Una lapide nel Santo Sepolcro - Società Italiana di Studi Araldici
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Una lapide nel Santo Sepolcro - Società Italiana di Studi Araldici
N 42 – Anno XXI – Giugno 2015 – Pubblicazione riservata ai soli Soci Una lapide nel Santo Sepolcro Per troppi, le meraviglie d’arte di Pisa si concentrano (quando non s’esauriscono) nel Campo dei Miracoli, mentre l’elenco degli irrinunciabili prodigi realizzati dalla creatività umana nell’antica città-stato toscana è tutt’altro che breve. Per la loro degustazione, piuttosto che rinviare il curioso alla consultazione di un qualsiasi decente Baedeker, è di gran lunga preferibile il ricorso alla semplice ricetta della ‘casualità peripatetica’. Gli unici suoi requisiti, che col passare degli anni si tramutano sovente in inconvenienti, sono nella disponibilità di tempo e di buone gambe. Passeggiare senza una meta fissa, privi di un itinerario preordinato, soffermandosi dinnanzi a un luogo evocativo, procedendo oltre a un altro, che appaia, magari, troppo affollato, pronti a divergere, a riprendere il cammino all’indietro, qualora raggiunti da un richiamo forte, seppur indefinibile, è una scelta di metodo, che assai di rado si traduce in delusioni, ma, al contrario, è normalmente prodiga di esaltanti sorprese. Una volta conclusa l’escursione, al massimo, si potrà scoprire, a tavolino, di essere passati a pochi metri da quello che avrebbe dovuto essere un obiettivo di raro interesse. Il rincrescimento non può essere duraturo: ci sarà bene una prossima volta. Se questa venisse a mancare, beh, soccorrerà allora quella sana (se non eccessiva) carica di fatalismo che alberga in ogni latino, assieme alla gratificazione dell’effetto ‘sorpresa’ e dell’ottimale collocazione del monumento nel contesto urbano e, talora ancor di maggior rilievo, nella umanità che oggi lo circonda e lo anima. Così, mesi addietro, dopo una piacevole discesa da Ponte Stretto, mi venne da valicare di buon mattino il fiume sul Ponte di Mezzo e procedere sul Lungarno Galilei. Un centinaio di metri e mi trovo davanti a un provvido cartello, che mi segnala, a breve distanza, sulla destra la chiesa del Santo Sepolcro, del XII secolo. L’edificio romanico in pietra verrucana, malgrado si trovi oggi collocato più in basso dell’attuale livello stradale, domina ancora l’omonima piazzetta con la sua pianta ottagonale con pilastri e due monofore per ciascun lato, la cupola con base sempre ottagona, al pari del basamento. Un elegante campanile, probabilmente più tardo, affianca la costruzione. Sulle pareti, sono murati resti di decorazione, come il bel bassorilievo leonino, assieme a una più recente lapide, che ricorda l’architetto che edificò la chiesa nel 1173, il magister Diotisalvi, lo stesso dello splendido Battistero: HUIUS OPERIS FABRICATOR DEUTESALVET NOMINATUR. Recenti restauri, però, hanno riportato alla luce una precedente costruzione ottagonale, sulla quale poggiano gli otto pilastri ‘a stampella’ della chiesa. Non fu possibile visitare l’interno, perché aperto solo nel pomeriggio. La curiosità era viva e ci ritornai: non me ne pento. Il tiburio, solido e aereo al tempo stesso, e i possibili riferimenti esoterici, suggeriti dal costante ricorrere di uno dei numeri ‘sacri’ per eccellenza, 8, simbolo dell’infinito e della quadratura del cerchio, hanno fatto propendere taluni per un’origine templare, ma la maggioranza degli storici dell’arte propende per l’origine gioannita del Santo Sepolcro, ma la maggioranza degli storici dell’arte, su basi documentali, propende per quella gioannita, visto che fu nei secoli ‘badia’ degli Ospedalieri. E vi si conservano di Santa Ubaldesca Taccini, monaca gerosolimitana morta nel 1206, il pozzo e il secchio, la cui acqua ella tramutò in vino per gli infermi e i poveri (la tela che la raffigura non è nel Santo Sepolcro, ma nell’altra chiesa pisana di San Domenico, essa pure appartenente al S.M.O.M.). Ma fu la grande lapide terragna in marmi policromi, posta avanti l’altar maggiore, ad attirarmi e quindi colpirmi in modo particolare. Recita: D. O. M. MARIA MANCINI COLUMNA PULVIS ET CINIS (arma partita Colonna-Mancini, timbrata fa corona principesca antica) CAROLUS S.R.E. CARDINALIS COLUMNA OPTIMAE PARENTIS MODERATIONE ET SUPREMIS MANDATI OBSECUNDANS SUPRAPOSITAM EPIGRAPHEM SIMPLICEM ET BREVEM HUMILEQUE HOC SEPULCRUM PERENNE LUCTUS ET DESIDERII SUI MONUMENTUM APPONENDUM CURAVIT OBIIT ANNO SALUTIS MDCCXV AETATIS SUAE SEPTUAGESIMO SECUNDO Da molti anni il grand siècle rientra tra i temi ricorrenti nelle mie letture e ora, inopinatamente, mi trovavo di fronte all’ultima dimora di una donna, un’italiana, che, se non ne era stata protagonista di primo livello, pure vi aveva lasciato una innegabile grande impronta per la sua non comune intelligenza, il suo coraggio, la sua certa sfortuna e la sua passionalità, alternativamente sfiorante il pathos e qualche banalità morbosa, caratterizzante alcune sue iniziative all’insegna di quel che oggi definiremmo gossip, nel caso suo frutti di un progressivo cupio dissolvi e cause non ultime di non poche sue sventure. Pur segnata dal calpestio di tre secoli, la lapide informa ancora, in buona sostanza, che era stato il cardinale Carlo Colonna, figlio della defunta, ad apporla, assolvendo così al suo desiderio di umiltà, e che Maria era morta nel 1715, all’età di settantadue anni. Carlo, nato nel 1665, figlio terzogenito di Lorenzo Onofrio Colonna, principe di Paliano e del S.R.I., Connestabile del regno di Napoli, ecc. ecc., e di Maria Mancini, era stato creato cardinale da Clemente XI nel 1706. Si distinse per grande mecenatismo e uno spiccato amore per la musica, che lo portò a essere tra i primi appassionati sostenitori di Georg Friedrich Haendel. Morì nel 1739. La lapide esibisce, però, due patenti errori: uno di poco conto, di carattere araldico e l’altro macroscopico, riferito all’età di Maria. 2 E’ pacifico che l’arma della storica casa romana fosse e sia: Di rosso, alla colonna d’argento, con base e capitello d’oro, sormontato da una corona all’antica dello stesso. Invece, il marmoraro non ha, in questo caso, diversificato il mosaico e bianchi sono base, capitello e corona, pure disponendo di un superbo marmo giallo, presente nel cartoccio, nella corona e negli svolazzi. Errore materiale dell’artigiano, allora. Ma non è possibile che il cardinale ignorasse l’età della propria madre. La pressoché totalità delle fonti indica la data di nascita di Maria nel 28 agosto 1639 ed essendo pacificamente mancata nel 1715, la più celebre delle sorelle Mancini aveva all’atto del suo decesso 76 anni, e con 72, come la lapide invece riporta . Viene da pensare che il prelato non abbia visto l’opera completata e abbia lasciato Pisa prima che la lapide fosse stata incisa per intero. Che abbia lasciato all’artigiano un foglietto col testo, in cui il numero romano non era chiaramente decifrabile? La fine di Maria Mancini, secondo alcuni, intervenne nella notte tra il 7 e l’8 maggio, per una apoplessia. Ma in un articolo di Marilena