233-244 Minani - Conflitti dimenticati

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233-244 Minani - Conflitti dimenticati
aggiornamenti sociali 3/1997
96. Africa Centrale 1
PANORAMI ESTERI
I RETROSCENA DELLA CRISI
NELLA REGIONE DEI GRANDI LAGHI
RIGOBERT MINANI BIHUZO S.I.
Ricercatore in Scienze politiche
La regione centro-africana dei grandi laghi (1) si trova ormai proiettata in primo piano nell’attualità internazionale. La fama di almeno tre
Paesi della regione ( Ruanda, Burundi, Zaire ) e di due delle sue etnie
(Hutu e Tutsi) resterà a lungo fissata nell’opinione pubblica.
Molti osservatori stranieri e anche africani hanno espresso la loro difficoltà di comprendere il ripetersi di episodi in cui la violenza interetnica,
i genocidi e le guerre si scatenano con una rara brutalità.
La cosa infatti è tanto più strana, in quanto tra i principali gruppi etnici coinvolti nei conflitti, ossia gli Hutu e i Tutsi (2), in apparenza non
c’è nulla che dovrebbe opporli. A parte la discussa questione della loro
morfologia e delle loro origini (3), Hutu e Tutsi parlano la stessa lingua,
hanno la stessa cultura, praticano generalmente la stessa religione e abitano sulle stesse terre, per cui non esistono villaggi o città esclusivamente Hutu o Tutsi. In tempo di pace questi popoli vivono in armonia, e tra
di loro si contano anche parecchi matrimoni interetnici.
1. Motivi degli scontri periodici tra questi popoli.
I conflitti nel Burundi e nel Ruanda non sono dovuti alla fatalità, né
a una particolare barbarie degli abitanti di questa parte dell’Africa e
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(1) La regione dei grandi laghi (così denominata perché include nel suo territorio alcuni laghi di vasta superficie: Vittoria, Tanganica, Alberto, Kivu, Mobutu, Kyoga) comprende sei Paesi: Burundi, Kenya, Ruanda, Uganda, Tanzania e Zaire.
(2) Queste due etnie rappresentano i gruppi più importanti del Ruanda e del Burundi. La percentuale di ogni gruppo sul totale della popolazione è sempre stata oggetto di manipolazione politica. «Secondo il censimento del 1991, il 90,4% (pari a circa 6,5 milioni)
della popolazione residente in Ruanda era Hutu, l’8,2% (pari a 0,6 milioni) era Tutsi e lo
0,4% (pari a circa 30.000) era Twa. In generale, anche se con alcune eccezioni, i commentatori sono concordi nel dire che questi dati rispecchiano la realtà. Essi corrispondono anche
ai risultati ottenuti estrapolandoli da precedenti censimenti e dai dati sulle migrazioni»
(Joint evaluation of emergency assistance to Rwanda, vol. 1, p. 16).
(3) Si veda, in proposito, Joint evaluation of emergency assistance to Rwanda, cit., pp. 21-25.
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non sono neppure la conseguenza di un odio viscerale fra le etnie. Sono
piuttosto il risultato del modo di costituirsi delle strutture politiche e delle
forme di potere, caratterizzato dalla mancata composizione di interessi
contraddittori e dal rifiuto di una competizione democratica da parte
dei dirigenti della regione.
Le diverse crisi possono essere datate, localizzate e analizzate partendo dalle strategie di esponenti politici che manipolano deliberatamente i fantasmi delle paure collettive per mobilitare i popoli sulla base
della loro appartenenza etnica, inducendoli, nei momenti di crisi più
acute, a neutralizzare le altre forme di appartenenza e di solidarietà sociale. In tale contesto, l’etnia veicola la mobilitazione di parte e la spiegazione etnica della crisi assume il ruolo di paravento politico.
Le guerre, i genocidi, gli scontri etnici nella regione dei grandi laghi
non sono quindi in alcun modo la conseguenza di cause storiche, ma
piuttosto una maniera criminale di governare, un modo cruento di conquista, di controllo e di conservazione del potere. Per il potere, i leader
politici sembrano disposti a tutto. Quando l’appartenenza all’etnia non
garantisce più la permanenza al potere, le coalizioni tra i membri delle
etnie antagoniste si fanno o si disfano (4) a costo di perpetrare o di avallare massacri del proprio gruppo (5).
