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LuganoInScena
Dalle note dell’autore
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“Purgatorio” è incominciato, come molte mie altre commedie e racconti, da un’immagine,
un’immagine arrivata senza preavviso e che non voleva più andarsene via.
Per essere precisi, il luogo dove mi fece visita è stato Cadaqués, la città sul mare in Catalogna dove
io e mia moglie avevamo sognato di rifugiarci per un mese.
Una mattina, durante gli ultimi giorni del nostro soggiorno, non lontano da dove Dalì e Gala avevano
trovato l’amore, e dove i fantasmi di Garcia Lorca e Eluard, Mirò e Bunuel e Magritte vagano ancora,
quell’ultima mattina, come se quegli artisti defunti mi bisbigliassero da un qualche loro luogo di
espiazione, mi svegliai con una visione.
C’erano un uomo e una donna, in una stanza spoglia - poteva essere un manicomio, un ospedale,
forse qualcosa di ancora più squallido - e lei voleva scappare e lui aveva la chiave e voleva aiutarla
ma nell’uomo c’era anche qualcosa che era pieno di rabbia, qualcosa che teneva nascosto.
Naturalmente non sapevo chi fossero. E l’unico modo per scoprirlo era di lasciarli liberi nella mia
immaginazione, lasciarli parlare, colpirsi l’un l’altro fino al punto in cui sarebbero stati costretti a
rivelarsi.
Solo dopo averli lasciati girarci attorno per un pò, incominciai a intuire che tipo di spazio avrebbero
potuto abitare: quell’uomo e quella donna erano abitanti dell’aldilà.
Non c’è da sorprendersi che io abbia raggiunto questa conclusione riguardo alla loro condizione.
Fin da bambino, cosa succede ai morti e come ci parlano è sempre stata una delle mie ossessioni.
Automaticamente chiamai quel luogo Purgatorio, sebbene più tardi avrei capito che avevo concepito
l’aldilà più come un buddista che come un cristiano, un aldilà meno simile all’ordine dantesco
circolare in cielo che a un paesaggio claustrofobico fuori dal tempo e dallo spazio dove è possibile
qualsiasi cosa.
Ma chi erano quell’uomo e quella donna, che cosa volevano uno dall’altra?
Per lungo tempo mi ero fatto delle domande sulle cose terribili che noi umani ci facciamo a vicenda e
su come - nonostante questo - ci possa essere una sorta di riparazione, qualche traccia di
redenzione.
Avevo esplorato questi temi, naturalmente, in alcune altre mie pièces, “La morte e la fanciulla”,
“Vedove e Lettore”, ma ero avido di investigare queste questioni in un ambito meno scopertamente
politico. Che cosa succederebbe se, invece di un agente dello stato che uccide o tortura o censura
vittime o nasconde corpi, io portassi insieme in scena un uomo e una donna che si sono fatti del
male in modo irreparabile?
Perchè sempre si riparte da un essere umano di fronte a un altro essere umano, sempre incomincia
da lì, in teatro e nella vita, sempre si incomincia da lì.
L’essenziale, pensai, era evitare di creare un antagonista buono e l’altro cattivo, evitare la tentazione
di trovare una risposta facile.
Volevo che entrambi i personaggi si interrogassero simultaneamente e si guarissero l’un l’altro,
fossero il terapeuta per la liberazione dell’altro e anche per i possibili significati della dannazione
dell’uno o dell’altra, entrambi i guardiani simultanei del cielo e dell’inferno.
La sfida estetica era trovare un modo di creare una svolta nel tempo teatrale in cui un tale
slittamento di identità non risultasse artificioso, permettendomi di giocare col pubblico nello stesso
modo in cui ognuno dei miei protagonisti gioca con l’altro, si nasconde da lui, da lei, da entrambi.
Fin dall’inizio sapevo chiaramente che questi due stavano recitando l’uno per l’altro.
In un certo senso, volevo scoprire se loro ( o ognuno di noi, certo), riiuscivano ad andare oltre la
maschera della recitazione e guardare profondamente nell’anima dell’altro, il che non significa
semplicemente recitare-per-l’altro.
Il doppio (multiplo) interrogativo/tentativo è un modo di disintegrare la personalità degli attori,
strappando via i veli del loro ego.
Recitando, tutti noi,a nascondino ,registrando indirettamente, forse mettendo alla prova, la nostra
umanità.
Un divertimento reso più urgente dall’importanza dei dilemmi che stavo mettendo in scena.