Rossati, risalente al 1895, è riportato in forma sintetica l’atto di morte, datato 8 maggio 1715 e sottoscritto dal sacerdote Riccardo Spadoni, priore della chiesa del Santo Sepolcro. Si legge in esso che l’Ill.ma e Ecc.ma Donna Maria Mancini moglie del già Ill.mo e Ecc.mo Sig. Don Lorenzo Colonna del regno di Napoli gran Conestabile, ritruovandosi in Pisa, nel giorno suddetto discorrendo col Rev.mo Priore Maestro Salvatore Ascani nel Priorato di S. Sepolcro, fu sorpresa da improviso accidente di morbo apopletico e perduti tutti i sentimenti, ricevuti solamente l’Estrema Unzione e la Benedizione e Assoluzione apostolica dall’Ill.mo e Rev.mo Arcivescovo di Pisa, passò all’altra vita e al detto cadavere fu data sepoltura in questa Prioria davanti la porta maggiore. Dunque, la vita di Maria sarebbe stata stroncata in pieno giorno, mentre si stava intrattenendo con il Priore. Proveniva da Livorno, dove si trovavano ancora gran parte di abiti, mobili e masserizie, che seguivano la illustre aventurière nel suo incessante girovagare per l’Europa. Si tramanda che i suoi soggiorni pisani non fossero rari e che, nel loro corso, fosse ospite dei Salviati, il cui palazzo era in via San Martino, assai prossimo, quindi, alla chiesa del Santo Sepolcro. Peraltro, due anni dopo la scomparsa di Maria, suo nipote Fabrizio Colonna, figlio del suo primogenito Filippo (scomparso ancor giovane il 6 novembre 1714, triste circostanza che fece sì che allora la madre si trattenesse a Roma per qualche tempo e ciò sta anche a significare che, malgrado l’età per quel tempo assai avanzata, la Mancini dovesse versare in apparente buono stato di salute) e della sua seconda moglie, Olimpia Pamphilij, portò all’altare Caterina Zefirina Salviati, figlia del duca di Giuliano. Su quale fosse il rango dei Mancini nell’ambito della nobiltà romana sino alle nozze del padre di Maria, MicheleLorenzo, con Geronima Mazzarino nel 1634, s’è scritto non poco, in bene quanto in male. Ma anche a volersi rifare in via esclusiva a Saint-Simon, decisamente malevolo verso il cardinale e la sua famiglia, troveremmo che i Mancini, olim de Omni Santi e detti anche Mancini de’ Luccii, vantavano legittimamente la nobiltà romana dalla seconda metà del secolo XIV. Il duca di Saint-Simon è stato un prezioso memorialista, anche un onest’uomo, ma trascendeva decisamente il ridicolo nel trar vanto delle proprie origini e denigrare le altrui: i Mancini erano, sì, una famiglia alquanto oscura, ma pur sempre appartenente al primo ceto di Roma e bene imparentata sin dal tardo medioevo, mentre dei piccardi Rouvroy si può dire che erano forse più antichi, ma signorotti provinciali di nessun conto sino al 1635, data dell’elevazione in ducato della loro terra di Saint-Simon in favore di Charles de Rouvroy de Saint-Simon, conte di Rasse e padre di Louis, il nostro memorialista. Quest’ultimo non poteva certo ignorare che l’allaccio ai conti di Vermandois era una pura e semplice favola, dichiarata verità solo dallo smisurato favore di Luigi XIII verso suo padre, al punto che, durante le frizioni al tempo della Reggenza tra noblesse e parlamento, quest’ultimo, sia pure esagerando un po’, aveva sentenziato che le petit duc de Saint-Simon, non era affatto nobile. Peraltro, Saint-Simon afferma con tono cattedratico non soltanto di non avere rintracciato conferma dell’alleanza Mancini-Orsini (Gian Paolo Orsini aveva sposato nel secolo XVI Giacomella Mancini, figlia di Alessandro) sul ‘documentatissimo’ Imhoff, ma anche di sapere per certo che nessuno della grande casa degli Orsini aveva mai portato il nome di Gian Paolo. Ora, Imhoff ha tracciato la genealogia Orsini nel suo Genealogia viginti familiarum illustrium in Italia e, a carte 323-324, tratta del ramo dei conti di Popoli e di Manuppello, iniziato al tempo di Alfonso il Magnanimo ed estintosi nei Farnese nel 1526, ma per sommi capi, senza darne tavola genealogica. Apparteneva a tale diramazione Giampaolo Orsini, signore di Forlimpopoli, il vittorioso condottiero dell’esercito fiorentino alla battaglia di Anghiari del 1440. Una strada di Firenze gli è ancor oggi intitolata. Nella basilica dei SS. XII Apostoli, la cappella di San Tommaso di Canterbury, di giuspatronato Mancini, conserva le loro sepolture (ogni defunto è qualificato nobilis vir) e c’è un’arma gentilizia, risalente agli ultimi anni del Trecento. E’ proprio vero che bisogna diffidare di chi ha letto un libro solo e molto di più di chi quel libro citi. 3 Essa è: D’azzurro, a due pesci lucci di rosso, posti in palo. Con ogni probabilità, l’uso di tale insegna è ancora più antico, giacché s’è detto che erano all’origine noti come Omni Sancti e quindi Mancini de’ Luccii; tale ultima denominazione non poteva che derivare dallo stemma. Le alleanze ALBERTONI, ARCIONI (degli), ATTAVANTI, BEGGIAMINI, BOBACINA-CAVALIERI, BUFALINI, CAFFARELLI, CAMAIANI, CAPOCCI, CARDELLI, COLAJANNI, FABII, MARCELLINI, MASSIMO, MICINELLI, ORSINI, SCUTO (dello), SEVARESI, TEOPHILO, TOMARATIA, VELLI (de) vedono nomi di famiglie della più antica e illustre nobiltà dell’Urbe, quali gli Albertoni, i Caffarelli, i Capocci, i Marcellini, e, naturalmente, i Fabii, i Massimo e gli Orsini. Le rimanenti, per lo più romane, appartengono alla nobiltà ‘mediana’, anche antica, come gli stessi Mancini. Paolo Mancini comandò le guardie a cavallo del cardinale Aldobrandini e si distinse nella guerra di Ferrara del 1597. Al suo ritiro, fondò nel suo palazzo di rione Trevi l’Accademia degli Umoristi, che gli sopravvisse sino al 1670. Paolo, morto nel 1635, prese l’abito talare quando rimase vedovo di Vittoria Capocci. Il suo secondogenito, Francesco-Maria, nato nel 1606, fu creato cardinale (nomina propiziata dal re di Francia) il 5 aprile 1660 e fu suo erede il nipote Filippo-Giulio Mancini, duca di Nevers. Il primogenito, invece, fu Michele-Lorenzo, detto barone romano nell’atto del suo matrimonio, avvenuto in Roma il 6 agosto 1634, con Geronima Mazzarino, figlia postuma di Pietro e di Ortensia Bufalini e sorella di Giulio, cardinale e primo ministro del sovrano francese. Al momento di ricevere gli ordres du Roi (Spirito Santo e San Michele), il 31 dicembre 1661, il predetto Filippo-Giulio Mancini, duca di Nevers, produsse le richieste prove nobiliari con documenti originali e copie-autentiche, davanti ai commissari regi, che erano il duca di Montemart e il maresciallo di Francia, duca d’Aumont. Tali documenti, controllati e riprodotti in sintesi da Père Anselme de SainteMarie, Charles de Courcelles, Gabriel Naudé, Luigi Contarini, Flaminio Rossi , ecc., danno una valida genealogia (sostanzialmente rettilineare) di casa Mancini. Come le sorelle Martinozzi, anche il Nevers - che era stato istituito dallo zio cardinale erede dei non pochi beni posseduti in Italia - inquartava la propria con la Mazzarino per volontà del de cuius, ponendo la seconda nei quarti d’onore. Ma il matrimonio con la Mazzarino eleverà decisamente il tono e vedremo, accanto alle alleanze precedenti, quelle con un sovrano di casa d’Este, con principi del sangue delle