La morte nella società contemporanea

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La morte nella società contemporanea
Capitolo I
La morte nella società contemporanea
1. Le grandi linee di una evoluzione
Dalla nascita l’uomo è abitato dalla morte di cui morirà; è un essere–per–la morte. A seconda che conosca o ignori la ragione di questa
strana presenza che porta in sé, egli sa o non sa da dove viene, chi è, dove
va. La morte costituisce un mistero, ma è anche la chiave di spiegazione, una chiave di senso o di non senso che apre e che chiude a seconda
della direzione che si impone 1.
La concezione dominante della morte al tempo dei Greci e nel pensiero ebraico non poteva appagare l’acuta coscienza della transitorietà
della vita. La morte non era né un pacifico sonno né una migliore e più
felice esistenza nell’aldilà, sebbene alcuni lo sostenessero. Generalmente,
si riteneva che i defunti divenissero ombre senza sangue, vaganti con
indifferenza nel mondo sotterraneo, il che era più spaventoso di qualsiasi altra cosa al mondo 2.
È la diffusione del cristianesimo a modificare l’atteggiamento storico
verso la morte. Jean Danielou così descrive questo mutamento di pensiero: “La morte è una cosa spaventosa, ma più ancora della morte stessa con la sua agonia, era la prospettiva su quello cui si andava incontro
che gettava gli antichi nell’angoscia… Ora questa angoscia l’ha dissipa1. F. X. Durrwell, Cristo l’Uomo e la Morte, Àncora, Milano 1993, p. 9
2 J. Choron, La morte nel pensiero occidentale, De Donato, Bari 1971, p. 43
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ta la vittoria di Cristo sulla morte. Da questo evento l’atteggiamento verso la morte è totalmente differente 3.
Già gli Atti dei Martiri testimoniano come da Policarpo a Cipriano, da
Perpetua a Felicita, tutti proclamino la loro sicurezza di fronte alla morte.
Si può così descrivere la visione cristiana della vita e della morte, quale
si evidenzia dalla lettura degli epitaffi funebri: si nasce, si rinasce a vita
divina nel battesimo, si vive con gli altri per Dio, si muore, si vive eternamente in Dio con i beati. Il fedele riconosce in tutte queste fasi la presenza di Dio. Le epigrafi testimoniano che i fedeli, cui si riferiscono,
hanno potuto dare un senso religioso alla morte precisamente perché,
grazie alla fede, hanno saputo dare un senso religioso alla vita 4.
In particolare, la maggior parte delle iscrizioni riflette una concezione salvifica della vita, nella quale s’intrecciano l’iniziativa divina e la
risposta umana. Alla luce della fede si ritiene la vita eterna come il vero
fine dell’uomo. Tuttavia essa non viene intesa come inerente alla natura
dell’uomo, ma come un dono offerto da Dio. Ciò è tanto vero, che le
epigrafi non insinuano nessun dubbio sulla sopravvivenza dell’uomo e si
fermano soltanto eccezionalmente in modo esplicito sull’immortalità
dell’anima. L’interesse immediato dei cristiani non si indirizza primariamente verso tale immortalità, ma verso tutto ciò che permette all’uomo di entrare nell’eterna vita, cioè rinascere in Dio nel battesimo e vivere la propria esistenza terrena con lui. Tutto questo non significa che
non si rilevi, in genere, come la morte di una persona provochi sentimenti di dolore e di lutto, pur non prendendo in considerazione la possibilità di un castigo eterno per le persone alle quali si era legati da vincoli d’amore e di stima.
L’idea centrale è che il fedele muore in pace, confortato dalla testimonianza di una buona coscienza e dalla speranza della salvezza eterna.
Benché non si faccia menzione del conforto sacramentale, eccetto nel caso dei neofiti, le descrizioni del morire indicano come Dio stesso sia presente nel cuore e nell’anima del morente.
3. J. Danielou, La doctrine de la mort chez le Pères de l’Eglise in Id., Le mystère de la
mort et sa celebration, Paris 1951, pp. 134–156
4. J Janssens, Vita e morte del cristiano negli epitaffi di Roma anteriori al secolo VII,
Università Gregoriana Editrice, Roma 1981, p. 332
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Si attesta generalmente la convinzione che gli uomini devono morire
perché questa è la legge della natura. Raramente si accenna alla rivelazione biblica, che spiega la morte umana nella sua concreta forma angosciosa come conseguenza del peccato.
La beatitudine consiste per i cristiani, nei primi secoli, soprattutto
nel godimento di tutti quei beni spirituali quali la pace e la gioia, doni
del Cristo risorto; quali l’accoglienza e l’accettazione, espressioni di
amore e di benevolenza verso gli altri. Va ancora notato che la presenza
e la compagnia dei beati è la speranza di felicità nel cielo. Non si tratta
quindi di ritrovarsi insieme con i membri della propria famiglia e con i
propri amici, ma con tutti i giusti e i santi. Da questo atteggiamento
escatologico, si possono in qualche modo dedurre gli atteggiamenti e i
comportamenti dei viventi sulla terra. Infatti le preghiere rivelano che i
superstiti hanno piena fiducia nei martiri e nei beati, che sono vicini a
Dio, e si affidano a loro nella vita e nella morte. Si sanno uniti e protetti
da loro in Dio; attribuiscono a loro un atteggiamento di accoglimento,
di bontà, di benignità; li considerano come la Madre Chiesa, che si rallegra all’arrivo di un suo nuovo figlio in cielo. Ne scaturisce la convinzione che ognuno è aspettato. Per coloro che vivono in Dio, la beatitudine prevista è costituita essenzialmente dalla presenza degli altri. In
linea di massima si può dire che la fede nella risurrezione appare più
come una verità affermata che come una convinzione sentita dal popolo cristiano. L’idea essenziale, suggerita dalle formule della tumulazione,
è che il defunto nella tomba è stato affidato a Dio e tutto ciò che è dato
a Dio non va perduto.
Il contesto è essenzialmente comunitario in tutto il passaggio dal morire alla morte. I riti che si celebrano nella camera del moribondo, o quelli della più antica liturgia funebre, esprimono la convinzione che la vita
di un uomo non è un destino individuale, ma un anello della catena fondamentale e ininterrotta della famiglia.
La morte non è solo un dramma personale, ma coinvolge anche la
comunità che ha la funzione di mantenere la continuità della specie.
Questa presenza fa in modo che la morte non sia lasciata a se stessa e
ai suoi eccessi. La ritualizzazione acquista un forte ruolo nel dare un
senso comunitario al morire, nel far superare la tragicità dell’evento
evitando il fatto che la morte possa costituire un’avventura solitaria. Il
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morire deve risultare un fenomeno pubblico che coinvolge la comunità
intera 5.
È interessante notare come le fatiche e le sofferenze, proprie della vita
umana, facciano interpretare il cielo come la dimora del vero riposo, ma,
ancora più frequentemente, il concetto di riposo è associato alla sepoltura e alla tomba.
Tra il IV e V secolo la predicazione cristiana cessa a poco a poco d’ignorare o di sublimare le paure dell’uomo di fronte alla morte 6. Le parole di
Paolo nella lettera ai Filippesi, “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire
un guadagno”, contraddistinguono la predicazione di Ambrogio e dei vescovi contemporanei dell’Italia del nord. Si vuol attestare che la morte è un
bene e che la fede cristiana ne fa un bene tale da desiderare di lasciare la
vita terrena, con la conseguenza che solo i peccatori hanno paura dell’aldilà.
Con Agostino, Pietro Crisologo e Leone Magno, la morte però comincia
ad essere considerata anche come un evento doloroso, e tale da giustificare
la paura che ne consegue. Agostino considera questa paura come una partecipazione alla tristezza sperimentata da Cristo stesso nell’orto degli Olivi,
quando afferma: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mt 26,38).
Nel V secolo i predicatori considerano le reazioni umane e emotive di
fronte alla morte e tentano di dar loro una risposta specifica. È l’elaborazione del concetto del peccato originale che lo permette. L’uomo piange la morte perché essa è estranea alla sua natura originaria, è la conseguenza del peccato di Adamo.
Nell’ora della morte, questa prospettiva può provocare una presa di
coscienza che diventa elemento della salvezza. La paura della morte
ricorda ai cristiani la sua natura peccaminosa e deve portarli a rimettersi
alla misericordia di Dio. La spiritualità cristiana vede a poco a poco in
una prospettiva inquietante la salvezza. Se pur il pensiero del giudizio di
Dio non deve condurre alla disperazione — il cristiano, se peccatore,
deve porre la sua fiducia nella misericordia di Dio — tuttavia un atteggiamento penitenziale connota la spiritualità.
5. A. Donghi, Io sono la risurrezione e la vita La pastorale del morire cristiano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, p. 19
6. E. Rebillard, In Hora Mortis. Evolution de la pastorale chrétienne de la mort aux IV
et V siècles, Ecole Française de Rome, Roma 1994
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Nell’ora della morte è possibile avere un aiuto. Comunicarsi negli ultimi istanti è il gesto di abbandono fiducioso ma non suppone l’espiazione dei peccati. La penitenza in extremis è concessa, ma a coloro che non
ne hanno più diritto avendola ottenuta già una volta, è concesso, a mo’
di consolazione, il Viatico.
Per considerare la portata di queste convinzioni è necessario richiamare ancora il ruolo di Agostino. Il peso dei suoi scritti, la forza del suo
pensiero, la lucidità del suo cammino intellettuale sembrerebbero in effetti eclissare gli altri predicatori, tuttavia la storia della cristianità latina
non può scriversi in funzione del solo Agostino. È infatti importante ricordare la predicazione di Leone Magno (440–461) e soprattutto quella
di Pietro Crisologo (n. 425–429, m. 449–458) più interessanti per una
storia della pastorale meno conosciuta.
La paura della morte non è in questi Autori meno esplicita che in
Agostino, ma ora non è più presentata come una debolezza o una mancanza di fede.
Leone il Grande arricchisce e chiarisce pertanto gli sviluppi esegetici
di Agostino delle parole di Cristo pronunciate nell’agonia, ma rifiuta più
energicamente di Agostino nei suoi sermoni tutti i discorsi sulla beneficenza della morte e moltiplica gli esempi delle figure bibliche che avevano mostrato paura della morte: l’angoscia, anche nel lutto, non è incompatibile con la fede.
Leone Magno e Pietro Crisologo sono ben agostiniani quando insegnano il peccato originale, ma nella pastorale, per rispondere alle paure
che un tale insegnamento può suscitare, considerano degli elementi originali. Leone il Grande fa del ciclo liturgico lo strumento di una penitenza continua e collettiva, Pietro Crisologo raccomanda una penitenza
più individuale nell’ora della morte. Tuttavia, la penitenza continua che
sembra divenire la norma della spiritualità cristiana nel V secolo non è
indissolubilmente legata alla teologia agostiniana del peccato originale.
La pastorale cristiana della morte conosce quindi dei cambiamenti
considerevoli: l’angoscia della morte e la paura del giudizio, prima sentimenti negativi e condannabili, divengono ora, nella predicazione, sentimenti umani giustificabili.
Nel IV e V secolo i cristiani non sono più disposti ad un ideale eroico nei confronti della morte. Il tema della paura della morte sembra
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riassumere le tensioni che attraversano il cristianesimo del tempo. È la
ragione per la quale lo studio della pastorale dei morenti evidenzia delle rotture nella storia della spiritualità cristiana. Queste rotture troppo
spesso sono ignorate dalla storia delle dottrine o da un approccio teologico nella preoccupazione di salvaguardare una continuità di tradizioni.
La rottura, di cui si è parlato, evidenzia il succedersi di una spiritualità penitenziale ad una battesimale: ad una spiritualità per la quale il battesimo è la chiave della salvezza fa seguito una spiritualità nella quale la
penitenza è la condizione del perdono.
Poi, dal XII al XIII secolo la dimensione sociale inizia a restringersi,
coinvolgendo in via sempre più esclusiva il singolo individuo, a seguito
dell’influsso dell’ambiente monastico–canonicale. Questa fase che si è
definita come la “morte di sé”, evidenzia come il senso del destino sia
spostato dalla comunità all’individuo e la morte sia vista come la distruzione di una identità 7.
Durante il Medioevo, in cui si visse “polarizzando ogni attività terrena in funzione della morte” 8 non si ritrova il lutto per la perdita di persone amate, bensì il rammarico per la propria morte imminente che
incute soltanto terrore 9, e la buona morte è quella conosciuta, pubblica,
che non prendeva alla sprovvista 10, poiché la morte improvvisa ed inaspettata non lasciava alcuna occasione per ricevere i sacramenti dei moribondi. Nel tardo medioevo e all’inizio dell’evo moderno la paura della
morte inaspettata trovò ancora una volta espressione, motivata come
timore della perdita dell’eternità nel caso in cui non si fosse ricevuta
l’Estrema Unzione 11. Del resto è da tener presente che “i cavalieri della
chanson de geste o dei più antichi romanzi medioevali muoiono avvisa-
7. Ph. Ariés, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano 1968; Id. L’uomo e la
morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Bari 1980; cfr. anche Vovelle, La Morte e l’Occidente,
Laterza, Bari 1987
8. P. Brezzi, La civiltà del medioevo europeo, Eurodes, 1978, p. 392
9. J. Huizinga, L’autunno del Medio Evo, Sansoni, Milano 1966, p. 203
10. M. Vovelle, La morte e l’occidente, Laterza, Bari 1986, p. 9
11. W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Einaudi, Torino 1980,
p. 91
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ti” e non per morte improvvisa, che era considerata terribile 12. La morte,
quindi, era anche ciò che in fondo dava senso alla vita.
Il morente presiede, celebra la sua morte, ne percepisce i segni. Nel
caso di impossibilità, interviene nell’annuncio un personaggio, il nuntius
mortis, di solito il medico curante o il ministro del culto, come veniamo
a conoscere dalle Ars moriendi del XV secolo.
La morte era sempre preannunciata in un tempo in cui le malattie più
gravi erano quasi sempre mortali. Anzi quando il principale interessato
non si accorgeva per primo del suo stato toccava agli altri il compito di
avvertirlo, tant’è che un documento pontificale del Medioevo l’attribuiva al medico, come un dovere 13.
La preoccupazione per la salvezza era tale che nel Sinodo di Cassano
allo Ionio del 1588 è riportato il formulario della Bolla di Pio V, in cui
si fa esplicito divieto ai medici di prendersi cura degli ammalati che non
si siano confessati entro tre giorni: “Tutti i medici ogni volta che saranno chiamati per curare gli infermi, che giaceranno a letto, l’abbiano d’avvisare, che si confessano, non essi medici possono visitarli più di tre giorni s’il confessore non giudicasse per qualche causa concederli più tempo
sopra di che si grava la coscienza del confessore. Passato il detto tempo
di tre giorni i medici non medicheranno ad un infermo, se non avranno
la fede in iscritto del confessore che l’ammalato sia confessato” 14.
Nel Medioevo il concetto di trascendenza, della relazione con l’aldilà,
è determinante anche per l’interpretazione della salute, della malattia e
della morte. Nel quadro di tale concezione la prospettiva cosmologica e
antropologica dell’umanità è integrata in una dimensione trascendente
in base alla quale salute, malattia e morte, vengono considerate come un
momento della relazione del mondo con Dio. Per il malato del Medioevo che pensa cristianamente, la sua malattia è una manifestazione
necessaria dell’esistenza terrena. Per il medico che pensa pure cristianamente le sue azioni sono la possibilità di anticipare sulla terra un processo di salvezza che ha il suo termine solo con la risurrezione, cioè con il
12. P. Ariés, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano 1987, p. 18
13. A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1978, p. 312
14. P. Ariès, Storia della morte in occidente, Bur, Milano 1987, p. 191
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ritorno in paradiso dopo essere passati per l’esistenza terrena. Dietro
ogni malato e dietro ogni medico vi è la figura di Cristo. Infatti alla passio Christi tutti possono partecipare, e nel Christus medico ogni medico
può trovare un punto di riferimento. Il medico deve infondere nel paziente la speranza, la speranza terrena, ma anche la speranza nell’aldilà,
deve dare al paziente sia una speranza trascendente, sia una speranza immanente. Altrettanto importante è la concezione delle opere di misericordia, fra le quali il seppellire i morti.
