. 33 Danza libera, felice, ad occhi chiusi, la mia retina nel nulla: è un salone battaglie d’armi più interminabile lunghe degli dove arazzi; si potevano nessun fare formicolio vere sulle palpebre, perché ora è lei la regina: una sovrana imbarazzante per tutti questi moustaches tradizionalisti, per questi corsetti stretti con il verdugale goffo. Un nuovo anno, l’ultimissimo di un’infinità di secoli, finalmente finito il formicolio del tempo! Nulla più proiettato sulle palpebre: perché la retina è libera e felice e danza nel nulla: snella tra i goffi matusa con la divisa grondante di medaglie: tra le beghine austere indignate per lo scandalo: danza tutta sola la mia retina nel nulla della sala d’armi: felice correndo tra gli arazzi delle battaglie: scivolando sul parquet d’antica quercia, sotto i cassettoni del soffitto affrescato di cielo e firmamenti: senza nessun formicolio sulle palpebre: finalmente libera nel nulla. Anche Cecco Beppe sorride, infine, senza farsi notare: per la felicità della sua amata, la sua leggerezza, la sua fantasia, costi quel che costi, la caduta di un impero, una rovina già imminente nata col suo splendore. Sorride e scivola discreto nella loggia buia, annerita dal tempo; e di lì esce sulla balconata segreta, coi frivoli gerani rossi tutti in cerchio come un battaglione; guarda lontano, senza fissare, senza neppure vedere troppo: già se è troppo tardi, se è già l’alba, se per caso non sia arrivato l’ultimissimo anno. Sorride, senza farsi notare nemmeno a se stesso; lontano, per non farsi vedere ai suo occhi; silenzioso, per non farsi sentire dalle sue orecchie. Sorride, felice e libero pur senza ballare: come se il cuore non esistesse più, e lui fosse tutto un cuore, senza farlo notare ai suoi sentimenti, che girano impettiti e sospettosi con le zampe da gazze nervose; è tutto solo, Cecco Beppe, così solo che neanche la sua solitudine se ne accorge: e avanza verso il parapetto: vede nella fontana nutriti, che sotto i pesci s’abbuffano rossi, scuotendo grossi pesci l’acqua grassi per ben qualcosa precipitato di recente dal cielo: briciole di michetta, forse, 34 qualcosa che gli piace un mondo: sono tutti così contenti stamani, proprio come fosse la prima e l’ultima alba del mondo; come se dovesse succedere tutto e niente: un ghiaccio infinito: seta. Distrattamente, Cecco Beppe dà un’occhiata furtiva all’orologio, l’abitudine noiosa di un imperatore austro-ungarico puntuale: le 7 e cinque! Sono già, finalmente le 7 e cinque! Senza sporgersi allarga autorizzando la la zia, mano, mia e zia, la a stende suonare verso definitivamente senz’altri indugi il campanello metallico d’ottone. 35 l’orizzonte, e