V. Il vetro, p. 177
Transcript
V. Il vetro, p. 177
Aurora Cagnana 177 V. IL VETRO 1. I sistemi di approvvigionamento della silice Anche il vetro può essere considerato un ‘litoide’, in quanto si ottiene per trasformazione di materiali litici. È rigido, ma oltre certe temperature acquista una plasticità che lo rende modellabile. Non ha una struttura cristallina, ma amorfa, vale a dire che non è caratterizzato da un reticolo ordinato che si ripete con regolarità in tutte le direzioni, ma si può considerare piuttosto un liquido altamente vischioso, sopra-raffreddato. Come tutti i solidi amorfi, non ha un punto di fusione preciso, che separa lo stato cristallino da quello fuso, ma un’ampia fascia termica, all’interno della quale la sua viscosità tende a diminuire, via via che si alza la temperatura. A 1000°C il vetro è molto molle e non mantiene la forma conferitagli; tra 800°C e 600°C presenta la plasticità maggiore. Se si diminuisce la temperatura l’agitazione termica si riduce ulteriormente e aumenta la viscosità, finché sotto ai 500° C si presenta rossiccio, non è più mobile e non si deforma più; a temperatura ambiente, infine, ha raggiunto la sua stabilità di materiale rigido ma amorfo. La materia prima fondamentale per la produzione del vetro è la silice, la cui forma cristallina più diffusa è il quarzo (SiO2), minerale costituito interamente da tetraedri formati da quattro atomi di ossigeno per ogni atomo di silicio; ogni ossigeno stabilisce un legame covalente con due atomi di silicio adiacenti, creando una struttura regolare e molto resistente. Queste unità tetraedriche sono anche l’elemento che costituisce i minerali detti ‘silicati’ (cfr. II.1.); benché siano piut- 178 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE 62- Confronto fra lo stato cristallino della silice, costituita da un reticolo ordinato di tetraedri, e lo stato amorfo del vetro, dove i tetraedri sono ammassati senza alcuna regolarità (da CUOMO DI CAPRIO 1988) tosto abbondanti sulla crosta terrestre non è da essi che si poteva estrarre la silice per produrre il vetro, dato che quest’ultima vi si trova combinata con altri elementi. I sistemi di approvvigionamento tradizionali erano piuttosto basati sulla ricerca di rocce nelle quali la silice si trovasse pressoché pura. Si potevano ad esempio praticare estrazioni mirate di filoni quarziferi contenuti in altre formazioni silicatiche, oppure, con più semplici sistemi di raccolta, selezionare ciottoli di quarziti, rocce derivate dal metamorfismo di arenarie e composte quasi unicamente da quarzo. Altrettanto adatti erano i ciottoli di selce, una varietà di silice criptocristallina presente in forma di noduli all’interno di rocce sedimentarie; infine si potevano sfruttare le sabbie ricche di quarzo. Questo minerale ha infatti una durezza molto elevata (cfr. I.2.) e perciò è in grado di resistere maggiormente agli agenti abrasivi; di conseguenza, la lunga elaborazione naturale finisce per consumare gli altri minerali e per selezionare il quarzo fino al punto da renderlo il componente principale, se non esclusivo. Le sabbie desertiche o quelle di spiagge di età geologiche, ad esempio, sono costituite al 98% di quarzo e possono perciò essere considerate un vero e proprio deposito di silice, che si trova pura e già ridotta in granelli finissimi grazie al trasporto eolico. La raccolta di sabbie quarzifere è chiaramente ricordata dalle Aurora Cagnana 179 fonti antiche come sistema di approvvigionamento della materia prima per la produzione del vetro. Plinio menziona ad esempio la sabbia del fiume Belus, in Palestina (Nat. Hist. V, 75) e quella del fiume Volturno, (Molise), che definisce alba emollissima, assai adatta per ottenere vetro trasparente e incolore (Nat. Hist. XXVI, 66, 8). In altri casi la ricerca archeologica ha invece rilevato le tracce di estrazione di filoni quarziferi con piccole piccozze di ferro acciaioso, come nella vetreria medievale di Monte Lecco (Genova), ubicata in un’area montuosa dell’Appennino ligure, lontano da spiagge o da alvei fluviali (cfr. V.2.). 