Nel Medioevo è possibile vedere la malattia anche come qualcosa di
positivo: si parlava infatti di una infirmitas saluber, di una malattia salubre
e di una salute perniciosa, perché nella condizione di malato, l’uomo è sollecitato a ricordarsi della sua condizione umana, che è quella di essere gracile, limitato, finito e in ultimo destinato a morire.
Per quanto riguarda l’accompagnamento del morente, c’è poi una significativa stagione storica che merita di essere ricordata 15. Nel secolo
XV, in pieno umanesimo, probabilmente partendo dalla Germania del
sud, cominciò a diffondersi un originale genere letterario, quello dell’ “ars
moriendi”, che in poco tempo si diffuse in tutti i paesi. Sono tre le forme
in cui il nuovo genere si esprime: c’è anzitutto la raccolta abbastanza distesa (una ventina di pagine) di testi e preghiere; poi la forma caratterizzata dal tema delle cinque tentazioni, metà testo e metà illustrazioni,
usato soprattutto in Germania (le tentazioni estreme da superare riguardavano la fede, la speranza, la pazienza, la vanagloria e l’avarizia); finalmente il genere più agile formato da scritti brevi (brani biblici, piccole
preghiere e riflessioni) con illustrazioni corrispondenti ai testi. In complesso, una forma indovinata di presenza pastorale, una agile forma di
meditazione sul tema della morte, uno strumento di lavoro utile sia a coloro che morivano che a coloro che assistevano i morenti. Le forme variano, ma gli elementi sostanziali rimangono gli stessi: “Miscellanea di
autori cristiani sulla morte; avvertimenti ai moribondi sulle tentazioni
cui sono esposti; nuclei di catechesi e abbozzi di risposte agli interrogativi da cui il moribondo può essere assalito; preghiere e precetti per imitare il Cristo moribondo; consigli alle persone che assistono il moribon15. G. Frosoni, Aspettando l’aurora Saggio di escatologia cristiana, EDB, Bologna
1994, pp. 143–146
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do; esempi e formulari di preghiere da recitarsi da parte di coloro che
assistono il moribondo” 16. C’erano stati in precedenza scritti di maggiore impegno che, anche se provenienti da esperienze diverse, avevano un
unico scopo: sollecitare un salutare ripensamento della morte per dare
senso e significato alla vita. Si allude soprattutto ad alcune opere di Enrico Susone (1296–1366), ai Trionfi e al Secretum di Francesco Petrarca
(1304–1374), e all’inizio del secolo XV (1404), all’Opusculum tripartitum
di Giovanni Gersone, docente all’università di Parigi. L’Opus tripartitum
è precedente al 1408 ed è la fonte di buona parte delle Ars moriendi. Altre fonti importanti si possono ritrovare nella Bibbia, nei Padri, nelle liturgie medievali, nelle affermazioni papali e conciliari, nelle raccolte patristiche medievali e nella letteratura religiosa e dottrinale del tardo Medio Evo. La paternità dell’Ars moriendi è ancora dubbia, ma vi sono buoni motivi per localizzarne la composizione nella Germania meridionale,
al tempo del Concilio di Costanza (1414– 1418), e all’interno dell’Ordine domenicano.
Una svolta della sensibilità collettiva si opera tra la seconda metà e gli
inizi del XVI e sfocia nel senso della decomposizione e della miseria fisica 17.
Anche il Petrarca, ad esempio, quando descrive nel Secretum con crudo
realismo lo sfacelo fisico del morente è convinto che sia cosa utile osservare abitualmente casi di morti “affinché il triste e miserando spettacolo
offerto agli occhi ammonisca sempre la memoria dei superstiti e allontani
gli animi loro da ogni speranza del mondo fugace”.
Johan Huizinga e altri studiosi situano l’Ars moriendi all’epoca stessa
della danse macabre, dei libri delle piaghe, dell’arte funeraria macabra e di
altre manifestazioni che manifestano l’ossessione per la morte del tardo
Medio Evo, un’ossessione forse derivata dalla grande peste arrivata in Europa nel 1348 e che si protrasse per diversi secoli. Mentre la vasta popolarità dell’Ars moriendi può sorreggere tale opinione, il suo contenuto
generalmente non lo fa. È vero che le sue incisioni sono popolate da folle
di demoni, e che il moriens appare come un uomo che sta per morire, ma,
16. A. Autiero, Introduzione in Erasmo da Rotterdam, La preparazione alla morte,
Paoline, Roma 1984, p. 13s
17. A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1978, p. 269
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nel complesso, vi è poco di macabro nei consigli suggeriti dall’opera. Il
suo scopo non era quello di terrorizzare, ma quello di indicare le modalità per “avere” una buona morte, e sempre nella prospettiva del Paradiso,
non degli orrori dell’Inferno.
Per una società i cui membri consideravano la morte come un passaggio verso l’aldilà, un manuale sull’arte di morire aveva una funzione
estremamente pratica 18.
Con l’andar del tempo il genere dell’Ars moriendi si evolve, si tramuta arricchendosi lentamente fino a sfociare in composizioni di più ampio
respiro, che ormai confinano con il trattato. In estrema sintesi si può ricordare La preparazione alla morte di Erasmo da Rotterdam composta nel
1534, che, divisa in due parti (Il cristiano di fronte alla morte e Il modo di
prepararsi alla morte) vuole essere una proposta di fede sul rapporto del
cristiano con la morte durante la vita e nell’ora della morte stessa. Erasmo ricerca punti di incontro tra la cultura classica e la fede cristiana. Ma
la fede ha nettamente il sopravvento: solo in Cristo, la morte trova il suo
ultimo e vero significato.
In Occidente, poi, a partire dal XV secolo, dopo l’epidemia di peste
nera che devastò l’Europa, i predicatori fanno sempre più sovente appello alla paura della morte e alla minaccia del giudizio e dell’inferno, tanto
che certuni non esitano a salire sul pulpito tenendo in mano un teschio.
Sperano così d’indurre i fedeli alla conversione. Questa prassi pastorale
rifiuta la realtà terrena ed esalta l’ideale ascetico che dispregia la gioia e i
divertimenti, l’allegria e la sessualità. Di fronte alla vanità del mondo,
non resta che fissare lo sguardo sull’aldilà. 19
Il De Arte bene moriendi (1618) di R. Bellarmino insegna a vivere bene per
morire bene. E vivere bene significa “morire al mondo”; ciò non significa
disprezzo e rifiuto delle realtà terrene, ma distacco interiore, nuovo modo di
porsi di fronte alle cose, non dimenticando che è Dio stesso che ci chiede di
custodire e amare i valori del mondo creati da lui stesso.
L’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso M. de’ Liguori (la prima edizione è del 1758) ha avuto una diffusione incredibile. Inquadrato nei suoi
18. B.B. Copenhaver, Ars moriendi, in S. Spinsanti, La morte umana Antropologia
diritto, etica, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 88–90
19. I. Chareire, La risurrezione dei morti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, p. 38
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esercizi spirituali, il libro è sostanzialmente un itinerario di conversione
dal peccato all’amore. Collocato di fronte alla morte, il lettore è consigliato di fare la scelta del suo stato di vita, distaccarsi dal peccato, aprirsi nella grazia agli orizzonti dell’amore divino. Lo spirito è notevolmente cambiato rispetto al sereno equilibrio del Bellarmino, forse c’è al fondo
una certa svalutazione delle cose terrene e ritorna il gusto delle descrizioni macabre della morte e del cadavere, ma l’intento è ancora lo stesso: dare alla morte un posto di rilievo non soltanto nel momento terminale, ma in tutti i giorni della nostra vita.
Nel Settecento in particolare nei libri di buona preparazione alla morte
si raccomandava di “ricordarsi che il sonno è figura della morte” 20 e se la
morte era dunque considerata “un sonno senza risveglio”, l’idea di morire
senza alcun preavviso “non era poi di gradimento”. E quando si parla della
morte, si ricorreva a perifrasi e anche coloro che non credevano nell’aldilà
parlavano di “viaggio”, di “traversata”, di “sonno”, di “porto” o di “porta” e di
“rifugio”, cioè si usavano termini che implicano più o meno ambiguamente l’idea di un cammino e di una meta.
La morte è una actio pubblica. Come la nascita, è considerata una
tappa fondamentale della vita della persona. Come la nascita è organizzata dai genitori, così la morte è celebrata dall’interessato, che la prepara come una azione liturgica.
Il protagonista, sentendo avvicinarsi la morte o di essa avvertito, raduna i parenti e gli amici, esprime le ultime dichiarazioni, chiede e concede
il perdono, dà disposizioni per la sua sepoltura e per il suo patrimonio.
Il rituale preparatorio si articolava in tempi scanditi dalla calma e dalla naturalezza: due elementi che mostrano un inconsueto (almeno per
noi) rapporto di familiarità con la morte, destinato a rimanere immutato
per secoli. Prima di tutto il morente si lasciava andare a un nostalgico
ricordo delle cose e delle persone amate, con una breve sintesi degli eventi maggiori della sua vita, ricordati senza enfasi né eccessivo rimpianto:
non mancava quasi mai un pensiero rivolto ai figli e alla moglie, mentre
assai più di rado venivano menzionati i genitori. Dopo il ricordo nostalgico della sua vita, il morente chiedeva perdono: agli amici, alla sposa, ai
20.
J. Mc Manners, Morte e illuminismo, il Mulino, Bologna 1984, p. 274
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figli e a quanti aveva recato ingiustizia. E poi concedeva il suo perdono
a chi gli aveva fatto dei torti. A questo punto il morente prendeva congedo dai presenti, raccomandava l’anima a Dio recitando un atto di contrizione purificatorio — il suo lasciapassare per la vita eterna — e finalmente si disponeva ad aspettare la morte: in silenzio, le mani tenute
giunte, il volto rivolto verso il cielo, lo sguardo a oriente.
Se la semplicità ordinata, sequenziale e stereotipata del rituale era uno
degli elementi necessari per conferirgli il marchio di una procedura protettiva e salvifica, l’altro elemento essenziale era il suo essere pubblico. Il
morente doveva porsi al centro di una adunanza di persone perché più
della morte si temeva il morire nell’abbandono, in solitudine, senza testimoni: solo attraverso la testimonianza pubblica dell’aver adempiuto allo
specifico rituale del morire, insomma, si poteva morire in pace, con la
certezza di aver mostrato agli altri quel che gli altri si aspettavano di
vedere e di sentire. In questo suo essere pubblico, il morire richiamava a
sé anche i bambini: e questo in ottemperanza a un preciso costume del
tempo, perché si voleva che i bambini venissero in contatto con la morte
e ricevessero, con spontaneità ed efficacia, gli insegnamenti di un evento
naturale che a parole si faticava a trasmettere, tanto grande era il mistero del morire 21.
Si passa così dall’attenzione della comunità alla dimensione più affettiva e familiare. La famiglia nelle sue componenti affettive assume un
ruolo importante nella lettura dell’evento del morire. Tuttavia è importante mettere in luce che i parenti piangevano la separazione fisica del
defunto e non più il fatto del morire. Al contrario, la morte cambia volto
e cessa di essere triste, viene esaltata come un momento desiderabile: è
diventata patetica e bella come la natura. Il desiderio che l’amato continui a vivere faceva apparire la visione della morte come una sorte lieta.
Ma la morte non si sarebbe potuta presentare con il volto della bellezza
suprema, se non avesse allora cessato di essere associata al male, al peccato, alla pena morale 22.
21. G. Macellari, La morte tra medicina e filosofia, in AA.VV., La Fine della Vita. Per
una cultura e una medicina rispettose del limite, Apèiron, Bologna 2001, p. 167–168
22. A. Donghi, Io sono la risurrezione e la vita La pastorale del morire cristiano,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, pp. 21–22.
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Solzenicyn testimonia il persistere di questa prassi in certe zone della
Russia: “Adesso egli ricordava come morivano i vecchi nei suoi luoghi nativi, fossero russi, tartari o votjak: non facevano i fanfaroni, non si ribellavano, non si vantavano che non sarebbero morti mai, anzi si preparavano
in silenzio e piano piano, decidevano a chi sarebbe toccata la cavalla, a chi
il puledro. Spiravano tranquilli, quasi traslocavano in un’altra isola” 23.
L’anziano d’altra parte era considerato un testimone privilegiato di tradizioni culturali e religiose, che fondavano il suo ruolo, davano un senso
alla sua vita e regolavano i rapporti intergenerazionali. In questa visione,
la consapevolezza della morte era fondamentale: si pensava infatti che
proprio l’avvicinarsi al morire favorisse il dispiegarsi di una saggezza, alimentata dalla lunga esperienza e ormai svincolata dalle urgenze della
quotidianità. La preparazione alla morte diveniva pertanto un vero e proprio compito evolutivo, sia ispirato da valori religiosi che sociali e culturali. Fare testamento, per esempio, era ritenuto un dovere grave e non solo
perché risolveva un problema economico — l’eredità economica era talvolta irrilevante — ma perché, per un verso rappresentava una preparazione interiore concreta alla morte possibile e, per un altro, consentiva di
esprimere le ultime volontà, termine con cui si intendeva quanto di più
profondamente personale (le ultime parole) si affidava alla memoria di chi
sopravviveva 24.
Seguendo la sistematizzazione di Ariés, già citata, è questo il periodo
della “morte addomesticata”, cioè il periodo nel quale la morte è insieme
prossima, familiare, subìta come un evento naturale.
A partire dal XVIII secolo succede la fase della morte romantica e la celebrazione si carica di una forte emotività. Il protagonista, oltre che soggetto
che celebra, diventa anche oggetto di commozione. Gli astanti non hanno
più solo il ruolo di assistere alla scena, non sono più comparse, ma condividono il protagonismo piangendo durante l’agonia, strappandosi le vesti,
digiunando. La sola idea della morte commuove. È l’epoca delle “belle
morti”, impregnate di patetico, e del culto dei morti 25.
23. A. Solzenicyn, Divisione Cancro, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 128
24. L. Pinkus, L’accompagnamento spirituale di chi muore, in L.Pinkus, A. Filiberti,
La qualità del morire, F. Angeli, Milano 2002, p. 61
25. S. Spinsanti, Umanizzare la malattia e la morte, Paoline, Milano 1980, p. 13
28
Capitolo I
Ancora nel XVIII secolo, in Francia, ma questo vale anche in ambito
più generale, fatta eccezione per la zona protestante, oppure per i casi di
morte improvvisa, ben pochi erano quelli che morivano senza aver ricevuto i “conforti” della Chiesa. Di modo che “secondo la sapienza popolare
quando il medico salassava il paziente per la terza volta, allora era il tempo
di chiamare il prete perché somministrasse i sacramenti 26.
Agli inizi dell’Ottocento, il medico restava l’accompagnatore della
buona morte, secondo le nuove norme laicizzate. La morte familiare o addomesticata era insomma una morte che somigliava anche alla vita. La
morte improvvisa è sempre temuta perché essa può sorprendere in peccato mortale e rendere impossibile il pentimento 27.
E «chiunque poi poteva seguire il sacerdote che recava il sacramento
nella casa del morente, fino alla stanza dove questi giaceva. Anzi, c’era una
indulgenza che conferiva la remissione di quaranta giorni di pene nel
Purgatorio per chi si associava a tale opera buona» 28.
Se fino alla metà del XIX secolo l’atteggiamento nei confronti della
morte ha subìto cambiamenti, ma così lenti che i contemporanei non se ne
accorgessero, da circa un terzo di secolo si assiste ad una rivoluzione brutale delle idee e dei sentimenti tradizionali. Fattori di carattere sociale, economico, politico, sanitario portano la morte in un contesto che non si può
definire di neutralità. Si manifesta allora una negazione della morte: la
morte non può essere più accettata, né accettabile, si tenta di eliminarne
l’idea, tanto da nasconderla allo stesso morente 29.