case Borbone, Savoia e Lorena, con nomi italiani storici come Colonna e Spinola, e con famiglie della primaria nobiltà di Francia, quali de la Tour d’Auvergne, de Polignac, d’Estrées, de Brancas, de Noailles, de Chimay, de Phélypeaux, de Cossé de Brissac, de Damas de Thianges. I Mancini, ormai Mancini-Mazarini, si estingueranno con Louis-Jules, terzo duca di Nevers, morto all’età di ottantadue anni nel 1798, che, malgrado due matrimoni, non lascerà eredi maschi. Come il padre e l’avo, era un intellettuale, autore di opere di teatro, membro dell’Accademia di Francia ad appena 27 anni, ambasciatore a Roma, a Berlino e a Londra, ministro di Luigi XVI nel 1787. Rifiutò di emigrare perché troppo vecchio e troppo attaccato alla vita parigina, per cui, durante il Terrore, rimase per due anni in prigione, ma non fu processato e scampò quindi alla ghigliottina. Non c’è dubbio che, di tutti gli imparentamenti dei Mancini, proprio quello con i Mazzarino, artefici del successivo loro splendore, sia il più oscuro. Manchiamo quasi del tutto di notizie, forse proprio perché il cardinale Giulio tentò in tutti i modi di dotarsi di una ascendenza di tutto rispetto, foraggiando archivisti e pennaruli, che di certo altro non offrirono al uomo di stato se non motivi di fondata derisione, di cui sono zeppe le mazarinades degli anni della Fronde, facendo probabilmente sparire nel contempo ogni elemento utile a identificare la sua autentica origine. Per quanti sforzi si siano fatti – qui Saint-Simon è nel giusto – non si è mai riusciti a risalire con certezza oltre al padre del cardinale. Tra i suoi incensatori non poteva certo mancare Filadelfo Muños, il quale però – dopo aver sfacciatamente intonato una lunga litania di menzogne, tra le quali la diretta discendenza dai normanni signori del Mazzarino (estinti da quel dì) e, in linea femminile, da Ruggero d’Altavilla, narra che la famiglia avrebbe lasciato l’isola per portarsi a Pisa, dove sarebbe divenuta assai ricca, e un Girolamo Mazzarino con molte mercantie venne in Sicilia, e nella città di Palermo e procreò Giulio, il quale fù gran Predicator della Compagnia di Gesù, e di Pietro, che mostrando buona indole fu dal padre mandato a Roma, ove si casò con una donzella Romana di casa Bufalini, nobilissima, con la quale fece oltre le femine Giulio e Michele, il secondo prese l’habito di San Domenico, nel quale occupò tutti i gradi di dignità di Maestro, Provinciale, e di V. G. dell’Ordine, e poscia da Papa Urbano VIII fatto Maestro del Sacro Palagio, e da Papa Innocentio X Arcivescovo, e poi Cardinale di Santa Chiesa, finalmente per le sue virtù, e giunto al colmo delle mondane grandezze. Anche il bugiardo Muños risulta alle volte non solo fantasioso inventore, ma anche utile informatore e, in questo caso, sappiamo da Silvagni che il cardinale Giulio aveva un prozio omonimo, gesuita e famoso predicatore, morto a Bologna nel 1620, lo stesso detto zio da Muños, e non sono meno veri il matrimonio del proprio padre, Pietro Mazzarino con Ortesia Bufalini, nobile romana, e il fatto che suo fratello minore Alessandro, noto come Michele all’atto di vestire l’abito di San Domenico avesse percorso l’iter prelatizio descritto, venendo creato cardinale nel 1647. Suo fratello Giulio lo era divenuto nel dicembre del 1641 ed è, quindi, pacifico il suo fraterno interessamento. Entrambi erano nati in Abruzzo, a Pescina, dove il padre risiedeva allora in qualità di intendente di casa Colonna. Anche se i Mazzarino tenevano a dichiararsi ‘gentiluomini palermitani’, non c’è prova alcuna di tale qualità e neppure del luogo d’origine. Alcuni, tra i quali Sommervogel (ripreso dal Dizionario biografico degli Italiani), dicono la famiglia palermitana, ma di origine genovese. Bonaventura de Rossi scriveva nel 1714 che Montaldeo - una località nei pressi di Ovada, nel basso Piemonte, che dal 1528 alla Restaurazione fece parte 4 dei domini della repubblica di Genova, a cui basta per un insigne, e giusto vanto l’essere stato Patria del tanto celebre Cardinale Mazzarino. Ma neppure dell’origine ligure è prova. Il padre dei futuri cardinali doveva essere, comunque, un civile, proveniente da una famiglia non priva di mezzi, che gli aveva fatto seguire un qualche corso di studi, ponendolo in grado di entrare nell’amministrazione (non sappiamo se totale o parziale) dei vastissimi beni, feudali e non, dei Colonnesi. Si deve certamente a un segno del favore del connestabile Filippo Colonna il matrimonio di Pietro Mazzarino con Ortensia Bufalini, che era stata sua figlioccia al fonte battesimale. La Bufalini, olim Buffalini, era famiglia antica e illustre di Città di Castello, un cui ramo si trasferì a Roma nel secolo XVI, dando prelati, dottori U.J. e alti funzionari. Riccomanno Bufalini nel 1530 fu creato vescovo di Venafro. Contrassero alleanze con i Caccialupi, i Fucci, i Guerrini, gli Incoronati, i Mancini (come ante detto), gli Orsini. Nel 1582 Ascanio passa per giustizia nell’Ordine Gerosolimitano e il del Pozzo annota: Zio mat. Delli Catd. Giulio, e Michele Mazzarini. Pietro, l’anno successivo, in quello di Santo Stefano. Furono riconosciuti nella nobiltà romana con la bolla Urbem Romam del 4 gennaio 1746. arma: D’argento, alla testa di bufalo di nero, accompagnata in capo da una rosa di rosso, posta tra le due corna (Amayden). Gli attuali Bufalini, nobili di Città di Castello, nobili Romani e conti di San Giustino (1563) e marchesi, usano anche un alias dal campo d’oro e la testa di bue (rincontro) diviene un massacro. Tale parentela e la protezione del principe Filippo Colonna conferirono certamente ai sino allora oscuri Mazzarino, probabilmente all’origine dediti al commercio, un certo fumus nobilitatis. Pietro e famiglia abitavano a Roma nel rione di Trevi, presso la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, che Giulio, molti anni dopo, farà restaurare a sue spese. Sulla facciata si vede ancora il fascio del suo stemma. Giulio, dapprima paggio in casa Colonna, diverrà compagno di studi di Girolamo, figlio del connestabile Filippo, al Collegio Romano e lo seguirà nelle università di Alcalà e Madrid. Anche Girolamo, di lui più giovane di due anni, diverrà ecclesiastico, cardinale e, quindi, arcivescovo di Bologna. Il giovane Mazzarino, colto, beneducato e di gradevole aspetto, nn doveva allora molto propenso a indossare la sottana talare, tanto che preferì vestire per alcuni anni, sino al 1616, l’uniforme di capitano-tenente nella compagnia colonnella del tercio di Francesco Colonna, principe di Palestrina, al tempo operante in Valtellina. Si laureò in giurisprudenza, alla Sapienza, nel 1628 e dall’anno successivo entrò a far parte della diplomazia pontificia. Nel gennaio 1630 incontrò a Lyon il cardinale de Richelieu, che si rese immediatamente conto dell’alto potenziale del giovane negoziatore, che seguitò a esprimere le sue brillanti capacità nei tratti di Cherasco (1631) e di Torino (1632). In quell’anno, a Parigi, fu tonsurato dal nunzio apostolico Bichi, ma senza ricevere nessuno degli ordini maggiori, per