Una scorsa rapida alla storia recente di questi Paesi sarà sufficiente
a confermare la nostra tesi.
2. Ruanda.
Le differenze tra i gruppi etnici, che secondo parecchi autori esistevano già nel Ruanda precoloniale (6), erano state consolidate dal potere coloniale belga (durato, in forme giuridiche diverse, dal 1919 al 1962) che
le riprodusse a livello delle nuove posizioni sociali. Le élite scolarizzate
(4) Illuminanti, in proposito, sono, ad esempio, la scissione tra gli Hutu del nord e
quelli del sud in Ruanda, l’opposizione fra i Tutsi del Bururi e quelli delle altre province
in Burundi, ecc.
(5) In Ruanda, in cui il potere effettivo è in mano ai Tutsi, il Presidente, che è un
Hutu, ha avallato i bombardamenti dei campi dei rifugiati Hutu nello Zaire. Nel Burundi,
tra coloro che hanno la pesante responsabilità dell’assassinio del Presidente Ndadaye, di
etnia Hutu, perpetrato nel 1993, c’è François Ngeze, un Hutu dell’UPRONA, partito a maggioranza Tutsi.
(6) «Come capi dello Stato del Ruanda alla fine del 19° secolo, i Mwami [...] governavano dispoticamente. [...] In base ai 500 anni della cronologia Mwami, tutti i Bami [...]
erano Tutsi (Kagame, 1957; Vansina, 1962). Nessuno di loro era sposato con una donna
Hutu [...]. Sembra, inoltre, che tutti i grandi capi siano stati Tutsi (Lema, 1993)» (Joint
evaluation of emergency assistance to Rwanda, cit., p. 24).
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nelle buone scuole (scuole dei capi) e promosse dall’autorità coloniale
come braccio esecutivo della politica di amministrazione indiretta, appartenevano quasi esclusivamente all’ etnia principesca e minoritaria
Tutsi.
Alla vigilia dell’indipendenza (attuata nel 1962), i colonizzatori, volendo contrastare l’influenza crescente delle rivendicazioni indipendentiste di questa stessa élite, sostennero i quadri Hutu che militavano in favore dell’assunzione del potere da parte della loro etnia maggioritaria.
Al termine dell’epoca coloniale, certe deviazioni passate della monarchia Tutsi furono sottolineate e poste sotto accusa. Quello precedente
all’indipendenza fu considerato dagli Hutu come un periodo di grande
umiliazione, in cui essi erano utili soltanto per la schiavitù e le corvé.
Approfittando del sostegno dei coloni e della Chiesa, la massa contadina
Hutu si rivoltò contro la monarchia che, all’indomani dell’indipendenza,
voleva riprendere il potere. Questa rivoluzione detta «sociale» fu seguita dalla repressione contro i Tutsi, o meglio dalla loro espulsione e dalla
confisca dei loro beni.
Per abolire i privilegi politici ed economici dei Tutsi e controllare le
modalità di promozione sociale, gli Hutu seguirono uno schema politico
a base di esclusione etnica e regionale. La conseguenza fu che la minoranza Tutsi visse in una insicurezza crescente. Di fronte a una separazione etnica che continuò ad approfondirsi, l’emigrazione verso i Paesi limitrofi fu incessante.
Nel 1990 gli esiliati Tutsi, sostenuti dall’Uganda e dagli USA, presero
le armi per riconquistare il potere. Dopo tre anni di una guerra costosa e
sanguinosa che fece migliaia di morti e più di un milione di esuli interni,
il 4 agosto 1993 i belligeranti firmarono, sulla base di una separazione
etnica resa violenta dalle sofferenze della guerra, degli accordi di pace
che non furono mai rispettati.
L’assassinio, il 6 aprile 1994, del Presidente ruandese e quello del
suo omologo burundese che lo seguì segnarono l’acme della crisi. Un
ignobile genocidio contro i Tutsi e contro gli Hutu moderati loro alleati si
scatenò la sera stessa del primo assassinio. Esso provocò in due mesi tra
500.000 e 1.000.000 di morti tra Tutsi e Hutu (7).
(7) In questo stesso periodo, furono pure massacrate dall’FPR le popolazioni civili
Hutu nelle zone controllate da quella che allora veniva chiamata «la ribellione Tutsi». Si
veda, per maggiori dettagli, F. REYNTJENS, Trois jours qui ont fait basculer l’histoire, CEDAF, Harmattan, Paris 1995.