Questo cambiamento è stato descritto come il passaggio dall’antica morte addomesticata, alla morte diventata invece “selvaggia”. Che significa
morte “selvaggia”? Una constatazione comunemente e ripetutamente fatta è
che la morte nella società attuale avviene in una grande povertà di relazioni e di significati. La società attuale è una società che mentre, da un parte,
appare quanto mai ricca di mezzi e in grado di garantire tante possibilità alla
26. A.Corlieu, La mort des rois de France, Paris 1873, p. 125
27. L. Soimero, M.T. Tasini, M. Fagioli, Morte improvvisa. Storia del concetto, cause
e meccanismi, Armando, Roma 1992, p. 24
28. J McManners, Morte e Illuminismo, il Mulino, Bologna 1984, p. 324
29. F. Cattagni, Ed è subito sera La vita accanto a chi muore, Casa di cura “Capitanio”/Domus Salutis, Milano 1999, p. 46
La morte nella società contemporanea
29
vita dell’uomo e alla cura della malattia, dall’altra mostra di essere povera e
arida nell’accompagnare o nell’assistere chi muore, nel dire “come si fa” a
morire. E questo rappresenta una novità nella storia dell’umanità 30.
Da un punto di vista sociale, quello che si può notare è che nel passato
la morte era considerata “come una parte naturale della vita sempre dietro
l’angolo, a causa del rischio di morte durante il parto, della mortalità infantile, degli incidenti sul lavoro e di molte malattie epidemiche. Nella maggior
parte dei casi, gli ammalati ricevevano assistenza in casa. Essi facevano parte
di un sistema sociale che generalmente si sentiva responsabile dell’assistenza e della dignità della persona. La morte era accompagnata da riti, simboli e azioni — specialmente i funerali — che facevano parte della loro cultura. La morte era una dimensione della vita, e i morti venivano onorati” 31.
Stupisce perfino notare come una morte istantanea e improvvisa — in
epoche dove i farmaci antidolorifici erano pochi e neppure molto efficaci — veniva ritenuta una sciagura, al punto che, per esempio, nelle
Litanie dei Santi della liturgia cattolica, che venivano recitate periodicamente, vi era una precisa invocazione: “A subitanea et improvisa morte,
libera nos Domine” 32.
Poi, nel corso degli anni sessanta del XX secolo, quando venne sviluppata la terapia intensiva, apparve evidente che la priorità dell’assistenza medica era di salvare la vita. I pazienti ricevevano una terapia intensiva con una
grande profusione di apparecchiature tecniche, che certamente prolungavano la vita, ma i bisogni spirituali e psicologici cominciano a non essere considerati importanti. La morte viene così istituzionalizzata e individualizzata,
ovvero spostata dalla casa ( la casa è diventata poi “appartamento”) al più
anonimo ambiente ospedaliero, dove spesso il paziente aspetta la morte senza la presenza o l’assistenza dei parenti.
Fino ad allora, in tutto l’Occidente di cultura latina, cattolica o protestante, la morte di un uomo modificava solennemente lo spazio e il tempo
30. C. Salvetti, Senso del morire e pastorale dei funerali. La morte e la sua celebrazione
I, “La Rivista del Clero Italiano” (2002), 10, p. 674
31. Conferenza Episcopale della Scandinavia, Lettera pastorale Prendersi cura della
vita, “Il Regno — Documenti” (2002), 9, pp. 292–298
32. L. Pinkus, L’accompagnamento spirituale di chi muore, in L.Pinkus, A. Filiberti,
La qualità del morire, F. Angeli, Milano 2002, p. 61
30
Capitolo I
di un gruppo sociale che dalla famiglia poteva estendersi all’intera comunità, al villaggio. Ma ora, il modello della morte è contrassegnato dal sentimento della privacy. La medicina prende il posto della comunità, la morte
è in ospedale, dove le emozioni devono essere bandite, in una camera anonima, circondati da personale professionale, in genere poco preparato per
accompagnare chi muore. Sempre più raramente poi i familiari portano a
casa il loro caro che, invece, viene in genere composto in una camera mortuaria dell’ospedale, impietosamente inaccogliente e fredda. Accade, e questo soprattutto nelle città, che anche la liturgia religiosa non venga celebrata nella propria parrocchia ma nella cappella dell’ospedale o del cimitero.
Anche in questo modo vengono dissolti i legami del territorio e quella solidarietà che tiene unita una comunità che viene dal vissuto religioso 33.
Si è osservato così che gli effetti dannosi della medicina moderna costituiscono una iatrogenesi clinica, sociale e culturale. Questa iatrogenesi
fa sì che la medicina indebolisce l’abilità delle persone di affrontare la loro
realtà, di esprimere i loro valori e di accettare il dolore inevitabile e spesso
irrimediabile e il deterioramento, il declino e la morte 34.
Questa iatrogenesi culturale causa la dipendenza delle persone, nelle
società moderne industrializzate, dalle cure mediche per risolvere tutti i
loro problemi. La morte è vista allora, meno come parte inevitabile della
vita e più come un fallimento del trattamento terapeutico. Molti medici
credono che un paziente stia morendo non a causa della malattia di cui
soffre, ma perché non ci sono ulteriori strategie mediche o tecnologiche
disponibili per tenerlo in vita 35.
La morte così non è più interpretata come epilogo biologico inevitabile ma come fallimento. La morte cioè è trasferita dalla natura nel regno
medico, nel regno della responsabilità umana 36.
33. C. Salvetti, Senso del morire e pastorale dei funerali. La morte e la sua celebrazione
I, “La Rivista del Clero Italiano” (2002), 10, p. 676–677
34. I. Illich, Limits to Medicine Medical Nemesis: the Expropriation of Health, Penguin Books, Harmondsworth 1976, p. 133
35. W. Dekkers, Tornare a casa. Sullo scopo delle cure palliative, in S. Privitera, a cura
di, Vivere “bene” nonostante tutto. Le cure palliative in Europa e in Italia, ISB, Acireale
1999, pp. 42–42
36. D. Callahan, The troubled dream of life. Living with mortality, Simon & Schuster, New York 1993, p. 64
La morte nella società contemporanea
31
È poi intervenuta la convinzione del passaggio da una concezione statica della natura — che comportava la sua idealizzazione come forma perfetta di quanto esiste e quindi, proprio in quanto tale, indiscutibile e intangibile — ad una concezione dinamica. In campo scientifico, cioè, è oggi
opinione universale e indiscussa che la natura sia “in processo” benché,
riguardo all’andamento di tale processo, esista una vasta gamma di posizioni molto differenti, che vanno dalla convinzione di una sua intrinseca
finalità fino all’affermazione di una causalità che confina con il caos o l’annullamento. Questa concezione ha portato alla attenuazione, se non alla
perdita, di una distinzione chiara fra quanto è naturale e quanto è invece
artificiale, rimettendo radicalmente in questione, anche in campo biomedico, giuridico ed etico, il valore della storia e delle esperienze collegate, le
finalità della ricerca scientifica e delle regole etiche che debbono guidarla.
Tale cambiamento ha prodotto un dibattito sulla vita e sulla morte che,
nonostante i documenti di diversi Comitati di Bioetica, è tutt’ora in corso;
esso riguarda il valore degli aspetti qualitativi e quantitativi del vivere ed il
loro reciproco rapporto, con tutti gli interrogativi e le conseguenze operative che tali questioni comportano: dal decretare il momento in cui inizia
la vita, al diritto o meno di modificarne il decorso (es. manipolazione genetica), fino allo stabilire il momento della morte (p. es. in funzione dell’espianto degli organi) o la legittimità dell’eutanasia. Il venir meno della nozione tradizionale di natura ha avuto, tuttavia, alcune conseguenze negative per quanto riguarda la capacità di guardare in faccia la morte: nascita e morte non sono più epifenomeni di una storia naturale, ma quasi capitoli di una enciclopedia scientifica, magari con i nomi di tanatologia e procreatica; cioè ha reso inadeguati gli atteggiamenti maturati nel corso di
esperienze secolari, senza tuttavia riuscire a produrre — fino ad oggi — dei
modelli alternativi, idonei ad affrontare ed elaborare le più importanti
esperienze umane, in primo luogo appunto la morte 37.
La riscoperta del senso della sofferenza e della morte è però condizione indispensabile per avviare e sviluppare la vera cultura della vita 38.
37. L. Pinkus, L’accompagnamento spirituale di chi muore, in L. Pinkus, A. Filiberti,
a cura di, La qualità della morte, F. Angeli, Milano 2002, p. 59
38. cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 35
32
Capitolo I
2. La paura della morte
Provare una paura profonda, che è in realtà una delle angosce esistenziali fondamentali, di fronte al pensiero della morte, è qualcosa di connaturato all’essere umano. È normale che una persona abbia dubbi e
timori di fronte al mistero che comporta la morte. Anche per le persone
che credono in un “aldilà”, la morte resta comunque avvolta da un tremendo mistero ed è portavoce di un vuoto inesplorato e sconosciuto 39.
Emblematico a questo proposito può essere il racconto sulla morte di
Mosè, contenuto nel Midrash Rabbah — il più famoso corpus di testi
midrashici che commenta il Pentateuco. Il Midrash è in particolare un
commentario rabbinico che ha lo scopo di insegnare, più che di spiegare. Mentre è difficile datare un singolo midrashim, si può affermare che
la raccolta di questi ha le sue origini nell’epoca tannaitica e si estende
fino a circa il X secolo dell’era volgare.
Il Midrash Rabbah, commentando Deuteronomio 31,14 “E il Signore disse a Mosè: “I tuoi giorni si avvicinano al momento della morte…”, evidenzia che fu scritto tenendo ben presente la natura umana e
che la natura umana non è cambiata molto in 1700 anni 40.
Mosè, infatti, aveva avuto un lunga vita piena di eventi, anche se difficoltosa, — “Aveva centoventi anni quando morì; ma il suo occhio non
si era velato né la sua freschezza era venuta meno” (Dt 34,7) — ma non
è pronto a morire.
Quando Dio lo informa che morirà presto, e senza entrare nella terra
promessa, obiettivo per il quale aveva dedicato la vita, la prima risposta
di Mosè è la negazione. Il Midrash ci dice:«… L’Alta Corte gli rivelò se
stesso e dichiarò: “È mio volere che tu non passerai oltre,” “Perché non
passerai questo Giordano” (Dt 3,27)». Mosè, udito questo, esclamò,
“Israele ha commesso molte volte grandi peccati, e ogni volta io ho pregato per lei, Dio immediatamente rispose alla mia preghiera… (Es
32,24; Nm 14,12). Vedendo quindi che io non ho peccato con la mia
39. V. Madoz, 10 parole chiave sulle paure dell’uomo moderno, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 154
40. C. M. Berkowitz, Moses meets Kübler–Ross: The Five Stages Toward Accepting
Death as Seen in the Midrash “The Journal of Pastoral Care, (2001), 3, pp. 303–308
La morte nella società contemporanea
33
bocca, dov’è la ragione per la quale quando io prego nel mio interesse,
Dio non dovrebbe rispondere alla mia preghiera?”
Mosè non vuol credere che il volere di Dio sia vero: “Quando Mosè
sente la volontà che era stata deliberata contro di lui, in collera, tracciato un piccolo cerchio e stando in esso, esclamò: “Io non mi muoverò da
qui fino a che il Signore annulli la sua sentenza”.
E, in questo cerchio che possiamo leggere come una situazione di isolamento, egli grida al Signore l’ingiustizia del suo volere. “È questa la
ricompensa per i quaranta anni di lavoro che io ho speso per far sì che
(Israele) diventasse un santo popolo pieno di fede…?”
Dopo questo sfogo, la volontà di Mosè si indebolisce ma non vuole
ancora arrendersi. Dopo solo una ora, dice il Midrash, comincia la fase
della trattativa:
“Dopodiché Mosè disse a Dio, “Signore dell’Universo, se Tu non vuoi
che io entri in Eretz Israel (la terra di Israele), lasciami nel mondo così
che io possa vivere e non morire…?” Disse Mosè a Dio, “Signore
dell’Universo, se Tu non vuoi che io entri in Eretz Israel, lasciami divenire come gli animali del campo che mangiano erba e bevono acqua e
vivono e rallegrano il mondo… Signore dell’Universo, in caso contrario,
lasciami divenire in questo mondo come un uccello che vola in ogni direzione e accumula giornalmente il suo cibo e ritorna al suo nido ogni sera;
lascia che il mio spirito divenga simile ad uno di loro”.
Gli argomenti sollevati da Mosè evidenziano i suoi disperati sforzi di
evitare la morte, fino ad arrivare a mettere in gioco la sua stessa umanità.
È una trattativa che cerca di prospettare più ipotesi per rimanere in vita.
Ma Mosè non ha molto tempo, così, anche per le cure e il supporto di
quanti lo circondano, inizia un cammino di graduale accettazione della
sentenza. Intanto, Sammael, l’angelo malvagio, il capo di tutti gli angeli
accusatori, stava aspettando la sua morte dicendo: “Quando sarà il momento di Mosè per morire, che io possa discendere e portar via il suo spirito da lui?”
Poi Mosè rilegge la sua vita e racconta all’angelo Sammael le esperienze ed i successi della sua vita: “... Io sono il figlio di Amram… quando nacqui ero capace di parlare e di camminare… quando avevo tre mesi profe-
34
Capitolo I
tizzai… quando avevo 8 anni feci segni e miracoli in Egitto e riportai
miriadi di persone davanti agli occhi di tutto l’Egitto… io ricevetti la legge
del fuoco e stetti sotto il trono di fuoco di Dio… io ho fatto guerra a Sihon
e Og… vi è qualcuno tra gli uomini che è capace di fare questo?”
Tuttavia, Mosè non desidera consegnare il suo spirito a Sammael, così
che quando Dio stesso si offre di assisterlo, il servo di Dio comincia ad
accettare sempre più la sua morte imminente. Questa sezione del Midrash è basata su un versetto biblico “Mosè, servo del Signore, morì là,
nel paese di Moav, secondo il volere del Signore. Lo seppellì nella valle,
nel paese di Moav, di fronte a Beth Pe’or e non si conobbe mai il luogo
della sua sepoltura fino ad oggi” (Dt 34,5–6). Il versetto sembra affermare esplicitamente che Dio seppellì Mosè e che nessun essere umano
era presente.
Il Midrash afferma ancora: Disse Mosè a Dio: “Signore dell’Universo,
ricorda il giorno quando Ti rivelasti a me nel cespuglio, ricorda il tempo
quando io stetti sul monte Sinai per quaranta giorni e quaranta notti…
Io Ti imploro, non consegnarmi all’Angelo della Morte”. Subito si sentì
una voce dal Cielo che gli disse, “Non avere paura, Io stesso mi occuperò
di te e del tuo seppellimento”.
All’ora giunta, Mosè si alzò e purificò se stesso come un Seraphim
(angelo) e Dio venne giù dal più alto dei cieli per prendere il suo spirito
e con Lui vi erano tre angeli ministranti: Michele, Gabriele e Zagzagel.
Michele distese Mosè sulla sua tomba, Gabriele pose una fine coperta di
lino al suo capezzale, Zagzagel una ai suoi piedi. Michele stette da un
lato e Gabriele dall’altro. Dio disse, “Mosè, chiudi le palpebre dei tuoi
occhi” ed egli così fece; poi Dio disse, “Poni le tue mani sul tuo torace” e
lui così fece; e ancora, “poni i tuoi piedi uno sull’altro” ed egli così fece.
Mosè ha accettato la morte e, insieme agli angeli, assume un attivo
ruolo nella sua preparazione, curando quegli aspetti del rituale ebraico che
onora il deceduto e che prevede per lui il giacere per terra, essere ravvolto in bianchi lini, essere custodito da guardiani fino al funerale.
Il Midrash conclude: “Quindi Dio baciò Mosè e prese il suo spirito
con un bacio sulla bocca, e Dio, se si può dire così 41, pianse…”.
