Galaxia - Mensa Italia

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Galaxia - Mensa Italia
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
galaxia
Tradurre la Guida:
un’esperienza … galattica!
di Corrado Giustozzi
C
hi non conosce la Guida Galattica per Autostoppisti,
capolavoro di fantascienza umoristica del compianto Douglas Adams? Nata in origine come trasmissione radiofonica della BBC1, la Guida è poi diventata una
serie di libri (per la precisione una trilogia in cinque volumi…), uno sceneggiato televisivo2, un gioco ed infine un
film. Caratterizzata da una trama tanto sconclusionata quanto geniale, da personaggi improbabili e straordinari, da situazioni deliziosamente surreali e da dialoghi densi di irresistibile humour inglese, la Guida è diventata negli anni un oggetto di culto non solo per gli appassionati di fantascienza ma
anche per tutti coloro che sanno apprezzare un testo intelligente anche quando serve “solo” a far ridere. Non a caso
fra i più accesi fan della Guida si trovano moltissimi scienziati,
soprattutto fisici, ai quali Adams strizza furbescamente l’occhio quando si fa gioco delle leggi della fisica inventando
teorie quali l’Improbabilità Infinita e la Bistromatica.
Il film, uscito nel 2005, corona un sogno al quale lo stesso Adams aveva lavorato per una dozzina d’anni, senza
tuttavia riuscire a realizzarlo per via della sua precoce scomparsa avvenuta nel 2001. Benché il soggetto sia stato in
buona parte ripreso da quello che l’autore stava realizzando, la sceneggiatura che ne è stata tratta risente evidentemente dell’impostazione “per famiglie” dei classici prodotti
Disney/Buena Vista, la quale ha un po’ edulcorato quella
visione cinica del mondo che caratterizza tutte le opere di
Adams. Il film tuttavia, pur soffrendo un po’ per colpa di un
lieto fine assolutamente implausibile, risulta sufficientemente
godibile anche per gli appassionati più ortodossi, i quali
possono ritrovare dialoghi e situazioni spesso letteralmente citati dai libri se non addirittura dalle mitiche trasmissioni
radio della BBC.
Essendo io stesso un appassionato della Guida più che
talebano, ed essendomi sempre posto in un atteggiamento
molto critico nei confronti della traduzione a mio avviso piuttosto scadente con la quale Mondadori l’ha proposta al pubblico italiano sin dalla sua prima pubblicazione nel lontano
19803, ho affrontato con grande entusiasmo ma anche un
po’ di reverenziale timore la proposta, giuntami abbastanza
a sorpresa da parte di Buena Vista Italia, di lavorare come
consulente speciale alla traduzione ed all’adattamento in
italiano dei dialoghi del film. In effetti, pur non essendo questo il mio mestiere, di tanto in tanto mi capita di essere
chiamato come consulente per l’adattamento dei dialoghi
in film caratterizzati da un forte contenuto tecnologico, specie se di ambientazione fantascientifica4. Questa volta tuttavia l’occasione era davvero troppo interessante ed importante: oltre infatti a poter partecipare in prima persona alla
realizzazione di un’opera alla quale sono da sempre fortemente legato, potevo finalmente contribuire a recuperare
un po’ di quello spirito che purtroppo era andato perso nella traduzione italiana ufficiale dei libri ad opera di Laura Serra. Nel mio ruolo avrei affiancato e supportato uno dei più
La locandina del film in versione italiana.
grandi professionisti italiani, Carlo Cosolo, il quale vanta un
curriculum invidiabile come traduttore, adattatore dei dialoghi e direttore del doppiaggio5; e mi sarei interfacciato direttamente col responsabile Disney per la supervisione artistica Roberto Morville, altro mostro sacro del settore6.
C’è da dire che Carlo, oltre ad essere un valentissimo professionista, è a sua volta un grande appassionato di fantascienza e come tale già conosceva ed apprezzava le opere
di Douglas Adams. La nostra collaborazione è dunque partita da subito alla grande, in quanto entrambi condividevamo l’obiettivo di riuscire a recuperare con rigore filologico,
pur nei limiti concessi dalla necessità di rimanere assolutamente fedeli al copione originale, il mondo della Guida Galattica così come l’aveva descritta il suo autore. Da qui innanzitutto la decisione, presa all’unanimità ed approvata in pieno dalla Disney, di non rifarci necessariamente alla traduzione “classica” di Laura Serra ma di tentare di recuperare il
senso originale del testo, almeno là dove fosse possibile.
Filosofia, filologia, deontologia…
Purtroppo la traduzione classica della Serra, almeno nella
mia opinione, non è affatto un ottimo lavoro: essa comprende infatti diversi svarioni, ma soprattutto vi sono moltissimi punti nei quali il sottile e britannicissimo humour originario di Adams è stato completamente rimosso dal testo.
Mi dispiace dirlo, perché la Serra è una vera e propria istituzione nella fantascienza italiana, e generalmente è un’ottima traduttrice: ma in quell’occasione evidentemente deve
aver lavorato in fretta, come spesso capita nel suo mestiere, e magari anche con leggerezza. D’altronde si parla di
venticinque anni fa: all’epoca la Guida non era altro che un
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romanzetto assolutamente folle scritto da un inglese poco più che sconosciuto, chi avrebbe immaginato che
sarebbe diventato in seguito un vero e
proprio cult e che la sua prima traduzione sarebbe rimasta scolpita nella
storia?
Comunque, nel bene e nel male,
quella di Laura Serra è effettivamente
la traduzione italiana, e di questo abbiamo ovviamente tenuto debito conto nel nostro lavoro di adattamento del
film. Pertanto abbiamo ritradotto tutto
quanto abbiamo potuto, cercando di
recuperare il senso degli scritti di
Adams con l’obiettivo di rimanere il più
possibile fedeli e rispettosi al testo ed
allo spirito originali, ma stando bene
attenti a non esagerare; abbiamo così
scelto di lasciare invariate la maggior
parte delle forme e dei termini ormai
consolidati, anche là dove non eravamo d’accordo con la lezione della Serra. Ad esempio abbiamo lasciato immutato il “Gotto esplosivo pangalattico”7, anche se sinceramente come traduzione la riteniamo abbastanza spiacevole...
Anche i nomi propri dei vari personaggi sono rimasti tutti in originale, pur
se ad un certo punto la Disney aveva
proposto di tradurre quello di Slartibartfast per cercare di ricreare in italiano il
gioco di parole che lo caratterizza. In
questo caso però ci siamo decisamente opposti: a parte che da sempre i personaggi della Guida sono noti qui da
noi col loro nome originale, e dunque
saremmo andati contro una situazione davvero troppo consolidata, resta il
fatto che i tentativi di tradurre un nome
caratterizzato da un gioco di parole non
sono quasi mai felici e di solito finiscono in un disastro8.
Piccolo inciso: sono in pochi a sapere che il nome “Slartibartfast” fa sbellicare di risate gli inglesi quando lo sentono perché ha un suono... estremamente imbarazzante. Adams lo ha infatti costruito (come lui stesso ha avuto modo di spiegare) in modo tale che
sembrasse un’orrenda parolaccia, pur
tecnicamente non essendolo. In effetti
lui voleva usare una vera oscenità, ma
ovviamente la BBC non la avrebbe accettata in una trasmissione radio “per
tutti”. Per ottenere
l’effetto desiderato,
dunque, Adams
scrisse tre o quattro
vere parolacce e ne
rimescolò le sillabe
assieme, sino ad ottenere un qualcosa
che suonasse terribilmente osceno
senza però esserlo
realmente: in questo modo il nome
poté essere trasmesso via radio.
Ecco spiegato il
motivo per cui Slartibartfast è così reticente nel pronunciare il suo nome,
ed Arthur per poco
non soffoca dal ridere quando infine
lo sente. Per la cronaca questa gag
esiste identica sia
nelle versioni radio
che nei libri, ed è riportata quasi letteralmente anche nel
film: ma pochi, al di
fuori degli inglesi,
Arthur Dent e Ford Prefect. Arthur tiene in mano la Guida Galattica.
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possono apprezzarla per quello che realmente significa.
Ecco invece un breve sunto delle piccole o grandi cose che abbiamo scelto di ritradurre perché la lezione originale non ci soddisfaceva. Il “propulsore di improbabilità infinita”9 è diventato
“motore ad improbabilità infinita”, chiarendo così definitivamente che è l’improbabilità infinita ad essere usata per
la propulsione e non il contrario! La
“caratteristica CPV (Carattere da Persona Vera)”10 di cui è dotato Marvin il robot è diventata “caratteristica VPP (Vera
Personalità di Persona)”. L’”Ente Centro-galattico Arti Nocive”11 è ritornato
correttamente ad essere il “Consiglio
Centro-Galattico per la Corruzione delle Arti”, mentre la “Ode a un pezzetto
di mastice verde che mi sono trovato
sotto un’ascella un mattino di piena
estate”12 è diventata “Ode a un piccolo
grumo di mollume verde trovatomi nell’ascella un mattino di mezza estate”.
Infine la “Grande domanda sulla vita,
l’universo e tutto”13 è diventata, con
maggiore precisione, la “Domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto
quanto”.
In taluni casi abbiamo optato per una
forma ibrida, in modo da correggere
un po’ il tiro lasciando tuttavia l’assonanza del termine tradotto nei confronti
dell’originale. Così ad esempio la “Vorace Bestia Bugblatta di Traal”14 è diventata la “Vorace Bestia Bugblatter di
Traal”: “bugblatta” infatti non significa
proprio nulla, ma volendo tradurre esattamente il nome originale lo si sarebbe dovuto modificare radicalmente, introducendo un riferimento esplicito al
mondo degli insetti (“bug”) che ci sembrava tuttavia troppo in conflitto con la
fama ormai consolidata della Bestia in
questione.
Altri termini invece li abbiamo lasciati proprio in originale, pensando che la
traduzione li avrebbe sviliti. È il caso
ad esempio del “Babelfish”, che la Serra ha come “Pesce Babele” e noi invece abbiamo lasciato com’era. In questo caso la nostra scelta è stata anche
motivata dalla notorietà dell’omonimo
traduttore automatico di pagine Web
che si trova su Internet, e che come si
può ben immaginare ha preso il suo
nome proprio in omaggio al pesce giallo inventato da Douglas Adams (sì, siamo perfettamente consapevoli che
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qualcuno, non conoscendo bene la
Guida, avrà comunque equivocato
pensando che sia stato il film ad aver
copiato da Altavista e non viceversa…).
Chi ha visto il film si sarà accorto che
“Don’t panic” è diventato “Niente panico”: a parte che è comunque piuttosto
carino, in questo caso c’era il problema che la forma estesa tradizionale
“non lasciatevi prendere dal panico”,
oltre che orrendamente prolissa, è assolutamente impossibile da pronunciare in sincrono col labiale inglese...
Ultima chicca, che non so quanti
avranno potuto notare guardando il film
ma mi piace svelare ad un pubblico in
grado di apprezzarla. Come è noto, la
“domanda finale” proposta da Arthur
ai Topi è uno dei versi di “Blowing in
the Wind” di Bob Dylan: “How many
roads must a man walk down”. Anziché tradurla letteralmente (“Quante strade deve percorrere un uomo...”), abbiamo reperito ed usato nientemeno
che la “autentica” versione italiana di
Mogol/Tenco (sì, proprio la cover italiana dell’epoca!), il cui verso “Quante
le strade che un uomo farà”, oltre ad
essere filologicamente ineccepibile, rispetta correttamente la metrica della
frase musicale originale! È una piccolissima cosa, ma dà la misura della
cura con la quale ci siamo dedicati al
lavoro.