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I ribelli Tutsi (Fronte Patriottico Ruandese) vinsero la guerra il 7 luglio 1994. Più di due milioni di profughi che fuggivano la guerra, le milizie Hutu e il governo ruandese ad interim sconfinarono nello Zaire. Essi
provocarono così, rimanendone vittime insieme alla popolazione zairese, una crisi umanitaria dalle proporzioni allucinanti (8).
3. Burundi.
Nel Burundi imperversa dal 1993 una guerra civile. Per spiegare la situazione caotica del suo Paese, il Presidente Sylvestre Nitbatunganya
(di etnia Hutu), rovesciato nel luglio 1966 da un golpe militare, diceva
in un discorso: «Il colpo di Stato del 21 ottobre 1993 ha infranto la speranza. Fu un attacco della paura contro la speranza. Ma la conseguenza
è che oggi la paura è generalizzata».
Gli osservatori della questione burundese propongono di esaminare
i tragici avvenimenti del Burundi dell’ottobre 1993 tenendo conto del
contesto generale che è prevalso in questo Paese, soprattutto dall’anno
dell’indipendenza (1962), e nel quale il fattore etnico ha giocato un ruolo
determinante. La storia recente del Burundi è punteggiata da deviazioni
istituzionali, accompagnate da repressioni sanguinose provocate da esasperazioni periodiche dei conflitti etnici.
Il quadro politico del Burundi, che in passato era più stabile, aveva
subito il contraccolpo degli avvenimenti svoltisi in Ruanda alla vigilia
dell’indipendenza. Da allora, il cristallizzarsi dei riferimenti etnici che
essi avevano introdotto è andato continuamente rafforzandosi.
La storia del Burundi è scritta col sangue. Nel settembre 1961 il
principe Louis Rwagasore fu nominato re nel quadro di una monarchia
costituzionale. Egli fu assassinato un mese più tardi. Seguirono, nel
1966, l’assassinio di un Primo Ministro di etnia Hutu e, nel novembre
dello stesso anno, un colpo di Stato preceduto e seguito da esecuzioni
sommarie di Hutu. Nel 1972, per la prima volta in questa regione, avrà
luogo un vero e proprio genocidio pianificato ed eseguito con freddezza.
Esso colpirà gli Hutu militari, intellettuali, studenti universitari, alunni
delle scuole primarie e secondarie. Si conteranno più di 300.000 morti.
L’esercito sarà ormai formato solo di Tutsi. Anche le altre strutture del
potere (magistratura, amministrazione, commercio, ecc.) saranno monopolizzate dai Tutsi.
(8) In meno di due settimane, più di 100.000 persone morirono di sfinimento, di colera, di dissenteria.
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Nel 1988 ebbe luogo un altro genocidio di Hutu, effettuato questa
volta con armi pesanti, bombe incendiare e appoggio degli elicotteri militari. Si ebbero 20.000 morti in 48 ore. Il governo al potere ne risultò
squalificato agli occhi della comunità internazionale, e per riacquistarne
la fiducia dette l’avvio a un processo di democratizzazione. Nel giugno
1993 si tennero le prime elezioni libere e democratiche, da cui uscì vincitore un Presidente Hutu. In luglio ci fu un tentativo di colpo di Stato. In
ottobre, il Presidente eletto e un gran numero di suoi collaboratori furono assassinati con un altro colpo di Stato. Comincerà allora un doppio genocidio. Gli Hutu attaccarono i Tutsi, mentre i Tutsi, sostenuti dall’esercito, massacrarono gli Hutu. Gli Hutu superstiti si dettero alla macchia.
Il doppio genocidio continua ancora oggi.
Gli avvenimenti sviluppatisi a partire dal 1972 avevano così assicurato e consolidato il dominio della minoranza etnica Tutsi sulla maggioranza Hutu, praticamente esclusa dalla gestione del potere. Il 1972 costituì
per il Burundi una svolta importante. L’eliminazione della quasi totalità
degli intellettuali, fino al livello delle scuole primarie e secondarie, non
sarà più dimenticata dagli scampati all’ecatombe.