41. “Se così si può dire” — ki–vjakhol — è la clausola di cautela che i Maestri che
La morte nella società contemporanea
35
Il Midrash evidenzia quella ritrosia ad accettare la morte che è tipica
del pensiero ebraico, ove è centrale la passione per la vita 42, secondo il
biblico uvaharta bahayim, “… io ho posto davanti a voi la vita e la morte,
la benedizione e la maledizione; scegli la vita, onde viviate tu e la tua
discendenza” (Dt 30,19). Ancora, il “Mondo a Venire” che è l’espressione tradizionale che definisce la vita dopo la morte, è un termine intenzionalmente vago e riflette l’esitazione ebraica a conoscere l’esatta natura di questo mondo 43.
Il Midrash evidenzia quel tarlo che è annidato al centro della pretesa
felicità umana: è il terrore della morte che fa dell’uomo un “animale malato” che muore e sa di dover morire 44. Infatti, se per natura sua l’uomo
è mortale, ciò non significa che l’esperienza della morte sia “naturale” 45.
Il trecentoquarantesettesimo pensiero di Pascal sottolinea una importante peculiarità antropologica: “L’uomo non è che una canna; la più
debole di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia di acqua
basta per ucciderlo. Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire, e conosce la
superiorità dell’universo su di lui; l’universo, invece, non ne sa niente” 46.
Chi ha proposto l’archetipo di questa consapevolezza, riconducendolo
alla narrazione del cosiddetto peccato originale, è il filosofo ebreo Martin
Buber 47. La minaccia di morte rivolta ad Adamo nel caso che avesse colto
e mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, non
si configura come un avviso che il frutto dell’albero è velenoso e pertanto
porterà morte e nemmeno come una minaccia di punizione mortale.
interpretano la Scrittura inseriscono ogni volta che con i loro discorsi attraversano
realtà o argomenti vicini alla rivelazione e all’inaccessibilità (I. Zizzola, Aver cura della
vita, Città Aperta, Troina 2002, p. 11)
42. Rabbi J. Neuberger, Judaism e Palliative Care “European Journal of Palliative
Care” (1999), 5, pp. 166–167
43. Rabbi G. Dennis, Love is strong as Death: Meeting Pastoral Needs of the Jewish
Hospice Patient “American Journal of Hospice ad Palliative Care” (1999), 4, p. 599
44. L. Prenna, Eternità e liberazione, “L’Osservatore Romano”, 15 dicembre 1983, p. 3
45. R. Gerardi, Riflessioni etiche sul morire umano, “Lateranum”, (1988), 11, p. 119
46. B. Pascal, Pensieri, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, p. 240
47. M. Buber, Immagini del bene e del male, Edizioni di Comunità, Milano 1965
36
Capitolo I
Dicendo “Se ne mangerete sarete uccisi!” sembra invece che Dio ammonisca l’uomo circa il pericolo della conoscenza. Altro è morire come tutti
gli altri esseri; altro è conoscere da sempre la mortalità che incombe sulla
vita. Adam non incapperà accidentalmente ed inconsapevolmente nella
morte come gli altri animali o come i bambini, ma ne sarà per tutta la sua
esistenza conscio 48.
Paolo Mantegazza, uno dei fondatori dell’antropologia in Italia, scrive negli ultimi decenni dell’ ‘800: “La paura della morte non è un sentimento umano; ma animale, ma cosmico. È la ribellione d’ogni vita contro la distruzione; è il grido d’allarme di ciò che è contro ciò che non è…
È l’orrore al vuoto, l’orrore vero” 49.
La Gaudium et spes ha affermato che « in faccia alla morte l’esigenza
della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato
solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche,
e anzi, più ancora dal timore di una distruzione definitiva” (n. 18).
L’uomo, in realtà, può “discorrere della morte, ma non è in grado di
“pensarla”, nel senso di assimilarla pienamente al proprio orizzonte sensibile, perché la percepisce emotivamente come l’attimo in cui l’ignoto
oscura la coscienza. È un evento sicuro che dà senso al tempo ed alla storia, punti cardinali dell’esistenza umana; imprevedibile e fatale, interrompe il rapporto “consapevole” tra la natura e l’uomo, reintegrandolo in
essa come parte passiva tra le altre. La morte, però, è di per stessa sollecitatrice dello spirito 50.
Ha affermato Romano Guardini: «La mera corporeità, l’elemento duro, pesante, rigido equivale alla morte e infatti per rappresentare ciò che
è morte non c’è immagine più efficace, poniamo di un paesaggio lunare
o di una piramide nel deserto. Se però ci concentriamo sulla reazione del
nostro sentimento, osserviamo che questa realtà interamente corporea richiama repentinamente, mediante un peculiare contraccolpo (Antivalenz), il sentimento di qualcosa interamente spirituale. In conclusione
48. G. Franzoni, La morte condivisa. Nuovi contesti per l’eutanasia, Edizioni dell’Università Popolare, Roma 2002, p. 92
49. P. Mantegazza, Elogio della vecchiaia, Milano 1885
50. C. Costa, L’individuo, la morte e la malattia nel mondo contemporaneo, “Camillianum” (2001), 1, p. 73
La morte nella società contemporanea
37
possiamo affermare che, visto a partire dall’uomo, anche ciò che è totalmente spirituale equivale alla morte, pure se in modo diverso dall’elemento meramente corporeo. Pensiamo alla straordinaria importanza che
ha nel pensiero di Platone il collegamento dell’idea della morte con quella del puro spirito. In rapporto all’essere umano la mera corporeità come
la mera spiritualità sono forme di morte: forse potremo esprimere meglio
questa idea con un concetto formulato da Karl Kerényi: sono modalità
dell’“al di là della vita” 51.»
L’uomo nasce per vivere, e diventare adulti significa accettare le tre
grandi nascite della vita 52:
• uscire dal seno materno per nascere,
• uscire dalla famiglia per esistere nel mondo,
• uscire dal seno della terra per esistere in Dio.
La morte è soltanto un ponte tra due sponde, per questo appartiene
alla vita. Solo colui che ha esperienza della vita sa che cosa è la morte.
Solo colui che vive con le mani piene, può morire una morte piena di
vita. Solo colui che ha saputo vivere, che ha dominato la vita, che l’ha
guidata, l’ha vissuta, l’ha sperimentata, è capace di integrare, dominare,
sperimentare e vivere la morte. 53
Afferma H.S.Kushner: “In quarant’anni da rabbino, ho assistito agli
ultimi momenti di vita di parecchi uomini e donne. Molti di loro non
avevano paura di morire. Alcuni erano molto anziani e sentivano di aver
vissuto una vita abbastanza lunga e soddisfacente. Altri erano malati e
soffrivano così tanto che solo la fine della vita li avrebbe liberati dal dolore. Quelli che temevano di più la morte erano coloro che credevano di
non aver mai fatto nulla di meritevole in vita loro e che, se soltanto Dio
gli avesse dato altri due o tre anni, forse sarebbero riusciti a concludere
51. R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 192
52. P. Vinaccia, Uscire vivi dalla morte, in Archidiocesi di Napoli Consulta della
Pastorale per la Sanità, La solitudine della morte. La morte in solitudine, Guida, Napoli
2000, p. 15
53. J. L. Redrado, La morte, cattedra della vita, “Dolentium Hominum”, 1995, 28,
p. 62
38
Capitolo I
qualcosa di buono. Non era la morte in sé che li spaventava; era la mancanza di significato, la paura di morire senza lasciare alcun segno” 54.
Appare così che occorre superare non tanto la morte, ma la vita che sta
alle spalle e che sta per concludersi. A questo proposito non solo si capisce, ma anche teologicamente si rivela perfettamente assennato lo sforzo
di molti moribondi di mettere la loro vita “in ordine”, di darle un ultimo
senso, di sistemare conflitti ancora aperti, di fare, di perdonare colpe, di
aggiustare quanto fosse fuori posto. Il sì a morire come compimento della
vita in Dio presuppone il sì alla vita che passa 55.
In effetti la morte “per l’uomo” arriva sempre troppo presto. La morte
è pur sempre una improvvisa dipartita dalla vita; S. de Beauvoir ha affermato “che non esiste una morte naturale” 56.
Il punto critico della morte è costituito dall’ignoto e dall’angoscia di separazione dalle persone care, da tutte quelle persone, cioè, e in qualche misura anche dalle cose, che contribuiscono a dare alla vita sicurezza, amore,
significato. La morte è la separazione finale, anche se nel corso della vita
altre separazioni possono assumere una dimensione dolorosa. La stessa
nascita toglie dalla sicurezza di una totale dipendenza, poi molti altri eventi assumono quasi la funzione di una “preparazione alla morte”. Citiamo
ad esempio le “separazioni in fase” 57, quali l’inizio e la fine degli studi, l’abbandono della casa paterna per un matrimonio o per una vocazione religiosa, la perdita dell’affetto esclusivo dell’altro coniuge alla nascita del
primo figlio, il momento della pensione ecc.; tutti momenti gioiosi ma
anche momenti che suscitano sentimenti di separazione. Ancora più traumatiche sono quelle separazioni che avvengono “fuori fase”, quali un abbandono, la perdita di un lavoro nel quale si è investito gran parte del senso
della propria vita, la perdita dell’autosufficienza. Tutti questi eventi di
separazione prefigurano nel corso della vita la separazione della morte.
54. H. S. Kushner, Vivere bene comportandosi bene, Corbaccio, Milano 2002, pp.
11–12
55. G. Greshake, Per una teologia del morire, “Concilium” (1974), 2, p. 121
56. S. de Beauvoir, Una morte dolcissima, Einaudi, Torino 1982, p. 102
57. Così sono definite dall’Oates in contrapposizione a quelle “fuori fase”; cf.
E.W.Oates, Aspetti del dolore: diagnosi significato e terapia in F. Dougherty et Al., Il
significato della sofferenza umana, Stauròs, Pescara 1983, pp. 229–230
La morte nella società contemporanea
39
Tuttavia nessuno può sperimentare la propria morte, può apprenderla e presumerla dall’esperienza di altre persone. Ogni essere umano può
sperimentare il dolore del corpo, la paura di morire (le cosiddette situazioni–limite) ma mai la propria morte. La morte dell’altro che si ama e
si stima riesce a svelare il carattere inquietante, tragico, orribile della
morte, anzi si diventa coscienti della morte come possibilità più propria,
irrelata, insuperabile solo di fronte ad una salma, ad una bara di una persona amata che non esiste più con la sua ordinaria vitalità, ma è presente in absentia 58.
Oggi come ieri la morte fa paura, ma nel tempo questa angoscia ha
avuto motivazioni diverse: in passato, ad esempio, il credente aveva paura
anche di ciò che faceva seguito alla morte, cioè del giudizio di Dio; oggi
è anche il processo del morire che fa paura: si teme la sofferenza della
malattia e della vecchiaia, si temono i tormenti dell’agonia, ma anche di
finire “in quella terra di nessuno che si stende tra il mondo dei vivi e
quello dei morti; paura di diventare cioè uno di quei corpi vegetali che
non finiscono mai di morire” 59.
È facilmente comprensibile come un tempo, in cui la fede nell’oltretomba era comune, diventasse più familiare il tema della morte. La prospettiva della fede permetteva di dare ad essa un senso.
Attraverso un ampia letteratura che va dalla antropologia, dalla sociologia, alla storia, alla filosofia, alla psicologia sociale, alla religione si constata che la morte non è semplicemente un fatto biologico e le modalità
con le quali il morire e la morte sono compresi hanno implicazioni per
le persone e la società e determinano comportamenti conseguenti che
non sono, a loro volta, solo una risposta ad un fatto biologico. La morte
suscita argomenti per un discorso simbolico sulla vita e sulla vita dopo la
morte: attraverso i simboli dei riti funerari o l’escatologia si esprime poi
il contrasto tra la vita e la morte.
Ancora, in ambito sociale, riguardo alla causa di morte bisogna distinguere la morte naturale da quella procurata violentemente. Si indica
come naturale anche la morte procurata da malattie e cause interne, seb-
58. F. D. Pilotto, Morte e relazione, “L’Ancora nell’Unità di Salute” (2002), 4, p. 314
59. S. Spinsanti, Umanizzare la malattia e la morte, Paoline, Milano 1980, p. 6
40
Capitolo I
bene le malattie determinino spesso cause di morte che agiscono assai
violentemente e a rigor di termini solo la morte che interviene in seguito ad indebolimento senile dovrebbe essere indicata come conclusione
della vita conforme alla natura 60. Una morte, cioè, evento terminale del
fenomeno dell’invecchiamento e che dovrebbe sopraggiungere solo dopo
che tutte le forze vitali si siano esaurire e quando la morte è quindi la
benvenuta 61.
Ma la secolarizzazione del pensiero e della vita, che oggi influenza la
società, non consente di comprendere il significato della morte poiché si
esprime come esclusivo interesse per le realtà mondane e, ancora, come
rifiuto di ogni dipendenza dell’uomo da Dio e dalla legge morale. Ancora, il dato prevalente che caratterizza il nostro tempo è senza dubbio il
valore quasi assoluto attribuito alla scienza che, seppure con elementi di
incertezza e di dubbio che cominciano ad emergere, resta tuttavia l’unico riferimento riconosciuto come attendibile a livello sociale.
Sono questi gli atteggiamenti che si rivelano incapaci di dare senso al
dolore e alla morte. La morte ha un senso soltanto se, privando l’uomo dei
beni terreni, apre la speranza verso una vita più piena. Questa incapacità di
dare senso alla morte porta a due atteggiamenti fra loro connessi: da una
parte la si ignora e la si bandisce dalla coscienza, dalla cultura, dalla vita e,
soprattutto,la si esclude come criterio veritativo e valutativo dell’esistenza
quotidiana; dall’altro canto la si anticipa per sfuggire al suo urto frontale con
la coscienza. La morte per il credente indica la sua contingenza e la prima
dipendenza da Dio, essa mette la vita nelle mani di Dio in un atto di totale obbedienza. L’eutanasia e, analogamente, il suicidio, sono il segno di una
rivendicazione dell’uomo di disporre pienamente di sé, della propria vita e
della propria morte. Di qui nasce il “tabù” della morte e di tutto ciò che l’accompagna; di qui nasce la richiesta sociale di una medicina che assicuri il
pieno benessere fisico, psichico e sociale ed anche la morte indolore 62.
La morte, la malattia e la paventata vecchiaia sono i principali smac60. L. Someiro, M.T. Tasini, M. Fagioli, Morte improvvisa. Storia del concetto, cause
e meccanismi, Armando, Roma 1992, p. 48
61. J. Choron, La morte nel pensiero occidentale, De Donato, Bari 1971, p. 148
62. Cfr. E. Sgreccia, Manuale di bioetica I Fondamenti ed etica biomedica, Vita e
Pensiero, Milano 1996, pp. 636–637
La morte nella società contemporanea
41
chi inflitti all’ottimismo del progresso, anche perché l’uomo non accede
più (e comunque non serenamente) al senso spirituale della vita e quindi riduce la “salute alla funzionalità del corpo” e ad una lunga presa di
distanza dalla morte, anche a costo di un’ipertrofia dell’intervento medico–tecnico 63.
I Vescovi del Belgio nel documento “L’accompagnamento dei malati all’avvicinarsi della morte” hanno affermato che “Una nozione giusta dell’accompagnamento dei moribondi suppone la riscoperta del significato
profondo della morte. Il nostro modo tecnico di pensare ci porta a dominare le cose e a risolvere dei problemi. Davanti alla morte, bisogna rinunciare a questa mentalità. Perché la morte è un mistero a cui non ci si può
avvicinare che in silenzio e con umiltà. La morte non è un problema al
quale si dà una soluzione tecnica: essa ci introduce piuttosto nella sfera del
sacro e della presenza misteriosa di Dio. Essa è l’esperienza vitale ultima,
quella che ci costringe a lasciare tutto, ad abbandonare il nostro bisogno
irresistibile di dominare tutte le cose. Perché oggi pensiamo all’eutanasia?