cui rimase per tutta la sua vita un chierico, uno dei non rari cardinali laici, senza mai essere un sacerdote. Nominato nel 1634 da Urbano VIII vicelegato ad Avignone, ricevette il difficile incarico di nunzio straordinario presso Luigi XIII, al fine di indurlo ad abbandonare le alleanze francesi con paesi protestanti, di restituire la Lorena al suo legittimo duca-sovrano, Carlo II e riconoscere le nozze di suo fratello, Gaston d’Orléans, con la sorella del duca di Lorena. Ma le lunghe trattative trovarono irremovibili il re e Richelieu, per cui Mazzarino, tornato a Roma, si trovò pressoché disoccupato e costretto a svolgere le poco prestigiose funzioni di ‘gentiluomo’ del cardinale Antonio Barberini. Ma manteneva costanti contatti col primo ministro francese, che non mancava di reiterare vanamente al papa la richiesta di inviare Mazzarino a Parigi in veste di nunzio ordinario. Nel dicembre 1639 si decise da lasciare Roma per Parigi, dove ricevette subito un incarico di carattere politico-militare: soccorrere la reggente Cristina di Francia, contro la quale il cognato, il principe di Carignano Tommaso di Savoia, aveva promosso e capeggiava una rivolta armata. Malgrado l’assedio di Ivrea si fosse rivelato un fallimento, non per questo Mazzarino perse il favore di Richelieu, che lo fece naturalizzare francese, riuscendo in tal modo a superare l’opposizione della Spagna al concessione del galero cardinalizio, che ottenne nel dicembre del 1641. Sul suo letto di morte, Richelieu lo raccomandò come successore a Luigi XIII e dal giorno seguente Giulio Mazzarino (spesso si firmava anche Mazzarini, mentre i francesi presero a chiamarlo Mazarin) divenne primo ministro. La sua finezza diplomatica, la sua lungimiranza, la sua capacità di scegliersi collaboratori di eccellenza, la sua moderazione o, meglio, la sua sostanziale bontà d’animo, gli fecero superare i molti ostacoli e assicurare al giovane Luigi XIV la corona di un regno florido e pacifico. arma: D’azzurro, all’ascia consolare d’argento, circondata da verghe d’oro, legate del secondo; colla fascia d’azzurro, carica di tre stelle d’oro, attraversante sul tutto. Come tanti Italiani, Mazzarino aveva un assai spiccato senso della famiglia e, pur senza arrivare agli eccessi di Napoleone, si dette notevolmente da fare per assicurarle censo e onori. Il fratello Michele, come s’è detto, aveva ricevuto la porpora e, in assenza di altri Mazzarino maschi, rimanevano le sorelle, Si è accennato alla sorella minore Geronima, maritata Mancini, ma non era la sola. Non dava 5 pensiero Anna Maria, monacatasi a Città di Castello e poi priora nel monastero di S. Maria di Campo Marzio, in cui morì nel 1669. Clelia, o meglio Cleria, di lei più giovane di un anno, era andata sposa nel 1643 a un altro personaggio dell’aristocrazia romana, Pietro Antonio Mutij o Muti. arma: Di rosso, a due mazze d’armi d’argento, passate in decusse e legate da una catena dello stesso. Erano i Muti una delle più antiche famiglie di Roma, con memorie certe dal secolo XII, al di là della loro pretesa discendenza da Muzio Scevola, sottolineata dalla divisa NON URITUR. Dall’arma, furono chiamati Muti delle Mazze, per distinguersi dai Papazzurri, famiglia di non minore antichità e prestigio, che veniva chiamata Muti Papazzurri non per essere ramo dei Muti, ma in quanto uno dei suoi membri era soprannominato ‘muto’. Furono fregiati di titolo ducale da Sisto V, dapprima incardinato sulla torre detta Cascamorto (ma in latino Vallemutia) e nel Seicento su Rignano, a seguito di scambio di terre con i Borghese, imparentati con i Muti, che se ne avvantaggiarono certamente nella concessione della porpora cardinalizia a Tiberio Muti, vescovo di Viterbo, da parte di papa Paolo V. Al marchese Pietro Antonio Mutij, primogenito di Fabrizio e di Clarice Guerrino, all’atto del matrimonio con Cleria Mazzarini, nell’aprile del 1643, Luigi XIII, ormai nel suo ultimo mese di vita, concesse la congrua pensione di lire 3000. Non furono nozze fortunate: la sposa aveva 34 anni, età allora considerata avanzata e fu forse questa la ragione dell’assenza di figli. Sei anni più tardi, nell 1649 i coniugi erano entrambi trapassati: nel gennaio Pietro Antonio e in luglio la moglie, che nel suo testamento si mostrò largamente benefica verso la chiesa e i poveri, rimettendosi alla volontà del suo ‘Eminentissimo fratello’, il cardinale Giulio, anche per la scelta del luogo della sua sepoltura. Margherita, nata nel 1606, sposò nel 1634 il conte Girolamo Martinozzi di Fano. Se le nozze non furono in sé fortunate (il marito morì cinque anni dopo), le loro due figlie, Laura e Anna Maria, non solo si maritarono splendidamente, ma lasciarono bella memoria di saggezza e di bontà. MARTINOZZI di Fano - arma: D’argento, a tre fasce doppiomerlate di rosso. Canetoli (fig. 2) le riporta scorciate. La figura 3 è forse un alias: D’argento, a sei losanghe di verde, accollate e ordinate in due fasce, 3-3 (così in Crollalanza e nello Scorza, che lo riportano, però, in via esclusiva). L’incisione di cui alla fig. 4, invece, rappresenta l’arma di Laura, divenuta duchessa di Modena: Partito: nel 1°, d’ESTE; nel 2°, inquartato di MAZZARINO e di MARTINOZZI. Stranamente qui le fasce sono due, anziché tre, doppiodentate e non doppio merlate. Una soluzione grafica di compromesso con le losanghe, sia pure non accollate, oppure è l’alias (con le losanghe raggiungenti i fianchi dello scudo) a riapparire? Alla fig. 5, l’arma di Anna Maria Martinozzi, divenuta principessa di Conti: Partito semitroncato: nel 1°, BOURBON-CONTI, nel 2°, MARTINOZZI; nel 3°, MAZZARINO. Abbiamo qui, per l’arma paterna: Di rosso, a due fasce doppiomerlate d’argento. La famiglia Martinozzi - anche qui contrariamente alle affermazioni del solito Saint-Simon, che affibbia a Girolamo un calunnioso titolo di soidisant gentilhomme romain - apparteneva alla migliore e più antica nobiltà di Fano, come dimostrano anche chiese e palazzi, da loro edificati a partire dal Trecento, sui quali spicca lo scudo con le fasce. Era unico figlio di Vincenzo, maggiordomo di casa Barberini (qualità ricoperta, al tempo, da molti personaggi dell’aristocrazia, senza che intervenisse deroga alcuna alla nobiltà; va considerato peraltro che dal luglio 1623 allo stesso mese del 1644 fu papa Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII, per cui l’incarico risultava di notevole vantaggio e prestigio), che fu grande amico e corrispondente del Mazzarino. Margherita si dedicò alle due figlie, colte e devote. Laura andò sposa, nel 1655, a Alfonso IV d’Este, figlio di Francesco I e di Maria Farnese, che fu duca di Modena e Reggio dal 1658 al 1662, anno della sua precoce morte. Laura assunse, allora, la reggenza in nome del figlio minore e dimostrò capacità di statista non indegna dello zio cardinale. La figlia di Laura, Maria Beatrice Eleonora d’Este, sposò nel 1673, diciassettenne, Giacomo II Stuart e fu regina d’Inghilterra dal 1685 al 1688. Quanto alla sorella di Laura Martinozzi, Anna Maria, fu presa in moglie nel 1654 da un principe