Luca Martinelli - Fondazione culturale responsabilità etica
Transcript
Luca Martinelli - Fondazione culturale responsabilità etica
MESOAMERICA VERSO IL BARATRO Viaggio nella terra dei Maya ai tempi della globalizzazione Dossier a cura del Centro Documentazione di Mani Tese, [email protected] Realizzato a cura del Centro di Documentazione di Mani Tese DICEMBRE 2006 Ciclostilato in proprio, presso la sede di p.le Gambara 7/9, 20146 Milano 2 INDICE INTRODUZIONE di Luca Martinelli pagina PARTE PRIMA – L’economia 1. Il Centro America verso il baratro di Luca Martinelli pagina 2. Il Nafta e lo sviluppo rurale in Messico di M. Pickard pagina 3. Il Cafta (Central America Free Trade Agreement): un trattato nuovo per politiche vecchie di Luca Martinelli pagina PARTE SECONDA – Le risorse naturali 4. Morti “dorate”. Il racconto della miniera Marlin in Guatemala di Luca Martinelli pagina 5. La corsa all’oro è ricominciata. Da Repubblica delle banane a Repubblica delle miniere di Luca Martinelli pagina SCHEDA 1. Honduras 6. Il cartello del legno in Honduras di Luca Martinelli pagina 7. Bahia de Tela: il capitale italiano all’assalto delle spiagge garifuna di Luca Martinelli pagina PARTE TERZA – La società 8. Virginia e la maquila.Storia di una donna indigena in Guatemala di F. Filippi pagina SCHEDA 2. Le maquilas in Messico ed in Centroamerica 9. “Marafobia”, tra psicosi e realtà. Le bande giovanili e la società di F. Filippi pagina 3 10. Tra fuochi incrociati. I migranti centroamericani nella loro traversata verso il Nord di M. Pickard pagina CONCLUSIONI Pagina BIBLIOGRAFIA pagina 4 Introduzione di Luca Martinelli “Dobbiamo proteggere gli investitori”. In queste quattro parole, spese dal presidente guatemalteco Oscar Berger nel gennaio del 2005 per giustificare l’omicidio di Raul Castro, un trentasettenne contadino del dipartimento di Sololá ‘colpevole’ di protestare contro il progetto di una miniera d’oro, c’è tutta la storia del Mesoamérica. La storia passata, presente e futura di questo lembo di terra, un istmo ricchissimo di storia, cultura e risorse naturali che unisce il Nord ed il Sud America. “Dobbiamo proteggere gli investitori”, e quando l’investitore si chiama Banca Mondiale è veramente difficile pensare di difendere gli interessi economici di uno Stato sovrano, e ancora meno è consentito a qualsivoglia Governo agire nell’esclusivo interesse dei propri cittadini. Così, in tutto il Mesoamérica, la morte di molti Raul Castro è una “non notizia”, e quelli che – come lui, contadini o indigeni – manifestano contro l’imposizione del modello di sviluppo economico dominante sono guardati con disprezzo e considerati “attivisti dell’antisviluppo”. “Dobbiamo proteggere gli investitori”. A ringraziare Berger ci pensa Glamis Gold, impresa mineraria canadese titolare del Marlin project, la miniera d’oro al centro delle proteste dei gruppi contadini e ambientalisti del Guatemala. La International Financial Corporation (IFC) del gruppo Banca Mondiale ha elargito un prestito di 45 milioni di dollari per lo sviluppo del progetto che, secondo lo Studio di Impatto Ambientale, garantirà all’impresa utili per 707 milioni di dollari nei dieci anni di estrazione, dei quali, per i termini del contratto di concessione, solo l’1% rimarrà in Guatemala. Glamis Gold calcola che il Marlin project avrà una durata complessiva di 13 anni, garantendo alla popolazione dei municipi di San Miguel Ixtahuacán e Sipacapa 1400 posti di lavoro nel primo anno, e 180 nei dieci successivi. Poi al Paese centroamericano resteranno solo le montagne distrutte – 38 milioni di tonnellate di rocce polverizzate – e suoli, fiumi e falde contaminate. Questa che abbiamo appena raccontato è solo una tra molte storie che, in tutto il Centro America, hanno la stessa trama ed uno stesso finale. Non cambiano, spesso, nemmeno gli attori protagonisti. I vincitori sono le imprese multinazionali, i governi del Nord, le istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Banca Interamericana di Sviluppo) e le oligarchie terriere. Gli sconfitti sono milioni di contadini, i popoli indigeni che abitano la Regione da prima della Conquista spagnola, e concetti come sovranità nazionale e sovranità alimentare, ormai privi di significato. Una storia, quella del Marlin project, che insieme alle altre raccolte in questo volume disegna i contorni di una Regione allo sbando, del Mesoamérica che avanza a lunghe falcate verso il baratro, verso il totale asservimento al sistema economico neoliberale e la cancellazione della propria storia e dell’inestimabile patrimonio rappresentato dalle culture Maya e Azteca e da coloro che oggi ne sono i portatori, i popoli indigeni mesoamericani. “Popolazione in esubero”, ecco cosa sono oggi, per i governi di Messico, Guatemala, Belize, Honduras, Nicaragua, El Salvador, Costa Rica e Panamá, milioni di indigeni che vivono ancora ai margini della società mercantilista, rivendicando il diritto di continuare ad esistere senza essere costretti 5 ad assumere nella propria cultura gli aspetti più negativi di quella occidentale. Una partita difficile, specie quando si è costretti a giocarla nel “giardino dietro casa” degli Stati Uniti d’America, oggi l’unica superpotenza politica ed economia mondiale. Ma una sguardo alla storia del Mesoamérica, la storia delle famose “Repubbliche della Banane” celebrate anche da Woody Allen in uno dei suoi film, disegna i contorni di quella che potremmo definire una tragedia annunciata. In Honduras, alla fine degli anni ‘20, le compagnie bananiere statunitensi controllavano circa un terzo del territorio nazionale. Solo la United Fruit & Co. possedeva, nel 1929, 650.000 ettari delle terre più fertili del Paese. Strade, ferrovie e porti erano di proprietà delle