Forse perché, anche sul piano puramente filosofico, noi abbiamo perso il
senso autenticamente umano della morte. Cediamo alla tentazione di
considerarla come un problema tecnico che dobbiamo risolvere” 64.
Infatti nella gran parte della storia dell’uomo, se la morte è stata considerata come la componente di un processo naturale della vita, ora a
seguito del progresso medico e tecnologico, la morte è stata medicalizzata. In questa prospettiva, non è più vista quale profondo evento personale e religioso, insito nella condizione umana, ma piuttosto come un
insuccesso della scienza medica.
Occorre tuttavia notare che l’”eclissi del sacro” si sta rivelando meno
definitiva di quanto era apparso in passato: la religione, che nella maggior parte dei casi è vissuta e interpretata come legame sentimentale col
Dio padre, anche se esposta frontalmente all’urto dei processi di secolarizzazione, mantiene una costante presenza soprattutto nell’intimo dei
soggetti, ma non solo quando questi sono sfidati nelle radici profonde del
63. Cfr. F. Caretta, M. Petrini, Ai confini del dolore, Città Nuova, Roma 1999, p. 30
e 37
64. Vescovi del Belgio, L’accompagnamento dei malati all’avvicinarsi della morte,
“Anime e Corpi” (1995), 181–182, pp. 691–701
Capitolo I
42
loro inconscio dalla paura di morire e cercano una definizione di un “faro
ultimo di senso” non rintracciabile nelle tentate razionalizzazioni laicizzanti o nelle riduzioni individualistiche della morale e della religione 65.
Una società, l’attuale, quindi, non facilmente etichettabile: un tempo
in cui sembra, a tratti, appannarsi qualsiasi scenario “umanistico”, ma nel
quale s’insinua ancora negli uomini un desiderio di sacro, che possiamo
leggere come il ricordo insopprimibile di quell’essere creati a “immagine
e somiglianza di Dio” (Gn 1,26).
2.1. Le motivazioni della paura
Si possono distinguere in due categorie le motivazioni della paura
della morte:
la paura del morire:
• che si esprime nel timore di lasciare un dovere incompiuto: all’angoscia della separazione si può aggiungere una componente di colpa,
come nel caso di una mamma che teme di lasciare un figlio piccolo,
solo e abbandonato a se stesso, a causa della sua assenza definitiva;
• che si esprime nell’ossessione del dolore e della sofferenza espressa
con la domanda “Come sarà il processo stesso del morire?”, donde
il tema della “morte bella” qual è la morte istantanea;
• che si esprime nell’ossessione dell’agonia psicologica, quale il timore della solitudine e della disperazione, suscitate da idee come
quella di essere “soli” sotto terra o quella di provare una totale mancanza di compagnia nell’aldilà.
È evidente che questa paura assume caratteristiche diverse in rapporto
all’età del morente anche perché l’elaborazione personale del pensiero della
morte è ad essa collegata. Quando si parla di conoscenza legata all’età, non
si allude ad una questione cronologica né tanto meno ad un sapere rigoroso. Si intende una conoscenza imparata dalla sofferenza, passata “sulla propria pelle”. Non è mediata da insegnamenti impartiti da terzi, ma dal modo
65. C. Costa, L’individuo, la morte e la malattia nel mondo contemporaneo, “Camillianum” (2001), 1, p. 92
La morte nella società contemporanea
43
di trovarsi e collocarsi nella propria storia, dove la lotta con rovesci e delusioni non risparmia nessuno. La scomparsa di un coniuge, di un genitore o
di un figlio cambia il corso della vita di una persona, la costringe a rivedere
il proprio universo. Insegna cosa significa essere uomini, essere nati e trovarsi “nel mestiere di vivere”. Si scopre l’onnipotenza della morte 66.
È questa paura della morte che ha provocato una dissociazione nella
opinione popolare tra “bella morte” e buona morte e la sostituzione della
prima (la mala morte di ieri) alla seconda nei desideri collettivi. La
buona morte comporta lucidità e preparazione, rassegnazione e speranza. L’altra è la morte improvvisa e inconsapevole — la morte che ci viene
presa. La morte sottratta, la mala morte di ieri, tende a divenire il modello se non della buona morte almeno della morte conveniente 67. Queste
comprensioni sono costruzioni sociali determinate dalla creazione di un
modello di morte ideale, dei quali noti esempi sono “morire nel sonno”,
“morire sul lavoro”, “morire con le proprie scarpe”.
Affermano però i Vescovi del Belgio che “È vero, moltissimi dicono
che preferirebbero morire in modo rapido e improvviso. Non desiderano
vivere questo momento importante in piena coscienza. Probabilmente
temono i grandi dolori che possono esservi collegati. Noi vogliamo tuttavia attirare l’attenzione sul carattere di pienezza che riveste talora l’addio
cosciente e tranquillo alle cose e alle persone. Ogni volta che ne siamo
testimoni, diciamo che è stata una bella morte. È il momento in cui l’essere umano dà l’ultimo tocco, personalissimo, alla sua esistenza e corona,
per così dire, l’opera della sua vita. Molte persone dicono anche quanto
sono state impressionate e commosse per ciò che è accaduto durante il trapasso sereno di persone vicine o amiche. E vi pensano come a dei momenti privilegiati nella loro relazione con il defunto. E infatti, questi sono
spesso dei momenti intensi di comunicazione, di amicizia, di reciproco
dono. Abbiamo forse il diritto di rendere tutto questo impossibile? 68.
66. M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte nella cultura contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 4–5
67. G. A. Micheli, W. Maffenini, Demografia della morte naturale, in E. Sgreccia,
A. G. Spagnolo, M. L. Di Pietro (a cura di), L’Assistenza al morente. Aspetti socio–culturali, medico–assistenziali e pastorali, Vita e Pensiero, Milano1994, pp. 68–69
68. Vescovi del Belgio, L’accompagnamento dei malati all’avvicinarsi della morte,
Capitolo I
44
Questi ideali di buona e cattiva morte si trovano in molte culture 69.
Infatti molte persone hanno più paura di come moriranno che della
morte stessa. E nel numero sempre più in aumento delle malattie croniche e a prognosi infausta si colloca il seme della paura — espressa dalla
società occidentale — del lungo decorso, della sofferenza, del decadimento fisico e della solitudine ad esse associate 70.
Sono molte le persone che temono nell’ora del passaggio all’altra vita
di perdere il loro ruolo, sia a causa di una mancanza di controllo emotivo, sia anche per colpa di involontarie e indesiderate disfunzioni corporee. Le aspettative che si hanno circa l’ultimo periodo della vita sono
influenzate dal modo in cui ci si immagina di morire e da che cosa significa la morte. Le paure più frequenti sono:
•
•
•
•
•
•
di morire soffrendo,
di morire soffocato,
di perdere il proprio controllo,
di perdere la propria dignità,
di trovarsi soli,
di essere di peso alla famiglia.
Queste paure sono spesso ben fondate. Alcune ricerche effettuate negli
Stati Uniti hanno confermato che i pazienti muoiono frequentemente con
dolore, dispnea, attaccati alle macchine e, spesso, alcuni dei loro desideri
sono disattesi, rispetto al modo in cui volevano essere trattati 71.
La paura del dopo–morte: che si può esprimere nell’angoscia dell’imputridimento; nella incertezza dell’aldilà, anche in una prospettiva di fede; nell’invidia verso chi sopravvive; nella ossessione del nulla. Il passo da
“Anime e Corpi” (1995), 181–182, pp. 691–701
69. M. Bradbury, Representations of “good” and “bad” death among deathworkers and
the bereaved in G. Howarth, P. Jupp, (eds), Contemporary Issues on the Sociology of Death,
Dying and Disposal, Mcmillan, London 1993
70. V. Thomas, Antropologia della morte, Garzanti, Milano 1976
71. M. W. Rabow, L’assistenza nell’ultimo periodo della vita: l’assistenza in hospice e
la “buona morte” in E. Riva, a cura, Il malato terminale oncologico. Esperienze dell’hospice,
Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2001, pp. 16–17
La morte nella società contemporanea
45
“essere” a “non essere”, la trasformazione stessa del corpo in cadavere,
sono eventi carichi di interrogativi che a volte contribuiscono ad aggiungere nuove sfumature e nuovi elementi alla paura. In secondo luogo e, di
conseguenza, c’è il timore del vuoto, del dopo, di uno spazio e di una
temporalità sconosciute.
In una recente ricerca ad una domanda sulla risurrezione dell’uomo alla
fine dei tempi, dichiara di crederci abbastanza il 26,3% dei soggetti intervistati, molto il 27,5% per nulla o poco il 46,2%. Ancora la successiva domanda più articolata su cosa vi sia dopo la morte restituisce percentuali
differenziate: nulla per il 10,4%, non so per il 21%, non si può sapere cosa
c’è dopo la morte per il 22,3%, che dopo la morte ci sia un’altra vita per il
41,5% e che dopo la morte ci si reincarni in un altro uomo/donna o altro
essere vivente per il 3,7%. Ancora, nel paradiso crede la maggioranza degli
intervistati, il 74%; nell’inferno una quota minore, il 52% 72.
In una inchiesta che ha visto intervistati circa tremila anziani di età
superiore a sessantacinque anni, alla domanda “quale aspetto o conseguenza della morte ti è più intollerabile?” le risposte sono state, in ordine di percentuale: lasciare i miei familiari, l’eventuale sofferenza, l’abbandonare la vita, il dolore dei familiari e degli amici 73, con il prevalere
di preoccupazioni di tipo sociale e solidale.
In una ricerca su un campione di 1300 anziani una tipologia di opinioni assai variegata sembra privilegiare tre direzioni e cioè l’accettazione fiduciosa (religiosa) della morte, l’augurio di morire di morte improvvisa, l’equivalenza tra il sentirsi preparato a morire ed il dispiacere massimo di dover morire. L’invocazione “a subitanea et improvisa morte
libera nos Domine”, è sintomatica di una visione religiosa oggi assente se
almeno il 16% si augura di morire di morte improvvisa. Anzi, si ha l’impressione che tale augurio venga fatto proprio da una percentuale di persone assai maggiore, anche religiosamente caratterizzate 74.
72. V. Cesareo, R. Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, Mondatori, Milano 1995
73. L. Antico, R. Bernabei, F. Caretta, M. Petrini, A.Sgadari, Anziano Salute Società, Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 165–180
74. S. Burgalassi, Il morente oggi, tra rimozione delle immagini di morte e desiderio di
immortalità in E.Sgreccia, A.G.Spagnolo, M.L. Di Pietro (a cura di), L’assistenza al
46
Capitolo I
Molti e complessi sono i motivi ai quali imputare le posizioni non lineari o univoche dei soggetti nell’elaborazione di alcuni fondamentali
aspetti religiosi: 1) una difficoltà oggettiva nell’esporre con termini adeguati alla cultura contemporanea il significato e la consistenza di attese
ultraterrene come il giudizio eterno e la risurrezione, una esposizione peraltro trascurata nella pastorale; 2) una cultura e (una storia) che ha estromesso da sé gli elementi “giustizialisti” e “punitivi” della tradizione cristiana; 3) una confusione sostanziale rispetto alle entità sacre; 4) una forte
valenza assegnata dagli uomini alla salvezza terrena a detrimento di loro
aspirazioni alla beatitudine eterna dell’anima immortale 75.
A questi aspetti oggi, ritengo si debba aggiungere e sottolineare l’estrema solitudine nella quale la società lascia l’uomo di fronte alla morte. Non
solo vi è la tendenza a tacere la morte all’uomo che le va incontro, ma anche
nel caso che egli conosca bene tale suo destino, gli giunge silenziosamente
dall’ambiente circostante un monito a non parlarne; si vuole che un uomo
o una donna muoiano senza capire neppure che la morte si sta avvicinando 76. Ancora, la morte è taciuta anche dai familiari e dai congiunti; il lutto
non ha più segni esteriori, che dai segni gli “altri” sarebbero posti nella condizione disagevole di dover esprimere in qualche modo una partecipazione al dolore. Nella società attuale non ci si vuole affliggere reciprocamente
con l’idea della morte. E la stessa catechesi ecclesiale desta l’impressione di
aver paura di proporre sia pure in forme attuali la verità evangelica sul valore della vita, della morte e dell’eternità. Non è da escludere infatti che forse
nel passato si è un po’ esagerato nel presentare alcune verità come esclusiva preparazione al premio e al castigo eterno, con il grave pericolo di distogliere i cristiani in una ottica falsata dalle realtà terrene e dall’impegno di
fecondare queste realtà, e di presentare così la morte in modo da suscitare
più timore di Dio che filiale abbandono al Padre Celeste 77.
morente. Aspetti socio–culturali, medico–assistenziali e pastorali, Vita e Pensiero, Milano1994, pp. 86–89
75. C. Costa, L’individuo, la morte e la malattia nel mondo contemporaneo, “Camillianum” (2001), 1, p. 73
76. S. M. H. Nouwen, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea,
Queriniana, Brescia 1982, p. 65
77. P. Vinaccia, Uscire vivi dalla morte, in Archidiocesi di Napoli Consulta della
La morte nella società contemporanea
47
Talora all’interno delle stesse religioni sembra trovare più spazio la focalizzazione sulla morale dei diversi comportamenti, rispetto alla necessità di educare all’importanza di una ricerca costante del senso della vita
e della morte. L’organizzazione sociale, anche quella sociosanitaria, ignora la dimensione dell’èthos e quindi la morte è una delle tante evenienze da gestire secondo procedure codificate. Soprattutto negli ospedali e
nei centri urbani, dall’agonia ai funerali, tutto si svolge in una sorta di
privatizzazione che rasenta la clandestinità, inclusi i diversi riti con cui
una parte della società esprime tuttora il suo riferimento ad ipotesi relative al “dopo la morte” 78.
Al giorno d’oggi solo poche persone muoiono a casa, e il loro numero
continua a diminuire. È difficile avere cifre precise, ma gli studi sporadici
che sono stati compiuti fino a questo momento indicano concordemente
che, di tutti i decessi, una metà circa avviene nei grandi ospedali generali e
nelle istituzioni per anziani e un numero più piccolo ma crescente nelle
case di cura. Probabilmente meno di un terzo degli individui muore a casa,
sul posto di lavoro o in luoghi pubblici 79.
Il fatto che si muoia in una istituzione, spesso soli, facilita la disgregazione di tutto un mondo di abitudini, legate al significato sociale e collettivo finora attribuito alla morte.Tuttavia è anche una situazione contraddittoria. Da un lato quindi la domanda sul significato della morte, e di
ciò che viene dopo, scompare e si eclissa deformando il significato stesso della vita, dall’altro si rafforza con un procedimento assolutamente sofisticato il processo di esorcizzazione se pensiamo alle immagini di morte che quotidianamente sono trasmesse: morte “reale” ma resa “irreale”
dalla logica del mezzo che la trasmette. Infatti i morti veri, di cui ci mostrano le immagini i telegiornali, si mescolano alle immagini di morte
fittizie delle fiction e dei film.
Un’ulteriore osservazione si può fare anche per quanto riguarda le innumerevoli guerre che hanno contrassegnato il mondo odierno. Di fatto
Pastorale per la Sanità, La solitudine della morte. La morte in solitudine, Guida, Napoli
2000, p. 13
78. L. Pinkus, L’accompagnamento spirituale di chi muore, in L. Pinkus, A. Filiberti, a cura di, La qualità della morte, F.Angeli, Milano 2002, p. 72
79. R. S. Morison, La morte “Le Scienze quaderni” (1996), 88, 35
48
Capitolo I
la morte violenta soprattutto in tempo di guerra, porta a un più frequente contatto diretto con la morte, e tuttavia c’è da stupirsi come rimangano assenti le prese di coscienza, le commozioni profonde. Il morire spaventoso verificatosi nelle ultime guerre ha lasciato, nel mondo
occidentale, pochi effetti durevoli, almeno relativamente, rivelandosi
scarsamente determinanti sullo stato d’animo di fronte alla morte. Forse
ciò si deve al fatto che per la conservazione stessa della vita era necessario passare il più presto possibile sul morire in massa, quasi banalizzandolo. Oppure, ancora, al fatto che l’uccisione violenta che si avvale di una
certa legittimazione sociale non scandalizza più l’uomo. Il sentire comune rispetta il soldato che uccide in caso di guerra, almeno in quanto si
attiene alle norme riconosciute, e lo celebra come un eroe se viene egli
stesso ucciso 80.