The Great Green Arkleseizure
Il caso del “Great Green Arkleseizure” è eclatante, e merita di essere spiegato con un certo dettaglio: è infatti
l’unica situazione in cui siamo andati
contro la traduzione consolidata, anche se relativa ad un termine di uso
minore, per correggere un grave errore di interpretazione e ripristinare un
significato andato malamente perso.
L’errore di traduzione della Serra è infatti piuttosto marchiano, e produce un
risultato che non solo è incomprensibile (“Grande Ciaparche Verde”) ma
soprattutto non fa ridere, in quanto non
rievoca nulla dello humour al quale è
improntato il nome originale. Sembrerebbe in effetti che la Serra non abbia
capito affatto il gioco di parole insito
nel significato del termine inventato da
Adams, il quale invece è strettamente
ed ironicamente correlato al contesto
in cui si trova.
Cominciamo dall’inizio. “Seizure” significa “scossa, colpo, convulsione” (in
senso biologico), ma si usa anche nel
linguaggio poliziesco per indicare una
irruzione o una perquisizione improvvisa (quello che noi chiamiamo “blitz”)
con sequestro di qualcosa. La Serra
ha evidentemente optato per quest’ultimo significato, e lo ha tradotto col termine milanese “ciapa” (da “ciapare”,
ossia “acchiappare”, “portare via”); e
poi, chissà perché (ma direi per semplice assonanza), ha deciso di rendere “Arkle” con “arca”. Perciò “Arkleseizure” è diventato concettualmente “ciapa - arche” e quindi “ciaparche”. Potrebbe anche andare, se non che… non
ha nessun riferimento evidente al contesto e soprattutto non fa ridere. Come
stanno dunque le cose?
Il fatto è che invece il significato giusto cui attingere è proprio quello strettamente biologico. Ricordiamo infatti
che il “Great Green Arkleseizure” è quel
mitologico essere primigenio che, secondo i Jatravartidi del pianeta Viltvodle VI, ha generato l’Universo espellendolo dal suo naso con un poderoso
starnuto, in una sorta di versione biologica del nostro “big bang”15. Quindi
“seizure” in questo caso sta effettivamente per qualcosa tra la convulsione
e lo starnuto, mentre “Arkle” non ha un
significato preciso se non quello di rendere ironicamente nobile e pomposo
l’intero nome, echeggiando qualcosa
di “arcaico” o di “archetipico”.
Il nome originale, dunque, è allo stesso tempo evocativo ma anche ridicolo, e si riferisce comunque ad un’improvvisa emissione di tipo strettamente biologico. Nella nostra traduzione abbiamo dunque cercato di adattarlo in
modo che rimanesse chiaro il significato umoristico: e per potervi riuscire
in modo decoroso abbiamo dovuto
ragionarci davvero a lungo, perché era
assai difficile trovare qualcosa che riuscisse a trasferire il senso della gag in
modo valido e non forzato. Siamo partiti da cose come “archibotto” o “arcicolpo”, che però non davano il giusto
senso, per approdare infine, dopo davvero tanti e tanti tentativi, su “scaravulso”16: termine che non significa niente
ma ricorda sia una “emissione” (un po’
“sputacchiosa”, a dire il vero...) sia una
“convulsione”. Quindi il “Great Green
Arkleseizure” è ufficialmente diventato il “Grande Scaravulso Verde”.
Per la cronaca in tutto il film lo Scaravulso viene nominato una volta sola e
per di più di passaggio, e dunque nessuno si accorgerà mai del grande e filologicamente rigoroso lavoro che è
stato necessario per adattarne il nome.
Rimarrà però la nostra soddisfazione
nell’aver reso finalmente giustizia ad
Adams!
Lo humour inglese
Diverse sono, purtroppo, le battute
tipicamente inglesi di Adams andate
perse nella traduzione italiana dei libri.
Molte in effetti non compaiono nel film,
ma qualcuna di esse vi è stata inserita
dagli sceneggiatori in modo quasi letterale: e almeno di queste ci siamo
impegnati a vendicarne l’onore. Forse
il caso più clamoroso è quello che si
verifica nel primo colloquio tra Arthur
e Slartibartfast, dove il genio di Carlo
Cosolo ha risolto una situazione davvero spinosa consentendo di restituire
elegantemente anche in italiano il senso quasi intraducibile del gioco di parole originario.
Ecco la scena. Slartibartfast, che non
si è ancora presentato, sta cercando
di convincere Arthur a seguirlo nel sottosuolo di Magrathea, e per fare ciò ricorre ad una oscura minaccia, resa
goffa dalla sua scarsa dimestichezza
con i modi di dire del terrestre. Il colloquio si svolge esattamente così, tanto
nel libro quanto nel film:
«Come,» called the old man, «come
now or you will be late.»
«Late?» said Arthur. «What for?»
«What is your name, human?»
«Dent. Arthur Dent,» said Arthur.
«Late, as in the late Dentarthurdent,» said the old man, sternly.
«It’s a sort of threat you see.»
L’equivoco divertente, oltre che nella storpiatura del nome di Arthur, sta
nel fatto che “late” vuol dire “in ritardo”
ma viene usato anche per indicare una
persona defunta anteponendolo al suo
nome, così come noi diciamo “fu”.
Quindi Slartibartfast sta dicendo ad Arthur qualcosa come “vieni o sarai morto” (letteralmente: “vieni o sarai fu”), intendendola come una minaccia, mentre Arthur capisce “vieni o sarai in ritardo”. Un gioco talmente sottile che la
stessa Serra evidentemente non lo ha
compreso affatto, tanto è vero che lo
ha tradotto in questo modo assoluta-
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mente privo di significato (e neppure
divertente…):
«Venite» disse il vecchio. «Venite
adesso, o dopo sarà troppo tardi.»
«Tardi?» disse Arthur. «Tardi per
cosa?»
«Come vi chiamate, umano?»
«Dent. Arthur Dent», disse Arthur.
«Tardi, come nel tardo Dentarthurdent» disse il vecchio, con severità.
«È una specie di minaccia, capite?»
Ecco invece come Carlo ha reso il
dialogo nel film, riuscendo in maniera
mirabile a conservare sostanzialmente intatto il gioco di parole:
S: «Tu devi seguirmi, o… mancherai!»
A: «Di che cosa?»
S: «Come? No, no! Qual è il tuo
nome, Terrestre?»
A: «Dent. Arthur Dent»
S: «Bene. ‘Mancherai’ come in ‘È
mancato Dentarthurdent’. Vuol
essere una minaccia!»
Si tratta di un vero pezzo di bravura
da parte di Carlo, purtroppo poco evidente in quanto nel film questo dialogo è molto veloce e il gioco di parole
rischia di passare inosservato.
Addio, e grazie per tutto il pesce!
Dopo tutto questo lavoro (e non vi
dico con quanta cura e meticolosità è
stato portato a termine il doppiaggio…)
è stato quantomeno spiacevole vedere il film purtroppo maltrattato dalla distribuzione italiana e dalle cosiddette
“leggi del mercato”. La sua uscita infatti, originariamente prevista anche nel
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nostro Paese ai primi di maggio del
2005 in concomitanza con il resto del
mondo, è stata dapprima rimandata a
settembre per evitare conflitti con le
grandi pellicole della concorrenza già
programmate per la primavera/estate
quali Harry Potter, I fantastici quattro,
La guerra dei mondi e Sin City; però
una volta giunti a luglio la distribuzione italiana, avendo constatato come
nel resto d’Europa il film non avesse
incassato secondo le aspettative, ha
deciso di non rischiare e lo ha mandato nelle sale senza preavviso il 12 agosto, senza alcun lancio pubblicitario ed
in sole venti copie per tutta Italia.
Il risultato è che lo hanno potuto vedere solo i pochi appassionati che in
qualche modo ne conoscevano l’esistenza, o quei fortunati che durante il
mese di agosto si sono trovati a passare per una grande città. Ed è stato
un peccato perché il film, pur non essendo certamente un capolavoro, è
comunque un prodotto gradevole e
ben fatto, in grado di piacere sia ai neofiti che ai fan integralisti di Adams.
Inoltre, pur con tutti i suoi limiti, si situa comunque piuttosto al di sopra
della media quanto a spessore ed intelligenza dei contenuti. Purtroppo così
vanno le cose in questo nostro mondo, che antepone gli aspetti spettacolari e superficiali a quelli che stimolano
la mente degli spettatori.
A chi lo avesse perso nelle sale segnalo comunque che dalla fine di gennaio 2006 il film si è reso disponibile
in DVD. Vale decisamente la pena di
vederlo, magari anche solo a noleggio:
un paio d’ore di onesto divertimento
sono senz’altro assicurate.
#
Note
1
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3
4
5
6
7
8
Andata in onda per la prima volta nel
1978 in sei puntate trasmesse tra marzo
ed aprile.
Anch’esso della BBC, trasmesso in sei
puntate nel 1981.
Nell’oramai introvabile Urania n. 843.
Ad esempio “Johnny Mnemonic” e “The
Net”.
Tanto per dire: King Kong, Sin City, Polar
Express, The Chronicles of Riddick, School of Rock, La maledizione della prima
luna, 8 Mile, Billy Elliott, eXistenZ, …
Ad esempio è stata sua la responsabilità
per la realizzazione italiana di tutti i film di
animazione Disney/Pixar.
In originale: “Pan-galactic Gargle Blaster”.
Non tutti comunque la pensano così: ad
esempio i francesi hanno gallicizzato i
14
nomi di quasi tutti i personaggi del film…
In originale: “Infinite Improbability Drive”.
10
In originale: “GPP - Genuine People Personalities”.
11
In originale: “Mid-Galactic Arts Nobbling
Council”.
12
In originale: “Ode To A Small Lump of
Green Putty I Found In My Armpit One
Midsummer Morning”.
13
In originale: “The Ultimate Question of
Life, the Universe and Everything”.
14
In originale: “The Ravenous Bugblatter
Beast of Traal”.
15
Non per nulla i Jatravartidi vivono nel timore della venuta del “Grande fazzoletto
bianco”!
16
Proposto, per onore di cronaca, da Roberto Morville.
9
Il consiglio
dell’amico
di Giorgio Lanzieri
S
arà capitato a molti di noi di
essersi imbattuti in un qualche amico o conoscente
che, nel darci un qualche consiglio,
abbia esordito con le fatidiche parole “al tuo posto, io…”, snocciolando poi l’immediata, lampante
soluzione alla nostra problematica;
soluzione invero interessante, ma
che tuttavia, guarda caso, difficilmente si attaglia alla nostra specifica situazione. Non la troviamo
convincente, c’è qualcosa di non
centrato in essa. Forse a non convincerci è l’immediatezza con la
quale l’amico ha trovato una risposta al nostro assillo: come fa ad essere subito così sicuro, se io ci sto
riflettendo da giorni senza trovare
soluzione?
Siamo infatti tutti bravissimi a
sbrogliare le problematiche altrui,
ma se guardiamo a come affrontiamo le nostre…! Perché accade
ciò? Forse la prospettiva distaccata dell’altro gli consente di vedere
più distintamente la soluzione più
appropriata per il nostro spinoso
problema, ma è anche vero che
siamo in genere bravi a risolvere i
problemi altrui proprio perché non
sono i nostri problemi o, per dirla
più chiaramente, non abbiamo tal
specifico genere di problema in
quanto un tale problema, nei termini in cui è posto, siamo capaci
di risolverlo, nel nostro peculiare
modo di operare. Sottolineo le parole “nei termini in cui è posto” perché qui individuo una chiave di
comprensione: per rendere l’amico partecipe del nostro problema,
siamo obbligati ad oggettivarlo
depurandolo della sua componente irrazionale, non essendo trasmissibili razionalmente né i sentimenti né il nostro personalissimo modus agendi, e così facendo ne forniamo soltanto una visione prospettica. Ogni problema è oggettivamente risolvibile solo nella misura in cui esso è oggettivabile.