del sangue, Armand de Bourbon-Condé, principe di Conti. Morì giovane, a soli 35 anni, moglie fedele e giansenista convinta. Le due Martinozzi, assieme alle ben cinque cugine Mancini, sin dal loro arrivo in più scaglioni a Parigi su ‘richiamo’ del cardinale, furono fregiate del nomignolo di Mazarinettes, non proprio laudativo, ma neanche troppo offensivo. In ordine di data di nascita, le Mancini erano: Laura (1636); Olimpia (1638); Maria (1639); Ortensia (1646); Maria Anna (1649). C’erano anche tre fratelli: il maggiore, Paolo, promettente ufficiale, ucciso dai Frondisti nel combattimento di Faubourg Saint-Antoine del 1652; Filippo Giulio cui abbiamo accennato. Era colto, brillante e simpatico a tutti, ma dedito alla dèbauche, per cui fu parzialmente diseredato dallo zio cardinale, che, però, lo fece capitano della compagnia dei moschettieri (comando poi effettivamente esercitato da Charles de Batz de Castelmore, meglio noto col nome del feudo: d’Artagnan), duca di Nevers e di Donzy (titoli e feudi per lui acquistati da Carlo Gonzaga nel 1659), nonché del grosso patrimonio italiano, comprensivo di grandi 6 stati feudali, due palazzi a Roma e molto altro. Sposò Diane-Gabrielle de Damas de Thianges e, come detto, la loro discendenza si estinse nel 1798. Filippo, morto nel 1707 , fu assai legato alle sorelle Maria e Ortensia; il più giovane dei fratelli Mancini, Alfonso, assai caro al cardinale, morì quattordicenne a seguito di un tragico incidente. Laura sposò nel 1651 il duca di Mercoeur, Louis de Bourbon-Vendôme, pari di Francia e discendente in via naturale di Enrico IV, e fu un grande reciproco amore, da cui nacquero tre figli: Louis-Joseph, duca di Penthièvre, uno dei più grandi generali del suo tempo, ma che, caduto in disgrazia, fu costretto a rifugiarsi in Spagna; Philippe de Vendôme, detto il Prieur de Vendôme perché cavaliere di Malta e, dal 1678, Gran Priore di Francia. Emulò con successo le imprese militari del fratello, divenendo duca di Vendôme alla sua morte, ma si distinse in negativo per vita sommamente scandalosa; Giulio Cesare, il terzo, visse solo tre anni, ma alla sua nascita, nel 1657, morì sua madre. Il padre, disperato, si fece prete (diverrà cardinale), affidando la cura dei figli alla cognata, la duchessa di Bouillon. Olimpia fu sposata nel 1657 da Eugenio-Maurizio di Savoia-Carignano, conte di Soissons, colonnello-generale dei 100 Svizzeri dei Grigioni, governatore del Borbonese, di Champagne e di Brie, poi principe di Carignano e ambasciatore in Inghilterra. Il loro terzogenito fu il famoso principe Eugenio. Piacente e desiderosa di piacere, molto ambiziose, fu a più riprese amante di Luigi XIV. Divenuta sovrintendente della casa della regina, trascorse la sua esistenza in una serie di intrighi, di carattere non soltanto amoroso. Coinvolta in modo non chiaro nell’affaire des poisons, fu costretta a lasciare la Francia, riparando nei Paesi Bassi, dove fece in tempo ad allacciare e quindi tagliare una relazione con il governatore, Alessandro Farnese. Recatasi in Spagna, ne fu scacciata da Carlo II a causa della fama che la circondava. Si portò allora in Germania e fece quindi ritorno nei Paesi Bassi. Morì a Bruxelles nel settembre del 1708, poco dopo una visita del figlio Eugenio, che seguitava, di gusto, a umiliare su tutti i fronti la potenza militare del re Sole. L’ultima Mazarinette, Maria Anna, fu anche quella che giunse a Parigi molto più tardi delle altre, nel 1665. Ne furono vantate la bellezza e l’intelligenza. Sposò non ancora quattordicenne Geoffroy-Maurice de La Tour d’Auvergne, duca di Bouillon, buon militare che non condivideva la passione della moglie per la danza, il teatro e la letteratura, ma che le era affezionato. Maria Anna si occupò attivamente dei sette figli propri e dei tre nipoti Vendôme, di una sua accademia letteraria e uscì pienamente scagionata dalla falsa accusa di essere coinvolta nell’affaire des poisons. Ortensia e Maria Mancini, di Voet Con un anno di differenza di età e, non a torto, definite entrambe illustres aventurières, Maria e Ortensia Mancini furono compagne di fughe ed ebbero in comune più di qualcosa. Ma, mentre alla base delle sfortune di Maria erano due sfortune amorose, quella della prima adolescenza, determinata dalla forzosa rottura con Luigi XIV, e poi quella del fallimento coniugale, provocato dal comportamento scorretto del marito, Ortensia, considerata una delle più belle donne del suo tempo, ebbe la sostanziale sventura di divenire la prediletta del cardinale, che non solo la volle erede universale del suo immenso patrimonio, ma pretese anche che sposasse l’unico figlio del suo migliore amico, Charles de La Porte, maresciallo di Francia e fresco duca di La Meilleraye. Lo sposo, Charles-Armand, gran maestro delle artiglierie, avrebbe per sempre abbandonato il proprio nome e la propria arma, per divenire a ogni effetto il duca di Mazarin. La dote di Ortensia, maggiorata dell’eredità, venne valutata in sede giudiziale nell’allora incredibile cifra di 28 milioni di livres. Sembra che tra i pretendenti alla sua mano avesse contato Carlo II Stuart, non ancora tornato sul trono, il principe Pietro del Portogallo, il duca di Savoia, Carlo Emanuele II, il principe de Courtenay, Jean de Coligny, ma niente da fare: le nozze vennero celebrate il 28 febbraio 1661 e nove giorni dopo il cardinale Mazzarino moriva. Difficile pensare a una coppia peggio assortita: la duchessa di Mazarin era frivola, incostante, superficiale, allegra oltre l’ilarità, quanto il consorte bigotto, innamorato maniacalmente della moglie, gelosissimo e malinconico. Dopo le nascite dei quattro figli, il rapporto si deteriorò per le ossessioni di Armand, che proibiva alla moglie di frequentare i parenti, deteriorava capolavori d’arte perché ritenuti indecenti, progettava di far limare i denti alle tre figlie per renderle repellenti e quindi caste. Giunse al punto di rimproverare a Luigi XIV, che ne aveva sino allora preso le difese, la sua vita dissoluta. La separazione non fu facile da ottenere e fu preceduta e seguita da interminabili liti giudiziarie, ritiri in convento e vani tentativi di conciliazione, che provocarono nel 1668 la fuga di Ortensia, favorita dal fratello Filippo e da Louis, cavaliere di Rohan, un suo spasimante. A Roma furono ospitati (tutti e tre) dal connestabile Colonna e da Maria, che, però, mutarono atteggiamento quando dovettero prendere atto del genere di rapporti intercorrenti tra Ortensia e il suo scudiero Courbeville. Altra fuga, questa volta con una serie di passaggi rapidi dalla zia Martinozzi e da monasteri, scoppiò lo scandalo, essendo evidente il suo stato di gravidanza. Passò sotto la tutela di un altro cardinale, lo zio paterno Francesco Maria Mancini, che la recluse nel convento di Campo Marzio. Rivoltasi vanamente a Cristina di Svezia, l’appoggio della sorella Maria fece sì che Gregorio IX le consentisse di abitare nel palazzo Mancini o in quello Colonna. Poi sembrò che si aprisse uno spiraglio alla riconciliazione col marito e rientrò in Francia, da