2. Il processo di cottura e le sostanze fondenti Per ottenere il vetro occorre fondere, cioè rendere liquido, il quarzo. Il passaggio dallo stato solido a quello liquido richiede una forte quantità di energia, tale che l’agitazione termica degli atomi superi le forze di legame. Tutti i solidi cristallini hanno una temperatura di fusione ben precisa, a partire dalla quale passano dallo stato solido a quello liquido. Nel quarzo, data la sua struttura molto stabile, è necessaria un’alta temperatura (1710°C) per spezzare alcuni dei legami fra i tetraedri e renderli mobili tra loro, ovvero per passare allo stato liquido. La temperatura di fusione del quarzo era irraggiungibile con i sistemi produttivi preindustriali, sia per i caratteri dei forni, sia per il tipo di combustibile, costituito dal carbone di legna. In Europa, fino alla rivoluzione industriale, non era possibile superare i 1200°1300°C; in Cina esistevano particolari fornaci in grado di raggiungere temperature pari a 1400°C, usate per la produzione delle porcellane (cfr. II.6.); soltanto in India, già in un’epoca corrispondente alla nostra età romana, si riuscivano a toccare i 1500°C, in piccoli forni a riverbero che fondevano il ferro per fare la ghisa in crogiolo. In ogni caso nessun impianto era in grado di arrivare alla temperatura necessaria per ottenere la fusione del quarzo. Si è però imparato a riconoscere le proprietà fondenti di alcuni materiali, in grado di abbassare tale soglia fino a 1100°C circa. Vi sono infatti elementi come il sodio, il calcio, il magnesio, il potassio, il piombo, che a una temperatura di 1000°-1100°C, e cioè in condizioni di agitazione molto alta delle molecole di silice, possono catturare alcuni legami dell’ossigeno, spezzando alcuni reticoli di tetraedri. A seconda 180 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE delle sostanze fondenti utilizzate il vetro viene perciò definito sodico, potassico, alcalicalcico o piombifero. Il primo era prodotto nell’Antichità, soprattutto nelle regioni mediterranee; Plinio e Teofrasto parlano di una sostanza chiamata natron, identificabile con il carbonato di sodio (Na2CO3), molto abbondante nelle aree desertiche. L’erosione chimica delle montagne che circondano i deserti, infatti, è alla base del fenomeno, già descritto, di caolinizzazione dei feldspati (cfr. II.1.), che si trasformano in minerali argillosi perdendo sodio e potassio; questi ultimi, allo stato di carbonati, vengono trasportati in soluzione durante le piogge. Poiché nei deserti i corsi d’acqua tendono a prosciugarsi prima di giungere al mare, l’evaporazione fa depositare i sali. Ciò spiega la frequente formazione di croste di sale, spesso costituite da strati differenti, dovuti alla diversa concentrazione necessaria per depositarsi. Il carbonato di sodio si poteva perciò trovare con molta facilità. Nell’Europa centro-settentrionale si usava invece prevalentemente la potassa, (K2CO3) contenuta nelle ceneri di piante (felci o faggi); per tale motivo il vetro che si otteneva veniva chiamato in Francia ‘verre de fougère’ (vetro di felce) e in Germania ‘waldglas’ (vetro di bosco). Nelle ceneri, oltre al potassio e al sodio sono più o meno presenti anche il magnesio e il calcio, il quale è importante in particolare modo, perché rende il vetro più stabile nel tempo e lo preserva dalla tendenza alla devetrificazione (cfr. V.5.). L’uso del piombo, piuttosto raro nell’antichità, si è affermato nel Rinascimento. 3. Dalla pasta vitrea alla soffiatura I più antichi esempi di fusione della silice, per produrre manufatti, risalgono alla metà del II millennio a.C. e provengono dall’area egiziana e mediorientale, regioni dove le materie prime necessarie (sabbie desertiche ricche di quarzo e natron) erano facilmente disponibili; si calcola che, con un fuoco ad alta temperatura, anche il 18% di sodio fosse sufficiente a fondere l’82% di silice. Il materiale che si ottiene dalla prima fusione del quarzo, di aspetto filamentoso e opaco, viene definito fritta e il suo modellamento permette di ottenere oggetti in pasta vitrea. Una delle più antiche tecniche di lavorazione, utilizzata per produrre