stesse compagnie, che le avevano costruite per commercializzare i propri prodotti. In Guatemala, nel 1952, il Presidente Jacobo Arbenz avviò una Riforma Agraria, promulgando una Ley de Reforma Agraria e distribuendo nell’arco di due anni un milione e mezzo di ettari di terra. “La riforma beneficiò circa 100.000 famiglie, attaccando le compagnie dei grandi proprietari terrieri ed il potere della grandi compagnie straniere, in particolar modo della United Fruit Company, di proprietà statunitense” (Viscidi, 2004). Nel 1954, così, un colpo di stato ordinato dagli Stati Uniti ed organizzato dalla CIA depose il presidente Arbenz, democraticamente eletto, e consegnò il Paese nelle mani di un generale vicino agli U.S.A., che annullò immediatamente buona parte delle espropriazioni realizzate. “Le terre migliori vennero restituite agli ufficiali dell’esercito ed ai ricchi proprietari legati al regime militare, ‘cementando’ il sistema di iniqua distribuzione delle terre” (Viscidi, 2004). Cambiano i soggetti ma non le trame: oggi un terzo del territorio di Honduras è oggetto di concessioni minerarie, la maggior parte delle quali rilasciate a compagnie statunitensi e canadesi; mentre le imprese elettriche europee, le spagnole Iberdrola ed Endesa in primis, ma anche la nostra Enel, stanno partecipando al processo di privatizzazione dei servizi elettrici in tutto il Mesoamérica. È perciò significativo, a nostro avviso, che l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), esercito indigeno insorto in armi nello stato del Chiapas, il più meridionale della Repubblica messicana, al confine con il Guatemala, abbia scelto il primo gennaio del 1994 per uscire allo scoperto, occupando cinque città dello Stato e pronunciando un simbolico “¡Ya basta!”. Lo stesso giorno entrava in vigore il North American Free Trade Agreement (NAFTA), accordo di libero scambio che ancorava ulteriormente l’economia messicana a quella dei due vicini del Nord (Stati Uniti d’America e Canada) proiettando il Paese nel primo mondo, secondo la classe al Governo, condannando ad un lento genocidio culturale ed economico le popolazioni indigene marginali, secondo l’Ezln. Una guerra combattuta “per l’umanità e contro il neoliberalismo”, contro l’imposizione di un modello economico e culturale unico, dopo decenni di ‘strane’ guerre civili, che hanno visto gli eserciti di liberazione nazionale sorti in Guatemala, Nicaragua e El Salvador confrontarsi con eserciti ‘regolari’ sostenuti da truppe ‘irregolari’ finanziate e addestrate nelle basi Usa della Regione, assoldate per difendere gli interessi economici degli Stati Uniti d’America preservando i governi fantoccio imposti da Washington in tutto il Centro America. Il Movimento zapatista – innovando in maniera profonda il carattere di “movimento rivoluzionario” – ci ricorda che esiste ancora un Mesoamérica che resiste e che lotta per allontanare quel baratro verso cui gli interessi dei Governi, delle istituzioni Finanziarie Internazionali e delle grandi imprese sembrano spingerlo. NAFTA, CAFTA, ALCA, PPP non sono mere sigle. Fanno parte, come descrive il saggio che apre questo libro, di un unico disegno volto a creare un mercato che vada dall’Alaska alla Terra del Fuoco, rendendo ottocentomilioni di americani consumatori di un grande Wal-Mart1. A undici anni dalla sua entrata in vigore, il NAFTA ci offre è una prova, su scala ridotta, di quello che rappresenta 1 Catena di grandi magazzini Usa. Il fatturato di Wal-Mart è pari al 2% del Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti d’America e superiore a quello di un Paese come l’Austria. È presente in più di 30 Paesi ed è la prima azienda a livello mondiale come numero di dipendenti. 1.500.000 di persone lavorano per Wal-Mart. 6 l’integrazione economica e la liberalizzazione degli scambi tra Paesi che partono da condizioni estremamente diseguali. Il CAFTA (Central American Free Trade Agreement), recentemente ratificato da alcuni governi centroamericani pur in un contesto di forti proteste da parte della società civile organizzata, non potrà che riproporre gli stessi risultati, allargandoli a tutti i Paesi dell’istmo centroamericano. Poco importano, agli esecutivi di Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, le Lesson from Nafta descritte anche dalla Banca Mondiale, che ammette – tracciando un bilancio dei dieci anni del Trattato – che il liberismo non ha portato alcun beneficio per le regioni più povere del Messico (il Sud-est). Che importa, del resto, ai Governi dell’analisi oggettiva che descrive i terribili effetti del NAFTA sul settore agricolo messicano, qui presentata da Miguel Pickard. In Paesi dove il settore primario è fonte importante di occupazione, fonte di reddito per milioni di famiglie e, soprattutto, garanzia di auto-sostentamento nell’area rurale, l’invasione di mais e sementi geneticamente modificate prodotte negli Usa rappresenta un attacco frontale al diritto alla vita per milioni di persone, e non potrà che provocare un aumento della ‘diaspora’ verso le aree urbane e verso gli Stati Uniti d’America. “Economie delle rimesse”: questo stanno diventando i paesi Mesoamericani, anche se la strada verso “il Nord” è tutt’altro che semplice per gli indigeni e i contadini centroamericani. La militarizzazione della frontiera statunitense inizia, paradossalmente, dalla frontiera tra Messico e Guatemala, La Mesilla. Economia delle rimesse in quanto i Governi vedono nei soldi inviati dagli emigranti a casa, alle famiglie rimaste a coltivare terre ormai improduttive, una risorsa di sviluppo. “…se raggiungiamo il valore [di rimesse] che è stimato per questo anno, staremo parlando della prima voce di ingresso di valuta straniera nel nostro Paese; più del petrolio, più del