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Introduzione.
Cioccolatini economici per gli ospiti
L’altra sera, uscendo da una riunione all’università, mio marito e io ci siamo fermati a scambiare quattro chiacchiere con
Robby, che conosciamo da quando frequentava il mio corso per
matricole. Ci ha detto che andava a un party in vasca idromassaggio con delle compagne di liceo. Un’ora dopo eccolo che ti
spunta nel soggiorno (da noi non si bussa quasi mai) con la sua
chitarra e un’aria vagamente frastornata.
«Ehilà, come mai sei qui? Non andavi a una festa?».
«Beh, lo sapevo che era un’idea cretina, e così eccomi qua,
dovevo essere proprio fuori di testa». Si infila in cucina, traffica
un po’, torna con due panini all’uovo fritto e una tazza di tè, si
lascia cadere sul sofà e ci resta fino alle ore piccole, a suonarci
Neil Young e Tom Waits, e a scuotere la testa al pensiero della
sua balordaggine.
Questa storia comincia in effetti vent’anni fa. Era il mio ultimo anno di università a Oxford: forse il più felice di tre anni
straordinariamente felici. D’accordo, la nostalgia tende a rivestire tutto di una dolcissima aura dorata, ma a quel tempo mi
rendevo conto con tutta me stessa di essere follemente, vertiginosamente felice. Oxford poi non ha bisogno di nostalgia per
rivestirsi di luce. È antica e bella e impregnata di cultura e noi
eravamo giovani e intelligenti e sprizzavamo di gioia, liberi di
vagare fra chiostri e biblioteche e giardini che, per la durata
di un profondo ed esaltante respiro, appartenevano solo a noi.
Era esaltante, ma anche molto faticoso, perché finiva con una
settimana di esami che duravano sei ore, esami da cui dipendeva la laurea (e, ci sembrava allora, la vita stessa). Sarah e Phil
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AMOR M’ACCOLSE
e io, sentendoci a pezzi, ci eravamo invitati da Joe e Linette
per il fine settimana. Da ragazzi beneducati prima di salire sul
bus ci eravamo fermati in una pasticceria di lusso, e all’arrivo
offrimmo il nostro regalo: una di quelle eleganti scatolette da
pasticceria di lusso, con una mezza dozzina di tartufi di cioccolato dei più costosi.
«Oh, che meraviglia!» disse Linette. «Noi li adoriamo». Poi
si mise a rovistare fra un mucchio di libri e giornali, aprì un
paio di cassetti e ci frugò dentro, guardò sotto dei cuscini, e
finalmente tirò fuori una scatola, un po’ malconcia e polverosa,
di cioccolatini economici presi al supermercato, e ce li mise in
mano dicendo: «Ecco qua, prendetevi questi». E ci mettemmo
a sedere e ognuno mangiò i propri cioccolatini, e io mi sentii
felice come una pasqua.
Avevamo fatto conoscenza con Joe e Linette l’anno in cui
l’Unione Cristiana del nostro college andò da loro per un fine
settimana di studio. Joe guidava i gruppi di lettura biblica, e
Linette si occupava dei pasti. Poi ci tornai con altri amici, e da
sola con Sarah. In tutto ci sarò stata tre o quattro volte – ci avrò
passato al più dieci giorni in tutto – ma mi hanno cambiato la
vita. È stato come innamorarsi, ma non al modo in cui ero innamorata di Oxford, con una sorta di romantico rapimento che
però, lo sapevo anche quando ero pazza di gioia, prima o poi
sarebbe finito. Questo era come quando incontri una persona
e ti rendi conto che indubbiamente non sa mettere i piatti nella
lavastoviglie nel modo giusto, e che in fatto di cinema ha gusti
orrendi, e che ci vuoi passare insieme il resto della tua vita e
avere i suoi figli, e basta.
Abitavano in una vecchia fattoria con tanti annessi, nella
campagna di Oxford. La casa era un guazzabuglio. Non come
quelle di certi tipi tremendi che miagolano «oh, per favore, scusi il disordine», quando il disordine a cui non devi badare si riduce a un paio di libercoli illustrati, un orsacchiotto e un piatto
sporco di briciole. Da Joe e Linette il disordine era sostanzioso,
sentito e durevole. Il pianoterra era un giacimento di scarpe e
arnesi da giardinaggio, gatti, sportine di plastica gonfie di chissà cosa, e poi giornali e libri su libri, cumuli e pile e pozze di
libri senza alcun ordine. Al primo piano c’era un corridoio spo-
CIOCCOLATINI ECONOMICI PER GLI OSPITI
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glio e gelido affiancato da camere spoglie e gelide e un tantino
umide, tutte piene di quanti più malandati letti a castello ci potevano stare.
Era tutt’altra cosa dal fascino di Oxford, ma era una casa
perfetta, grazie alla straordinaria ospitalità di Joe e Linette. Pareva che avessero attuato un rigoroso piano cartesiano di azzeramento e ripensamento di ogni cliché, convenzione o presupposto, relativo a cosa fa veramente piacere a chi viene a farti
visita. Cosa rende una visita piacevole? Beh, naturalmente, il
fatto che ti diano roba buona da mangiare. E così accadeva: cibo abbondante, genuino e squisito. Là ho mangiato per la prima
volta del tabulé insaporito con il prezzemolo dell’orto che Linette veniva creando, una fangosa aiuola dopo l’altra, ispirandosi a
illustrazioni su manoscritti medievali.
Tutti amano mangiare bene, ma a nessuno piace davvero
affettare carote o lavare i piatti. La cucina era zona strettamente vietata; Linette si inferociva addirittura se solo tentavi
di riportare il tuo piatto in cucina. Non c’erano assolutamente
faccende domestiche da sbrigare, nessuno di quei raggelanti
elenchi di disposizioni che trovi come prima cosa in tante case
per ritiri in Gran Bretagna: «Avviso agli ospiti: prima di partire siete pregati di mettere le lenzuola nella federa e depositarla nella cesta gialla fuori dal bagno. Girate la manopola del
radiatore di 170 gradi in senso antiorario. Svuotate il cestino
della carta straccia nel bidone verde dei rifiuti dietro la porta
della cucina, ecc. ecc.».
Soprattutto ti piace poterti rilassare, senza dover fare lo sforzo di indovinare se il tuo ospite vuole che lo intrattieni o se
preferisce essere lui a intrattenerti, e se stai parlando troppo o
troppo poco in base a qualche criterio mai chiarito. Con Joe e
Linette il problema non si poneva mai, perché chiaramente per
loro non esisteva. A volte ci interrompevano mentre conversavamo per raccontare storie e porre domande indiscrete; a volte si
facevano gli affari loro e ci lasciavano stare finché non ci chiamavano a tavola. A Linette non andava a genio il rituale «ciao,
grazie mille, ci siamo divertiti un sacco», «è stato bello avervi
qui, tornate quando volete», e per lo più al momento della partenza si faceva di cera.