Voglio dire: se ho un problema di
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denaro (problema oggettivo) l’amico
può davvero individuare la giusta soluzione, ma se la tematica è più complessa, coinvolgendo la mia interiorità, il mio modo di sentire e di reagire al
mondo, non posso sperare di riuscire
a comunicare fedelmente all’altro la
tematica nella complessità dei modi
con cui la sperimento. L’amico può, in
perfetta buona fede, individuare una
soluzione, ma sarà la sua soluzione al
problema così come egli l’avrà percepito. Resta comunque il fatto che non
la sentiamo nostra, e continuiamo a dimenarci con il problema.
Insomma, ognuno è afflitto dalle proprie specifiche problematiche esistenziali, ed invariabilmente sente come
impropri, estranei, spesso anche inutili i suggerimenti ricevuti.
E’ evidente quindi che la locuzione
“al tuo posto, io…”, diffusissimo preambolo introduttivo di fantasiose panacee, è sovente foriera di deludenti
aspettative. Il fatto è che la tal persona
non è affatto al nostro posto, né potrà
mai esserlo: ognuno di noi ha un suo
insostituibile posto al mondo, ed un
proprio modo naturale di vivere la vita,
un modo assolutamente personale, al
di là di quelli che possono essere i fattori condizionanti esterni (età, popolo,
classe sociale, reddito, salute, ecc…).
Ciascuno di noi vive la propria quotidiana esistenza secondo un modo
spontaneo che è insito in noi. Spesso
non facciamo neppure caso a ciò che
guida le nostre azioni ma, se ci soffermiamo a riflettere un po’ più attentamente, scopriamo che ciascuno vive
la propria esistenza all’insegna dei valori che sente prioritari dentro di sè,
nella propria interiorità, lo sfondo su cui
si scrivono le parole della propria vita.
Quando agiamo in armonia con i nostri valori ci sentiamo ispirati e determinati, sicuri e gratificati nel vivere.
Quanto più percepiamo di essere aderenti ai valori per noi fondamentali, tanto più ci sentiamo pieni e realizzati,
quand’anche la nostra azione si risolva in un oggettivo fallimento.
Vorrei quindi cercare di capire qualcosa di più su questi “valori” che guidano da lontano ogni nostra azione.
Intanto, come dicevo sopra, essi sono
presenti in ognuno di noi, e per ciascuno in modo e forma particolare.
Sono i riferimenti esistenziali del nostro
cammino. Il loro sviluppo, la loro esten-
sione e forza, sono determinati unicamente dall’attenzione prestata al nostro
io profondo: quanto più sarò centrato
sulla mia coscienza, tanto più distintamente avvertirò la presenza dei miei
valori e sentirò in forma chiara quale
direzione imprimere al mio agire.
Viene quindi da pensare che tali valori costituiscano un patrimonio innato
dell’uomo però, a ben vedere, essi non
si presentano nelle medesime forme
per tutti gli uomini, né sono rimasti
immutati nelle varie epoche della storia umana. Dunque, pur essendo legati alla natura dell’uomo, essi sono
funzione quanto meno della formazione educativa ricevuta e del contesto
sociale nel quale viviamo.
Gli animali non hanno valori, ma
sono guidati dall’istinto. L’uomo, fondamentalmente privo della carica istintuale, deve ricercare altrove la fonte cui
attingere per individuare la risposta giusta alle infinite interrogazioni aperte
dalla sua interazione con il mondo circostante.
L’uomo si distingue dagli animali
principalmente per la sua attività di
pensiero. Ma il pensiero si riflette anche su di sé e, nella sua inesauribile
fame di conoscenza (vedasi Memento
n. 3-4/2005, Galaxia, “Le ragioni della
scienza”), vuole scoprire le ragioni del
suo proprio esistere. Da questo drammatico cortocircuito psichico trae origine il concetto di Dio, bene supremo,
creatore dell’uomo e creato dall’uomo,
soppressione di ogni ulteriore anelito
di conoscenza in nome di una fede da
accettare tout court che, se da un lato
manleva l’uomo dal peso della responsabilità del proprio essere al mondo,
dall’altro lo coarta alla creazione di un
sistema di riferimento etico (“ethos
anthropoi daimon”, asseriva Eraclito)
Memento - Rivista del Mensa Italia
che, ispirato a tale concetto, ne garantisca l’azione coerentemente responsabile nel suo essere al mondo.
Ecco quindi nascere il bene superiore o “valore”, creazione umana, frutto
di un sistema di pensiero che vuole
l’uomo creatore “ad immagine e somiglianza di Dio”, traduzione metafisica
dell’esigenza squisitamente umana di
conferire un senso alla propria esistenza. Grazie alla sussistenza dei valori ai
quali viene educato (di qui l’esigenza
di un costante adeguamento dei valori
al decorso storico e sociale), l’uomo
può affrontare la propria esistenza senza porsi l’angosciante motivo della sua
reale essenza, dedicando le proprie risorse umane alla conquista ed alla creazione razionale del mondo semplicemente oggettivandolo, chiudendo così
un cerchio esistenziale che, incapace
comunque di produrre una risposta
adeguata, risolve tale problematica con
la soppressione della domanda. La
“non risposta”, consistente appunto nel
rispetto dei propri principi etici, maschera l’incomprensibile dramma dell’essenza umana dietro l’apparenza dell’esistenza, convertendo lo sgomento
profondo e disorientante dell’interrogativo fondamentale in un procedimento
coerente e razionale di attenzione alla
rispondenza a valori superiori.
I valori allora altro non sono che la
trasposizione in termini oggettivi della
supremamente angosciante domanda
ultima dell’uomo sulla propria ragion
d’essere: oggettivandola, la si vuota del
suo contenuto essenziale, assolutamente inconcepibile dalla logica umana, sostituendovi un costrutto che conferisca comunque un senso razionale,
oggettivo, comprensibile all’esistenza
umana. I valori sono il consiglio dell’amico.
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Norme editoriali
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Realtà
ed apparenza
(Verso
una nuova filosofia
della scienza)
di Roberto Pugliese
S
in dalle scuole superiori sono
sempre stato affascinato dal
“problema ontologico”, in particolare dalla relazione tra la realtà e il
modo in cui noi la percepiamo. Mi sono
sempre chiesto che senso avesse affermare che le cose possono essere
diverse da come noi le vediamo e mi
sono reso conto che la risposta a questa domanda, lungi dall’essere banale, può determinare un mutamento
profondo nel nostro modo di concepire la realtà.
Secondo la filosofia occidentale, la
conoscenza umana deve perseguire
una rappresentazione vera ed oggettiva di un mondo già esistente in sé. Per
dimostrare questo assunto sarebbe
però necessario confrontare ogni conoscenza con quella parte della realtà
che essa dovrebbe rappresentare; ma
per fare questo confronto, si dovrebbe
poter avere accesso alla realtà così
com’era prima di passare attraverso le
operazioni del soggetto osservatore.
In altre parole, una tale prova di veridicità richiederebbe un confronto tra
una cosa che si conosce ed un’altra
che invece non è conoscibile. Per questa ragione gli scettici, nel IV secolo
a.C., giunsero alla conclusione che la
vera ed oggettiva natura della realtà
non era conoscibile. Gli uomini possono soltanto tracciare una mappa della
realtà, vale a dire una rappresentazione parziale e soggettiva che non può
essere confusa con la realtà stessa,
così come la mappa non può essere
confusa con il territorio che si intende
rappresentare. La vera natura delle
cose, per chi ci crede, è nota solo a
Dio e appartiene ad un piano che trascende la ragione umana.
Ma è proprio così? Esiste veramente
una differenza tra ciò che noi percepiamo e la realtà? Secondo l’approccio “costruttivista” la vita è un “processo cognitivo”: vivere significa conoscere e conoscere significa vivere.
16
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
E’ attraverso il processo cognitivo,
che nasce dall’esperienza personale,
che ognuno di noi genera il proprio
mondo. L’esperienza vissuta è il punto di partenza di ogni conoscenza e in
quanto tale è irriducibile; niente precede l’esperienza.
Noi compiamo tutte le nostre esperienze attraverso il nostro sistema sensoriale, il nostro corpo, con la sua struttura determinata dalla nostra storia personale e dal processo evolutivo. Persone diverse rispondono in maniera diversa ad uno stesso stimolo e la risposta è determinata dal modo in cui l’osservatore è strutturato. E’ la struttura
del sistema osservatore che determina come esso si comporterà e non l’informazione ricevuta. L’informazione
non ha esistenza o significato se non
quello che le attribuisce il sistema con
cui interagisce, perciò l’informazione
non può avere un’esistenza oggettiva
e poiché il principio di oggettività è intrinseco al significato convenzionale
del termine «informazione», possiamo
concludere che “non esiste l’informazione”.
Tutte quelle proprietà che si credeva
facessero parte delle cose, si rivelano
così proprietà dell’osservatore.
Prima ancora che i fisici delle particelle, all’inizio del XX secolo, comprendessero che non era possibile distinguere tra sistema osservatore e fenomeno indagato, per cui, come scriveva Heisemberg: “ciò che noi osserviamo non è la natura in se ma la natura
esposta al nostro metodo di indagine”,
nel XVIII secolo Kant affermava che:
non è il pensiero a dipendere dai fatti
ma sono i fatti a dipendere dal pensiero che li classifica e li ordina, rivestendoli delle sue stesse leggi.
La nostra percezione, dunque, non
è e non può mai essere oggettiva e
tutte le osservazioni hanno uguale validità, finanche quelle che la clinica
medica qualifica come allucinazioni. Il
mondo con cui ciascuno di noi si misura non è qualcosa “fuori di se” con
cui interagire, è il prodotto della nostra
interazione con il mondo esterno, è
quello che ciascuno di noi ha costruito
“dentro di se” attraverso la propria
esperienza ovvero “un complesso tessuto di impulsi bioelettrici”. Ciascuno
di noi genera in se il proprio mondo
che a sua volta lo contiene. La stessa
distinzione tra “dentro di se” e “fuori di
se”, appare svuotarsi di significato, manifestandosi come una delle tante ingannevoli espressioni del pensiero razionale che divide e classifica.
Come scriveva Asvaghosa, filosofo
indiano del XII secolo, “ciò che l’animo percepisce come essenza assoluta è l’unicità di tutte le cose, il grande
tutto che tutto comprende. Tutti i fenomeni del mondo non sono che manifestazioni illusorie della mente e non
hanno realtà in se stessi”.
Ekai, filosofo cinese del XII secolo,
scriveva: Due monaci stavano bisticciando a proposito di una bandiera.
Uno disse: “La bandiera si muove”.
L’altro disse: “E’ il vento a muoversi”.
Per caso passava di lì il sesto Patriarca. Disse ai due: “Non è il vento e nemmeno la bandiera; è la mente che si
muove”.
Tra realtà e apparenza non esiste
dunque alcuna differenza valutabile.
Non potendo ricorrere ad un arbitro
imparziale (per alcuni, Dio), in grado di
definire la natura ultima delle cose, tutto ciò che appare è reale; non esiste
un solo universo ma tanti universi
quanti sono gli esseri senzienti.
Sul piano epistemologico, ne consegue che la finalità della scienza non può
essere la ricerca della “verità”. La teoria scientifica diventa così un’interpretazione, un racconto, una metafora, e
la sola domanda che abbia senso porsi non è più se essa rappresenti in
maniera oggettiva la realtà, ma se funzioni, ovvero se sia in grado di fornirci
delle previsioni accettabili, in relazione
alle nostre finalità.