turismo, più degli investimenti esteri diretti. Che Dio ci ripaghi abbondantemente, perché le vostre famiglie fanno un uso eccellente di questo denaro”, ha avuto modo di affermare il Presidente della Repubblica messicana Vicente Fox parlando nel novembre del 2003 di fronte al Consiglio Consultivo dell’istituto per i messicani all’estero. Intanto Banca Mondiale e Banca Interamericana di Sviluppo (BID) stanno approntando progetti per aiutare le famiglie a fare un uno razionale delle risorse provenienti dai propri familiari all’estero. Vale, per queste istituzioni come per il Governo messicano, l’equazione rimessa = risorsa, e non si considera l’enorme costo, sociale e culturale, che le migrazioni comportano. Le migrazioni sono, allo stesso tempo, conseguenza diretta e indiretta della liberalizzazione. Se da un lato sono la miseria e la fame a spingere migliaia di contadini verso le aree urbane, dall’altro sono gli interessi economici, spesso mascherati dietro la “falsa promessa”, l’ossimoro, di uno “sviluppo sostenibile”. Come racconta Aldo Gonzales Rojas, membro del Consejo Nacional Indigena (CNI) messicano, indigeno zapoteco della Sierra Juarez nello Stato di Oaxaca, all’arrivo degli spagnoli gli indigeni furono spinti verso le terre più inospitali del Paese, perché i conquistatori avevano bisogno delle grandi pianure coltivabili, per l’agricoltura. Oggi che gli indigeni continuano a vivere in armonia con la terra, nelle Selve e sulle montagne dove sono stati confinati più di cinquecento anni fa, l’Occidente ed il capitalismo scoprono che proprio questi luoghi rappresentano una fonte inestimabile di ricchezza, ricche di acqua, di diversità biologica, di petrolio, di oro e altri minerali. È necessario perciò, con le buone o con le cattive, mascherando questa seconda conquista dietro il volto amico di alcune Organizzazioni non governative e la formula magica dello “sviluppo sostenibile” o rappresentando pienamente la violenza con l’invasione di ruspe e trivelle, che gli indigeni si facciano da parte. La soluzione alla loro esistenza, ché non è pensabile oggi – forse – sterminarli tutti come provò a fare, nel corso degli anni 80, il generale Rios Montt in Guatemala, sta nella creazione dei distretti maquilador, corridoi industriali dove assemblare prodotti per l’esportazione, sfruttando la presenza di manodopera a basso costo, prevalentemente nei settori tessile e della micro-componentistica elettronica. Fabbriche che godono di una sorta di extra-territorialità e dove non viene rispettato nessuno dei diritti fondamentali di un lavoratore (diritto ad iscriversi ad un 7 sindacato; diritto alle ferie, alla maternità, alla tredicesima). È questo il quadro che emerge nella seconda parte del libro, dove si spiega perché non è sostenibile il progetto di sviluppo promosso dall’Unione Europea nella Selva Lacandona; si racconta della barbara invasione delle imprese minerarie che squartano la terra di Honduras e Guatemala; e, attraverso la storia di Virginia, si disegna quella di migliaia di donne e uomini, costretti a cercare il proprio futuro nell’inferno delle maquiladoras. Per finire, in appendice, la storia di Leonardo e Marcelino Miranda, indigeni lenca della comunità di Montaña Verde, in Honduras, serva a capire cosa succede a coloro che, per difendere la propria terrà e la propria comunità, si mettono contro gli interessi del capitale. 8 PARTE PRIMA :: l’economia 1. Il Centro America verso il baratro Il Plan Puebla Panama e la liberalizzazione a macchia di leopardo di Luca Martinelli Lanciato ufficialmente il 15 di giugno del 2001 attraverso una dichiarazione congiunta dei capi di Stato della regione centroamericana, il Plan Puebla Panama rappresenta, secondo il presidente messicano Vicente Fox che ne rivendica la paternità, uno sforzo congiunto dei governi centroamericani e messicano per lo sviluppo economico della macro-regione. Si tratta – secondo i documenti ufficiali - di un’iniziativa atta ad apportare benefici sostanziali che permettano di superare il ritardo esistente, migliorando con ciò la qualità di vita degli abitanti attraverso una maggiore e migliore educazione, una crescita economica sostenuta e sostenibile, la creazione di impieghi ben remunerati, l’armonizzazione dello sviluppo sociale e umano delle popolazione con una distribuzione efficiente delle risorse ed un’espansione ed integrazione commerciale. Le idee centrali alla base del Plan Puebla Panama sono: • • • che la povertà possa essere superata solo mediante un impulso allo sviluppo economico, che a sua volta può essere generato solo attraverso l’investimento produttivo; che un aumento dell’investimento produttivo nella regione è possibile sempre che questa si posizioni all’interno dell’economia globale; che un grande impulso all’investimento produttivo possa nascere esclusivamente da uno • sforzo nella dotazione delle infrastrutture di base (educazione, formazione, trasporto, logistica, telecomunicazioni); che è necessario generare sinergie in quanto lo sviluppo del Sud-est messicano e quello della regione centroamericana possono essere considerate solo in un congiunto. Oggi, a tre anni dal suo avvio, possiamo far riferimento al PPP come ad una mera sigla, e certi di non star cadendo in errore. Risulta infatti evidente da un’analisi dettagliata del ‘cammino’ del Plan Puebla Panama tanto il fatto che esso non possa assolutamente esser presentato come un Piano (in quanto ciò dovrebbe sottendere una qualche strategia di sviluppo locale e d’integrazione regionale comune a tutti i progetti proposti), quanto che molti dei progetti riassunti nei documenti delle 3P (la Linea SIEPAC, il Corridoio Biologico Mesoamericano, il programma dell’Istmo, il Puente Chiapas, tra gli altri) siano stati