Costretta a scegliere tra la sottomissione, la rassegnazione, l’esilio o
la scomparsa fisica, la maggioranza Hutu conserverà sensi di frustrazione e di odio, di ostilità e di vendetta, mentre la minoranza vivrà continuamente nell’insicurezza e nell’ossessione di essere schiacciata, o addirittura sterminata, dalla maggioranza un tempo al potere. La costituzione di un esercito quasi esclusivamente Tutsi e superequipaggiato sarà la
garanzia temporanea di sicurezza.
La doppia vittoria alle elezioni presidenziali e legislative (1° giugno e
29 giugno 1993) conseguita dal Fronte per la Democrazia nel Burundi
(FRODEBU) offriva alla maggioranza Hutu un’occasione insperata di assumere ormai la responsabilità del potere. Ma accrebbe nello stesso tempo
l’inquietudine della minoranza e la sua umiliazione di vedersi governare
da coloro stessi su cui aveva dominato per decenni.
La minoranza che era stata a lungo al governo e che deteneva il potere effettivo (l’esercito e l’amministrazione) non accettò di conformarsi
ai risultati delle urne. Da qui il colpo di Stato del 21 ottobre 1993, che mirava a decapitare il vertice dello Stato e del FRODEBU e a bloccare il funzionamento delle istituzioni. Questo colpo di Stato e soprattutto l’assassinio del primo Presidente di etnia Hutu , Melchior Ndadaye, e di altri
esponenti Hutu, tutti eletti democraticamente, furono percepiti dai loro
elettori come il rifiuto da parte della minoranza, cioè dell’ UPRONA
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(Unione per il progresso della nazione) e degli altri partiti dell’opposizione alleati all’UPRONA, di un governo espresso dagli Hutu e costituirono di fatto una rimessa in questione del processo di democratizzazione.
In un accesso di disperazione, gli Hutu, che conservavano ancora
nella loro memoria collettiva i traumi dei massacri del 1972 e del 1988,
sia come autodifesa, sia per controbattere il genocidio iniziato al vertice,
scatenarono immediatamente dei massacri dei Tutsi che risiedevano nelle campagne. A questa sanguinosa e violenta reazione degli Hutu contro
i Tutsi rispose una reazione dei Tutsi sostenuta dai militari. Si ritiene che
le vittime siano state circa 100.000 tra Hutu e Tutsi (9).
In seguito alla catastrofica reazione Hutu e alla condanna internazionale, l’esercito rinunciò a prendere direttamente il potere. Il suo alleato politico, l’UPRONA, impose tuttavia dei negoziati per «una democrazia adatta al Burundi», cioè fatta su misura per coloro che avevano perso
le elezioni. L’ala dura del FRODEBU, che considerava questi negoziati
imposti dall’UPRONA come un modo di perpetuare il colpo di Stato e
l’assoggettamento della maggioranza, entrò nella resistenza. Si tratta
dell’attuale Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (CNDD)
e del suo braccio militare, le FDD (Forze per la Difesa della Democrazia), che vengono chiamati la «ribellione Hutu».
Cacciati dalla capitale Bujumbura, i membri di questa coalizione per
la difesa della democrazia dettero vita a un grande movimento di resistenza nel Paese. Altri andarono in esilio in Zaire e in Tanzania, da dove
dirigevano le azioni contro l’esercito del Burundi. Lo Zaire diventerà
così il santuario dei rifugiati Hutu sia ruandesi sia burundesi, dei loro dirigenti politici e delle loro rispettive milizie.
Durante il periodo in cui durò l’esilio dei rifugiati in Zaire, gli organi di potere Tutsi, in Ruanda e in Burundi, consolidarono le loro posizioni e rifiutarono ogni soluzione negoziata che potesse facilitare il ritorno dei profughi e la soluzione pacifica dei conflitti (10).
Sebbene la divisione etnica sia stata onnipresente nelle crisi e svolga
tuttora una funzione politica rilevante nel rapporto tra gli attori, gli organi di potere Tutsi rifiutano qualunque riferimento a questa realtà. Es(9) Cfr. Rapport de la commission internationale d’enquête sur les violations des
droits de l’homme au Burundi depuis le 21 octobre 1993, F.I.D.H., Paris 1994.
(10) Si vedano, in proposito, le numerose lettere dell’arcivescovo di Bukavu, mons.