Quando impieghiamo una teoria per
spiegare un fenomeno, il fenomeno
stesso si presenta diversamente in ragione della teoria che abbiamo utilizzato. In altre parole, i fatti dipendono
dalle teorie da cui sono spiegati e non
viceversa e questo rende impossibile
un confronto oggettivo tra assunti teorici ed evidenze sperimentali. Poiché,
inoltre, adottare una certa teoria significa determinare i fatti, non è oggettivamente possibile mettere a confronto teorie differenti nella spiegazione di
un medesimo fatto.
Per questa ragione ogni teoria è sostenibile e occorre considerare la ricerca scientifica come un prodotto della
“creatività umana”.
""
galaxia
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
pillole
Intelligenza artificiale
di Cinzia Malaguti
L
’intelligenza umana si può riprodurre artificialmente?
Se per intelligenza intendiamo la capacità di
risolvere problemi, a partire da elementi dati o fatti,
anche un programma di intelligenza artificiale, a cui siano
stati forniti i fatti rilevanti del problema da risolvere, può
raggiungere lo stesso risultato.
Anzi, una rete d’intelligenza artificiale, potendo gestire
quantità di dati molto maggiori degli esseri umani e non
essendo sottoposta alle interferenze emotive umane,
risulta essere molto più efficiente dell’intelligenza umana.
Ciò succede – però - solo qualora l’intelligenza umana
introduca nella rete tutti i fatti ed i relativi pesi necessari
all’elaborazione. E’ quindi l’intelligenza umana che
fornisce gli elementi creativi necessari al funzionamento
dell’intelligenza artificiale che li deve solo elaborare e tirare
delle conclusioni.
Se per intelligenza intendiamo non solo la razionalità
umana ma la sinergia che comprende anche creatività,
curiosità, intuito, ecc…, beh allora ritengo improbabile che
Le teorie vengono accolte o rifiutate
dalla comunità scientifica non sulla
base di “principi oggettivi”, che non
possono esistere, bensì sulla base del
“paradigma” culturale dominante, in
modo non dissimile a quello in cui si
afferma un credo politico, estetico o
religioso.
Non esiste alcun “criterio oggettivo”
che imponga la scelta di un paradigma piuttosto che un altro: le motivazioni che determinano la formazione
del consenso nella comunità scientifica, sono essenzialmente di ordine sociale e culturale. Per questa ragione,
una particella elementare può essere,
al contempo, un’onda, un oggetto puntiforme, una stringa unidimensionale,
una monade o “un puffo”, a seconda
della nostra utilità, e non perché Dio
giochi a scacchi con l’universo (come
obiettava polemicamente Einstein), ma
perché tutte le osservazioni hanno
uguale validità e le teorie scientifiche,
a volte, funzionano meglio se mettiamo da parte il senso comune, accettando di cambiare “paradigma”.
Del resto, il senso comune altro non
è che il prodotto della nostra storia
personale e del modo in cui il nostro
apparato sensoriale si è determinato
nel corso del processo evolutivo. Se
ad esempio non avessimo avuto il sen-
queste caratteristiche così umane possano essere
riprodotte artificialmente.
Dico questo perché io credo che la creatività, come la
curiosità e come l’intuito, siano influenzate dagli stimoli
sensoriali che ci provengono dall’ambiente, difficilmente
riproducibili in una macchina.
Certo, l’intelligenza artificiale è in grado di evitare gli errori
che può commettere l’intelligenza umana, a causa delle
sue emozioni.
Tuttavia, errori ed emozioni sono alla base dell’evoluzione
della nostra intelligenza, imparando dai primi ed
aggiustando i secondi, la nostra mente è cresciuta e
crescerà ancora.
Forse, crescerà ancora anche grazie all’aiuto
dell’intelligenza artificiale, più efficiente di quella umana,
quando c’è da calcolare le probabilità della validità di una
data ipotesi e, quindi, arrivare in fretta alla soluzione di un
problema.
so tattile o fossimo stati addirittura privi di “identità corporea” (la capacità di
percepire il nostro corpo, detta “propriocezione”, può essere persa, ad
esempio, a seguito dell’assunzione di
enormi quantità di vitamina B6), avremmo comunque elaborato il concetto di
materia distintamente da quello di energia?
La fisica moderna ci dice che massa
ed energia sono equivalenti, ma che
cosa significa tutto questo? Che è possibile “trasformare” la massa in energia e viceversa?
Massa ed energia non sono “semplicemente trasformabili” l’una nell’altra,
sono la stessa cosa; un diverso modo
di rappresentare un unico principio di
realtà.
Le stesse considerazioni valgono per
la distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa e cioè tra corpo e
mente; definizioni diverse di un unico
principio di realtà: “il processo cognitivo”. E’ curioso osservare come nel V
secolo a.C. i sofisti (Protagora e Gorgia) avessero colto con sorprendente
lucidità che al di là delle apparenze sensibili, non esiste alcuna realtà assoluta
ed immutabile; un concetto, quest’ultimo, da sempre presente nella filosofia orientale. Del resto, molto spesso il
sapere umano procede in modo circo-
$
lare. Si parte da un assunto per allontanarsene e quindi farvi ritorno con rinnovata consapevolezza.
Come scrive T.S. Eliot: “E la fine del
nostro esplorare / sarà arrivare la dove
siamo partiti / e conoscere il luogo per
la prima volta”.
Secondo la tradizione filosofica occidentale “saggio è colui che sa di non
sapere” e questo perché abbiamo sempre pensato che è attraverso il pensiero razionale, che divide e classifica, che
l’uomo possa avvicinarsi alla verità.
Secondo la tradizione filosofica orientale “saggio e colui che non sa di sapere”, poiché la realtà è unica e indivisibile e come tale può essere compresa soltanto attraverso il pensiero intuitivo, che ci consente una comprensione d’insieme (olistica) delle cose; una
comprensione immediata, non filtrata
dalla ragione che divide e classifica.
Io credo che in una visione che sia
in accordo sia col pensiero razionale
che col pensiero intuitivo, “saggio è
colui che sa di sapere”, perché divenuto oramai consapevole che ciò che
gli appare è reale, poiché ciascuno è
artefice del proprio mondo che attraverso il processo cognitivo si genera,
muta e si evolve in un continuo divenire creativo.
#
17
galaxia
L’allucinante
stato delle
ferrovie italiane
di Giuseppe Provenza
C
i si chiede talvolta cosa permetta di misurare il livello di civiltà
di un Paese. La risposta più immediata è che siano la quantità e la
qualità dei servizi resi dallo Stato e dagli altri enti pubblici ai cittadini, e quindi il senso di sicurezza e di protezione
avvertito dalla popolazione.
In primo luogo i servizi a cui si fa riferimento sono la sanità, l’istruzione, la
giustizia ed i trasporti pubblici (dagli urbani ai nazionali) ai quali va aggiunto il
sistema pensionistico. In Italia di tutti
questi temi si discute spesso, nella diffusa convinzione che si possa fare ancora molto per migliorare i servizi resi.
C’è però un altro parametro che ancor più validamente può fungere da
misura del livello di civiltà ed è l’uguaglianza dei cittadini nell’utilizzo dei servizi pubblici in relazione alla condizione sociale ed alla dislocazione geografica. In questo senso l’Italia ha ancora
parecchia strada da percorrere.
Useremo come paradigma le Ferrovie Italiane, formalmente privatizzate,
ma nella sostanza ancora “Ferrovie
dello Stato”.
Tutti hanno sotto gli occhi come esista una discriminazione di natura economica nei confronti degli utenti: più
veloci si vuole viaggiare più si deve
pagare. Se non puoi permetterti il supplemento dell’Eurostar puoi limitarti ad
un più modesto supplemento rapido
e prendere un Intercity, se non puoi, e
vuoi pagare il semplice biglietto senza
alcun supplemento devi accontentarti
o di un espresso o di un diretto … ed
arrivare con comodo.
Ma esiste una seconda discriminazione ben più grave e di cui non si parla
per il semplice motivo che non è facilmente percepibile dalla popolazione ed
è la discriminazione territoriale, che è
grave innanzitutto sul piano del principio, ma anche dal punto di vista economico.
In Italia la rete ferroviaria è fatta a
zone, classificabili come campionati di
calcio: c’è la serie A, la serie B, la C1 e
la C2. La differenza sta nella velocità.
18
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
Come si sa la tratta ferroviaria più
veloce, ossia l’unica in cui è stata realizzata l’alta velocità, è la Firenze Roma,
dove gli Eurostar tengono una media
di circa 200 Kmh percorrendo i 316 Km
in 1h36’. Del resto anche molti intercity su quella tratta raggiungono velocità superiori ai 180 Kmh.
Ciò non toglie che treni meno privilegiati abbiano tempi di percorrenza
molto maggiori pur essendo a lunga
percorrenza, come l’intercity “Canova”
Udine Roma che impiega 2h58’ o
l’espresso “Trinacria” Milano Palermo
che impiega 2h25’, due treni che provengono da zone fra le peggiori in termini di velocità e per i quali si può supporre che siano composti da materiale (vagoni e motrici) di vecchia concezione e quindi non in grado di raggiungere alte velocità.
Questa tratta Firenze Roma è dunque la serie A.
In serie B giocano tre squadre. La
Milano Bologna, la Roma Napoli e la
Torino Milano, dove rispettivamente il
treno più veloce (eurostar) tiene la velocità media di 130 Kmh, 122 Kmh e
115 Kmh.
Già così, raffrontandoci con altri paesi, ci si rende conto di trovarci nella più
assoluta mediocrità.
Ma non abbiamo ancora fatto i conti
con i treni a lunga percorrenza, con
quei treni, cioè, che una logica elementare porterebbe a privilegiare in termini di velocità.
Ma, come già detto la logica cozza
con qualcos’altro, come, probabilmente il materiale rotabile utilizzato.
Si scopre così che la tratta Milano
Bologna, coperta dai treni più veloci in
1h42’, viene percorsa dall’IC “Aspromonte” Milano Reggio Calabria in 2h37’
alla media di 84 Kmh e dall’unico treno (senza cambi) Milano Palermo,
l’espresso “Trinacria”, in 2h28’ alla velocità di 89 Kmh.
Sulla tratta Roma Napoli è invece l’IC
Udine Napoli “Marco Polo” a detenere
il poco invidiabile primato dell’intercity
più lento, impiegando per i 214 Km
2h45’ corrispondenti alla media di
77,82 Kmh, là dove altri IC impiegano
1h57’ alla media di 110 kmh.
Tralasciamo la Bologna Firenze percorsa dall’eurostar in 53 minuti alla
media di 110 Kmh perché le particolari caratteristiche della tratta la rendono
non paragonabile a tutte le altre, e pas-
siamo alle tratte da C1: Napoli Villa S.
Giovanni, Milano Venezia, e Bari Bologna, i cui treni più veloci raggiungono
rispettivamente i 106, 103 e 110 Kmh
di media, dati sconcertanti, nel 2006,
se non esistesse la C2.
Si, perché esiste la C2, in Sardegna
ed in Sicilia.
In realtà bisognerebbe dire che nelle
due isole maggiori d’Italia non esiste
un vero e proprio servizio ferroviario,
ma una parvenza.
Basti dire che da Cagliari a Sassari
esistono soltanto tre “regionali” il più
veloce dei quali impiega 3h18’ a percorrere i 260 Km alla media di 79 Kmh,
che da Palermo (capitale di regione con
750.000 abitanti) a Catania (450.000
abitanti) esiste un solo treno senza
cambi, ed è un diretto che compie i
243 Km in 3h30’ alla velocità di 69
Kmh, quando a compiere i 190 Km di
autostrada si impiega comodamente
e senza violazioni del codice della strada 1h40’. Il fatto poi che la strada ferrata sia il 28% più lunga dell’autostrada è la dimostrazione di quanto sia
obsoleta.