in realtà pensati e progettati a partire dall’inizio degli anni 90. Con il Plan Puebla Panama si è tentato di rilanciare queste iniziative, presentandone l’insieme come un programma (di sviluppo umano), e tentando in questo modo di mascherare la evidente strategia geoeconomica che esso sottende, garantendo così una copertura alle politiche di liberalizzazione e privatizzazione imposte dai grandi organismi finanziari internazionali (quali la Banca Interamericana di Sviluppo, 9 BID, la Banca Centroamericana di Integrazione Economica, BCIE, il FMI e la BM), schierati in difesa degli interessi del ‘campione’ economico dell’emisfero americano, gli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’articolo cercheremo di dimostrare come il PPP rappresenti – insieme con gli accordi bilaterali di libero scambio – una delle tante strategie che il Governo USA sta attuando per ‘traghettare’ la regione centroamericana verso l’era dell’ALCA. A dispetto di quanto asserito da molti ‘esperti’ del PPP che lo danno ormai per morto2, il Plan avanza. A Managua, Nicaragua, si è tenuta tra il 22 ed il 25 di marzo 2004 la VI Riunione dei Presidenti dei paesi aderenti al Meccanismo di Tuxtla3. L’incontro, che seguiva quello celebrato oltre un anno e mezzo prima a Merida, Yucatan, è stato l’occasione per realizzare importanti passi in avanti rispetto alle necessità di riformulare le strategie del Plan alla luce del forte movimento d’opposizione sviluppatosi intorno al PPP, specie in merito alla strategia di comunicazione ed al programma di ICP4 2 Primo tra tutti Andrés Barreda, ricercatore universitario della Università Nazionale Autonoma della Città del Messico (UNAM). 3 Il Meccanismo di Tuxtla nasce nel 1991 dalla volontà degli esecutivi dei paesi della regione di far risaltare i legami storici e la comune identità delle nazioni mesoamericane, e “si considera il massimo foro mesoamericano per analizzare in forma periodica e sistematica le molteplici questioni regionali, emisferiche e mondiali di interesse comune; per concertare posizioni politiche congiunte; per dare impulso al libero commercio ed all’integrazione regionale; e per avanzare nella cooperazione in tutti gli ambiti, in appoggio allo sviluppo sostenibile dell’area”. 4 Informazione, consultazione e partecipazione. “Nel 2004, la iniziativa di ICP vede programmato un monitoraggio della società civile della regione del PPP. Tale ricerca si baserà su un formulario da compilare che alimenterà un database. Come risultato, tale mappatura favorirà la realizzazione di “migliori consultazioni”con la società civile” in Interaction, Reunión entre ONGs y IDB – PPP 12 de febrero 2004, 10:00 - 1:00 pm. Sede del BID Washington, DC. http://www.interaction.org/idb/index.html. Interaction è fortemente critica rispetto a tale progetto sostenendo che l’idea che muove il BID al censimento della società civile siano piuttosto la (Informacion, Consulta y Participacion), necessità individuate come prioritarie appunto nella precedente riunione del 27 e 28 giugno 20025. Oltre alla firma del Memorando relativo all’Iniziativa di Turismo, a Managua sono stati presentati quello relativo all’Iniziativa di Sviluppo Umano ed una nuova strategia di ‘diffusione’ del Plan, elaborata sulla base dei risultati di una ricerca commissionata nel corso del 2003 al prestigioso studio americano Fleishman-Hillard, ed intitolata “Análisis De Clima De Opinión Regional y Recomendaciones”6. Nel contempo, la delegazione messicana ha presentato una propria Agenda annuale per quanto riguarda attività di consultazione con le popolazioni indigene della Regione Sud-est7. Il pesante ritardo con cui queste si stanno attivando, tanto in Messico quanto in Centro America, dove tali strategie sono finanziate, programmate e realizzate direttamente dal volontà di conoscere l’opinione pubblica rispetto al PPP e quella di rendersi conto di quali siano i settori della società civile che rappresentano un ostacolo alla realizzazione del Piano. 5 Mecanismo de Tuxtla, Declaración Conjunta De La Quinta Cumbre Del Mecanismo De Diálogo Y Concertación De Tuxtla, 28 giugno 2002. http://www.iadb.org/ppp/files/documents/OTRO/O TRO-New/DeclaracionMerida.pdf 6 “Analisi del clima di opinione a livello regionale e raccomandazioni”. http://www.iadb.org/ppp/files/documents/OTRO/O TROICP/ReporteFinal%20PPPFleishmanHillardw eb.doc 7 L’uso del condizionale è d’obbligo dato che non è stato possibile ricavare informazioni più dettagliate rispetto a questo aspetto. Ci limitiamo così a riportare quanto descrittoci da Cesar Bustamante, responsabile del PPP nell’ufficio del BID in Messico, in un’intervista sostenuta dieci giorni prima della riunione di Managua. Bustamante ha anche confermato che sinora il Messico non ha effettuato alcuna consultazione con le popolazioni indigene e che, comunque, il Governo Fox terrà una propria agenda al riguardo, diversa da quella del BID. Ciò è stato affermato anche da Mr. Antinori, responsabile del PPP presso il BID, in occasione della riunione del 12/02/04 tra ONG e BID, quando ha ricordato che il Messico non può essere incluso nella strategia di Informazione, Consultazione e Partecipazione promossa dalla Banca perché il suo denaro non proviene dal BID. 10 personale della BID, consente di comprendere i motivi di una forte opposizione al modello di sviluppo economico delineato dal PPP. La resistenza descrive la realtà di una cittadinanza che chiede a gran voce la possibilità di una concreta partecipazione tanto nella fase di progettazione quanto in quella di attuazione dei piani di sviluppo regionali, e che risponde, costruendo alternative di fatto, ad un’evidente chiusura da parte sia della classe politica che dei funzionari governativi incaricati dei progetti