Un ulteriore elemento, che scaturisce da quella medicalizzazione che
oggi ha investito la vita quotidiana, è il pericolo di morte incombente per
varie patologie che viene presentato suggerendo modifiche di stili di vita
nell’ambito della prevenzione. Anche questa “riscoperta della morte” non
è però priva di ambiguità. Tutto questo parlarne, questo — sotto molti
aspetti nuovo — consumo culturale di morte, può darsi, che in realtà, sia
solo una ennesima, sofisticatissima maniera per esorcizzarla, per non
prenderne coscienza fino in fondo 81.
Si è affermato infatti che è strano che la morte sia diventata un tema particolarmente dibattuto proprio in un tempo che viene accusato
di metterla al bando. A prima vista sembrerebbe di trovarsi davanti ad
una contraddizione. Se però si riflette attentamente si scopre che l’attuale proliferazione degli studi sulla morte più che evitare lo scoglio
della rimozione, lo consolida. Se ne parla molto ma solo come dato
scientifico. Quanto più si accentua l’interesse scientifico, tanto più si
storna l’attenzione dal vero problema: quello umano 82.
80. J. Hofmeier, L’odierna esperienza del morire, “Concilium” (1974), 4, p. 31
81. Cfr. S. Zucal, La morte una realtà da nascondere. Spunti per una riflessione antropologica, in L.Sandrin, a cura di, Malati in fase terminale, Piemme/Caritas, Casale
Monferrato 1997, pp. 8–10
82. M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte nella cultura contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 21
La morte nella società contemporanea
49
In conclusione, è opportuno riconoscere che la morte è qualcosa di
normale, qualcosa che fa parte dell’esistenza umana e che, pertanto deve
essere temuta come qualsiasi altro passaggio fondamentale che si verifica nel corso della vita. L’obiettivo da raggiungere non dovrebbe essere la
lotta contro l’angoscia normale e sana del timore di fronte alla morte, ma
piuttosto quello di cercare di sradicare le angosce “aggiunte” affinché l’essere umano possa mettersi a confronto solo ed esclusivamente con ciò
che risulterà essere la sua verità di fronte alla morte 83.
È necessario allora ripensare i modelli culturali, per poter andare oltre lo stadio delle “lamentazioni” su tecnologia e globalizzazione e saperli
invece valorizzare come risorse per una vita autenticamente umana 84.
2.2. Gli atteggiamenti nei confronti della morte
La morte in sé, come la malattia in sé, come la sofferenza in sé, sono
mali e vanno combattuti. In sé, nel senso che si deve intendere per malattia e sofferenza e morte ciò che nella malattia, nel soffrire e nel morire
minaccia la libertà e la vita dell’uomo. Il dolorismo è a ragione tramontato: è finita la presunzione di trovare una giustificazione razionale allo
scandalo del male, pensandolo sempre come un salutare castigo, una giusta espiazione, una buona occasione di purificazione, un auspicabile momento di crescita spirituale, il prodromo per un bene maggiore. Siccome
questa giustificazione non si può trovare, non è lecito né desiderare, né
tanto meno procurarsi la sofferenza e la morte. Il valore salvifico della
sofferenza va cercato attraverso e nonostante la sofferenza e non grazie
alla sofferenza. Dunque l’uomo ha il compito di lottare contro la malattia e la morte, un compito di sempre che l’uomo ed in particolare la
medicina sono chiamati ad assolvere 85.
83. V. Madoz, 10 parole chiave sulle paure dell’uomo moderno, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 158
84. L. Pinkus, L’accompagnamento spirituale di chi muore, in L. Pinkus, A. Filiberti,
a cura di, La qualità della morte, F.Angeli, Milano 2002, p. 71
85. P. Cattorini, Morte buona, morte indolore. Bioetica e palliazione, “Bioetica e Cultura”, (2002), 21, p. 94
50
Capitolo I
Una lotta nella convinzione però che non si muore perché ormai anziani o perché affetti da una malattia a prognosi infausta, ma perché la
morte rappresenta il comune destino umano.
L’uomo vive ogni istante della sua esistenza come un “definirsi”, un
“decidersi” per sempre. Come viandanti si giunge alla meta, cioè la morte
chiude lo “status viatoris” dell’uomo perché essa altro non è che l’avvenuto compimento personale. La morte, quindi, non è solo ciò che l’uomo
deve subire dall’esterno e nei confronti del quale non può che rimanere
inerte e passivo, ma è anche un’azione che porta a compimento la sua vita.
Per l’uomo questo “finire” che si dà nella morte non è solo distruzione e
impotenza. Anzi l’uomo, pur nel passaggio traumatico della violenza che
distrugge la sua vita biologica, può spiritualmente portarsi–a–compimento, generare definitivamente la sua identità spirituale, appagare la sua
vicenda di libertà, togliendo da essa ogni residuale ambiguità 86.
Malgrado i tentativi di censura, quindi, la morte interroga l’uomo. Con
il crescere dell’età e molto spesso con il sopraggiungere di una malattia
grave, l’orientamento inconscio si volge alla morte in misura crescente. È
come se i livelli psichici più profondi sollecitassero a prendere atto di questa realtà, quasi richiamandosi ad una preparazione graduale e tempestiva. Poiché il contesto socio–culturale non è in sintonia con questi bisogni,
non di rado può accadere che le persone si trovino di fronte alla morte,
più spesso alla propria morte, senza essere preparati ad affrontarla 87.
A questo interrogativo della morte si può rispondere con molteplici
atteggiamenti o, più realisticamente, con un atteggiamento che combina
insieme qualche tratto di molteplici atteggiamenti quali quelli 88:
• dell’uomo che dubita e vive nell’angoscia della ricerca di certezze e
garanzie sul dopo–morte;
86. S. Zucal, La morte: una realtà da nascondere Spunti per una riflessione antropologica, in L. Sandrin, a cura, Malati in fase terminale, Piemme, Casale Monferrato 1997,
pp. 28–29
87. L. Pinkus, L’accompagnamento spirituale di chi muore, in L. Pinkus, A. Filiberti,
La qualità della morte, F.Angeli, Milano 2002, p. 62
88. S. A. Merino, Umanesimo francescano, francescanismo e mondo attuale, Cittadella, Assisi 1984, p. 326
La morte nella società contemporanea
51
• dello stoico, dominato dalla rassegnazione;
• dell’uomo etico che ha osservato le sue regole morali e considera
compiuta la sua vita;
• dell’uomo semplice e umile che accetta la morte come una necessità in più oltre le tante che ha dovuto subire nel corso della vita,
senza chiedere perché e a che scopo;
• dell’ateo che vede nella morte l’ultima fase di un ciclo naturale;
• del credente che vede nella morte un passo necessario, anche se
doloroso, per legarsi con il tempo definitivo di Dio.
Questi atteggiamenti possono determinarsi, è evidente, se l’uomo
affronta il problema morte; ma da tempo, secondo i sondaggi circa l’atteggiamento dell’uomo contemporaneo dinanzi alla realtà della morte,
pare che l’atteggiamento dominante sia l’assenza pressoché totale del
problema, quello che è stato definito “il rifiuto della morte”.
È indubitabile che questo odierno atteggiamento sia dettato anche, lo
abbiamo detto, dalla disassuefazione: ancora un secolo fa un uomo che
raggiungeva i cinquanta anni, età media di allora, assisteva ad almeno
quattro decessi fra i parenti. Le epidemie — e quindi la malattia e la
morte — e l’elevata mortalità perinatale non erano eventi eccezionali e
determinavano una generale familiarità con la morte. Il progresso della
medicina e le migliori condizioni di vita che hanno determinato un allungamento della vita media, hanno causato un allontanamento della
morte dalla vita quotidiana. Infatti, occorre ricordarlo, ci si rende conto
della morte solo quando questa in qualche modo colpisce le relazioni affettive più prossime.
Ma ignorare un problema non significa risolverlo. Jung ha affermato
che un uomo che non si pone il problema della morte o che non ne
avverte l’angoscia è un uomo malato, perché la morte, in un uomo equilibrato, sano, è sentita come uno squilibrio, come un evento innaturale.
La morte è un avvenimento ineludibile che conviene “prevenire” nella
misura in cui è possibile, che è necessario “prevenire” in ogni caso, e con
la quale dobbiamo prendere familiarità prima del momento in cui si presenta nella sua definitiva forma biologica.
Ogni persona deve affrontare l’evento della propria morte in qualsiasi momento dell’esistenza e durante tutto l’arco della vita. Il miglior mo-
52
Capitolo I
do per farlo è confrontarsi con lei e interiorizzarla e introiettarla. Il
secondo passo consiste, a livello psicologico e spirituale, nel passare dalla
considerazione della morte in generale a quella della “propria morte”, in
concreto. La propria morte, la “nostra morte”, è una cosa che ci appartiene, è una proprietà di cui prendersi cura e alla quale occorre anche prepararsi durante tutta la vita. Questo vuol significare che essa va accettata, che si è obbligati ad accettarla, e che occorre responsabilizzarsi rispetto ad essa 89. Un atteggiamento che si è definito di resistenza e di resa 90.
Senza la resistenza, l’uomo si ottunde in un rassegnato fatalismo e rischia
di dimenticare lo statuto tragico della morte, la sua “innaturalità”; senza
un atteggiamento di lotta contro la morte, l’uomo smette di sperare nel
bene e anzi inclina a porsi dalla parte stessa della morte. Senza l’accettazione, cioè fingendo di ignorare che la sua lotta è destinata alla sconfitta, l’uomo si ostina ossessivamente nel conservare e prolungare la vita e
dunque non amministra ragionevolmente il tempo che gli resta da vivere. Fingendo di non morire mai e non guardando in faccia le dimensioni tragiche del suo esistere, non si prepara alla prova e così si lascia espropriare di ogni forza: quando il male viene, egli capitola senza condizioni, invece che impegnarsi a difendere e cercare quei valori che gli sono
ancora accessibili nonostante le contraddizioni che è costretto a patire.
E questo deve farlo, in maniera professionale, anche l’operatore sanitario. Si potrà assistere un moribondo solo se si è “venuti a patti” con
la propria morte.È necessario che chi sta accanto al malato sappia considerare non solo the death (la morte), ma anche the dying (il morire),
con occhio non terrorizzato, senza quella tendenza alla fuga che si esprime nel concentrarsi sulla terapia tecnica, che guarda al fisico del malato
(come pur è indispensabile), evitando però di guardare alla psicologia,
alla personalità in situazione del malato grave. Sono le relazioni interumane, e il rapporto con la morte, che chiedono impegno e coraggio nel
medico e negli operatori sociosanitari. Ma questo coraggio, questo impegno per relazioni con il malato che siano personali e profonde, sono pos89. Cfr. V. Madoz, 10 parole chiave sulle paure dell’uomo moderno, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 176
90. P. Cattorini, Morte buona, morte indolore. Bioetica e palliazione, “Bioetica e Cultura”, (2002), 21, p.95
La morte nella società contemporanea
53
sibili se chi sta vicino al malato ha una concezione virilmente non evasiva della morte; meglio, molto meglio, ovviamente, se questa concezione
sa, cristianamente, riconoscere che il senso della morte è la vita eterna 91.
Nell’esperienza ospedaliera si è constatato che la propria morte raramente è difficile, sembra dunque che la nostra morte ci faccia paura più
per via della rappresentazione che ce ne facciamo, che per la sua realtà al
momento di affrontarla.
Tuttavia, anche l’istinto che aspira alla vita non sopporta il pensiero
della fine, anche se è difficile capire in quale misura l’istinto di vita domini gli slanci emotivi e influisca sull’attività del pensiero. Si sa che esso si
oppone ad ogni annuncio di morte, a volte anche in maniera sconcertante.
Dalla letteratura clinica si apprende come certe persone (medici, infermieri, assistenti spirituali) non si riconoscano affetti da malattie che essi
hanno studiato e magari curato quotidianamente. La loro conoscenza è in
grado di formulare delle diagnosi ineccepibili, eppure una volta che essi
stessi cadono malati, si trovano smarriti. Non appena si profila un pericolo, l’istinto di vita opera di soppiatto all’interno della psiche, eccita l’immaginazione e costruisce difese. La sua forza acceca tanto da non piegarsi neppure ai dati di fatto. Esso dice di no alla morte in modo irrazionale, anzi non vi crede neppure. Sviluppa delle resistenze ostinate. Il desiderio di vivere non si arrende facilmente alla morte, l’aggira in mille modi
aggrappandosi ad una serie di pretesti: intesse inganni, prospetta sogni,
cerca rimedi e invoca possibili interventi miracolosi 92.
L’atteggiamento di censura della morte, o per meglio dire il tentativo
di censura, si concreta poi, in alcuni casi nel tentativo di alienazione della
stessa salma. Nelle istituzioni sanitarie il cadavere viene immediatamente allontanato dall’ambiente dei “vivi”, ma ancora, non potendolo abolire, lo si trasforma in simulacro, in immagine, nonché in oggetto commercializzato, se pensiamo alla realtà descritta da Mitford, dove più che
curare un corpo morto, trattando il cadavere da cadavere, sia pur abbel91. A. Bausola, Introduzione in E. Sgreccia, A. G. Spagnolo, M. L. Di Pietro, a
cura di, L’assistenza al morente. Aspetti socioculturali, medico–assistenziali e pastorali, Vita
e Pensiero, Milano 1994, p. 4
92. M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte nella cultura contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp.39–40
54
Capitolo I
lendolo come si usava nel passato, si tende a trattarlo in maniera che il
morto sembri vivo, colorandone il volto in modo da dare un’impressione
di freschezza e vitalità, per non parlare delle pratiche di imbalsamazione, in uso anche anticamente 93. Per esorcizzare la paura della morte non
si rispetta la “ieracità del giacente, ma si simula la vivacità del vivente” 94.
Lo status del morto è paradossale. Impersona la presenza di un assente. Non la morte, come sostiene Ludwig Landsberg 95 (rifacendosi a Scheler e a Heidegger) è per noi “presente nell’assenza”, bensì il defunto, il
cadavere 96.
Sono tutte manifestazioni di un umanesimo che si è arrogato l’onere
di una risposta a un illimitato desiderio di vita anche attraverso una mentalità tecnologica che insinua l’idea di un potere senza limiti. Non esistono ostacoli insormontabili, non ci sono malattie incurabili, difetti corporei ineliminabili. L’industria farmaceutica e il progresso della medicina sono promesse di benessere e in fondo costituiscono una sfida contro
la morte. Anzi, una risposta che vuol vincere la morte, dando l’illusione
di vincerla (donde l’accanimento terapeutico, l’isolamento in terapia
intensiva), nascondendone il più possibile l’inesorabile arrivo (donde l’oscuramento delle coscienze, la menzogna come sistema relazionale, l’eutanasia).