Purgatorio, di fatto, può essere considerato il sequel emotivo e intellettuale di La Morte e la Fanciulla,
esplorando più a fondo alcune delle domande aperte da Paulina Salas nella mia prima pièce,
cercando di andare oltre quelle domande :
Ci può essere perdono e riconciliazione se abbiamo commesso azioni mostruose?
Come possiamo riuscire a pentirci di questi delitti senza distruggere la nostra stessa identità, la base
fondante del nostro passato, in particolare le azioni di ieri che ci hanno trasformato in quello che
siamo oggi? E se il pentimento non bastasse? Dopotutto, come facciamo a sapere se qualcuno è
davvero pronto a espiare o sta solo fingendo?
E che succede se l’unica persona che possiede la chiave della mia salvezza è la persona che io ho
ferito di più al mondo?
Era quest’ultima domanda che volevo esplorare principalmente, perché avrebbe fornito la chiave per
trovare l’identità dei personaggi.
Appena cominciai ad accompagnare quell’uomo e quella donna nel loro viaggio, mi chiesi perché
stavano negando il loro passato non solo l’un l’altra ma anche a me, quali crimini imperdonabili
potevano aver commesso l’uno contro l’altra.
Qual’è la cosa peggiore che una donna può fare a un uomo? E un uomo a una donna?
E poco a poco mi arrivò la risposta , estrassi il segreto del loro rimorso, chi potevano essere stati da
vivi, chi erano adesso: Giasone e Medea.
Dissi a me stesso ecco chi sono, catturati in Purgatorio, ognuno offrendo all’altro la promessa
dell’oblio, della salvezza, la minaccia di eterno tormento e di eterna domanda.
Ma non solo quelle due figure mitiche a cui avevo girato intorno come un cacciatore per anni, non
solo un modo di trasferire in modo nuovo, forse fruttuoso , i classici nel nostro tempo.
La loro storia risuonava anche degli echi di altri guerrieri,che si sono sempre avventurati in viaggi di
conquista, gli echi delle donne indigene che li avevano aspettati su una costa lontana.
Li evocavo come un conquistatore, come Cortés e la sua amante e interprete, La Malinche;
volevo evocare i numerosi incontri carnali e intellettuali che hanno popolato la storia , pieni di astuzia
e sesso e fascino per l’esotico straniero, che hanno fatto nascere, come i denti del dragone che
spuntano dalla terra. i bambini del nostro mondo di oggi.
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Così li ho lasciati piangere sulla spalla dell’altro, i miei protagonisti, li ho lasciati cercare una
riconciliazione, immaginarsi come perdonare quello che avevano fatto o forse scoprire che non c’è
soluzione, non c’è modo di uscire dal labirinto, il che è proprio il significato della tragedia ai nostri
tempi. Perché in fin dei conti, anche se “Purgatorio” parla di un uomo e di una donna che vissero e si
parlarono migliaia di anni fa, è soprattutto una storia per la nostra epoca,e, più specificamente,
un’epoca segnata dal disastro dell’ 11 settembre.
(Ancora una volta la Politica, che entra sul palcoscenico dalla porta posteriore!)
Questa pièce ci chiede come dovremmo reagire, quando siamo stati devastati da un’offesa
irreparabile, ci sfida a chiederci quali sono le nostre personali prese di posizione riguardo alla realtà,
rivela come è facile passare dal ruolo di vittima a quello di accusatore, da vittima a invasore, da
carnefice a vittima.
E la mia speranza era che, in tempi in cui il nostro pianeta e la nostra specie affrontano terribili
problematiche di colpe e massacri, quando l’orrore fatto a noi ieri suscita il terrore che infliggeremo
ad altri domani, la mia speranza era che questa pièce potesse almeno porre la domanda su come
superare la sequanza infinita della colpa e della rabbia.
Se una tale liberazione fosse realizzabile non dipendeva, lo sapevo ,dalle mie speranze, dai miei
progetti, nemmeno dal mio talento.
Io mi stavo concentrando su quell’uomo e quella donna in quella stanza e sugli uomini e le donne
che li guardano dalle infinite stanze clonate di ogni teatro: sono loro che decideranno se saremo
condannati o redenti. Se un giorno riusciremo a spezzare finalmente il cerchio di odio e punizione.
Perché “Purgatorio”, fondamentalmente, parla della verità.
Cosa ci può essere di più urgente che trovare un modo di fidarci uno dell’altro, fidarci del nostro
improbabile nemico, l’amato che ci ha ferito, cosa ci può essere di più urgente in questo nostro
mondo contaminato dalla violenza, dalla paura e dal tradimento?
Ariel Dorfman, Agosto 2006
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