dove, dopo aver intessuto due rapide relazioni col sinistro cavaliere de Lorraine e il degno fratello, conte di Marsan, si portò a Torino e poi a Chambéry dove fu ospitata regalmente da Carlo Emanuele II, il suo vecchio pretendente, ma nel 1675 il duca morì e allora Ortensia, attraverso Germania e Olanda, raggiunse l’Inghilterra, dove ricevette splendida accoglienza da Carlo II, l’altro suo mancato marito, e dal fratello, il futuro Giacomo II, che poi avrebbe sposato la nipote di Ortensia, Maria Beatrice Eleonora d’Este, figlia di sua cugina Laura Martinozzi. Non ci mise molto per soppiantare la torica favorita di Carlo II, Louise de Kéroualle, duchessa di Portsmouth, ma poi rischiò di perdere le sovvenzioni regie per uno sfacciato amorazzo con Luigi Grimaldi, principe di 7 Monaco. Di lei s’innamorò perdutamente il nipote Filippo di Savoia-Soissons, un fratello del principe Eugenio, che si mise nei guai uccidendo in duello un rivale. Creò un salotto di begli spiriti, dominato dal prediletto Charles de Saint- Évremond, ma lo trasformò ben presto in una bisca, data la sua passione sviscerata per il gioco d’azzardo. Si spense a Chelsea nell’estate del 1699. II marito, ormai demente, riscattò la salma, trattenuta in garanzia dai numerosi creditori insoddisfatti e la portò con sé in giro per la Francia, sino a quando, quasi un anno più tardi, le dette sepoltura accanto alla tomba del cardinale Mazzarino. Diversa la storia di Maria, cui era mancato, innanzi tutto, l’affetto dei genitori. La madre, sul suo letto di morte, raccomandò al fratello cardinale di metterla in convento, dato che suo marito – astrologo dilettante fanatico che avrebbe predetto anche le date di morte del figli Paolo e della consorte stessa – le aveva più volte detto che, se Maria fosse rimasta ‘nel mondo’, avrebbe provocato grandi sventure. Tutto sommato, non fu così: al massimo causò soltanto l’infelicità di se stessa. Non era bella. Una specie di raffinato don Giovanni del tempo, il conte Roger de Bussy-Rabutin, scrisse che era …mademoiselle de Mancini, laide, grosse, petite et l’air d’une cabaratière, mais de l’esprit comme un Ange, ce qui fasoit qu’en l’entendant ou oublioit qu’elle étoit laide et l’on s’y plaisoit volentiers… . Di piccola taglia, ben pasciuta, tanto da far emergere una rispettabile pappagorgia, gli occhi belli, ma con un tale esoftalmo da paventare per lei il morbo di Basedow, un aspetto, sì, da ostessa, ma tutto ciò svaniva dinnanzi al suo spirito, alla intonazione appassionata che sapeva dare alle sue parole e, allora, diveniva affascinante. Il quasi coetaneo Luigi XIV ne fu innamorato a prima vista e questo fu, sembra, l’unico grande amore – non a caso platonico – della sua vita. Voleva sposarla a ogni costo, mandò a nozze le progettate nozze con Margherita di Savoia, ma l’opposizione di Anna d’Austria convinse il cardinale (probabile suo sposo segreto) a mettere il giovane di fonte alle sue responsabilità di sovrano e ad accettare il matrimonio con Maria Teresa d’Asburgo. Il 22 giugno 1659 ci fu il loro triste addio. Luigi, che aveva voluto portarle in dono una preziosa collana di perle, di cui si era disfatta per bisogno la zia Enrichetta di Francia, vedova di Carlo I d’Inghilterra, non tratteneva le lacrime. Maria Mancini con le famose perle, di Mignard Si disse allora che Maria gli avesse detto qualcosa di simile a “Voi, che siete il re, piangete, ma sono io che devo partire”. L’amaro rimprovero dette lo spunto a due letterati: a Corbinelli, che in suo componimento, mise in bocca a una arcadica Aminte i versi je crois tous vos serments étions ce que je vois,/mais enfin je pars, Sire, et vous êtes le roi; al grande Racine, che in Bérenice tramutò in un Vous êtes empereur, Seigneur, et vous pleurez ! , decisamente assai più benevolo per Luigi. Ma su questa vicenda, centrale nell’esistenza di Maria, vale la pena ricordare le parole di Benedetto Croce: Forse Maria Mancini, costretta ad allontanarsi dal giovane Luigi XIV e dalla corte, non disse le appassionate parole di sdegno e di rimprovero, che la leggenda le attribuì: “Vous m’aimez, vous êtes roi, et je pars!”; ma la leggenda interpretò la logica dell’amore. Un re che può tutto e non sente il dovere di mettere la sua onnipotenza a servigio dell’amore, facendolo trionfare di ogni prosaico ostacolo! Quale re! E quale uomo! Ci vuole una raciniana Berenice, innamorata, ma fini a un certo limite, al limite degli interessi politici dei quali riconosce la capacità, per rinunciare spontaneamente, in questi casi, e rassegnarsi. Maria riconobbe la ragion di stato, rinunciò quasi spontaneamente a Luigi XIV, ma probabilmente non si rassegnò mai. Fallita una schermaglia matrimoniale con il duca di Lorena, Mazzarino accettò la proposta, fattagli dal cardinale Girolamo Colonna, di concedere la mano di Maria al nipote, il connestabile Lorenzo Onofrio Colonna, che sarà poi viceré d’Aragona e ‘reggente’ di Napoli. Non dispiacque, certo, al primo ministro di Francia accasare, con ricca dote, Maria col nipote del ‘padrone’ di suo padre e il giovane principe di Paliano, colonnello di tutta la grande famiglia romana, era, in più, considerato uomo bellissimo ed era nota la sua passione per l’arte, che l’aveva spinto ad aprire le sale del suo storico palazzo, vero museo, a visitatori d’ogni dove. Sembra che il Colonna, nel 1661, sia rimasto piacevolmente sorpreso di avere trovato Maria ancora virgo intacta ed è indubbio che per quattro anni, durante i quali Maria mise al mondo tre figli, tutti maschi, la ex precieuse provò un notevole amore coniugale, pur non sfuggendo alla calunnia, tale,però, dimostratasi. Poi Maria scoprì le numerose tresche del marito (quella con la principessa Chigi la irritò particolarmente) e l’incanto finì, malgrado i numerosi tentativi di riappacificazione posti in essere dal Colonna. Fuggita in Francia, Luigi XIV rifiutò di riceverla e l’offerta di una sua generosa sovvenzione fu sdegnosamente rifiutata dalla Mancini. Perché tanta regale freddezza, se non ostilità? Senso di colpa? Seguono le scorribande per l’Europa. A Torino, presso la Venaria, e a Chambéry si trattiene per due anni, ospite anche lei di Carlo Emanuele II, che se ne è innamorato. Ma Maria non vuole fermarsi troppo a lungo e parte per la Spagna. Rinuncia a una porzione della sua dote a favore del figlio primogenito Filippo, che si prepara a impalmare la figlia del duca di Medinacoeli. Su istanza del marito, viene rinchiusa per ben cinque mesi nell’Alcazar di Segovia, da cui la libera la regina di Spagna. Alla morte di Lorenzo Onofrio, nel 1689, riprende i contatti con i figli e la sua famiglia d’origine, senza rinunciare alle continue peregrinazioni in Italia e Francia. E’ ormai vecchia e versa in condizioni economiche piuttosto disagiate. Dei tanti gioielli, alla sua morte si ritroveranno soltanto le celebri ‘perle del re di Francia’ e il grosso diamante dell’anello di fidanzamento, donatole dal connestabile. Ricordi dei suoi due infelici amori, dai quali non ha mai voluto separarsi. Luigi XIV la seguirà a meno di quattro mesi di distanza. E’ strano che Pisa conservi le spoglie di un’altra Maria Mancini, ivi vissuta dal 1355 al 1431, beatificata da Pio IX nel 1855. Appartenente ad antica famiglia della nobiltà pisana, era stata nel mondo e, sposatasi due volte – prima col congiunto Baccio Mancini e poi con Guglielmo Spezzalaste - era rimasta vedova altrettanto, perdendo anche tutti gli otto figli natile dai due matrimoni, contratti in età assai giovanile, perché aveva appena venticinque anni, quando decise di prendere il velo delle Domenicane, dopo un incontro con Santa Caterina da Siena. 