piccoli contenitori (per lo più unguentari), viene detta ‘a nucleo Aurora Cagnana 181 friabile’; essa consisteva nel plasmare, sulla parte terminale di un’asticella metallica, un nucleo di argilla, sabbia e altre sostanze organiche leganti, intorno veniva poi avvolto uno spesso filamento di fritta, piuttosto viscoso, che formava il corpo del vaso. Estratta l’asticella e frammentato il nucleo di argilla per liberare l’interno, si otteneva il vaso; esso poteva essere completato con l’applicazione di orlo, fondo, anse, ed eventualmente decorato con l’aggiunta di altri filamenti di colori diversi, disposti a festoni, a piume, a zigzag. Talora la fritta poteva essere modellata anche a stampo; in ogni caso si trattava di sistemi piuttosto lenti, che permettevano di ottenere oggetti di piccole dimensioni, e che non consentivano una grande varietà di foggiature. È con l’epoca ellenistica che la diffusione dei contenitori in pasta vitrea, come quella di molti altri manufatti artigianali, aumentò notevolmente e, di conseguenza, si moltiplicarono i centri di produzione. Fra questi assunsero una notevole importanza le officine dell’area costiera siro-palestinese, come Sidone, ricordata anche più tardi da Plinio quale artifex vitri. In seguito alla conquista romana dei regni ellenistici si determinò nel Mediterraneo occidentale un imponente afflusso di ricchezze e con esse di beni e di maestranze artigianali specializzate, fra le quali anche molti maestri vetrai. È in questo panorama di accresciuta domanda e di grande circolazione di manufatti e di tecniche che si registra, in età augustea, una innovazione tecnologica di portata vastissima: la soffiatura. Questo nuovo sistema prevedeva di sottoporre la ‘fritta’ a una seconda cottura in speciali contenitori troncoconici, realizzati in ceramica refrattaria, definiti crogioli. Insieme alla fritta, macinata, si mescolavano frammenti di vetro pestati. Se si voleva ottenere un prodotto colorato, si aggiungevano anche pigmenti metallici; a seconda dei composti (per lo più di rame, ferro, manganese) e dell’ambiente di cottura (che poteva essere riducente oppure ossidante) si potevano ottenere colori diversi, dal blu al rosso al giallo al verde. Il prodotto della cottura, non più filamentoso, ma fluido e trasparente, veniva prelevato in piccole quantità e soffiato entro una canna in ferro; con l’aiuto di pochi strumenti (pinze, cesoie, ecc.) si potevano foggiare in brevissimo tempo svariati oggetti, di diverse forme e dimensioni, e con spessori anche molto sottili. Grazie alla soffiatura il vetro conobbe una diffusione sociale decisamente maggiore. Diverse decine di coppe realizzate in vetro soffiato, rinvenute a Roma e risalenti all’età augustea, sono caratterizzate dalla presenza di bolli, 182 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE con i nomi, in greco, degli artigiani che le hanno fabbricate, seguiti dal termine Seidónios (= di Sidone). Spesso i nomi sono ripetuti anche in latino, allo scopo di essere compresi dalla clientela di Roma che, evidentemente, riteneva il marchio sidonio una garanzia di buona qualità. Secondo alcuni archeologi ciò proverebbe il trasferimento dall’Oriente a Roma di specialisti del vetro ai quali si deve, con ogni probabilità, l’introduzione della soffiatura; va comunque ricordato che anche nel Mediterraneo orientale essa compare nello stesso periodo. Questa innovazione tecnologica ha permesso al vetro di diventare un prodotto ad amplissima diffusione e ha aperto molte possibilità nuove: gli oggetti potevano essere allungati, modificati, soffiati entro stampi e quindi rilavorati. Moltiplicatesi velocemente in tutto l’Impero romano (comprese le aree nordiche, come la Renania) le manifatture vetrarie divennero un poco più rare nell’altomedioevo. La produzione aumentò nei secoli seguenti, quando in Italia vennero aperte nuove fabbriche, basate ancora sull’uso di fondente prevalentemente sodico, mentre nel resto dell’Europa settentrionale si andava sviluppando quello potassico. Un importante esempio di un impianto produttivo medievale è stato fornito dallo scavo di una