inseriti nell’ambito delle iniziative del Plan Puebla Panama. Un’analisi dei progetti in corso evidenzia infatti come oggi la creazione di infrastrutture stradali risponda in primo luogo alle esigenze strategiche dello sviluppo del mercato statunitense, garantendo costi più bassi per il trasporto di inputs ed outputs, piuttosto che a quelle degli abitanti della Regione. Si punta a catturare l’interesse e gli investimenti delle imprese multinazionali (principalmente del comparto maquilador), attratte dalla presenza nella Regione di manodopera a basso costo, piuttosto che a favorire l’accesso ai mercati per i prodotti del settore agricolo. L’iniziativa di integrazione energetica regionale (la costruzione della Línea SIEPAC) è accompagnato in tutti i paesi del Centro America dalla privatizzazione delle imprese elettriche nazionali, e prevede anche la costruzione di dighe e centrali idroelettriche. Progetti che rispondono in primo luogo agli interessi delle imprese private, la maggior parte delle quali transnazionali. Perciò, difficilmente potranno rispettare la sovranità nazionale e le esigenze di coloro che vivino e lavorano le terre che verranno inondate dai nuovi invasi. Anche quello che viene definito come sviluppo sostenibile è in realtà un insieme di azioni i cui obiettivi risultano essere la legalizzazione del furto delle ricchezze biologiche della Regione (in corso da anni, peraltro) e l’allontanamento delle popolazioni indigene dalle zone più ricche di risorse naturali. In tale ottica, i cittadini e la popolazione indigena vengono visti unicamente come una possibile causa di instabilità sociale e della fuga (o del mancato arrivo) del capitale internazionale. Per finire il turismo, presentato come “ecologico” e “sostenibile”, è solo un’altra faccia del percorso che porta alla privatizzazione della terra e delle risorse naturali della Regione. Ciò ci porta ad affermare, con J. M. Sandoval8, che “il PPP [non] sia [altro che] la strategia del regime di Fox per integrare [sempre più] la regione del sud-est del Messico e dell’istmo centroamericano nelle dinamica del neoliberismo, per approfittare delle risorse energetiche e naturali della regione e costruire un ponte tra Nord e Sud America, facilitando così la creazione dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA)9. È evidente che il Plan Puebla Panama non sia mosso da altro proposito se non quello di dotare la regione mesoamericana delle infrastrutture necessarie affinché possano dispiegarsi compiutamente nella regione i ‘vantaggi’ del libero scambio. Tali infrastrutture sono infatti essenziali per garantire l’“efficacia” dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) che si vorrebbe creare a partire dal 2005, se è vero che la stessa Banca Mondiale, nel documento di valutazione elaborato in occasione dei 10 anni dall’entrata in vigore del NAFTA (North American Free Trade Agreement), non ha mancato di evidenziare che, se il libero commercio non ha potuto cambiare la condizione di sottosviluppo e marginalità degli stati del Sud del Messico, ciò è dovuto proprio alla mancanza delle condizioni strutturali (e sociali) che avrebbero reso effettiva e vantaggiosa l’apertura agli investimenti del capitale straniero. Il PPP è visto da molti (Sandoval, Fazio) come un vero e proprio Cavallo di Troia, 8 Ricercatore in specifico sui temi di militarizzazione e migrazione. È direttore del Seminario permanente de estudios chicanos y de frontera dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH). 9 8 Juan Manuel Sandoval, El PPP como regulador de la migracion laboral, in A. Bartra, coordinatore, op. cit., pag. 251 11 utilizzato dagli Stati Uniti d’America per penetrare economicamente nella regione mesoamericana, sfruttando a tal fine anche “i vantaggi rappresentanti dalla integrazione subordinata10 raggiunta dal Messico con i paesi del Centro America per mezzo dei trattati di libero commercio firmati a partire dal 1995”11. Il profondo contrasto tra l’evidenza e la propaganda ufficiale rispetto al PPP è acuito anche dalle dichiarazioni del Presidente colombiano Alvaro Uribe che chiede a gran voce “una totale integrazione della Colombia al Plan Puebla Panama”12. La sigla del PPP significherebbe adesso Plan Puebla Putumayo, dal nome del dipartimento meridionale del paese da lui governato. Tale integrazione inizierebbe con una linea di interconnessione elettrica tra la Colombia e Panama, i cui studi preliminari sono stati consegnati nel mese di aprile del 2004, per proseguire poi con il secondo progetto per la costruzione di un gasdotto, con l’aspettativa che esso unisca non solo la Colombia con Panama ma anche con il Venezuela. Secondo il presidente, “ciò è necessario per unire il continente dagli Stati Uniti [d’America] fino alla Patagonia”13. Il legame segnalato tra l’ALCA ed il piano di sviluppo economico promosso dal Governo Fox è verificabile anche analizzando due ulteriori aspetti, rilevanti nello sviluppo del sogno egemonico degli Stati Uniti d’America sul continente americano, la cui realizzazione è sempre più necessaria a fronte dalla forte concorrenza per il controllo dell’economia mondiale rappresentata dall’Unione Europea e dal Giappone14. Stiamo parlando del controllo militare e di quello dei flussi migratori. Nel documento Santa Fé II, testo programmatico della strategia USA nel continente americano nella decade degli anni 9015, è possibile trovare riferimenti all’esigenza per gli Stati Uniti d’America di contenere il flusso di migranti che, illegalmente, superano la frontiera nord del Messico per cercare occupazione come braccianti agricoli in Texas o Arizona o nelle cooperative di servizi della California. Nel documento, il comparto maquilador, l’industria dell’assemblaggio, viene 13 10 Come descritto in modo dettagliato da Armando Bartra, Sur. Megaplanes y utopias en la America equinoccial, in A. Bartra, coordinatore, op. cit., pag. 27. “La relazione economica tra il Messico ed i paesi del Centro America è profondamente asimmetrica: per ogni dollaro esportato in Messico dalle 7 economiche istmiche, esse importano da questo paese beni per 4 dollari. Dall’altra parte, per il Messico questa relazione commerciale è poco rilevante, dato che per ogni dollaro di esportazione verso i sette vicini del sud, ce ne sono 11 ai ‘soci’ del nord, e in quanto alle importazione messicane, la percentuale che ha origine centroamericana è insignificante. Le economie dei paesi poveri guardano in alto e l’articolazione tra Mesoamerica e Nord America, con il Messico come cerniera, conferma l’affermazione”. 