8 Nella raccolta Ceramelli Papiani vi sono due varianti di arma per i Mancini di Pisa: - Di rosso, all’albero (alias: ramo) di verde, accostato al tronco da due piedi umani, affrontati, d’argento. - Di rosso, all’albero (alias: ramo) di verde, accostato al tronco da stivali, affrontati, d’argento. Ma è da dubitare che si tratti delle insegne degli antichi Mancini pisani, giacché, nella relativa scheda (Ms 635, 1058 Manncini) si legge: Può darsi che si trovino due stivali in relazione all’antica attività di cuoiai della famiglia. Matteo di Iacopo del Mancino, pellaio di Rosignano, fu cittadino pisano nel 1535. Ora, la famiglia della Beata Maria Mancini godeva della cittadinanza di Pisa almeno dal secolo XIII. Angelo Scordo I Rezzonico I Rezzonico non erano originari di Venezia. La propria stirpe trasse origine dal comasco e, in special modo, da quella terra che portò il loro nome: Rezzonico dove essi possedettero un antico castello. Da questo luogo ebbero, infatti origine, i della Torre di Rezzonico, famiglia che ottenne, da Carlo Emanuele di Savoia, il titolo comitale, e che, essendo appartenente alle terre del ducato di Milano, altresì, ottenne il patriziato milanese. Questa linea comitale si estinse a Napoli nel 1742. Da questa linea primigenia, intorno alla prima metà del 500, si staccarono, i Rezzonico, di cui parleremo, i quali, si resero, altresì, illustri, combattendo contro i Turchi. Essi praticarono il grande commercio e la banca e, volendo incrementare i loro affari, Carlo Rezzonico, figlio di Francesco Abbondio, nella prima metà del 600, trasferì la propria impresa marittima e bancaria da Como a Genova. La grande fortuna economica e l’alta considerazione sociale, raggiunta da Carlo a Genova, gli avvalse la generosità del Doge che gli conferì il titolo di “Magnifico” e l’alto onore di poter “stare seduto a capo-coperto di fronte al Doge ed alle altre più alte magistrature genovesi”. Il fratello di Carlo, Aurelio, nello stesso periodo, pensò di portare una rappresentanza della propria impresa, anche a Venezia e, successivamente, dopo il brillante successo raggiunto anche in questa città, entrambi, trasferirono colà, tutta la loro attività. E’ così che, Carlo Rezzonico, traferitosi da Genova presso il fratello, ottenne dalla Repubblica Genovese, la qualità di rappresentante e procuratore di Genova negli affari marittimi e commerciali presso la Repubblica Veneta: «per sé, per il fratello Aurelio, e, poi, per il proprio figlio, Quintiliano» nel 1682. I fratelli Rezzonico, grati per tante benevolenze ricevute da Venezia, ricompensarono generosamente questo governo con una offerta di 60.000 scudi per l’Ospedale dei Mendicanti e con un’altra di 100.000 ducati per l’Erario della Repubblica, che stava sostenendo, con grande esborso, la guerra di Candia contro il Turco. La Repubblica, per riconoscenza, concesse ai Rezzonico, in data 17 maggio 1687, il patriziato veneto. Questa nuova dignità nobiliare, consentì, ai Rezzonico, una scalata ininterrotta verso mete economico-sociali sempre più importanti fino a culminare con l’elevazione al Soglio di Pietro di un proprio membro: un altro personaggio di nome Carlo. Questo Carlo, figlio di Giovan Battista e della nobildonna Vittoria Barbarigo era nato a Venezia il 7 marzo 1693. Entrato giovanissimo nella carriera ecclesiastica, nel 1737 era, già, vescovo di Padova; nel conclave del 6 luglio 1758 venne eletto Romano Pontefice ed assunse il nome di Clemente XIII. Da quel momento, la gloria dei Rezzonico, assunse fama europea. I congiunti del Pontefice, ottennero onori e benefici da ogni stato sovrano. La Repubblica Veneta conferì loro il cavalierato perpetuo di S. Marco e la dignità di procuratore per Aurelio che fu, altresì, nominato generale dei cavalleggeri. Il nipote del Papa, di nome, pure, Carlo, ottenne la berretta cardinalizia. L’altro nipote, Ludovico, fu nominato principe-assistente al Sacro Soglio e gonfaloniere del Senato e del Popolo Romano. Abbondio, fu creato senatore di Roma. Giovanni Battista, abbracciata la carriera ecclesiastica, fu nominato protonotario apostolico e, successivamente, creato cardinale, da Papa Clemente XIV, il successore (in virtù di un’antica usanza della Curia Romana che voleva che, i Pontefici successori, “completassero”, con la concessione della “berretta rossa”, le carriere dei parenti del proprio antecessore). La Repubblica di Genova (che già molto aveva concesso, al primo, Carlo Rezzonico) ascrisse, la famiglia, in perpetuo, al 9 proprio patriziato. Dopo sì tanta fortuna ed ascesa sociale, Giambattista Rezzonico, il padre del Papa, ormai quasi ottantenne, pensò bene di abbandonare la loro antica residenza di famiglia, edificata, circa un secolo e mezzo prima, dai propri avi, situata nel sestiere di S. Felice, per trasferirsi nel più “mondano” sestiere di S. Barnaba. Quivi, ottenuto il consenso delle più alte magistrature dello stato, iniziò le trattative (per l’acquisto di un bellissimo palazzo, rimasto, però, incompiuto, per mancanza di denari) con il nobiluomo Alvise Bon figlio di quel Filippo Bon di S. Barnaba che, uomo di lettere ed amante dell’arte, essendo stato procuratore di Citra e podestà di Chioggia ed avendo potuto conoscere, personalmente, l’architetto Baldassarre Longhena, aveva voluto, nel 1667, commissionargli l’esecuzione di un fastoso palazzo onde poter allogare « l’eccellentissima casa dei Bon ». Il palazzo fu iniziato con ogni fasto e magnificenza, sia architettonica che pittorico-decorativa. Il Longhena non poté tuttavia terminare questo palazzo, poiché, morì. A lui subentrò, l’architetto Giorgio Massari, che continuò l’opera edificatoria di questo splendido edificio ma, le condizioni finanziarie di Filippo Bon, cominciarono a subire un tale depauperamento, a causa di sì tanto lusso profuso che, nel 1712, alla sua morte, il figlio Alvise, si vide costretto a cercare, in altre persone, un aiuto concreto! Fu così, che, Giambattista Rezzonico, nel fulgore del proprio potere politico ed economico, nel 1746, concluse l’acquisto di questo palazzo che, da allora, sarà ricordato con il suo cognome: Palazzo Rezzonico. Nel 1750 furono versati 60.000 ducati e si ricominciarono i lavori di prosecuzione, sempre sotto la direzione dell’architetto Massari, che completò l’opera, ancora abbellendola, nel 1756. Il lusso e lo splendore di questo palazzo, rappresentarono i nuovi fasti ed il destino della famiglia papale. Negli interni operarono artisti quali: il Tiepolo, il