vetreria risalente alla seconda metà del XIV secolo, posta a 830 metri s.l.m., su una montagna dell’Appennino, nell’entroterra del porto di Genova. Con ogni probabilità era gestita da vetrai provenienti da Altare, nel Savonese (zona tradizionale di manifatture vetrarie) che fabbricavano soprattutto bicchieri e bottiglie, molte delle quali recavano un bollo con l’indicazione della misura di capacità e la sigla del maestro. La fornace aveva pianta a ‘8’, come quelle per ceramiche o per calce (cfr. II.5.; III.4), ma in questo caso la strozzatura aveva la caratteristica di essere regolabile attraverso la disposizione di pietre che, all’occorrenza, potevano ridurne o aumentarne l’ampiezza. Il forno era costituito da una suola rialzata rispetto al canale di tiraggio. Il suo funzionamento è stato ricostruito in base ai resti rinvenuti e al confronto con alcuni dati iconografici. Doveva essere a riverbero, cioè costituito da una cupola che faceva convergere il calore dall’alto verso il basso; un foro superiore doveva garantire il tiraggio. La silice era estratta da vene quarzose ubicate poco lontano, come attestavano consistenti tracce di coltivazione. Le analisi chimiche dei prodotti hanno inoltre indicato l’uso di potassio, sodio, magnesio e calcio (estratti da ceneri di piante), quali fondenti. La silice veniva finemente frantumata e portata a fusione assieme Aurora Cagnana 183 63- La soffiatura del vetro in una fonte iconografica del 1590, nella quale si riconoscono chiaramente le varie fasi della lavorazione: preparazione del combustibile, soffiatura, trasferimento dell’oggetto finito nella zona ‘della tempera’ (da MANNONI, GIANNICHEDDA 1996) 184 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE al fondente per ottenere la fritta, la quale veniva poi lasciata raffreddare e quindi ulteriormente macinata e mescolata a polvere di vetri rotti, riciclati. Il miscuglio veniva nuovamente portato a cottura entro crogioli, di forma troncoconica, realizzati in ceramica refrattaria. Di notevole interesse sono risultati i dati emersi dall’analisi mineropetrografica di tre diversi tipi di crogioli: si è potuto infatti stabilire che le ottime caratteristiche di refrattarietà erano dovute all’alta percentuale di quarzo, utilizzato come inerte nell’impasto ceramico, e alla presenza di caolinite, minerale argilloso caratterizzato da un’alta temperatura di fusione (cfr. II.1.). La seconda esposizione al calore, detta bollitura, richiedeva un certo periodo di tempo; il materiale doveva essere controllato tramite finestrelle appositamente aperte nelle pareti della fornace, le quali permettevano anche di attingere direttamente dai crogioli; le bolle di gas erano espulse e venivano schiumate le impurità che salivano a galla. Solo quando il vetro aveva raggiunto la limpidezza necessaria veniva prelevato, allo stato fluido, con le canne di ferro, sempre tramite le finestrelle, per essere modellato a fiato. Dopo la foggiatura si doveva evitare il raffreddamento improvviso, che rischiava di creare tensioni interne le quali, con piccoli urti, avrebbero potuto provocare lo sgretolamento dell’oggetto. Per farlo assestare, perciò, esso veniva tenuto a lungo in un ambiente, detto ‘stanza della tempera’, con temperatura attorno ai 200° - 400°C. È probabile che in questo caso tale zona si trovasse nella parte superiore del forno, a giudicare dalla forma degli speciali mattoni refrattari che formavano la cupola, e come suggerirebbe il confronto iconografico con impianti analoghi. Nei caratteri tecnologici essenziali, la fornace medievale dell’Appennino genovese, fin qui descritta, non sembra molto diversa da quelle più tarde, illustrate, ad esempio, nelle tavole dell’Encyclopédie. 