11 Non è un caso che sia in corso di negoziazione anche un Trattato di Libero Commercio per l’America Centrale (CAFTA, Central America Free Trade Agreement). La citazione è tratta da Juan Manuel Sandoval, op. cit., in A. Bartra, coordinatore, op. cit., pag. 251. 12 “Reforma”, Plantea Colombia sumarse al PPP, México D.F., 14 gennaio 2004. Ibidem. Gli Stati Uniti [d’America, N.d.R.] affrontano oggi la concorrenza europea e giapponese. L’UE è cresciuta, come sappiamo, nel proprio processo di integrazione e, inoltre, ha trovato un’area sfruttabile nei paesi dell’ex blocco socialista, visti come una nuova periferia sottosviluppata. Il Giappone mantiene la propria grande influenza sull’area asiatica dove l’economia ha un peso importante. Perciò, per gli Stati Uniti, creare in America Latina un’unica regione sotto il proprio dominio e comando è una forma di far fronte a questa concorrenza tra i grandi centri di potere economico; significa rafforzare il controllo sulla regione nella battaglia per il controllo di mercati ed investimenti, per la collocazione del capitale speculativo, per l’accesso alle risorse naturali […]” citazione tratta da O. Martinez, ALCA – El proyecto de anexion de America Latina a Estados Unidos en el siglo XXI, in CRIE, Construyendo, No. 181-182, dicembre 2001 – gennaio 2002, pag. 14. 15 AA.VV., Documento de Santa Fé II, Una estrategia por America Latina en la decada de 1990, Santa Fé, 1988. http://www.geocities.com/proyectoemancipacion/d ocumentossantafe/santafeii.doc 14 12 presentato come valvola di sfogo e di ‘parcheggio’ dei potenziali migranti16. “lavoratori ospiti”, la regolarizzazione della posizione degli illegali. Si tratta soprattutto di cittadini centroamericani (ma anche latinoamericani e asiatici) che normalmente entrano in Messico attraversando la frontiera Sud, con il Guatemala, o Est, con il Belize, ed attraversano tutto il paese per arrivare poi a coronare il loro “sogno americano”. A partire dal 1 luglio 2001 iniziò così il Plan Sur con l’obiettivo di eliminare quelle eventuali ‘porosità’ (corruzione dei funzionari dell’Istituto Nazionale di Migrazione in primis) che permettevano il passaggio di migranti illegali attraverso la frontiera tra Messico e Guatemala. Tale piano ha causato una crescente militarizzazione di tutta la regione meridionale del paese (con la presenza di corpi dell’esercito e corpi di polizia da questo addestrati) sino all’Istmo di Tehuantepec, il collo di bottiglia che nessun migrante dovrebbe oltrepassare. Un accordo con il governo guatemalteco prevede inoltre che questo si impegni per inviare al proprio paese di origine tutti gli indocumentados che si trovano sul territorio nazionale. Già prima dell’11 settembre del 2001 i problemi migratori rappresentavano per gli Stati Uniti d’America una questione di sicurezza nazionale ed al Governo (amico) messicano è stato richiesto un impegno per contrastare in modo efficace l’immigrazione clandestina a partire dalla propria frontiera sud. In cambio furono promessi alcuni provvedimenti che avrebbero dovuto allentare la pressione sui migranti messicani, quali la concessione di un maggior numero di visti per lavoro, un programma temporale per 16 “Gli Stati Uniti dovranno riconsiderare il programma di Impianti Gemelli/Industrie di Frontiera con il Messico, alla luce dei possibili costi economici e sociali di lungo periodo per entrambe le repubbliche. Le maquiladoras lungo la frontiera messicana-nordamericana, hanno portato impiego a centinaia di migliaia di messicani. Senza dubbio, non è chiaro se lo stesso beneficio si sia dato per i lavoratori nordamericani. Inoltre, i milioni di messicani che sono stati attratti verso il nord, e le cui aspirazioni non sono state soddisfatte, tendono ad entrare negli U.S.A. attraverso la frontiera e ciò accelera ulteriormente la immigrazione illegale. Molti dei messicani che oltrepassano la frontiera sono uomini che non possono ottenere un impiego presso le maquiladoras, giacché le principali abilità manuali ed il lavoro a cottimo sono realizzati in modo migliore dalle donne. […] La concentrazione di nuove industrie lungo la frontiera settentrionale del Messico ha reso ancor più disequilibrato il già irregolare sviluppo del paese. Perciò, le industrie nordamericane dovrebbero considerare la possibilità di spostare le proprie macchine molto più all’interno del Messico. Questo spostamento verso il sud aumenterebbe lo sviluppo equilibrato del Messico, promuoverebbe le industrie locali, stabilizzerebbe la famiglia messicana ed aiuterebbe a risolvere alcune delle condizioni sociali e sanitarie stimolate per il Programma di Industrie della Frontiera. Nel lungo periodo, tale spostamento verso l’interno del Messico, beneficerà entrambi i paesi”. La militarizzazione di tutto il continente americano, ufficialmente legata ai problemi migratori nonché alla lotta contro il traffico di sostanze stupefacenti, è in realtà uno