Alla stessa categoria appartengono
La Palermo Messina e la Catania Messina che, pur collegando la Sicilia al
continente non consentono velocità
superiori ai 70 Kmh, pena, come qualcuno ricorderà, il deragliamento.
Non trascuriamo peraltro una considerazione importante.
Tutto ciò non è rilevante soltanto in
termini di civiltà, di quella civiltà che
vorrebbe dallo stato lo stesso trattamento per tutti i cittadini, ovunque si
trovino, e qualunque sia la loro condizione economica, ma è anche determinante nello sviluppo economico,
considerata l’importanza che hanno i
trasporti nell’economia moderna.
Ma ad aggravare tutto ciò in termini
di discriminazione è l’aberrante situazione dei servizi sui treni in queste
zone da C2.
Cagliari, come abbiamo visto, è collegata a Sassari con tre regionali al giorno senza alcun servizio a bordo (come
in tutti i regionali) per quanto il viaggio
duri circa quattro ore (se si ha sete
pazienza). Palermo è collegato a Catania da un solo treno diretto al giorno,
anche questo, ovviamente, senza alcun servizio malgrado il viaggio duri 3
ore e 30 minuti.
""
galaxia
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
l’incompetente
Ma la Cina, che ci combina?
di Stefano Machera
C
ari lettori, questa volta l’Incompetente prova a interrogarsi (e interrogarvi!) su un altro dei luoghi comuni
della nostra vita economica e politica.
Siamo infatti continuamente bersagliati da dichiarazioni
di economisti e industriali che ci informano che l’industria
italiana ed europea è destinata a soccombere alla concorrenza di cinesi, indiani e via paesesoticando, che negli ultimi anni hanno invaso il nostro continente con i loro prodotti
a basso costo, e hanno messo sostanzialmente fuori mercato le nostre imprese. Si dice che i nostri poveri imprenditori sono costretti a “delocalizzare”, ossia a trasferire la produzione in paesi dove il costo del lavoro è più basso, perché i loro margini di profitto sono stati erosi, anzi azzerati,
da questa temibile e incontenibile concorrenza. D’altronde,
si sa: un operaio italiano costa molto più di uno polacco, e
infinitamente di più di uno cinese: quindi, si dice, se i nostri
pur benintenzionati industriali vogliono sopravvivere, devono spostare le produzioni all’estero, oppure abbassare i
salari, o entrambe le cose. Ormai ce l’hanno spiegato fior di
economisti, e l’abbiamo capito, no?
Già. Ma io sono un Incompetente, e quindi non potete
aspettarvi che capisca di queste cose. Come economista
io sono all’età della pietra, e dovete aver pazienza con me
se faccio fatica a capire gli argomenti degli esperti.
Sì, perché nella mia rozza visione dell’economia il profitto
di un industriale è dato dal prezzo a cui vende il suo prodotto meno il costo che ha sostenuto per produrlo. E, se in
questi ultimi anni i prezzi al consumo sono scesi, io non
me ne sono accorto. È vero che sono distratto, e che l’unico bene di consumo che compro in quantità statisticamente significativa sono i libri, ma che ad esempio i vestiti costassero oggi molto meno di quattro o cinque anni fa mi era
sfuggito. O le scarpe. O le pizze margherita, insidiate dagli
involtini primavera prodotti da cinesi clandestini pagati una
miseria.
No, io che sono distratto non mi sono accorto che i prezzi
sono calati grazie all’arrivo dei prodotti cinesi, e quindi i nostri
industriali ci rimettono. Ma, mi sono detto, sicuramente il
fenomeno esiste, e chi si occupa di statistiche avrà rilevato
il crollo dei profitti dei nostri imprenditori.
Ora, capirete anche voi che per un Incompetente non è
facile accedere alle statistiche sull’andamento dei profitti delle
Sulla Palermo Messina, con un viaggio che nella migliore delle ipotesi dura
tre ore, esistono soltanto due treni con
il distributore automatico di bevande,
malgrado per molti viaggiatori quella
tratta sia l’inizio o la fine di un viaggio
di venti ore. In questo l’aspetto più incredibile è che in molti treni provenienti
dal nord il vagone ristorante o il vago-
imprese italiane. Tuttavia Internet è grande, e Google misericordioso con i peones, così mi sono imbattuto in un fantastico documento chiamato “Quaderno Strutturale dell’Economia Italiana”, emesso nel giugno 2005 dal Ministero dell’Economia. Contiene le serie storiche di qualsiasi indicatore economico che un Incompetente possa desiderare, inclusi costi e profitti delle nostre imprese. E cosa ho trovato
in questa cornucopia di ogni bendiddio?
Beh, secondo questo inoppugnabile lavoro, il cosiddetto
“profitto per unità di prodotto” nel 2004 valeva, in media,
1,70. Questo significa, se ho ben capito, che per ogni 100
Euro di costo del lavoro vengono prodotti 170 Euro di valore, o qualcosa del genere (forse fate meglio a leggere direttamente il Quaderno).
Ma 1,70 è poco o tanto? Non lo so, ma possiamo dire che
nel 1996 lo stesso indicatore valeva 1,63, nel 1990 1,50 e
nel 1980 1,41. Vista così, sembrerebbe che i nostri imprenditori stiano guadagnando oggi più che in passato, no?
Ma forse dobbiamo considerare i singoli settori. In effetti,
sappiamo che il settore dei servizi ha proProfitto
fitti più elevati, e magari è l’industria che se
per unità
la passa male. Andiamo a vedere l’andadi prodotto
mento dello stesso indicatore (fatemelo
1980 1,52
chiamare PUP) per il solo settore dell’indu1990 1,51
stria “in senso stretto”, come lo chiama il
2000 1,53
Quaderno (cfr tabella a destra).
2001 1,54
Insomma, il PUP nell’industria è pratica2002 1,50
2003 1,48
mente costante e oscilla intorno a 1,50,
2004 1,49
mentre effettivamente la crescita del PUP
nell’intera economia è dovuta ai servizi.
Dunque, verrebbe da dire, se le imprese nel passato sopravvivevano benissimo con un PUP di circa 1,5, perché
non dovrebbero riuscirci ora? Cosa è cambiato di così drammatico?
Ahimè, io sono solo un Incompetente e non saprei proprio rispondere. Anzi, nella mia rozzezza intellettuale, potrei sospettare che i nostri imprenditori siano avidi e vogliano profitti maggiori, riducendo il costo del lavoro senza abbassare i prezzi alla vendita, ma immagino che questa sia
una delle mie solite interpretazioni malevole, e che riceveremo valanghe di commenti di consoci che mi spiegheranno dove si nasconde il busillis. Sarebbe antipatico infatti se
tutti i problemi che conosciamo, tutti i licenziamenti, le delocalizzazioni, le chiusure d’azienda, il precariato, fossero
solo dovuti al desiderio di guadagnare di più, mentre il mercato consentirebbe tranquillamente di guadagnare tanto
quanto prima mantenendo le produzioni in Italia, no? Sì,
sarebbe antipatico.
ne bar venga staccato a Villa S. Giovanni per evidente indegnità di chi continua il viaggio.
Del resto il disegno di voler respingere gli utenti siciliani dall’utilizzo del treno (i sardi non sono stati mai accolti!)
è reso evidente da due circostanze: la
soppressione negli ultimi due anni di
ben 26 treni in Sicilia e la chiusura, nel
$
2005, dei bagni in 25 stazioni.
D’altro canto se non bevono perché
dovrebbero avere bisogno dei bagni?
Siamo logici!
Non abbiamo, quindi, ancora fatto
l’Italia, altro che gli italiani!
Facciamo l’Europa, forse è l’unica
speranza di riuscire così a fare l’Italia.
#
19
galaxia
L’estinzione
di massa
del Permiano
di Francesco Morena
Q
uando si parla di estinzioni di
massa avvenute durante la storia del nostro pianeta, non si
può fare a meno di ricordare quella
ormai famosa dei Dinosauri.
Senza dubbio si tratta della più raccontata e resa spettacolare, sia per la dimensione degli animali estinti, i più
grandi mai vissuti sulla Terra, sia per
ciò che gli stessi grossi animali hanno
rappresentato e continuano a farlo nell’immaginario e nella fantasia che (a
volte anche troppo) ha fatto da cornice
ad un mondo in cui essi rappresentavano l’espressione naturale più tipica.
Il termine “giurassico” per esempio
ormai si associa al periodo di vita dei
Dinosauri. Ed essi richiamano subito
alla memoria la loro mole, il loro tipo
di vita e la loro stessa fine: la loro estinzione.
Eppure non sono stati gli unici rappresentanti del periodo a scomparire;
già un’altra specie famosa (ma sicuramente molto meno) si è estinta insieme: quella delle Ammoniti. Grosse conchiglie (appartenenti ai molluschi cefalopodi) che a volte raggiungevano anche dimensioni di un paio di metri di
diametro e che ricordano gli attuali
“nautilus”. Il nome deriva dal dio Ammone, per via delle sue corna delle
quali le ammoniti ricordano la forma.
Tuttavia non si è trattata dell’unica
estinzione di massa avvenuta sulla
Terra. E’ stata senza dubbio una delle
più imponenti ma già qualche centinaio di milioni di anni prima ve ne era
stata una di dimensioni ancora maggiori in cui addirittura, come avremo
modo di approfondire, sono scomparse il 95% delle specie viventi marine
ed il 60-70% di quelle terrestri vertebrate!
A dire il vero, solo se prendiamo in
considerazione le estinzioni per le quali
si è superato il 60% di specie estinte,
ne possiamo contare già più di due,
come si vede dal grafico a destra; la
tabella a fianco invece riporta gli anni
e le epoche di riferimento.
20
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
A considerare tutti questi animali
estinti però sembrerebbe che si è trattato sempre di un evento disastroso,
ma è necessario considerare anche un
altro aspetto del fenomeno e prendiamo come esempio proprio l’estinzione di 65 Ma (milioni di anni) fa.
Quanto accaduto alla fine del Cretaceo, con i Dinosauri per intenderci, ha
interessato, come già detto, una vasta
fascia di specie viventi, ma ha anche
messo le basi per un’altra circostanza
(ed è più per questo che è importante
che per la dipartita dei “lucertoloni”): la
quasi scomparsa dei Rettili, che costituivano la tipologia preponderante di
animali, ha creato i presupposti perché
fossero sostituiti al primo posto in classifica dai mammiferi.
Bisogna tener presente che le estinzioni, nell’evoluzione della vita esistente sul pianeta, non sono da considerare come qualcosa di negativo, ma fanno parte dello stesso percorso evolutivo degli esseri, e fa parte del contesto
più ampio di trasformazione del pianeta. I cambiamenti ambientali, infatti,
hanno portato via via ad adattamenti
delle specie viventi con una certa continuità ed una certa lentezza, ma quando si è avuto un tracollo di massa si è
verificato una successiva ripresa con
modifiche e differenziazioni delle specie sopravvissute e quindi con la creazione di nuove tipologie di esseri anche con un salto di qualità se vogliamo. Ne è un esempio appunto il ripopolamento dei mammiferi dopo l’estinzione avvenuta alla fine del Cretaceo.
Naturalmente questa fase di “estinzione-sviluppo” allorché si dice che è
durata pochissimo è riferita pur sempre ad una scala geologica, quindi non
si tratta di un episodio catastrofico, per
quello che intendiamo normalmente
con questo termine, cioè come ipotizzato con la caduta di un meteorite.
L’impatto è stato sì di breve durata, ma
per le mutazioni climatico-ambientali
sono passati anni, e per gli effetti sulla
vita ne sono passati centinaia o migliaia, infine per un evento ed il succedersi di estinzione-rinascita delle specie
anche milioni di anni. In pratica pur se
la caduta del meteorite, che è una delle cause teorizzate, è stato un fenomeno intenso e violento non è che tutti i
Dinosauri sono morti dopo l’impatto,
ma si sono estinti per uno degli effetti
secondari ed ambientali conseguenti
la collisione, che al limite resta solo la
causa scatenante.