4. La produzione di lastre da finestra Il vetro è particolarmente importante nelle costruzioni per le sue caratteristiche di materiale impermeabile e trasparente, in grado di creare un sufficiente isolamento termico, e al tempo stesso di lasciar passare la luce e le immagini. L’introduzione della soffiatura e le innovazioni tecnologiche dell’arte vetraria hanno influenzato notevolmente, soprattutto nelle regioni a clima rigido, l’evoluzione tipologica delle finestre. Aurora Cagnana 185 In epoca romana vi erano, come si è visto, manifatture vetrarie assai fiorenti, tuttavia sono molto più conosciuti gli oggetti da mensa che non i vetri da finestra. Le più antiche attestazioni di lastre in vetro riguardano edifici pubblici e solo successivamente l’edilizia privata, dove iniziano a essere più frequenti a partire dall’età neroniana. Uno dei primi sistemi di fabbricazione era basato sulla colatura in uno stampo dalla superficie liscia; ciò consentiva però di ottenere oggetti di dimensioni limitate e di notevole spessore. La produzione di manufatti di qualità migliore fu resa invece possibile dalla soffiatura. Un sistema piuttosto diffuso, soprattutto dal III secolo in poi, doveva essere quello definito ‘a cilindro’. Esso consisteva nella preliminare realizzazione di una bolla; continuando poi a soffiare nella canna e facendola alternativamente rotolare su una base di marmo, si otteneva un cilindro molto allungato. Quando aveva raggiunto le dimensioni volute, si provvedeva a tagliare a caldo, con un ferro rovente, le due estremità, e quindi lo si apriva in senso longitudinale, in modo da ricavarne una lastra rettangolare. Per tagliare il cilindro si usava una sorta di cesoia, detta ‘grossarium’, che produceva un profilo affilato, il 64- Realizzazione di lastre da finequale però tendeva ad arrostra tramite il sistema ‘a cilindro’: tondarsi a causa del calore. soffiatura di una bolla e suo allungaIl grisatoio era invece uno mento; taglio delle estremità, apertustrumento metallico, ricurra a caldo (da MENICALI 1992, rielavo alle due estremità, che borata da Zanella, 1999) 186 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE 65- Realizzazione di lastre da finestra tramite il sistema ‘a corona’: soffiatura di una ‘bolla’; appiattimento della base; distacco della canna e collegamento a un’asticciola, modellamento della lastra per forza centrifuga e stacco dell’asticciola (da MENICALI 1992, rielaborata da Zanella, 1999) Aurora Cagnana 187 serviva per scheggiare finemente i bordi, quando le lastre erano di dimensioni poco più grandi rispetto alla cornice. Un’altra tecnica era detta invece “a corona” e consisteva nel realizzare una bolla larga e appiattita alternando il riscaldamento al modellamento su una base in pietra. Quando la bolla aveva raggiunto le dimensioni volute, veniva collegata alla base con un’asticella di ferro, detta “pontello”, e staccata dalla canna da soffio; l’apertura veniva quindi dilatata con apposite spatole, in modo da renderla troncoconica. Facendola ruotare rapidamente tramite il pontello, finiva per assumere la forma di un disco. Lo stacco del pontello lasciava al centro della lastra il caratteristico addensamento di vetro definito ‘occhio di bue’, mentre il bordo presentava un tipico ispessimento. Secondo alcuni studiosi questo sistema sarebbe originario del Mediterraneo orientale; per tre dischi rinvenuti ad Aquileia si è infatti ipotizzato che si trattasse di importazioni, oppure di prodotti realizzati sul posto da maestranze venute dall’Oriente. A partire dall’età tardoantica sono attestati nelle province occidentali altri ritrovamenti di lastre realizzate ‘a corona’: uno, in un contesto di IV secolo è stato rinvenuto, ad esempio, a Chichester, la romana Regnum. Celebri sono poi i dischi in vetro rinvenuti a San Vitale di Ravenna, databili al VI secolo. Presentano diametri con dimensioni di cm 17/26; alcuni sono colorati (blu, verde, giallo, rosa) altri sono invece incolori e conservano tracce di una decorazione sovradipinta in rosso. Si è fatta l’ipotesi che in origine fossero fissati su telai lignei oppure che fossero incastrati, tramite stucco, in appositi spazi di transenne marmoree. Questi sistemi sembrano comunque caratteristici della tradizione bizantina, mentre in occidente doveva essere maggiormente diffusa la produzione di lastre rettangolari, mediante il sistema a cilindro. È stato osservato infatti che, nella stessa Ravenna, tutte le raffigurazioni di edifici di culto che si trovano sui