Crosato, il Guarana e molti altri ancora. Ogni avvenimento importante della famiglia fu celebrato in questo magnifico palazzo. Il matrimonio tra Ludovico Rezzonico e Faustina Savorgnan nel 1758. Il festeggiamento con luminarie per l’elezione del Pontefice Clemente XIII, nel medesimo anno. Nel 1759, i ricevimenti per la nomina a “Procuratore di S. Marco” di Aurelio. Nel 1762, per l’elezione alla medesima carica del figlio di Aurelio, Lodovico; il cronista racconta che: «per tre notti di seguito, il palazzo, continuò ad apparire illuminato internamente ed esternamente con torce, ciocche e candele… mentre per altrettante notti, con spesa indicibile, si continuò a dispensarsi abbondanti rinfreschi e confezioni…»! Il palazzo, durante il 700, fu altresì utilizzato, dalla Signoria Veneta, come “palazzo di rappresentanza” onde poter, degnamente, ricevere autorevoli personaggi ed ospiti illustri, (ai quali rendere adeguato omaggio con divertimenti e brillante accoglienza). Ma, anche in questo caso, questa vita lussuosissima e splendida, nonostante gli interventi pubblici, aveva, notevolmente indebolito, il patrimonio dei Rezzonico, a tal punto che, si dovettero stabilire “patti d’accordo” e di “aiuto reciproco” tra tutti i fratelli ed il procuratore Lodovico, che, essendo primogenito e sposato, a Lui solo, spettava rappresentare la dignità, il fasto ed il nome del Casato. Crollata la Repubblica Aristocratica a causa della rivoluzione francese, l’ultimo dei Rezzonico a scomparire fu, tra i fratelli, il più giovane: Abbondio che, morendo, a Pisa, nel 1810, lasciò erede universale della sua sostanza, la sorella Quintilia che, avendo sposato, il conte Ludovico Widmann von OrtemburgA, a costui, ed ai loro discendenti, portò, in eredità, anche, il palazzo. Tutto questo patrimonio passò, a sua volta, attraverso molteplici successioni, ai conti Pindemonte, ai conti Giovannelli (poi, divenuti principi del S.R.I.), che, nel 1837, vendettero il palazzo al conte polacco Ladislao Zselinski, dal quale lo acquistarono i baroni inglesi Barret Browing (famiglia di poeti ed artisti) che quivi abitarono e morirono. Fu ancora acquistato dall’israelita conte Hirschel de Minerbi console d’Italia a Berna (nobilitato, nel 1877, da Vittorio Emanuele II e, già presente, nella segreteria privata, di Cavour) e, dai suoi eredi, venduto al Comune di Venezia nel 1936. Nota A - I Widmann baroni di San Paterniano e Somaregg vennero a Venezia dalla Carinzia nel sec. XV dove, un loro antenato, di nome Martino, ricopriva la carica di Maresciallo Ereditario di quel ducato con poteri assoluti. Essi ottennero il patriziato veneto nel 1646 Cristoforo Widmann, fu creato cardinale di S.R.C. nel 1687. Alla fine del 700 Carlo Widmann, era generale delle galere in Levante. Furono elevati alla dignità di conti von Ortemburg dall'imperatore Leopoldo I nel 1687. Questi baroni per eredità ricevuta dal prozio Abbondio Rezzonico, aggiunsero, al proprio, il cognome Rezzonico, divenendo così Widmann-Rezzonico con i loro predicati di spettanza: di S. Paterniano con Somaregg e Ortemburg. Inquartarono le arme: di Rezzonico e Widmann che sono: Per Rezzonico: inquartato, nel 1° di rosso alla croce d'argento; nel 2°e nel 3° d'azzurro alla torre di due pezzi, merlata alla guelfa (?), aperta di uno e finestrata di quattro di nero; nel 4°, d'argento a tre bende di rosso. Sul tutto, d'argento caricato di un'aquila bicipite di nero. Lo scudetto, timbrato di una corona di sette pezzi d'oro. Ornamenti: due rami di alloro e di quercia passanti, in croce di S. Andrea, sotto la punta dello scudo, che risulta, a sua volta, timbrato da corona d'oro di nove pezzi, “privilegiata”, per i patrizi veneti. Per Widmann: inquartato, nel 1° d'azzurro al crescente figurato e, rivoltato per cortesia, d'oro; nel 4° d'azzurro al crescente figurato d'oro; nel 2 ° e nel 3°, d'oro al giglio d'azzurro. Sul tutto, di rosso al pellicano, con la sua pietà, il tutto d'argento. Lo scudo, timbrato di tre elmi, alla germanica, d'argento, orlati, graticolati e coronati, all' antica, d'oro, il centrale, in maestà. Cimieri: il centrale, costituito di un mazzo di sei piume,alternate, tre a destra e tre a sinistra, d'azzurro e d'oro Il destro, rivoltato per cortesia, costituito da una mano d'aquila, addestrata, d'oro e d'azzurro; l'oro caricato del giglio del campo. Il sinistro, costituito da una mano d'aquila, sinistrata d'azzurro e d'oro; l'azzurro caricato del crescente figurato del campo. Questa “planche”, presenta, addestrata, altresì, l'arma della famiglia Foscari: troncato d'argento e d'oro, al quarto franco di rosso, caricato dell'impresa del Leone di S. Marco, posto in maestà e diademato, con il libro chiuso (?)... 10 Lo scudo, timbrato dal corno dogale (la berretta frigia, cerchiata e gemmata d'oro). Queste armi, a testimoniare, l'avvenuta alleanza, di queste due importanti famiglie, in ragione del matrimonio avvenuto tra, la contessa Elisabetta Widmann Rezzonico ultima di sua stirpe e del Conte Pietro Foscari nel 1878 Una fonte per illustrazioni di articoli storici e araldici L’araldica sarebbe un campo di studio triste senza illustrazioni di stemmi e di personaggi. Il nostro bollettino è in genere ricco di illustrazioni, così come lo sono gli studi on line ed i contributi che appaiono negli Atti dei nostri convivi. Penso che proprio a motivo di ciò di recente numerosi soci mi hanno chiesto dove trovo il materiale per illustrare i miei articoli araldici e storici. Ovviamente le fonti sono diverse, e tengo a sottolinearlo fermamente, questo mio breve contributo non ha alcun scopo pubblicitario, ma solo ed esclusivamente informativo, fra esse una delle maggiori è Steve Bartrick in Inghilterra, presso il quale ho acquistato molte delle stampe ed incisioni che ho utilizzato per illustrare i miei contributi. Mi rivolgo a questo fornitore per due motivi: il primo perché offre un servizio rapido ed attento e secondo perché i suoi prezzi sono più che ragionevoli (poche sterline di solito). A tal proposito consiglio una visita al suo sito http://www.antiqueprints.com/ Le sue stampe provengono soprattutto dalle seguenti font: The History of England … di M. Rapin de Thoyras; The History of the war with Russia, 1858; Portraits of Illustrious Personages of Great Britain, 1815 di e. Lodge; Gneeral History of the lat war, 1763. Qui di seguito una miscellanea di alcune stampe e personaggi tratte dal sito di Bartrick. Arma Rezzonico Arma del Lord Chancellor Robert Henley, barone Henlley e conte di Nortihingon Armi alleate Foscari e Widdman Alberto Gamaleri Calleri Gamondi Robert Bertie, conte di Lindsey (1583-1642) 11 Bettino Ricasoli Arma dei baroni Middleton Eugenio di Savoia AMG Arma dei Villiers conti di Jersey Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] Segreteria della Società Arch. Gianfranco Rocculi. Via S. Marco 28 20121 Milano La Contea di Hamshire con armi di diverse famiglie e città fra le quali quelle del duca di Wellington e della città di Portsmouth I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico. 12