Anche il senso di “breve durata” è
relativo perché un milione di anni rispetto alla vita della Terra è come parlare di circa 20 secondi di tempo nell’arco delle 24 ore di una giornata.
Ma veniamo alla grande estinzione
del Permiano e dopo aver visto come
si presentava il mondo di allora andiamo ad approfondire ciò che riguarda
l’esistenza, e l’estinzione, di quei particolari animaletti che forse più degli altri sono diventati, se non proprio il simbolo del periodo, almeno i più conosciuti del Paleozoico; forse anche perché non è raro trovarne i fossili nei
negozi e sui banchi dei mercatini e
delle mostre specializzate: i Trilobiti (o
“le trilobiti” come qualche testo riporta).
Durante l’era paleozoica dunque, di
cui il Permiano rappresenta l’ultimo
periodo (nella classificazione geologica i “periodi” sono le suddivisioni delle
“ere”), nella fase evolutiva della vita sul
""
Era
% specie estinte
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Ma
570
Periodo
Cambriano
Ordoviciano
Siluriano
Devoniano
Carbonifero
Permiano
Paleozoico
225
440
370
250
210
150
65
Milioni di anni fa
Triassico
Giurassico
Cretaceo
Mesozoico
65
galaxia
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
pianeta si è passati dalle forme già pluricellulari di tipo marino alle specie che
hanno conquistato le terre emerse.
L’inizio del Paleozoico è datato a 570
milioni di anni fa e dura per circa 345
Ma, cioè fino a 225 milioni di anni fa,
quando la fine del Permiano e l’estinzione di massa appunto segnano il
passaggio all’Era successiva, il Mesozoico.
Insomma, per capirci, all’inizio di
quest’era troviamo molte specie di invertebrati marini, che per non usare
terminologia troppo tecnica e specifica (Radiolari, Spongiari, Anellini, Echinodermi, ecc.) possiamo riassumere in
spugne, lombrichi, stelle marine fra i
quali i Trilobiti appunto. Tra le varie
specie molte utilizzano sostanze calcaree, o per meglio dire del carbonato
di calcio; per i loro gusci per esempio,
e quindi risalgono a questo periodo
anche le prime scogliere fossili che ritroviamo anche oggi.
Inoltre aumentano sempre più le specie di tipo vagile, cioè che si spostano,
e diminuiscono quelle di tipo sessile
cioè che vivono attaccate al fondo.
Cominciano a svilupparsi i Molluschi,
fra cui i Cefalopodi, i progenitori degli
odierni polipi. Ma stiamo in pratica già
arrivando a circa 400 Ma fa, quando la
vita inizia a comparire anche sulla terraferma dove finora era inesistente, o
quasi. Naturalmente la prima forma di
vita a manifestarsi è quella vegetale.
Ed evidentemente si tratta di piante di
tipo primordiale, evolutivamente parlando, cioè delle Crittogame che sono
poi quelle senza semi, anche oggi ovviamente esistenti, la cui riproduzione
avviene tramite spore.
Una volta che sulla terraferma si sono
sviluppate vite vegetali è chiaro che si
è facilitato l’adattamento degli animali
a respirare fuori dall’acqua o, per meglio dire, con la possibilità, in una prima fase, del doppio elemento di respirazione: acqua ed aria. La comparsa
degli Anfibi insomma.
Infatti, un po’ più avanti, appaiono
alcuni pesci ossei che avevano praticamente una doppia apertura per respirare: cioè oltre alla bocca avevano
una specie di “naso” nella parte posteriore dello stesso apparato boccale;
questa specie di “narici” erano le “coane”, per cui gli animali vengono detti
Coanati e rappresentano dei proto-An-
fibi che hanno dato poi origine alla classe vera e propria degli Anfibi alla fine
di un periodo chiamato Devoniano. Alcuni di essi, infatti (Crossopterigi) hanno trasformato per esempio le loro pinne, che già cominciavano ad essere
divise ed a somigliare ad una specie
di dita, in zampe.
In questo periodo anche l’importanza dei Trilobiti comincia a scemare ed
a cedere posto alle Ammoniti che aumenteranno di rilevanza fino alla loro
estinzione, come detto, dello stesso
periodo dei Dinosauri.
Intanto anche le piante si evolvono
dando spazio a specie più grosse ed
addirittura ad alberi. Arriviamo così al
periodo del Carbonifero, a quello,
come indica il nome,
caratterizzato da grossi giacimenti di carboni, ovviamente fossili.
In questa fase sono le
conifere a farla da padrone. Adesso siamo
in presenza di Fanerogame, cioè di piante
con semi, ma ancora
un po’ lontani dai prati
fioriti odierni perché si
tratta di Gimnosperme, di piante quindi senza fiori. Se avessimo potuto guardare una foresta del periodo, avremmo potuto vedere un bosco diverso
da come potremmo immaginarlo oggi:
conifere immerse fra grosse felci e piante rampicanti, ma senza volo e canto
di uccelli come sottofondo, senza fiori
e perciò senza farfalle variopinte, magari qualche libellula come la “meganeura” che aveva un’apertura d’ali di
oltre 70 cm!
In questo periodo gli anfibi –ex-pesci
escono ancora dalle acque per addentrarsi sulla terraferma e così un po’ alla
volta le fasi evolutive differenziano
sempre più le specie e sempre più si
creano nuovi gruppi: è il periodo in cui
compaiono i primi Rettili.
Ecco: in questa rapidissima carrellata siamo arrivati al Permiano di 225 milioni di anni fa. I Trilobiti sono quasi
scomparsi.
Ma come erano questi animaletti? Lo
stesso nome ci può dare un’idea: trilobite sta per “tre lobi” in cui era diviso il
suo corpo. La foto riporta un fossile (appartenente alla mia collezione) di circa
5-6 cm. ma potevano essere sia più
piccoli di un centimetro sia più grandi
di mezzo metro. Come si vede, le dimensioni già raggiungevano valori ragguardevoli! La maggior parte comunque era di dimensioni inferiori ai 10 cm.
La divisione in tre parti non è da confondere con la classica degli insetti, ben
visibile nelle vespe per esempio, cioè
capo, torace e addome; oltre a quella,
pur esistente, vi era anche una divisione longitudinale in lobi, lungo il corpo
stesso.
Questi, essendo costituito da una
sostanza dura, ha rappresentato una
buona predisposizione alla conservazione come fossile ed infatti rappresenta un cosiddetto fossile-guida, uno di
quelli cioè che individuano bene una
certa zona stratigrafica (quando se ne
trovano), sia dal punto di vista temporale, perché apparsi e vissuti solo in
un determinato periodo, come abbiamo visto, sia dal punto di vista geomorfologico perché vivevano in un
determinato ambiente di scarpata o di
piattaforma.
Questo ambiente era quello posto
nelle vicinanze delle coste continentali
oppure in mari interni poco profondi e
i trilobiti, insieme ad altri animali, vivevano nuotando in queste acque basse oppure, ed erano la maggioranza,
sul fondo marino. Rappresentavano
""
21
galaxia
cioè quella che si definisce fauna neritica, (anche se qualche specie si era
portata in ambiente più lontano pelagico - cfr figura a destra).
Anzi le specie che prediligevano il
fondo erano, come spesso accade,
anche con vista ridotta se non ne erano addirittura privi data l’oscurità: stiamo parlando di acque basse nel senso che raggiungevano però anche
qualche centinaio di metri.
Sempre sul fondo alcune specie trovavano riparo nella sabbia, e qui ci ricordano un po’ le sogliole, oppure talaltre per difendersi si raggomitolavano su se stesse a fare una pallina “corazzata”, come oggi vediamo fare da
tanti animali, per esempio il globulis,
(porcellino di terra, quell’animaletto di
si e no un centimetro che da qualche
parte viene chiamato “porcellino di
S.Antonio o S.Francesco).
Il loro corpo infatti era suddiviso in
metameri, parti separate l’una dall’altra, completamente o in modo articolato, in modo da formare quella specie
di corazza pieghevole che ne permetteva l’arrotolarsi, tipo appunto globulis
o attuale armadillo. Ogni metamero poi
era provvisto di appendici che a volte
servivano all’animaletto per la deambulazione. E come accade spesso in
queste specie, un’altra caratteristica era
quella di “mutare” gettando via il vecchio involucro chitinoso per dare posto al nuovo.
La classificazione scientifica li pone
al Philum degli Arthropoda, la stessa
di tanti altri sottotipi, quali artropodi,
crostacei, insetti, ma hanno un subphilum tutto loro, appunto dei Trilobita.
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associativa 2006 a pagina 31.
22
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
ambiente neritico
ambiente pelagico
livello di alta marea
piattaforma
continentale
livello di bassa marea
– 200 mt
scarpata
continentale
Dalle circa 1400 specie, divise in 7
ordini, e dal fatto che i fossili sono rinvenuti in rocce di diverso tipo, come
arenarie, scisti, calcari, ecc., si può intuire che essi abbiano avuto una diffusione molto varia; come dicevamo, pur
essendo maggiormente di ambiente
vicino alla costa, qualche specie si è
“allontanata” perfino a diventare plantonica, cioè di mare aperto.
E così, pur avendo il massimo di diffusione nel periodo Siluriano, alla fine
del Paleozoico queste creaturine sono
scomparse; quindi un terreno con considerevole presenza dei suoi fossili
possiamo datarlo al di sopra dei 225
Ma. In Italia per esempio vi sono siti in
alcune zone della Sardegna e della Sicilia e sulle Alpi Carniche. Ma come
mai in questo periodo ci fu una estinzione di massa?
Anche per questo evento qualcuno
ipotizza la caduta di un meteorite sulla
Terra. Altri studiosi invece, considerando che in 500 Ma si sarebbero dovuti
verificare almeno 500 impatti meteorici di grosso calibro, si chiedono come
mai invece si siano riscontrate solo 67 grosse estinzioni, inoltre un fenomeno di questo tipo dovrebbe interessare di più la superficie terrestre che l’ambiente marino. I primi ribattono che di
grosse collisioni se ne verificano una
ogni 100 milioni di anni e non una ogni
milione. E’ ovvio che la ricerca non
verte su questa evenienza meramente statistica ma su altri studi ed indagini, così come è accaduto per l’estinzione dei Dinosauri la cui ipotesi di
collisione è iniziata dal ritrovamento di
un anomalo accumulo di iridio in alcune rocce coeve. Famoso è diventato
quello della nostra zona di Gubbio.
Nonostante ciò però si resta ancora nel
campo delle ipotesi, perché la stessa
anomala concentrazione dell’elemen-
to potrebbe essere stata provocata da
un incremento di eruzioni vulcaniche
che nei periodi lontani erano certamente più abbondanti.
Per quanto riguarda l’estinzione del
Permiano in particolare ci si rifà ad alcuni ritrovamenti di quarzo notevolmente deformato che dimostrerebbero un evento catastrofico tipico della
collisione con un asteroide, che si ipotizza sia caduto in Australia. Altri però,
suppongono che anche per questa
estinzione ci sia stato un intensificarsi
del vulcanismo con eruzioni oggi inimmaginabili. Poi c’è addirittura un’altra
ipotesi, considerata magari piuttosto
fantasiosa, che presupponeva una stella “gemella” del Sole, che a questo
punto quindi sarebbe stata una stelladoppia, che periodicamente avrebbe
interagito con la nube di Oort (quella
che circonda il nostro Sistema Solare),
provocando una pioggia di comete infrantasi sui pianeti e quindi sulla Terra.