mosaici, presentano finestre con lastre rettangolari. Due intelaiature di legno, destinate a fermare lastre di questo tipo, sono state rinvenute a Sant’Apollinare in Classe, nella tamponatura di due finestre. Per la conoscenza delle lastre di periodo altomedievale un ritrovamento di eccezionale interesse è stato effettuato durante gli scavi del monastero di San Vincenzo al Volturno (Isernia). Nelle imponenti ricostruzioni operate fra il 780 e l’830, questo complesso venne ingrandito e ricostruito, tanto da diventare, con i suoi sei ettari di estensione, uno dei più grandi cenobi d’Europa anteriormente al Mille. La distru zione operata nell’881 da parte di un gruppo di armati arabi ne ha 188 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE sigillato i resti nel sottosuolo. Gli scavi archeologici hanno così reso possibile ritrovare, nei pressi della chiesa abbaziale di San Vincenzo Maggiore, completata nell’808, una serie di impianti produttivi costituiti da fornaci per laterizi, per campane, per smalti e per vetri, tutti destinati a rifornire i materiali per questo grandioso cantiere. Una parte delle officine, a carattere provvisorio, venne installata in un’area antistante l’edificio di culto. Con il progressivo ampliamento della chiesa gli impianti vennero spostati presso il fianco meridionale e sistemati all’interno di strutture edilizie permanenti, costituite da cellette rettangolari affiancate. In una di esse sono stati rinvenuti i resti di due fornaci da vetro, che producevano lastre vitree colorate, delle quali si sono rinvenuti circa 7000 frammenti (delle misure massime di cm 12 x 15), destinate a finestre di notevoli dimensioni. Le analisi chimiche hanno rilevato l’utilizzo di fondenti alcalini (soprattutto sodio) secondo la tradizione tecnologica romana. Di notevole interesse il fatto che meno dell’1% dei frammenti è risultato eseguito col sistema a corona, mentre oltre il 99% è stato realizzato a cilindro. Benché frammentarie, è stato possibile individuare la forma originaria delle lastre: quelle della parte bassa erano rettangolari, mentre quelle poste in alto erano a 66- Ricostruzione di una finestra profilo curvilineo. Si è peraltomedievale con lastre rettangolatanto ipotizzato che tali panri, in base ai ritrovamenti archeolonelli fossero inseriti su telai gici di San Vincenzo al Volturno (da lignei simili a quelli rinvenuDELL’ACQUA 1996) Aurora Cagnana 189 ti a Sant’Apollinare in Classe, più sopra ricordati; le vetrate di San Vincenzo dovevano perciò rifarsi a quelle dei grandi edifici pubblici della tarda Antichità. Si sono inoltre rinvenuti alcuni frammenti di listelli in piombo, a sezione ad “H” o ad “U”, verosimilmente destinati al fissaggio delle lastre. Un altro interessante esempio di un impianto di produzione vetraria, ubicato nei pressi di un cantiere edilizio, è stato rinvenuto negli scavi della Torre Civica di Pavia. In origine essa fu infatti utilizzata come officina per produrre materiali edilizi da impiegare nell’edificazione delle due cattedrali romaniche di Santo Stefano e Santa Maria del Popolo, ricostruite attorno al 1100. In questo caso, però, tale ambiente non ospitava una vera e propria fornace, della quale non si sono rinvenute tracce; secondo alcuni archeologi vi sarebbe avvenuta soltanto una lavorazione secondaria, consistente nel taglio dei vetri e nel montaggio delle finestre; secondo altri, invece, il luogo avrebbe ospitato un temporaneo deposito di lastre di scarto, già smontate e lì raccolte per un’eventuale rifusione. In ogni caso tali frammenti, databili attorno al 1100, rappresentano una delle più antiche attestazioni di vetrate romaniche. Nei secoli successivi tali testimonianze si moltiplicano; il sistema a corona risulta ampiamente documentato anche nel resto d’Europa: dal XIII secolo in poi esso è particolarmente diffuso in Normandia, tanto che fino a poco tempo fa si riteneva che fosse originario di questa regione. Parallelamente continuò ad essere in uso anche il sistema a cilindro. Un contesto di alcune centinaia di frammenti di vetro da finestra è stato rinvenuto a Genova, nel corso di