Una risposta però inadeguata, perché solo apparentemente può togliere
l’angoscia dell’uomo. In tal senso contribuisce anche la inadeguatezza del
pensiero medico di fronte alla morte. Se analizziamo infatti il pensiero
medico, possiamo distinguerne tre momenti nella storia 97:
• una prima fase, che cronologicamente si estende dall’antichità al
secolo scorso, nella quale il medico vede la morte come un aspetto
93. J. Mitford, The American Way of Death, New York 1963
94. S. Palumbieri, La morte oggi in un mondo secolarizzato, in Morte e risurrezione in
prospettiva del Regno, Elle Di Ci, Leumann(Torino) 1981, p. 46
95. P.L. Landsberg, Die Erfahrung des Todes, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973,
p. 14
96. T. Macho, Morte e lutto nel confronto fra le culture, in J. Assmann, La morte come
tema culturale, Einaudi, Torino 2002, p. 78
97. F. Mondella, Morte e sviluppo storico nel pensiero medico, in G.Di Mola, a cura
di, Cure Palliative, Masson, Milano 1988, p. 7
La morte nella società contemporanea
55
essenziale della propria visione della natura e della vicenda salute/malattia, che in questa visione si inserisce;
• una seconda fase, che può collocarsi tra la metà del XIX secolo e i
primi anni del XX secolo, nella quale il medico, al capezzale del
morente nel dramma della morte domiciliare, è partecipe di una
vicenda comunitaria, ritualmente vissuta, che però comincia a
oscurare la sua comprensione scientifico–filosofica della realtà;
• una terza fase, che vede l’avvento della morte ospedaliera, ove il
potenziale della strumentazione tecnica consente di prolungare artificialmente la vita, e la morte può essere decisa con la sospensione
dello stesso intervento tecnico. In questo quadro la morte può apparire una sconfitta tanto più grave quanto maggiore è il potenziale
di intervento tecnico disponibile; il medico, esaurite le risorse di
una medicina che mira alla guarigione e non accetta la morte, si
trova privo di saggezza e di capacità di comprendere il suo scacco,
oltre che di gestire con efficacia il più tradizionale patrimonio della
medicina, quel diretto rapporto umano che nasceva dal coinvolgimento morale ed emotivo con il sofferente.
L’assistenza medica moderna pone una sfida a questa concezione del
ruolo del medico e dell’obiettivo della medicina. In effetti, sembra che il
medico abbia il diritto e il dovere di occuparsi della morte esclusivamente per tenerla lontana dalla vita. In questa prospettiva la morte è vista
come ciò in cui si manifesta il termine assoluto dell’esistenza umana, anche termine assoluto della malattia. Pertanto non deve suonare strano che
essa si collochi al di là dell’intenzione terapeutica: sottrae il paziente a
qualsiasi considerazione, esame e cura, e quindi spegne a priori l’acume
dell’occhio clinico e vanifica la dedizione e l’efficacia dell’atto curativo 98,
ma, come sosteneva C. Bernard, padre dell’epistemologia medica, il medico “ha sempre a che fare con l’individuo” 99. La stretta relazione che esisteva in tempi passati tra medico e paziente viene sempre più spesso sostituita da una tecnocrazia e da una burocrazia evolute e sofisticate.
98. I. Valent, Dialettiche della guarigione, in M.R. Tinti (a cura), La guarigione,
Moretti&Vitali, Bergamo 1999, p. 48
99. C. Bernard, Principes de médecine expérimentale, PUF, Paris 1947, p. 142
56
Capitolo I
Si possono riassumere in tre punti gli aspetti “caratterizzanti” la fase
storica della medicina attuale 100:
• settorializzazione ultraspecialistica che riduce il corpo umano a
“macchina” con perdita della dimensione clinica unitaria;
• enfatizzazione di indagini laboratoristiche e strumentali (nella
ottica di una medicina riparativa) responsabile di una crescente
medicalizzazione e conseguente plus di interventi sanitari;
• metodologia di un approccio al paziente di tipo “oggettivo” burocratizzato e quindi depersonalizzante.
Il concetto riduzionistico del corpo, equiparato ad una macchina, ha
come conseguenza un trattamento terapeutico della malattia altrettanto
riduzionistico. Il medico che cura il suo paziente solo con l’impiego del
farmaco opera seguendo un modello antropologico della corporeità tipicamente meccanicistico. Vede nel malato un organismo governato dalle
leggi della biochimica; non tanto, non anche, non più un individuo che
ha bisogni di ordine morale, spirituale, religioso, psicologico 101.
In genere il paziente riceve una assistenza appropriata, ma alle questioni esistenziali ed etiche che possono sorgere in relazione al suo trattamento ben di rado viene data sufficiente attenzione. Per via delle richieste di
sempre maggiore efficienza e per la priorità riservata agli aspetti economici all’interno del sistema sanitario, chi opera nel campo dell’assistenza è
spesso costretto a lavorare a ritmi serrati, quindi difficilmente riesce a vedere il paziente come un essere umano. Quando cresce la distanza tra medico e paziente; quando i diversi e variegati settori di applicazione assegnati alla medicina sono in aumento; quando il grande pubblico acquisisce
una maggiore consapevolezza del modo in cui il sistema sanitario viene
gestito, c’è il rischio che l’assistenza medica possa trasformarsi in una ideo-
100. F. Linari, Antropologia medica, in G.Cinà, E. Locci, C. Rocchetta, L. Sandrin (a cura di), Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, Edizioni Camilliane, Torino
1997, p. 56
101. M. Bizzotto, Corporeità — Approccio filosofico, in G.Cinà, E. Locci, C. Rocchetta, L. Sandrin (a cura di), Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, Edizioni Camilliane, Torino 1997, p. 261
La morte nella società contemporanea
57
logia, cioè che diventi uno strumento per favorire ben precisi obiettivi individuali, sociali o politici 102.
La morte è e sarà sempre una realtà inevitabile della vita umana. La
nostra umanità è definita in gran parte dalla disponibilità ad accettarla ed a
convivere con essa. La medicina scientifica moderna non ha maturato tale
disponibilità, per questo è molto più facile trovare fondi per la ricerca sulla
terapia del cancro che non per la ricerca sulle cure palliative e per l’assistenza domiciliare ai malati terminali di cancro 103. Si è affermato, ancora, infatti che “purtroppo il periodo finale della nostra vita, quando sia indotto da
un tumore, è molto poco studiato e perciò poco conosciuto. Grande attenzione dovrebbe essere dedicata al tentativo di fare un inventario delle conoscenze per capire quali siano le aree di incertezza e di ignoranza per cui è
necessario fare ricerca. Una ricerca che non rappresenta sola curiosità, ma
che è base indispensabile per realizzare una adeguata operatività 104.
2.3. I riti di sollievo dell’angoscia di morte
Possiamo ora chiederci come l’uomo contemporaneo affronta la paura
della morte. Il malato, la famiglia, gli amici dispongono di significativi riti
religiosi e non, per tentare di dare un senso al loro dolore, e in particolare 105:
• i riti di sollecitudine: quando i sintomi della malattia cominciano a
condizionare il lavoro e la vita stessa, emergono le preoccupazioni
a sollecitare il paziente a prendere provvedimenti — a riposarsi, ad
andare dal medico ecc. — e questo con toni sempre più acuti, più
esigenti, più autoritari. Di fronte a questo crescere di sollecitazio102. Conferenza Episcopale della Scandinavia, Lettera pastorale Prendersi cura
della vita, “Il Regno–documenti”, 2002, 9, p. 293
103. D. Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina
moderna, Baldini & Castoldi, Milano 2000, pp. 18–19
104. S. Garattini, Introduzione in E. Riva, (a cura), Il malato terminale oncologico.
Esperienze dall’Hospice, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2000, pp. 1–2
105. Nella seguente elencazione ci rifacciamo a E. Erikson, Toys and Reason,
W.W.Norton, New York 1977, ampliato da E.W. Oates, Aspetti del dolore: diagnosi significato e terapia in F. Dougherty et al., Il significato della sofferenza umana, Stauròs,
Pescara 1983, pp. 229–230
Capitolo I
58
•
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•
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ni, il malato però indugia, sentendo che cedere ai sintomi equivale
a diventare dipendenti, prendere ordini da altri, lasciare ad altri
l’organizzazione della propria vita;
i riti della diagnosi: cioè l’appuntamento con il medico, la visita, gli
esami diagnostici, le analisi cliniche, e poi la comunicazione della
diagnosi, comunicazione che a volte è espressa con un linguaggio
oscuro ed eufemistico;
i riti della resistenza: cioè il ricorso alle cure di “medicastri”, la fantasia di guarigioni miracolistiche, le molteplici visite da medici
diversi per avere un “parere indipendente”;
i riti delle riunioni e dei congedi familiari: il loro primo scopo dovrebbe
essere quello di comunicare, senza doppiezza e sotterfugi, con il moribondo, per sanare vecchie rotture, perdonare antichi torti ricevuti,
esprimere stima, amore, sentimenti rimasti inespressi;
i riti della proroga: il paziente che muore nella propria casa non è
soggetto alla responsabilità legale dei medici e degli infermieri di
prolungargli la vita, con mezzi artificiali, oltre il punto in cui essa
perde ogni significato ragionevole;
il rituale dell’attesa della morte: i congiunti dormono nelle sale di
attesa, nei reparti di cure intensive o di unità coronariche, per essere presenti al momento della morte;
il rito della notizia da comunicare ai parenti stretti;
i preparativi del funerale e il funerale stesso: vi si riflettono i valori, i
significati, la religiosità che sostengono la vita delle persone. Spesso si commissiona ad estranei il compito di curare la salma, compito in passato affidato ai familiari più intimi, e si preferisce poi
una cerimonia funebre breve, sobria, spesso limitata alla benedizione della salma;
il rito della rimozione: è teso a rimuovere rapidamente dalla casa l’idea della morte: si gettano via gli effetti letterecci, si regalano i vestiti, si dispensano ai familiari ricordi materiali del defunto, si sceglie la più bella fotografia per esporla 106;
106. B. Zamparelli, La solitudine della morte, in Archidiocesi di Napoli Consulta
della Pastorale per la Sanità, La solitudine della morte. La morte in solitudine. Guida, Napoli 2000, p. 9
La morte nella società contemporanea
59
• il rito della diminuzione della folla: sempre meno persone si preoccupano dei familiari durante le varie fasi di quel processo di angoscia che succede ad un grave lutto;
• il rito della spartizione dell’eredità: i defunti non lasciano solo le persone. Quando la folla dei partecipanti al lutto comincia a diminuire, i parenti devono occuparsi del testamento, degli oggetti ricordo,
degli oggetti personali del defunto.
Per ciò che riguarda il morto, s’è ormai introdotto un cambiamento
durevole per mezzo dell’impresa funebre. Servizi una volta assicurati da
congiunti, parenti, amici vengono ora eseguiti da specialisti dell’impresa.
Essi oggettivizzano, per così dire, il rapporto col morto, risparmiando ai
parenti un certo conflitto emozionale. Ciò corrisponde alla struttura
sociale della divisione del lavoro e viene incontro all’insicurezza quando
s’ha da fare col morto. Risponde ugualmente a interessi economici e alla
situazione di necessità in cui versano gli interessati, se l’impresa funebre
si assume compiti sempre maggiori, che ricadono nel contesto di un caso
di morte con avvisi ed annunci, i problemi dell’ispezione del cadavere, la
sepoltura, il lutto. Per l’odierna esperienza della morte ciò significa che
gli uomini hanno sempre meno a che fare col cadavere e col fatto della
sepoltura. Sempre più raramente ricevono impulsi ad affrontare personalmente la realtà della morte. I congiunti si sottraggono al rapporto col
morto ed assumono in pubblico il ruolo di colui che è stato colpito 107.
Lo stesso culto riservato ai defunti avvia un processo di rimozione.
Per attutire il distacco della persona amata e quasi per conservare di essa
qualcosa di tangibile ci si prende cura delle spoglie mortali. La tomba
diventa la piccola vendetta che il vivente si prende contro la morte. Si
tratta di una reazione impotente dal punto di vista ontologico, ma efficace psicologicamente. Infonde un conforto, dice che la morte non ha
poi distrutto tutto, c’è ancora qualcosa che permane. Se arriva a strappare una presenza cara, non arriva però ad intaccare i segni che conservano il ricordo del defunto 108. Questi rituali, nei quali la paura della morte
107. J. Hofmeyer, L’odierna esperienza del morire, “Concilium” (1974), 4, p. 27
108. Cfr. M.Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte
nella cultura contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 41
60
Capitolo I
può trovare parziali sollievi, non possono però attenuare la sofferenza
acuta di una morte inattesa. In questo caso alle fasi emotive del choc psicologico e spirituale, si aggiungono ulteriori sensazioni se il cadavere del
defunto deve essere recuperato, identificato, come può avvenire in occasioni di sciagure. Solo l’identificazione del corpo del defunto da parte dei
familiari può fornire loro il dato concreto al quale riferire il loro dolore
in modo realistico.
In conclusione, una vera risposta alla paura della morte può avvenire solo
se la morte è vissuta, pur nel dolore umano, in una prospettiva di fede che
sola può illuminare il volto ambiguo di questo oscuro mistero. La fede nel
Dio salvatore getta infatti una luce di speranza sulla fragile creatura umana
che urta contro i limiti della sofferenza e della morte 109.
3. Il rifiuto della morte
L’imperativo etico della cultura contemporanea nei confronti del dolore
si riduce alla sua soppressione. Al dolore non viene attribuito nessun significato positivo: è semplicemente un assurdo che deve essere eliminato. La
soppressione del dolore è diventata una impresa esclusivamente di competenza della medicina. Filosofia e religione sono state spossessate dalla medicina del loro rapporto privilegiato con la sofferenza umana, un rapporto che
aveva contraddistinto fino ad oggi la storia umana.
Analogo atteggiamento di rifiuto, come si è detto, sembra essere rivolto verso la morte, e di conseguenza verso lo stesso morente, un rifiuto
che ha conseguenze individuali e sociali.
Infatti, di fronte alla morte, l’uomo è chiamato a prendere atto della
realtà, riconoscendo la sua creaturalità. La morte mette l’uomo di fronte
a questa alternativa: o aggrapparsi alla vita che irrimediabilmente fugge
e che pertanto non può fondare il proprio significato, oppure riconoscere l’esistenza come ciò che viene da “Qualcuno”, e affidarsi a quella
misteriosa realtà. Si può dunque dire che fondamentalmente l’atteggiamento di fronte alla morte implica la possibilità di una opzione di fron109. M. Bordoni, Problemi e orientamenti pastorali sul tema umano e cristiano della
morte, “La Rivista del clero italiano” (1980), 11, p. 839
61
La morte nella società contemporanea
te alla radice trascendente o metafisica dell’esistenza: riconoscersi o rifiutarsi creatura.
Da questa alternativa può scaturire l’atteggiamento individuale di rifiuto della morte. A questo, come si è detto, dobbiamo aggiungere un rifiuto culturale e sociale, sulle cui cause si intende qui indagare, e che condiziona la stessa assistenza al morente. È stato infatti affermato che mai
come oggi i morenti sono posti con tanto zelo igienista dietro le quinte
della vita sociale per sottrarli alla vista dei vivi 110.
È questo il risultato di una evoluzione antropologico–culturale nei
confronti della morte e del morire sulla hanno influito anche i fenomeni della medicalizzazione, che ha fatto sì che la morte non sia più considerata l’evento conclusivo di una vita, ma l’evento terminale di una malattia o di un trauma, e della deritualizzazione che ha arrecato anche alla morte una più spiccata sobrietà formale.
La morte oggi ha luoghi concreti nuovi rispetto al passato: non ha spazio in casa, in famiglia; è la morte nella strada, nell’ospedale, nelle istituzioni per anziani. La morte ha inoltre linguaggi nuovi. Infatti tale nascondimento si manifesta anche nel linguaggio con il frequente uso di eufemismi in sostituzione dello stesso vocabolo “morte”. La Euphemisms
Table qui riportata, se pur elaborata nel contesto statunitense, è indicativa anche del nostro mondo culturale:111
passato oltre
ucciso
tirato le cuoia
salito al cielo
tornato a casa
spirato
esalato l’ultimo respiro
alla casa del Padre
lasciato
all’altra sponda
Dio lo ha preso
addormentato in Cristo
dipartito
con gli angeli
ultima corsa
il suo tempo era finito
attraversato il Giordano
perito
110. N. Elias, La solitudine del morente, il Mulino, Bologna 1985
111. L. De Spelder, A. Strickland’s, The Last Dance, Mayfield Publishing Co,
Palo Alto 1983, p. 19 cit. in K. P. Kramer, The Sacred Art of Dying. How World Religions
Understand Death, Paulist Press, New York 1988, pp. 14–15
62
Capitolo I
incamminato verso una
eterna ricompensa
scomparso
incontro al Creatore
consumato
saldato il conto
riposo eterno
seppellito
rimasto stecchito
chiamato alla casa
finito
giunto alla fine
ridotto in polvere
annientato
liquidato
reso lo spirito
lasciato questo mondo
fatto fuori
spento
entrato nella gloria
ritornato in polvere
sfiorito
nelle braccia del Padre
arrivato
calato il sipario
lungo sonno
alle spiagge celesti
fuori della sua povertà
finito tutto
portato via dagli angeli
sotto sei piedi di terra
la pace eterna
una nuova vita
nell’aldilà
non più tra noi
riposa in pace
venuto meno
arrivato al tramonto
L’istinto a censurare la morte ha portato ad alcuni sotterfugi razionali, che tentano di ridurre logicamente la paura, decostruendone la perentorietà. Le formule sono diverse, ma in pratica sono varianti della famosa espressione di Epicureo; “Se tu sei, la morte non è; se è la morte, tu
non sei” (Lettera a Diogene Menezio) 112.