Al di là di quanto si sta ancora analizzando comunque ciò che conta è
che, come si diceva prima, la vita di
un pianeta non si estingue quasi completamente con un evento violento
come la caduta di un meteorite o una
cometa, o anche con una seria di eruzioni vulcaniche, siano esse marine o
terrestri; però tutto quello che segue a
livello ambientale, riscaldamento dell’atmosfera, incendi, effetto-serra, piogge acide, radioattività, interruzione della
fotosintesi, ecc., ha potuto certamente portare al collasso di buona parte
delle specie esistenti, lasciando una
distesa di terre desolate quasi senza
più vita. C’è chi si chiede a questo punto anche quando avverrà la prossima,
e da chi o cosa sarà provocata.
#
galaxia
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
“L’equazione di Dio”
P
arlando nella mailing list della
redazione di Memento della
pubblicazione dell’articolo di Francesco Morena (in questo numero,
pag. 10) Cecilia Deni commentava:
... e magari, in parallelo, si potrebbe citare il bel libro di Robert J.
Sawyer L’equazione di Dio, tutto
incentrato sull’argomento in questione e pubblicato da Mondadori
al n. 1414 della collezione ... Urania. Non scherzo, è davvero bellissimo.
P.S.
Tanto per darvi un’idea.
Da pag 19 del succitato:
“... Mi strinsi nelle spalle: era un
argomento vastissimo.
– Siamo a conoscenza di cinque
estinzioni di massa nella storia
della terra – risposi – La prima
avvenne alla fine del periodo
ordoviciano, forse 440 milioni di
anni fa. La seconda nel tardo
devoniano, circa 365 milioni di
anni fa. La terza, di gran lunga la
maggiore, al termine del permiano, 225 milioni di anni fa.
Hollus mosse i peduncoli in
modo tale che per un attimo i
globi poculari si toccarono con
un debole clic prodotto dal
contatto del rivestimento cristallino – Precisa meglio questa terza
estinzione. – In quel periodo
scomparve forse il 96% delle
specie marine e si estinsero i tre
quarti delle famiglie di vertebrati
terrestri. Abbiamo avuto un’altra
estinzione di massa nel tardo
triassico, circa 210 milioni di anni
fa. In quel caso abbiamo perduto
un quarto delle famiglie, comnpresi tutti i labirintodonti; forse fu
un evento cruciale per i dinosauri,
creature come quella di cui reggi
il cranio, che stavano per avere il
predominio.
65 milioni di anni fa si verificò la
più nota estinzione di massa, al
termine del cretaceo – Indicai di
nuovo il cranio di Troodonte –
Proprio allora scomparvero i
dinosauri, pterosauri, mosasauri,
ammoniti e altre specie.”
#
Il dottor
Stranamore
ovvero come imparai
a non preoccuparmi
e ad amare la bomba (*)
di Federico “JollyRoger” Cantoni
D’OH!
C
ome vediamo quindi gli avanzatissimi sistemi tecnologici di difesa non erano poi così perfetti.
A titolo di esempio, nel 1980 si verificavano ogni giorno, secondo i senatori Goldwater e Hart, 140 missioni aeree di controllo per contatti radar fasulli, di cui 35 per falsi “blip” radar ritenuti
potenzialmente minacciosi.
I falsi allarmi furono frequenti per tutto il periodo della Guerra Fredda, ma
la maggior parte di essi non arrivò mai
a costituire un vero pericolo, grazie alla
prontezza degli operatori.
Tuttavia, non possiamo non sottolineare che in diversi casi come quelli
riportati (e in altri che ancora sono sotto segreto), è mancato veramente poco
a scatenare una guerra: sarebbe bastata una coincidenza, un po’ di sfortuna o una persona con meno scrupoli morali.
I pericoli però non derivarono solo
da screzi tra nazioni.
In 50 anni, dal 1950 al 1999 furono
innumerevoli le minacce nucleari dovute al semplice trasporto o alla manutenzione delle testate, i “nuclear incidents”, alcuni molto gravi.
Spesso questi incidenti hanno lasciato “eredità” importanti come bombe abbandonate o disperse in mare; alcune
ancora oggi non si sa dove siano, e
col tempo aumenta il rischio che il guscio della bomba perda resistenza e il
materiale fissile trovi una via d’uscita,
inquinando gli oceani.
Ad oggi siamo in possesso solo di
una parte dei dati relativi a questi incidenti, per la maggior parte relativi alle
forze della NATO.
Sebbene molti di questi incidenti si-
Terza e ultima parte - Le prime
due parti sono state pubblicate sui
precedenti numeri di Memento.
(*)
ano stati secretati dalla Marina USA,
sono documentati tra le sole forze occidentali almeno 570 “eventi” di questo tipo, di cui 380 tra il 1965 e il 1977.
Qui riportiamo i maggiori, i più gravi
o i più insoliti, quasi tutti appartenenti
alle categorie “Broken Arrow” e “Faded
Giant”.
13 febbraio 1950
Un bombardiere B-36 “Peacemaker”
in volo sul Pacifico è colpito da un’avaria meccanica durante una missione
di combattimento simulata. Avendo il
pieno complemento di armamenti a
bordo per la simulazione, trasporta
anche una bomba nucleare. Per evitare il disastro sgancia tutti gli ordigni da
4000 metri, poco prima di schiantarsi
in mare aperto. Le bombe tradizionali
esplodono, ma non l’atomica che è
ancora dispersa in un punto imprecisato dell’oceano.
11 aprile 1950
Un B-29 “Superfortress” precipita su
una montagna in Nuovo Messico, vicino alla Kirtland Air Force Base. La bomba viene totalmente distrutta dall’esplosione del detonatore, ma fortunatamente la capsula nucleare a bordo non
era stata ancora inserita per l’esercitazione. Sulla superficie desertica rimane un cratere di 13 metri profondo 6.
5 agosto 1950
Un altro B-29 precipita in decollo vicino a un campo di roulotte abitato da
200 famiglie. Fortunatamente le bombe nucleari sono inattivate, ma l’esplosione delle armi convenzionali causa
diciotto morti e sessanta feriti. Le capsule nucleari vengono recuperate intatte, mentre le bombe sono distrutte
dall’esplosione dei detonatori.
10 marzo 1956
Un B-47 “Stratojet” in volo dalla Florida all’Europa svanisce nel nulla sul
Mediterraneo. Il comando se ne accorge solo quando manca il secondo rendez-vous con l’aereo di rifornimento.
L’aereo portava due capsule nucleari.
Ancora oggi non si sa nulla su che fine
abbia fatto quell’aereo.
27 luglio 1956
Un bombardiere statunitense precipita alla base di Lakenheath, UK, su
""
23
galaxia
un magazzino contenente tre bombe
Mark-6 da 150 Kilotoni. L’incendio danneggia le bombe, ma non fa in tempo
a fare esplodere i detonatori. Un generale inglese affermò che se le bombe
fossero state innescate, l’intera parte
est dell’Inghilterra sarebbe diventata un
deserto inabitabile.
28 luglio 1957
Un C-124 “Globemaster” in volo sull’Atlantico è costretto a scaricare le
bombe, incluse due nucleari, nell’Atlantico in seguito ad una inspiegabile perdita di potenza su due motori. Nessuna delle due bombe è mai stata trovata, e non se ne sono trovati neppure i
rottami.
31 gennaio 1958
Un B-47 esplode in decollo a Sidi Slimane, Marocco, per un guasto ad un
carrello che distrugge i serbatoi di carburante. La bomba atomica a bordo
non esplode, ma c’è una perdita di radiazioni. Il relitto è fortemente contaminato, mentre nella zona circostante
l’irraggiamento è limitato.
Febbraio 1958, data sconosciuta
A Greenham, Inghilterra, un B-47 è
costretto a scaricare due serbatoi esterni da 2500 metri di altezza per problemi al decollo. I serbatoi mancano
l’”area sicura” e colpiscono un altro B47 pronto al decollo con due armi nucleari a bordo. L’incendio viene domato in 16 ore, dopo l’esplosione dei detonatori delle due bombe e la dispersione in aria di uranio e plutonio, con
conseguente irraggiamento del personale impegnato a impedire all’incendio
di raggiungere gli hangar in cui si trovano altri aerei armati.
5 febbraio 1958
Un F-86 “Sabre” e un B-47 “Stratojet”
hanno una collisione in volo in una
missione simulata in Florida. Poco prima di cadere, il B-47 rilascia la sua testata nucleare, che cade in mare e
dopo diverse ricerche viene considerata dispersa.
11 marzo 1958
Un guasto ad un B-47 “Stratojet” fa
cadere una bomba atomica su Mars
Bluff, South Carolina. Esplode solo il
detonatore, che crea un cratere di 25
metri di diametro e 10 di profondità.
4 novembre 1958
L’ennesimo incidente ad un B-47 in
24
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
fase di decollo causa un incendio a
bordo. Il detonatore esplode, ma il
materiale fissile viene recuperato dalle
squadre di soccorso. Un membro dell’equipaggio muore nell’incidente.
26 novembre 1958
Un incendio su un altro B-47 a terra
distrugge la bomba atomica a bordo,
causando una fuoriuscita di radiazioni
nell’area circostante. L’esplosione viene evitata dall’intervento delle quadre
di emergenza.
6 luglio 1959
Un incidente identico a quello del 26
novembre 1958 causa contaminazioni a Barksdale, Luisiana.
7 giugno 1960
L’esplosione di una tanica di elio causa la distruzione di un missile alla McGuire Air Force Base, New Jersey.
L’area viene contaminata per un raggio di 100 metri quando la testata rimane per 45 minuti in mezzo ai detriti fusi e in fiamme del razzo vettore.
24 gennaio 1961
Un B-52 “Stratofortress” con due ordigni da 24 megatoni si spezza in volo
e precipita sul Nord Carolina. In una
bomba, cinque protezioni su sei falliscono, e l’esplosione è evitata solo per
l’intervento di un interruttore automatico. L’esplosione sarebbe stata 1800
volte più potente di Hiroshima. Nonostante ciò, il nucleo di uranio arricchito
della bomba distrutta è introvabile e
viene considerato disperso.
4 e 20 giugno 1962
Durante un test un guasto su un razzo Thor per un esperimento in alta atmosfera costringe il controllo missione ad innescare l’autodistruzione. La
testata precipita nell’oceano. L’incidente si ripete, identico, il 20 dello stesso
mese.
10 aprile 1963
Il Thresher, sottomarino nucleare
americano, affonda nell’atlantico uccidendo 129 marinai e disperdendo il
reattore.
13 novembre 1963
Durante le operazioni di smantellamento di una testata, una combustione spontanea del detonatore causa
l’esplosione di oltre 60 Kg di TNT.
8 dicembre 1964
Un bombardiere B-58 esce dalla pi-
sta e si incendia. Delle 5 testate a bordo, almeno una si spezza e causa contaminazione dell’area circostante.
5 dicembre 1965
Un bombardiere A4-E Skyhawk armato con una bomba all’idrogeno B43 cade nell’oceano dal ponte della
portaerei USS Ticonderoga e affonda
a 5000 metri di profondità e a poche
miglia dalle coste del Giappone. Una
pressione simile potrebbe far detonare la bomba. Non si sa se questo sia
avvenuto o se la bomba sia ancora sul
fondale
17 gennaio 1966
Una collisione durante un rifornimento in volo di B-52 costringe a scaricare
4 bombe all’idrogeno su Palomares, in
Spagna. L’aereo, colpito pesantemente dal tubo di rifornimento, si spezza e
precipita, mentre la cisterna esplode in
volo. L’esplosione di due detonatori e
il cedimento di almeno un guscio spargono materiale radioattivo sui campi
coltivati. 1400 tonnellate di terreno vengono rimosse e mandate negli Stati
Uniti come rifiuto radioattivo. Una terza bomba cade in mare, scatenando
una caccia serrata nel Mediterraneo,
con 33 navi e 3000 uomini impegnati
per otto giorni. La quarta viene recuperata intatta. L’incidente è costato 182
milioni di dollari in danni da risarcire al
governo spagnolo.