scavi archeologici, in una fossa databile alla fine del XVI secolo. Poiché quest’ultima era ubicata nei pressi della chiesa di Santa Maria di Castello, la cui abside venne rifatta appunto nel 1589, si è giustamente ipotizzato che i vetri provenissero dalla demolizione della precedente fase tardo quattrocentesca. Fra essi si trovavano numerosi esempi di dischi realizzati con la tecnica “a corona”, ben riconoscibili dalla presenza della caratteristica protuberanza centrale dovuta allo stacco dell’asticella. Altre lastre a forma di triangoli, pentagoni, tasselli quadrati, lunette e rettangoli erano invece state prodotte con la tecnica del cilindro. Una serie di lastre presentava una decorazione bruno violacea applicata con ossidi di manganese, sulla quale erano ottenuti, a risparmio, motivi decorativi vegetali. Tutti questi elementi, di dimensioni comprese entro i 10-15 centimetri, dovevano essere uniti per mezzo di profilati di piombo (che però 190 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE 67- Frammenti di lastre da finestra tardomedievali rinvenuti a Genova, in una fossa scavata presso Santa Maria di Castello: tipologia delle forme attestate; ricostruzione di un motivo geometrico a rombi e ottagoni allungati; ricostruzione di una finestra con lastre circolari impiombate (da GARDINI, MILANESE 1976) Aurora Cagnana 191 non sono stati rinvenuti) a formare disegni geometrici, come nelle vetrate fisse ancora esistenti in molte chiese medievali. I vetri medievali erano spesso decorati con una pittura a base di ossidi, che veniva fissata con una seconda cottura in fornace; i contorni del disegno potevano essere disegnati in positivo, oppure realizzati a risparmio, asportando la pellicola colorata, come nel caso genovese. Le grandi vetrate gotiche, con decorazioni istoriate a vivaci colori, fissate alle pareti attraverso telai di ferro, non potevano essere completamente realizzate con collages di vetri piombati, poiché sarebbero state troppo pesanti; inoltre i profilati di piombo non avrebbero permesso di ottenere una grande ricchezza di dettagli. Le decorazioni minute (volti, mani, monili) venivano pertanto eseguite con un sistema definito grisaille, che consisteva nel dipingere le lastre con polvere di vetro colorato, misto a collanti. In seguito a una ulteriore cottura, praticata a temperature basse, in modo da evitare la deformazione delle lastre, solo la polvere di vetro fondeva, rimanendo aderente al supporto. Se la realizzazione di vetrate fisse non poneva problemi particolari, quella delle finestre con ante mobili, che potessero essere aperte e chiuse era decisamente più complessa. Nelle polifore delle più ricche case mercantili, poiché non era possibile rendere apribili le vetrate (unite da elementi in piombo e perciò troppo pesanti) si utilizzavano telai lignei che venivano agganciati alla parete ogni giorno (uno per archetto) e smontati ogni sera per essere sostituiti da scuri di legno. Nelle case meno ricche, al posto dei telai con lastre di vetro si utilizzavano invece tele cerate, o carta oleata. Telai e scuri venivano tenuti fermi da paletti inseriti internamente, entro appositi alloggi ricavati sugli stipiti e sulle pareti. Si trattava comunque di un sistema molto scomodo, che aveva anche una tenuta termica bassissima. La sostituzione delle polifore con finestre a croce, avvenuta a partire dalla fine del XV secolo, permise di adottare un sistema più funzionale: solo la parte superiore venne infatti dotata di vetrate piombate, fisse, mentre nella parte bassa vennero poste due ante lignee apribili. Infissi di questo tipo sono ampiamente attestati dalle fonti iconografiche e, molto più raramente, da resti materiali. Un caso di grande interesse è costituito dalla serie di finestre del palazzo duecentesco dei Fieschi, a Cogorno (Genova). Grazie all’ottimo stato di conservazione sono ben riconoscibili le tracce della trasformazione delle polifore medievali in finestre a croce. Nella parte superio- 192 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE 68- Testimonianza archeologica di finestre tardo-quattrocentesche