Questo rifiuto della morte, quasi il desiderio utopico di sconfiggerla
scientificamente, contraddistingue una cultura che, nella pretesa di scindere l’unità della vita e della morte, rivela un atteggiamento narcisistico
incapace di far proprie ragioni universali. Un occultamento della morte
e una sua rimozione dal vivere quotidiano, ai quali, da alcuni decenni,
assiste passivamente anche il mondo cristiano.
112. P. Giannoni, Morte e morire, in in G. Cinà, E. Locci, C. Rocchetta, L. Sandrin (a cura di),Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, Edizioni Camilliane, Torino
1997, p. 758
La morte nella società contemporanea
63
Si è cercato di spiegare in chiave politica questo occultamento della
morte, equiparando i morti a corpi che cessano bruscamente di consumare, a maschere che non rispondono a nessun appello, resistono a tutte
le seduzioni, rifiutano ostinatamente e quasi trionfalmente di rispondere
agli ordini, di fare la minima concessione alle lusinghe e alle sottili corruzioni che la società dei consumi utilizza per governare i vivi 113. A questo punto, la società dei consumi non può che dimenticarli e sostituirli.
Una società dei consumi che “giunge al punto di impedire all’uomo di
rifiutarsi di morire”. Non gli dice che sta per morire, “essa rimuove, occulta, nega la morte” e così l’uomo soggiace nel momento della malattia
ad un ulteriore esproprio e precisamente all’esproprio dell’esperienza più
personale come quella della sofferenza e della morte, ambedue abbassate a livello tecnico 114. Ancora, si sono annotate fra le cause di rimozione
della problematica della morte, anche cause strutturali, affermando che
la morte si oppone alle concezioni di un messianismo terrestre, ne dimostra i limiti, ne rimette in discussione le ideologie. All’avvento di tale
messianismo terrestre può aver contribuito una lettura del cristianesimo
che, quasi contrapponendo la vita terrena all’aldilà, ha fatto sì che Chiesa
e vita potessero coesistere parallelamente senza reciproci influssi. Ma a
questa tradizione di una prassi di fede senza storia, alla quale il mondo
moderno aveva risposto con un progetto di storia senza fede, il Concilio
Vaticano II ha opposto una visione dell’escatologia che comporta la costruzione operosa della storia affermando che “l’attesa di una terra nuova
non deve indebolire, bensì stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo
alla terra presente, dovre cresce quel corpo della umanità nuova che già
riesce a offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo”
(Gaudium et spes, n. 39).
Particolarmente interessata al riguardo della morte è l’esperienza religiosa, quando non è percepita in maniera adeguata. Potrebbe infatti
favorire la fuga dal limite temporale, dato che essa prospetta una visione
trascendente ed una continuazione della vita. Il cristianesimo ad esem113. J. Ziegler, I vivi e la morte. Saggio sulla morte nei paesi capitalisti, Mondatori,
Milano 1982
114. Cfr. M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte
nella cultura contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 48
64
Capitolo I
pio annuncia la speranza nella risurrezione, tuttavia non sottovaluta l’evento del trapasso, non ne toglie il peso e la sofferenza e nemmeno concede sconti. Il venerdì santo è sempre il tempo della tenebra e del lamento che porta sulla scena impressionante della croce lo strazio dell’abbandono di chi, nonostante sia sostenuto dalla speranza, si sente sprofondare nella morte. Il pensiero del sabato di risurrezione è pensabile attutisca
in parte il dolore del trapasso, ma non lo soppianta né lo ignora. La sofferenza dilaga e semina sconcerto. Tra venerdì e sabato santo, c’è un salto, pur nell’indissolubile e sostanziale unità. Per quanto si anticipi la
promessa della vita, quando si cade, si cade senza attenuanti.
Chi però pretende di anticipare l’esperienza del sabato, trapiantandola nel venerdì, incorre nel pericolo di rimuovere l’evento della morte più
che sperimentarne lo strazio. La fede può stimolare una rassegnazione
che alleggerisce il commiato definitivo dalla cerchia delle persone care.
Annunciando che “l’estinto è passato a miglior vita” allaccia delle facili
alleanze con l’istinto di rimozione. Si scende a un patteggiamento con il
destino e i suoi contraccolpi. Una volta che riesce l’intento di togliere alla
morte il suo pungolo doloroso, si corre il rischio di togliere ad essa anche
la sua serietà e di banalizzarla. La vita può riprendere indisturbata il suo
corso e il capitolo della sofferenza venir chiuso rapidamente. Se la fede
approdasse a questo risultato non potrebbe essere detta autentica, sarebbe vissuta come un narcotico che risparmia la fatica del vivere e mitiga le
delusioni dell’esistenza. Ma il cristianesimo non sopprime né la sofferenza né la morte, ma le contempera, conferendo loro una misura e salvaguardandone il carattere umano, rende perciò tollerabili le avversità, le
colloca sotto la protezione della speranza ma se le mitiga non le sospende e tanto meno le elimina 115.
Un altro atteggiamento di rifiuto della morte si verifica quando la vita
viene vissuta come fuga dalla libertà, quando l’uomo rinuncia a “essere”,
influenzato dall’autoritarismo e dalla distruttività116. L’autoritarismo porta
l’uomo a identificarsi con qualcosa, individuo o situazione, per trovare
quella forza decisionale e operativa che lo rassicuri nel vuoto di certezze
115. Cfr. M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte
nella cultura contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 49–51
116. E. Fromm, Fuga dalla libertà, Comunità, Milano 1972
La morte nella società contemporanea
65
interiori. È il messaggio di perenne attualità di Dostoevskij, quando ne I
fratelli Karamazov fa dire al Grande Inquisitore che Cristo non ha capito
gli uomini: essi vogliono pane, divertimenti e sicurezza, ma non la libertà
che richiede uno sforzo interiore. In questo quadro che ricorda la società
dei consumi, la morte può trovare posto solo come accidente improvviso.
Ma dal rifiuto della morte scaturisce anche una concezione negativa
della vita. Se Freud aveva visto nella dialettica eros e thanatos le fondamentali tendenze inconsce della psiche e, nel prevalere dell’eros, la vita e
quindi la possibilità della storia di continuare, oggi questa dialettica sembra conoscere il prevalere dell’amore della morte, della libido mortis.
Di conseguenza non esiste più l’uomo, contraddistinto dalla interiorità,
dalla libertà, dalla creatività, dalla oblatività, ma persiste al contrario quello spirito di distruttività, del quale il terrorismo è fenomeno eclatante.
In conclusione, dobbiamo però ricordare che la tesi della rimozione
della morte dalla odierna società incontra anche voci critiche.
Così, si è affermato che “nel momento in cui la morte viene avvertita
come una minaccia direttamente incombente, diventando così aspetto
della “struttura portante” significativa dell’esistenza, essa diventa anche
materia di dialogo e viene cercata per le possibilità della sua significazione. Nelle case di riposo per anziani si pensa alla morte e se ne parla.
Che gli altri gruppi generazionali tacciano in maniera crescente sull’argomento della morte è segno che essa non è ancora diventata per loro una esperienza vissuta. Da ciò allora e non da una rimozione dipende che, sulla base di una “trasformazione radicale nell’esperienza vissuta della struttura temporale dell’esistenza”, la morte sia andata perduta
come “aspetto essenziale della propria identità” 117.
Ancora più decisamente contro la tesi della rimozione della morte si
è levata l’affermazione che “l’attuale relatività e variabilità delle immagini della morte è indice di un (nuovo) atteggiamento nei confronti della
morte, non ancora esistente, ma da conquistare” 118.
In conclusione, a titolo indicativo si possono cosi indicare i cambiamenti, nel ventesimo secolo, degli atteggiamenti verso la morte nella cul117.
118.
1975
E. Jungle, Morte, Queriniana, Brescia 1972, pp. 58–59
W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Einaudi, Torino
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Capitolo I
tura americana, ritenendo che possono essere rappresentativi della
società occidentale 119 (vedi tabella 1.):
Per quanto riguarda la cultura italiana, si può affermare che sulla
“terza pagina” dei giornali italiani, intesa come “un eco della riflessione
teoretica e scientifica” 120, il tema della morte è quasi ordinariamente
associato a concetti e problematiche quali l’anomia, la solitudine, il non
senso, la medicalizzazione, la rimozione, la banalizzazione. Sono concetti e problematiche non inventati dagli autori dei pezzi giornalistici, ma
da essi ricevuti dalla cultura dominante e dai suoi filoni o più affermati
o più reclamizzati. È bene, dunque, ricordare che la concezione della
morte, che si riflette sulla pagina culturale dei quotidiani, è ispirata da
quella “profonda crisi della cultura che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e dell’etica e rende sempre più difficile cogliere
con chiarezza il senso dell’uomo”.
È la stessa cultura che, citando ancora Giovanni Paolo II, esprime “un
grave impoverimento” per quanto riguarda le relazioni interpersonali,
riduce ogni realtà a quelle sperimentabili con la razionalità tecnico–
scientifica; esaspera il concetto di soggettività e “riconosce come titolare
di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed
esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri”, e tende ad identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed
esplicita; ammette il relativismo etico” 121.
Questa cultura censura qualsiasi forma di sofferenza come “una sorta
di affronto alla civiltà tecnologica”, come “il grido osceno di un limite
contro il quale il titanismo dell’uomo moderno deve soccombere” 122.
Se il ruolo sociale della morte e l’atteggiamento del singolo di fronte
ad essa hanno subito una trasformazione in conseguenza dello sviluppo
tecnico e scientifico che ha contribuito a secolarizzare la società, oggi è
119. R. Fulton, G. Owen, Death and society in twentieth century America, cit. in B.
Hayslip, J. Leon, Hospice Care, Sage, Newbury Park 1992, p. 10
120. G. Mucci, Il tema della morte nella pagina culturale dei quotidiani, “La Civiltà
Cattolica” (1998), 3553, pp. 17–28
121. Giovanni Paolo II, Lett. Enc, Evangelium vitae, nn. 11,13,19
122. A. Vendemmiati, Legge della vita e diritti della persona in Evangelium vitae,
“Doctor Communis” (1998), 51, p. 71
67
La morte nella società contemporanea
anche il momento in cui molte certezze, riposte in questo sviluppo, mostrano i loro limiti e cominciano a essere rimesse in discussione.
Un risveglio che possiamo chiamare religioso, se per religioso intendiamo l’atteggiamento di colui che prende coscienza del mistero che
lo circonda.
Tabella 1.
Coorte 1 Persone nate prima della
realizzazione della bomba atomica e di età
dai 50 agli 80 anni
Coorte 2 Persone nate dopo la
realizzazione della bomba atomica e di età
dai 20 ai 40 anni
La morte è vicina
La morte è lontana
La morte è nella propria casa
La morte è istituzionalizzata
Si fa affidamento su stessi o sull’aiuto degli
altri per la sopravvivenza
Si fa affidamento sulla tecnologia per la
sopravvivenza
La morte è sempre presente, reale, visibile
La morte è invisibile
Fondamentalità delle convinzioni religiose
cristiane ed ebraiche
Le tradizionali convinzioni religiose sono
meno importanti
Una ridotta aspettativa di vita
Un aumento dell’aspettativa di vita
L’istruzione è un beneficio poco avvertito
L’istruzione è accessibile a moltissime
persone
Una ridotta visione e influenza della
televisione
Una aumentata influenza della televisione
La bomba atomica è stata necessaria per la
fine della guerra
La bomba atomica può distruggere tutte le
vite
Chiara differenza tra bene e male, tra eroe e
mascalzone
Il bene, il male, l’eroe, il mascalzone
possono coesistere
I valori sono assoluti
I valori sono relativi
Nessuna specializzazione nell’assistenza
L’assistenza è specializzata
Assoluto valore della famiglia
Famiglia in dissoluzione
La morte è personale
La morte è impersonale, anonima
Da qui la necessità di un maggiore impegno cristiano nella società, un
impegno apportatore della speranza della vita, poiché la morte ha un
senso soltanto se insieme ad essa è annunciata anche la vita.
La comunità cristiana è chiamata a testimoniare il mistero della morte e
risurrezione del Signore e propiziare la fede nella presenza e nella compa-
68
Capitolo I
gnia del Dio di Gesù Cristo al nostro morire. In realtà le parole, i riti, la vicinanza, nei quali si esprimono tale testimonianza e tale ministero vanno
sempre più perdendo di forza e di evidenza. Tutto questo lo si coglie nella
predicazione cui spetterebbe per prima il compito di istruire la fede circa il
senso cristiano della morte e il giudizio cristiano su come si muore in questo mondo. Sembra, infatti, che anche le comunità cristiane, e diciamo i
pastori in primo luogo, si lascino prendere da una sorta di “pudore” nel parlare della morte e non siano in grado di elaborare nuove parole e riflessioni. Per esempio, c’è da ammettere che la morte e in genere i novissimi non
hanno molto spazio nella predicazione e nelle catechesi delle nostre comunità. E quando questi temi sono in qualche modo affrontati sono poco convincenti forse perché partendo da affermazioni aprioristiche vogliono troppo convincere. In questo modo finisce che anche i cristiani partecipano
della cultura della rimozione che fa parte della mentalità dominante. Certo
è difficile parlare della morte all’uomo di oggi, si corre il rischio di essere
fraintesi. Si capisce che sull’attuale silenzio pesa un certo senso di colpa verso il passato, quando della morte e dell’aldilà si è parlato troppo, con eccessiva presunzione, in termini a volte deterrenti, non senza risentimenti verso
questa vita. Ma ne siamo certi, il rimedio non sta nel silenzio che, anzi, sembra confermare l’inconsistenza del discorso di un tempo e dà la sensazione
di accettare passivamente la rimozione che la cultura di oggi fa della morte
e dell’aldilà. Il discorso cattolico sulle cose ultime sta recuperando faticosamente la centralità del riferimento alla figura di Gesù Cristo e ancor più sta
cercando di ridire in parole antropologicamente più competenti tutta una
simbologia legata a un’antica visione cosmologica. Per esempio, le immagini del “cielo” o degli “inferi” persistono nell’immaginario e nella mentalità
delle persone ancora insistentemente come “luoghi” più che come “situazioni” esistenziali. Occorre proporre itinerari riflessivi e meditativi nei quali
sia possibile un maggior dialogo tra le grandi questioni dell’uomo e la
Parola di Dio. È a partire da queste attenzioni e prospettive che alcuni temi
potrebbero entrare a far parte di una formazione costante della comunità
per diventare poi patrimonio di convinzioni e comportamenti per un cristiano adulto che vive il proprio tempo 123.
123. C. Salvetti, Senso del morire e pastorale dei funerali. La morte e la sua celebrazione. II, “Rivista del Clero Italiano” (2002), 11, p.764–765
La morte nella società contemporanea
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Questo presuppone anche una corretta interpretazione dell’eterna
validità del messaggio biblico: l’uomo, non esorcizza la morte e per ottenere questo si ricorda di Dio, ma viceversa vive davanti al Dio della vita,
all’interno di esperienze vive, e così prende coscienza che Jahvè è il Dio
della vita.