Munzihirwa, che sarà assassinato a Bukavu il 28 ottobre 1996 da membri dell’APR, e P. DE
DORLODOT, Les réfugiés rwandais à Bukavu. De nouveau palestiniens?, Groupe Jérémie/Harmattan, Paris 1996.
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si optano per un pluralismo etnico «compiacente» (11). Secondo i leader
Hutu, tale rifiuto è un elemento essenziale della strategia egemonica dei
Tutsi. Esso permetterebbe loro di pretendere sempre il governo con il
pretesto che ogni distinzione fra Hutu e Tutsi, tra maggioranza e minoranza è immaginaria. Questa ideologia, secondo il professor Reyntjens,
viene giustificata dai Tutsi in una forma paradossale: «Se, nell’una o
nell’altra istituzione, gli Hutu sono in maggioranza, questo si chiama
“discriminazione etnica”; invece, se in maggioranza sono i Tutsi, questa
si chiama “meritocrazia”, o, come hanno fatto capire dei rappresentanti
del nuovo regime ruandese ai loro stupiti uditori in occasione di una
conferenza scientifica ad Arusha nel settembre 1995, “la qualità prevale
sulla quantità”» (12).
Perciò gli appelli alla riconciliazione fra etnie e alla ripartizione del potere lanciati dai Paesi africani, dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dalle Chiese e dalle associazioni della società civile della regione
sono considerati dai Tutsi al potere come «separatisti». Questa situazione
di stallo ha fatto sì che una logica di guerra si sviluppasse da una parte e
dall’altra. Le ex forze armate ruandesi, come pure le FDD, che esercitano
la loro influenza su milioni di profughi Hutu, hanno continuato ad armarsi e hanno intensificato le loro azioni di sabotaggio all’interno del
Ruanda e del Burundi. Gli eserciti ruandese e burundese, a loro volta,
non hanno esitato a fare rappresaglie sulla popolazione civile Hutu
dell’interno considerata complice delle incursioni dall’esterno, ma anche ad organizzare azioni punitive contro i campi profughi in territorio
zairese. Le relazioni tra Ruanda, Burundi e Zaire si sono ben presto deteriorate. Poiché la questione fondamentale della spartizione del potere
senza ipocrisia non è stata risolta, l’esito della crisi non poteva essere
per il momento che militare.
4. Zaire.
Lo Zaire, ex Congo Belga, diventa indipendente in piena guerra fredda
(30 giugno 1960). Situato strategicamente nel cuore dell’Africa, sarà ambito dai due grandi antagonisti (Stati Uniti e Unione Sovietica) e si pre(11) Nel Ruanda attuale «la maggioranza dei deputati all’Assemblea nazionale,
quattro dei sei membri della Corte suprema, più dell’80% dei sindaci, la quasi totalità dei
direttori generali dei ministeri, la stragrande maggioranza dei professori e degli studenti
universitari, la quasi totalità dell’esercito e dei servizi di sicurezza dello Stato [...] sono
Tutsi» (F. REYNTJENS, Gérer le noveau Rwanda né en 1994, in «La revue nouvelle», luglioagosto 1996, p. ...).
(12) F. REYNTJENS, art. cit., pp. 14-21.
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sterà bene all’influenza degli uni e degli altri. Gli USA lo adopereranno
come base ideale per la lotta anticomunista. Le sue dimensioni e il fatto
che sia un serbatoio immenso di materie prime strategiche (13) attireranno l’attenzione di entrambi.
Nella rivalità accanita tra USA e URSS per assicurarsi il controllo del
Paese, Patrice Lumumba, leader nazionalista eletto democraticamente,
fu assassinato il 17 gennaio 1961. Mobutu , identificato molto prima
dell’indipendenza dai servizi segreti occidentali come l’uomo in grado di
difendere gli interessi del «mondo libero», assunse il potere il 24 novembre 1965 con un colpo di Stato militare e governò, da allora, da dittatore,
rendendosi responsabile di enormi appropriazioni indebite di beni pubblici. Egli allineò la sua politica a quella degli USA, con la conseguenza che
i suoi interessi privati e quelli degli Occidentali prevalsero di molto su
quelli dello Zaire. Il Paese sprofondò progressivamente nel-l’anarchia,
nella povertà e nel terrore.