costituite da vetrate fisse in alto e da ante mobili di legno in basso. Tali infissi rettangolari sono stati ricavati nello spazio delle più antiche polifore medievali (San Salvatore dei Fieschi Genova) (da MANNONI 1999/b) re si conservano i resti delle vetrate fisse, mentre all’interno si individuano chiaramente, negli stipiti, gli alloggi utilizzati per i paletti lignei che tenevano ferme le ante poste nella parte bassa. La realizzazione di grandi finestre con ante apribili, costituite da lastre di vetro rettangolari, montate su telai di legno, si diffuse invece più tardi: nei palazzi nobiliari soppiantò definitivamente le finestre a croce a partire dal XVII secolo. Le lastre erano prevalentemente prodotte col sistema a cilindro, nel quale vennero introdotte alcune modificazioni tecnologiche, non sostanziali: per il taglio delle lastre, ad esempio, dal XVII secolo si cominciò a fare uso del diamante. 5. Principali cause di degrado La tendenza del vetro, sostanza amorfa, a riassumere col tempo una struttura cristallina, è un fenomeno naturale, che ne causa la Aurora Cagnana 193 devetrificazione. Questo processo è collegato alla perdita progressiva delle sostanze fondenti; il sodio, in particolare, tende a staccarsi dal vetro per lisciviazione dell’acqua. Rimasta senza alcali, la silice tende a riorganizzarsi secondo una struttura cristallina; tuttavia i tetraedri di SiO 2 non riformano più i cristalli di quarzo, ma la presenza di altri elementi (ferro, magnesio, calcio) determina la formazione di nuovi silicati fra i quali il più comune è la clorite, dal tipico colore verde. Le colorazioni iridescenti assunte da molti vetri romani, a base sodica, sono appunto dovute alla perdita degli alcali e alla formazione di silicati. Questo fenomeno esiste anche in natura; molte colate laviche di basalti, ad esempio, che in origine erano ricoperte da strati vetrosi, dovuti al veloce raffreddamento in superficie, col tempo si sono trasformate completamente in clorite. 6. Nota bibliografica Sul ciclo di produzione del vetro una utile sintesi si trova in MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 89-92; sulla vetrificazione del quarzo un essenziale richiamo dei principali meccanismi chimici si trova in CUOMO DI CAPRIO 1985. Sulle tecniche di lavorazione, dalla pasta vitrea alla soffiatura, si consiglia l’agile volumetto di SAGUÍ 1998 e il testo di TAIT 1991, quest’ultimo particolarmente utile dal punto di vista didattico, per le numerose esemplificazioni sperimentali. Sulla vetreria medievale scavata nell’Appennino genovese, studiata con grande attenzione e con il supporto di accurate analisi archeometriche cfr. FOSSATI, MANNONI 1975; CASTELLETTI 1975; CALEGARI, MORENO 1975. Sui metodi a cilindro e a corona per la soffiatura di lastre da finestra cfr. SINGER ET ALII 1961-66. Sull’uso di lastre da finestre nell’architettura romana cfr. HARDEN 1969 e HARDEN 1971; una essenziale sintesi delle principali problematiche relative alla storia del vetro da finestra nell’architettura romana viene tracciata in margine allo studio dei 2700 frammenti rinvenuti negli scavi della villa di Settefinestre da DE TOMMASO 1985, pp. 50-51. Sui vetri prodotti col sistema a corona cfr. CALVI 1968, pp. 174-175 per Aquileia; CHARLESWORTH 1977 per Chichester; BOVINI 1964 per San Vitale. Per le vetrate altomedievali rinvenute negli scavi del monastero di San Vincenzo al Volturno cfr. MARAZZI, FRANCIS 1996; DELL’ACQUA 1996; DELL’ACQUA 1996/a. Per le vetrate rinvenute nella torre di Pavia cfr. WARD PERKINS ET ALII 1978; PIRINA 1993; SPATOLA 1993. Per il conte- 194 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE sto di vetri da finestra tardo quattrocenteschi rinvenuti a Genova cfr. GARDINI, MILANESE 1976. Gli aspetti produttivi e iconografici delle vetrate medievali sono trattati nella recente monografia di CASTELNUOVO 1994. Sulle trasformazioni di finestre e serramenti dal medioevo all’età moderna, notizie dettagliate, sebbene circoscritte all’ambito genovese, si trovano in BOATO, MANNONI 1997/98. Sulle finestre di San Salvatore dei Fieschi (GE) cfr. MANNONI 1999/b.