strumento per il controllo delle risorse energetiche e per la salvaguardia di quella fittizia stabilità politico-sociale creata negli anni reprimendo nel sangue (intervenendo direttamente con l’esercito USA o imponendo dittature amiche) o indebolendo i movimenti di liberazione nazionale che sono cresciuti in molti dei paesi dell’area17. Non dobbiamo però dimenticare che il Messico è a sua volta un grande espulsore di migranti18: ogni anno sono centinaia di migliaia i contadini e gli indigeni costretti ad abbandonare la propria terra per effetto delle politiche neoliberiste e, incapaci di trovare un impiego nell’industria maquiladora, vedono nell’oltrepassare la frontiera l’unica possibile situazione ai propri problemi. Si calcola oggi in 8-10 milioni il numero di messicani nati in Messico e residenti dall’altro lato del Rio Bravo, le cui rimesse inviate ai 17 Si ricordano, tra le altre, le azioni in Guatemala (1954, 1960, e 1967/69), Cuba (1959-2004), Cile (1973), Argentina (1976), Granada (1983), El Salvador (decade del 1980); Nicaragua (decade del 1980); Panama (1989). 18 Ogni 100 persone che tentano di entrare illegalmente nei confini degli Stati Uniti d’America, 40 sono cittadini messicani. 13 parenti sono state nel 2003 di 14 miliardi di dollari, seconde solo ai guadagni per l’esportazione di petrolio (18,6 miliardi) nelle composizione del reddito nazionale. Il valore di tali rimesse supera di gran lunga quello degli investimenti esteri (9,4 miliardi di dollari) e del turismo (4,1 miliardi) e sostiene un’economia nazionale in perenne crisi, la cui crescita nell’ultimo triennio sfiora lo 0%. La militarizzazione dovrebbe garantire inoltre una percezione positiva della situazione politico-sociale della regione da parte degli investitori. Aspetto che, insieme alla dotazione d’infrastrutture prevista dal PPP e la contro-riforma agraria in corso, dovrebbe attrarre finalmente il capitale straniero, per il quale la sola presenza di manodopera a basso costo non rappresenta una vantaggio economico assoluto. Tali investimenti dovrebbero poi convertirsi in milioni di nuovi impieghi nella regione sudorientale del Messico, verso i quali attrarre i contadini costretti ad abbandonare le proprie comunità (soprattutto a causa della controriforma agraria in corso), dando così vita, in una sorta di circolo virtuoso del neoliberismo, ad una valvola di sfogo in grado anche di limitare l’immigrazione verso gli Stati Uniti d’America. Il quadro presentato nel corso dell’articolo descrive il “destino maquilador” della regione. L’obiettivo, ben lungi dall’esser raggiunto e raggiungibile, rivela il motore di fondo della strategia di sviluppo economico che il Governo sta attuando nella regione. È evidente anche l’importanza, in tale disegno, della Legge di Riforma Costituzionale in materia Indigena approvata dal Congresso messicano nel corso del 2001: essa rappresenta infatti parte di quel processo di contro-riforma agraria il cui obiettivo è quello di “rendere alienabili quelle terre che sono oggi sotto il regime ejidal o comunale, per poi destinarle ad un’agricoltura di piantagione una volta privatizzate”19. PPP pretende di convertire i contadini indigeni del sud-est in salariati ipersfruttati di fabbriche di assemblaggio, urbane o semiurbane. Uno degli obiettivi primordiali di tale politica è spostare i contadini indigeni dai campi alle città, con l’obiettivo di separarli dalle loro terre e dalle risorse naturali che queste contengono”20. L’attuazione di tale disegno non appare tuttavia scontata. “A due anni dall’avvio del Plan Puebla Panamá (PPP), e nonostante gli investimenti già canalizzati, non si è riusciti a coordinare gli sforzi delle autorità statali e federali con quelli dei governi centroamericani, per rendere concreti i suo obiettivi. Intervistati in diverse occasioni [nel novembre del 2004], i governatori di Yucatán, Campeche, Tabasco e Chiapas hanno tutti segnalato che le risorse stanno arrivando molto lentamente, e che la azioni del PPP non avanzano al ritmo che richiede la regione Sud-Sudest del paese, e che nel caso la situazione non cambi passeranno altri 15 anni prima che il progetto si consolidi”21. Nel 2005, dopo due anni di budget ‘risicati’, il Governo destinerà nuovamente un impegno economico importante agli investimenti nell’ambito del PPP, nella Regione SudSudest del paese. Il ‘progetto’ di preventivo di spese per la Nazione dell’anno 2005 evidenzia l’assegnazione di 3.625.135,582 pesos, 4,1 volte in più che nel 2004. Come sempre, il preventivo maggiore riguarda gli investimenti nella costruzione di infrastrutture, ed il Ministero di Comunicazione e Trasporti, incaricato dell’implementazione di questi progetti, riceverà 2.676.900,003 pesos, 3,26 volte in più che nel 2004. Secondo Carlos Fazio, “con la carota dello sviluppo e delle creazione di posti di lavoro, il La crescita più alta (in termini percentuali) lo registrano gli investimenti nell’ambito della Salute (con un preventivo 429 volte più alto rispetto a quello del 2004), sebbene la maggior parte di queste spese serviranno a finanziare due strutture (ospedali) di Alta Specializzazione, in Yucatan e Oaxaca. 19 20 C. Fazio, El juego de poder y el contendo geopolitica del Plan Puebla Panama, in CRIE, op. cit., pagg. 62-63. Ivi, pag. 63. Corsivi dell’autore. Y. Moguel/Finsat, Una torre de Babel el Plan Pueble Panamá, El Financiero, 4 novembre 2004. 