La trascuratezza per il bene del Paese e i danni ad esso inferti, che
vanno ascritti alla dittatura instauratasi nello Zaire, furono la conseguenza della cupidigia e del banditismo di una classe politica, con a capo
Mobutu, formata da predatori delinquenti, legati alla dittatura e suoi pilastri. I capi militari e quelli dei servizi segreti come alcuni altri privilegiati, scelti in ogni regione in modo strategico, erano i veri baroni del regime. Essi non vivevano del loro lavoro, ma della rendita derivante dalla
loro contiguità con il clan e la famiglia del Presidente; controllavano gli
ingranaggi dello Stato e si inserivano nei gangli dell’economia in completa illegalità e impunità per ottenere il massimo di vantaggi possibili
(monopoli, esenzione da dazi doganali, ecc.). Ogni carica dirigenziale
era un luogo da cui perpetrare estorsioni quasi ufficialmente nei confronti dei propri compatrioti.
Dopo trentadue anni di una simile politica, il Paese, definito «scandalo geologico» (14), si trova a essere uno dei più poveri dell’Africa, con un
Presidente considerato uno degli uomini più ricchi del mondo (15).
Finita la guerra fredda, l’Occidente non aveva più ragioni obiettive
per continuare a proteggere un regime universalmente riconosciuto co(13) L’uranio del Congo Belga era servito alla fabbricazione delle bombe atomiche
lanciate su Hiroshima e Nagasaki.
(14) Lo Zaire è il sesto produttore mondiale di rame, l’ottavo produttore di zinco, il
primo produttore di diamanti per gioielli, il primo produttore di cobalto, ecc., e possiede i
terreni vulcanici più fertili dell’Africa.
(15) Egli possiederebbe un capitale privato di oltre nove miliardi di dollari.
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me corrotto. La popolazione, da molto tempo in lotta contro questa dittatura, approfittò dell’isolamento di Mobutu per intensificare la resistenza. Essa riuscì a strappare la convocazione della Conferenza Nazionale
Sovrana (CNS) (16), nel corso della quale le forze vive del Paese in essa
rappresentate imputarono all’unanimità al sistema di potere di Mobutu
la causa della deriva dello Stato. Questa assemblea chiese che i responsabili degli assassinii politici, delle sottrazioni di fondi e degli arricchimenti
illeciti e fraudolenti venissero processati. Mobutu, che fin dall’inizio si
era opposto alla convocazione della Conferenza, rifiutò di conformarsi
alle sue risoluzioni. Questo rifiuto diede inizio a uno scontro tra il popolo
e la dittatura, la quale, premuta dal panico e dalla disperazione, si trasformò ancor più in un potere tenace e crudele (17). Si giunse a organizzare la distruzione dei mezzi di produzione; i salari non furono più pagati; vennero finanziati massacri di civili e uccisioni di leader sociali e
dell’opposizione. Ma in questo clima di insicurezza creata ad arte, definibile come terrorismo di Stato, i giorni di Mobutu erano ormai contati.
Il conflitto etnico nel Ruanda e nel Burundi e il conseguente dilagare di due milioni di profughi nel territorio dello Zaire saranno per Mobutu
un’occasione per emergere dalle macerie e per riproporsi come garante
della stabilità e come interlocutore insostituibile per gli Occidentali. La
gravità del dramma ruandese e burundese ha così eclissato gli oltre
trent’anni di calvario del popolo zairese e risuscitato politicamente Mobutu.
Abituato a fare il piromane-pompiere e a trarre profitto dai conflitti
in Africa, Mobutu ha giocato a fondo la carta dei rifugiati: si è inserito
pericolosamente tra la Francia e gli USA, mettendo a rischio le mire americane nella regione dei grandi laghi. Le milizie Hutu del Ruanda e del
Burundi hanno continuato ad essere equipaggiate dalla Francia sul territorio dello Zaire. Esse rappresentavano un pericolo per la stabilità dei
regimi Tutsi sostenuti ed equipaggiati dagli americani. Lo scontro non
poteva tardare.
(16) Conferenza extracostituzionale, composta da 2.800 delegati, eletti o designati
da tutte le forze vive della nazione, i cui lavori sono durati dall’agosto 1991 al dicembre
1992. Per una attenta analisi del significato e degli esiti di questa Conferenza, cfr. E.
TRIAILLE, La difficile democratizzazione dello Zaire, in «Aggiornamenti Sociali», n. 4
(aprile) 1994, pp. 291-304, rubr. 962.