8 gennaio 1968
Un sottomarino sovietico Golf-II con
tre testate a bordo affonda a 500 Km
dalle Hawaii. In seguito ad una operazione di recupero statunitense, chiamata “Progetto Jennifer”, alcune testate
potrebbero essere state recuperate. Ufficialmente, sono ancora sul fondale.
21 maggio 1968
Il sottomarino nucleare Scorpion affonda nell’Atlantico, vicino alle Azzorre. Tutti i 99 uomini dell’equipaggio rimangono uccisi. Portava alcune armi
atomiche sperimentali non meglio
identificate.
24 maggio 1968
Un incidente al raffreddamento del reattore su un sottomarino sperimentale
sovietico, il K-27 (un “Novembre” modificato), uccide cinque uomini. Poiché
il guasto era troppo complesso da riparare e l’operazione sarebbe stata
""
galaxia
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
pericolosa, il sottomarino è stato affondato e abbandonato a 50 metri di profondità nel fiordo di Stepovogo, vicino
a Novaya Zemlia, ancora con parte del
combustibile nucleare.
14 gennaio 1969
Un errore umano causa lo sgancio
di una bomba da un aereo alleato sul
ponte della portaerei nucleare USS
Enterprise, uccidendo 25 uomini e ferendone 85.
22 febbraio 1970
Una testata di un missile Pershing
cade a terra durante le procedure di
manutenzione. L’area viene sigillata,
ma la testata non esplode. L’incidente
è causato alla noncuranza di un operatore, che ha ignorato alcune norme
di sicurezza. La testata è risultata danneggiata sul cono frontale, ma il rischio
dell’incidente è stato relativamente ridotto.
12 aprile 1970
In seguito ad un doppio incendio il
sottomarino russo K-8, classe Novembre, affonda durante il traino in porto,
uccidendo 53 marinai. Pochi mesi prima una perdita di liquido refrigerante
aveva irradiato pesantemente diversi
membri dell’equipaggio durante una
missione nel Golfo di Napoli. La missione consisteva nel posizionare venti
mine nucleari nel golfo, da usare contro la Sesta Flotta statunitense.
10 novembre 1970
Scoppia un incendio sul sottomarino nucleare USS Canopus, alla fonda
in Scozia tra due altri lanciamissili atomici. L’incendio è domato dopo quattro ore, nonostante il serio rischio di
esplosione dei siluri e dei missili, in
parte nucleari, dei tre mezzi.
22 novembre 1975
In seguito ad una collisione tra la portaerei USS Kennedy e l’incrociatore USS
Belknap, il ponte dell’incrociatore viene cosparso di gasolio e prende fuoco. L’incendio coinvolge entrambe le
navi, tutte e due armate con numerosi
missili nucleari. Una esplosione sulla
Belknap era considerata “estremamente probabile”.
8 settembre 1977
Un sottomarino classe Delta sovietico perde per errore una testata nel Pacifico, in Kamchatka. La bomba viene
recuperata.
20 settembre 1980
Un tecnico lascia cadere una chiave
inglese nel silo di lancio di un missile
atomico intercontinentale Titan II. La
chiave colpisce uno dei serbatoi e scatena una esplosione che spazza via il
portello da 740 tonnellate e lancia il
missile con la sua testata da 9 megatoni a 600 metri di altezza, uccidendo
un uomo e ferendone 21. La testata
non esplode ma viene seriamente danneggiata. Non è confermata ufficialmente l’emissione di radiazioni.
Dicembre 1980, data sconosciuta
Durante un trasporto di plutonio, il
ghiaccio sulla Intestate 25 fa ribaltare il
camion militare vicino a Fort Collins,
Colorado. Diversi altri incidenti di questo tipo sono noti, seppur scarsamente documentati.
9 aprile 1981
L’ USS George Washington, un sottomarino lanciamissili gemello dello
Scorpion precedentemente citato, con
a bordo 160 testate ha una collisione
con un cargo cinese da 2500 tonnellate. Durante l’emersione colpisce la “Nissho Maru”, poi si riimmerge. La nave
si spezza e affonda nel Pacifico, causando un incidente diplomatico tra
Cina e USA a causa della mancanza di
soccorsi da parte del sottomarino e
degli aerei di supporto.
2 novembre 1981
Un missile nucleare Poseidon si
sgancia da un cavo dalla gru che lo
sta caricando sul sottomarino USS
Holland, e cade per 5 metri. Il sistema
di sicurezza della gru riesce a rallentare la caduta, fermando il missile a pochi centimetri dallo scafo del sottomarino.
21 marzo 1984
La portaerei Kitty Hawk si scontra
con un sottomarino d’attacco sovietico classe Victor armato di due siluri nucleari. Entrambi sono seriamente danneggiati. La portaerei aveva a bordo
diverse dozzine di testate atomiche.
3 ottobre 1986
Scoppia un incendio su un sottomarino sovietico classe Yankee nell’Atlantico. Tre giorni dopo, durante il traino
in porto, il sottomarino affonda insieme al suo generatore nucleare.
15 maggio 1987
Viene lanciato per la prima volta un
razzo vettore spaziale “Energia”, con
a bordo un satellite. Il satellite in realtà
è una piattaforma bellica di nome
“Polyus”, armata con mine nucleari e
un cannone difensivo. A causa di un
errore di allineamento il satellite sbaglia l’orientamento di 180° e precipita
in mare nel sud Pacifico. Le mine sono
ufficialmente disperse, anche se esistono diversi progetti per il recupero.
7 aprile 1989
42 uomini muoiono nell’incidente
sottomarino nucleare sovietico Komsomolets (classe “Mike”), a 140 Km dalla
costa norvegese. Nonostante il Komsomolets fosse un sottomarino avanzatissimo, con doppio scafo in titanio,
l’incendio a bordo e l’impatto con il fondale causarono gravi fratture nello scafo e negli impianti, che hanno portato
nel tempo ad una perdita di plutonio e
ad una grave contaminazione di
un’area di mare adibita alla pesca. In
10 anni si sono succeduti diversi interventi per limitare la contaminazione,
ma la zona verrà considerata sicura
non prima del 2020.
27 settembre 1991
Un guasto ad un missile su un sottomarino nucleare russo classe Tifone (lo
stesso del film “Caccia a Ottobre Rosso”) rischia di causare un’esplosione
multipla dei siluri e delle testate atomiche a bordo.
20 marzo 1993
Il sommergibile nucleare classe Delta IV Novomoskovsk si scontra con il
sommergibile nucleare americano USS
Grayling (classe Sturgeon), nel mare di
Barents. Entrambi riescono a tornare
alle basi, seppur con gravi danni.
19 gennaio 1996
Un bombardiere francese Mirage
2000-N precipita nel sud della Francia
dopo lo scontro con uno stormo di
uccelli. L’esercito francese ha annunciato che non vi erano missili a bordo
al momento della caduta, sebbene l’aereo fosse abilitato a portarne. Altre fonti
danno come probabile la presenza di
una testata a bordo.
Forse non tutti sanno che…
Alcune curiosità sulla storia degli armamenti nucleari statunitensi (costi attualizzati al 1998).
""
25
galaxia
Costruzione
Numero totale di missili costruiti dal
1945 ad oggi: 67.500, di 65 tipi diversi
Numero di bombardieri nucleari dal
1945 a oggi: 4.680
Numero massimo di testate e bombe nucleari disponibili in un dato momento: 32.193 (nel 1966)
Numero attuale di testate e bombe
nucleari disponibili: 10.600
Numero di testate e bombe richieste
dall’esercito nel 1956-1957: 151.000
Dimensioni
Bomba più piccola mai costruita:
W54 (25 Kg, 0,01 Kilotoni)
Bomba più grande mai costruita:
B17/B24 (21.000 Kg, 15000 Kilotoni)
Dimensione totale delle basi militari
americane: 40.500 Km quadrati
Dimensione del Distretto di Columbia, Massachussetts e New Jersey:
39.700 Km quadrati
Esperimenti
Numero di test nucleari statunitensi:
1030
Primo test: 16 luglio 1945, “Trinity”
Ultimo test: 23 settembre 1992, “Divider”
Spesa per i test nucleari dopo il 1992:
1,2 miliardi di dollari
Numero di test effettuati: 0
Test più grande: 1 Marzo 1954, 15
megatoni, “Bravo”, in Giappone
Numero di atolli totalmente vaporizzati: 1 (Elugelab, nell’Enewetak Atoll,
bomba all’idrogeno “Mike”)
Test nel Pacifico: 106
Test nel Nevada: 911
Test nelle altre 9 installazioni di test
(3 in Alaska, 2 in Colorado, 3 in New
Mexico, 1 in Mississippi): 0
Risarcimenti
Risarcimento agli abitanti delle isole
Marshall per i test del 1956:
760.000.000 $
Risarcimenti per cause di cittadini
americani relative all’esposizione a radiazioni: 225.000.000 $
Costi legali per cause intentate dagli
operai addetti alla produzione di armi
nucleari: 100.000.000 $
Risarcimento al Giappone dopo i test
“Bravo” del 1954: 15.300.000 $
Ricerca avanzata
Spesa per lo sviluppo di un propulsore nucleare per aerei: 7 miliardi di dollari
Aerei nucleari prodotti: 0
Hangar per aerei nucleari prodotti: 1
26
Memento - rivista del Mensa Italia - n. 1/2006
Energia
Numero di generatori militari navali:
129
Numero di generatori elettrici commerciali: 108
Numero di depositi rifiuti altamente
radioattivi in Washington, Idaho e South Carolina: 239
Volume dei rifiuti radioattivi: 104 milioni di metri cubi
Distrazione
Numero di bombe ufficialmente perse e mai ritrovate: 11
Numero di testate ufficialmente perse
e mai ritrovate: indefinito (ma oltre 50)
Numero di pagine riservate nei dossier del Dipartimento dell’Energia: 280
milioni
Costi
Costo del Progetto Manhattan (la prima bomba atomica): 20 miliardi di
dollari
Costo di tutte le altre armi usate dagli USA prodotte e usate nella II guerra
mondiale: 160 miliardi di dollari
Costo per la costruzione di oltre 1000
missili, con basi e strutture di supporto, 1957-1964: 14 miliardi di dollari
Costo del mantenimento dei missili
balistici nel 1965: 2,2 miliardi di dollari
Costo del mantenimento dei missili
balistici nel 1995: 2,6 miliardi di dollari
Sapere quanto siamo stati vicini al
“Day After”…. Non ha prezzo.
#
Federico Cantoni
25 anni laureato in Disegno Industriale al Politecnico di Milano. Attualmente vive
in Umbria, dove per passare il tempo progetta veicoli ferroviari e segretamente
trama la conquista del mondo. Game-designer per hobby e scrittore prolifico
quanto incostante, ha trovato uno sfogo per entrambe le attività nel Mensa, e ora
non ve ne libererete facilmente.
Bibliografia
False Alarms on the Nuclear Front by Geoffrey Forden
http://www.pbs.org/wgbh/nova/missileers/falsealarms.html
History of Nuclear Close-Calls By Ryan Mauro
http://www.worldthreats.com/general_information/
Worlds%20Nuclear%20Close%20Calls.htm
http://skeptically.org/onwars/id20.html
http://nuclearfiles.org
http://www.cnn.com/SPECIALS/cold.war/episodes/12/spotlight/
http://mt.sopris.net/mpc/military/false.alerts.html
http://www.globalsecurity.org/wmd/systems/mk6.htm
http://www.brookings.edu/fp/projects/nucwcost/manhattan.htm
www.wikipedia.org
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