(17) Il 16 febbraio 1992 un milione di persone manifestarono pubblicamente contro
la decisione di Mobutu di interrompere i lavori della Conferenza nazionale sovrana. Le
forze di sicurezza spararono sulla folla uccidendo oltre 40 persone e ferendone più di un
centinaio.
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Gli eserciti del Burundi e del Ruanda si coalizzarono per attaccare lo
Zaire e cominciarono con il disperdere a cannonate i campi profughi,
considerati retrovie delle milizie Hutu. A sua volta l’Uganda si unì a
questi due Paesi per neutralizzare i ribelli al governo di Kampala situati
nelle zone confinanti con lo Zaire. Questa coalizione di eserciti si trovò
di fronte un esercito zairese indisciplinato, demotivato, alla testa del
quale si trovava un maresciallo Mobutu ormai malato di cancro alla prostata, in un Paese rovinato da più di un quarto di secolo di dittatura. Le
condizioni strategiche ideali per il successo dell’attacco c’erano tutte.
L’esercito dello Zaire, non motivato perché trascurato a beneficio delle
milizie private del dittatore, da molto tempo non pagato e mal equipaggiato, oppose soltanto una resistenza simbolica.
5. Il pretesto dell’attacco allo Zaire o la questione della nazionalità.
Non potendo attaccare direttamente lo Zaire per ragioni di diplomazia internazionale, il Ruanda e il Burundi ricorsero alla complicità dei
Tutsi che risiedevano nello Zaire (18). Il compito fu tanto più facile in
quanto molti di loro si erano già uniti fin dal 1990 al movimento di resistenza dell’FPR in Uganda. Essi combatterono contro il Ruanda fino al
1994. Dalla fine di luglio del 1994, i soldati dell’Esercito Patriottico
Ruandese dell’etnia Tutsi, detta Banya-Mulenge, cominciarono a infiltrarsi nello Zaire, sugli altipiani che sovrastano la pianura della Rusizi,
non lontano dalle frontiere con il Ruanda e con il Burundi. La presenza
nei villaggi di questi giovani armati creava il panico tra le popolazioni
locali di altre etnie. Queste fecero appello all’autorità politico-militare
zairese che cercò di risolvere la questione con leggerezza e irresponsabilità. Ci furono così casi di violazione dei diritti della persona. I BanyaMulenge parleranno di persecuzione. In effetti, il comportamento ambiguo di alcuni intellettuali Tutsi che vivevano nello Zaire (19) rese scottante la questione della nazionalità dei ruandesi rifugiati in quel Paese
dal 1959 e dei Tutsi arruolati nell’Esercito Patriottico Ruandese.
Una campagna dei media mirante a sfruttare politicamente e militarmente la questione della «nazionalità» fu allora lanciata dal Ruanda
e ripresa da una forte lobby in Europa e in America. All’indomani di un
(18) Fra i Tutsi residenti nello Zaire ci sono dei Tutsi zairesi, ma anche dei rifugiati,
degli immigrati, dei clandestini e degli infiltrati. Tra i Banya-Mulenge tutte queste categorie si trovano rappresentate.
(19) All’indomani della presa del potere da parte dell’FPR a Kigali (capitale del
Ruanda), parecchi intellettuali Tutsi che si dicevano zairesi sono diventati deputati, ministri, ecc., nel governo del Ruanda.
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ambiguo rapporto delle Nazioni Unite sul problema della «nazionalità»
dei Banya-Mulenge, lo Zaire venne attaccato. Si fece credere che erano
le popolazioni Banya-Mulenge in rivolta a invadere l’Est dello Zaire,
anche se erano le armi pesanti ruandesi posizionate sulle alture del
Ruanda che martellavano i campi profughi e le posizioni zairesi, e se a
Goma, sul lago Kivu, le unità navali leggere fornite recentemente dagli
americani a Kigali attaccavano la città.
Il seguito, soprattutto dopo l’intervento dell’artiglieria pesante e dei
carri armati ugandesi a Beni, dimostrerà che il conflitto supera il quadro
degli scontri etnici. Si parlerà allora, con l’entrata in scena di LaurentDésiré Kabila (oppositore zairese degli anni ’60), di una guerra di liberazione dello Zaire mirante ad abbattere il regime di Mobutu.
Questa guerra dai contorni ancora indefiniti sembra aver avuto come obiettivi immediati l’eliminazione dei profughi ruandesi e burundesi rifugiati in territorio zairese (20), la distruzione dei loro campi, l’allontanamento dalle frontiere con il Ruanda e con il Burundi dei profughi superstiti e delle loro milizie. Gli obiettivi a breve e a medio termine sarebbero la disgregazione dello Zaire, per annettere infine una parte del
suo territorio e creare una più vasta zona di influenza anglofona (21).
Come si può notare, dietro questa guerra si profilano gli interessi economici e strategici delle potenze occidentali. La posta in gioco sembra essere
il controllo per il prossimo secolo delle ricchezze dello Zaire, nonché la
lotta al terrorismo che gli USA vogliono condurre contro il Sudan, accusato di esserne la culla.
Quando affermano che certe regioni dello Zaire orientale appartenevano al Ruanda precoloniale, le nuove autorità di Kigali e i loro padrini mirano a sondare le reazioni internazionali ai loro progetti espansionistici.
Il brusco rimpatrio di un gran numero di profughi ruandesi e burundesi è certamente uno sviluppo inatteso e positivo, ma non risolve affatto le cause dei conflitti nella zona (22).
Le continue azioni di blocco da parte degli USA del processo d’intervento in questa regione e le tergiversazioni, il ritardo e infine il rifiuto
(20) Cfr. ZAIRE, AMNESTY INTERNATIONAL, Hidden from scrutiny: human rights
abuses in eastern Zaire, London, 19 dicembre 1996.
(21) Questa prospettiva è stata formulata da Emma Bonino, responsabile del settore
aiuti umanitari in seno alla Commissione esecutiva dell’Unione Europea.
(22) Secondo Amnesty International, più di 500 profughi rientrati in Burundi sono
stati massacrati dall’esercito e 3.000 rifugiati ruandesi, all’indomani del loro rientro, sono finiti in prigione, dove già erano detenute molte migliaia di prigionieri accusati di genocidio.
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della comunità internazionale di avviare un intervento umanitario sembrano essere un chiaro segno delle complicità dirette, a diversi livelli, in seno alle potenze occidentali.
Sebbene le ONG umanitarie, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite, i Paesi africani e altri osservatori attenti della crisi pensino che la comunità internazionale dovrebbe cogliere questa occasione per andare
alle radici dei conflitti nella regione dei grandi laghi, nessuna iniziativa
seria in tal senso sembra essere in cantiere. I colloqui politici, umanitari
e militari sulla questione si urtano contro gli antagonismi e le mire geostrategiche interessate del mondo anglofono e di quello francofono. Nessuno sembra privilegiare le aspirazioni alla pace della maggioranza della
popolazione di questa zona. I vincitori, qui come ieri in Somalia e in Liberia, sono le industrie di armi dei Paesi occidentali, i signori della guerra locali e i dittatori della regione.
6. Conclusione.
Nel momento in cui la comunità internazionale sembra percepire il
pericolo che questa crisi rappresenta per tutta l’Africa centrale, sarebbe
necessario ricordare alcune piste tracciate in vari convegni su questa regione in vista di una soluzione duratura e pacifica, che prenda in considerazione gli interessi dei gruppi in conflitto.
Non si ripeterà mai abbastanza che una soluzione duratura implica il
ritorno a casa di tutti i profughi ruandesi e burundesi. Per questo occorre
che siano loro garantite condizioni di sicurezza. I diversi responsabili dei
genocidi, massacri, stragi e dei colpi di Stato dovranno essere perseguiti
e giudicati per i loro crimini nel rigoroso rispetto di una giustizia imparziale.
La questione della nazionalità delle popolazioni di espressione ruandese dovrà essere chiarita dopo un’operazione di identificazione volta a
distinguere i nazionali dai rifugiati, dagli immigrati illegali e dai clandestini.
Ma la soluzione finale e duratura richiede la creazione in questa regione di Stati economicamente prosperi e di regimi democratici che accettino il principio dell’alternanza al potere e garantiscano il rispetto dei diritti della persona. Oggi nessuno di questi Paesi ha un governo legittimamente eletto. Il persistere di conflitti continuamente esacerbati potrebbe essere per certi leader della regione un mezzo criminale per rimandare indefinitamente la creazione di istituzioni democratiche.
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