21 14 Siamo dubbiosi sulla capacità di rispondere, attraverso progetti del genere, alle esigenza sanitarie della gente, in zone rurali e marginali, dove la diarrea e le infezioni respiratorie sono ancora una grave causa di morte. Ma non è questo ciò che preme al Presidente Fox, quanto piuttosto gli interessi dei potenti investitori, potenzialmente attratti nella Regione. Di fronte a questa situazione, oggi, sono le organizzazioni sociali, indigene e contadine, di quello che viene definito il “Messico profondo”23 a riempire il vuoto politico nazionale, ed a rappresentare l’unica speranza per un futuro diverso del paese nel pieno rispetto dell’identità e della sovranità nazionale. Nonostante l’importante incremento nel preventivo 2005 per il PPP (che avviene proprio in un anno pre-elettorale, dopo 2 anni di ‘stanca’), persistono dubbi sulle possibilità che l’implementazione di questi nuovi progetti possano dare il là alla crescita economica di cui ha bisogno la regione. Le difficoltà dell’economia statunitense (e di quella messicana, come conseguenza della dipendenza economica), dopo l’11 settembre del 2001, hanno creato problemi inaspettati per il finanziamento delle opere. E nemmeno i dubbi (politici) rispetto al PPP espressi dai governato della Regione, favoriscono il cammino di sviluppo del Piano, sebbene rimanga chiaro il disegno del Presidente, che mira a creare le basi delle infrastrutture necessarie per l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA). Riteniamo, che il PPP promosso da Fox fallirà insieme con il progetto dell’ALCA, che non è entrato in vigore a gennaio 2005, come inizialmente previsto dal governo degli Stati Uniti d’America. Per fortuna, l’elettorato messicano ha ormai riconosciuto il grave rischio insito nelle politiche economiche attuate da una classe dirigente che sta spingendo il paese verso il baratro, dopo aver cancellato in questi primi quattro anni di Governo le speranze di cambiamento che riempivano le colonne dei giornali nel luglio 2000, al momento dell’elezione di Vicente Fox. La risposta dell’elettore messicano medio è stato un astensionismo del 60% in occasione delle elezioni di medio termine che, il 6 luglio del 2003, rinnovavano la metà del Parlamento Federale22. 22 Editorial: El triunfo de la abstencion, “La Jornada”, 7 luglio 2003; L. Hernandez Navarro, Ocho aproximaciones a unas elecciones olvidables, “La Jornada”, 7 luglio 2003. 23 La definizione del Messico indigeno e contadino come “Messico profondo” (México profondo) è dello storico Guillermo Bonfil Batalla. 15 2. Il Nafta e lo sviluppo rurale in Messico Gli effetti del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (TLCAN) sullo sviluppo rurale in Messico. di M. Pickard Riassunto: lo scorso 9 settembre una versione leggermente distinta del seguente saggio è stata presentata al “Primo Incontro Nazionale sui trattati di libero commercio e sviluppo rurale”, realizzato dalla Facoltà d’Agronomia dell’Università “San Carlos de Guatemala”, a Città del Guatemala. Nel saggio si mettono a confronto le promesse che sono state fatte 11- 12 anni fa in Messico, quando il governo di Carlos Salinas de Gotari tentò di “vendere”, allo scettico pubblico messicano, i vantaggi che, nei seguenti dieci anni, avrebbe comportato l’entrata in vigore del Trattato di Libero commercio (TLCAN), ponendo particolare enfasi sugli effetti relativi all’agricoltura. Questa retrospettiva ed analisi dei risultati in Messico riguarda, oggi, anche altre zone dell’America Centrale poiché altri cinque paesi della regione hanno negoziato il TLCAUSA (Trattato di Libero commercio Centro America Stati Uniti) che ora dovrà essere ratificato dalle legislature nazionali. Introduzione Il titolo di questo saggio riflette alla lettera ciò che mi è stato chiesto per questa relazione, ma contiene anche una grande contraddizione nel senso che ciò che è accaduto in Messico, al settore agricolo, dall’entrata in vigore del TLCAN è tutto meno che sviluppo. Potremmo addirittura parlare di un “desviluppo”, un “anti-sviluppo” se si preferisce, poiché ciò che è avvenuto in territorio messicano, non solo grazie a dieci anni di TLCAN, ma anche a venti anni di applicazione di politiche neoliberali, é stato assolutamente disastroso. Dipingendo un quadro generale della situazione, in Messico si rilevano maggiori livelli di denutrizione, povertà, abbandono, emigrazione, perdita delle diversità genetiche di molte coltivazioni autoctone del paese e della regione, principalmente del mais, invasione di prodotti transgenici i cui effetti sugli esseri umani sono tuttora sconosciuti, e perdita per l’intero paese di sovranità sulla gestione dei prodotti alimentari, di sovranità in generale, ed una ancor più lunga serie di elementi che sostengono l’opinione che il risultato del TLCAN sull’agricoltura è stato disastroso. Bisogna chiarire: i disastri del TLCAN vanno al di là dell’agricoltura e toccano altri aspetti economici della vita in Messico, come la politica e la cultura anche se qui restringeremo i nostri commenti all’ambito rurale. Bisogna anche dire che la situazione che esporremo non è opera esclusiva del TLCAN, ma risponde ad una situazione generale d’abbandono del settore rurale da parte dello Stato messicano che è cominciata come un’indifferenza passiva (ciò che i francesi chiamano laisser passer, lasser faire) negli anni ’40, quando lo stesso Stato decise che era obiettivo prioritario l’industrializzazione del Paese e usò il settore rurale come leva per l’industrializzazione a spese dell’agricoltura. Ciò che era un abbandono passivo si trasformò in un’aggressione a partire dalla metà degli anni ’80 quando, per ragioni ideologiche proprie del neoliberismo, lo Stato dichiarò che avrebbe fatto la guerra ai contadini messicani se questi non si fossero adeguati e non fossero riusciti a competere con i mercati internazionali. Le utopie neoliberali, tipiche ancor oggi di molti burocrati messicani, anche di fronte all’evidente falsità dei supposti vantaggi del TLCAN, impediscono di vedere ciò che è più evidente. Salvo piccoli settori che hanno tratto beneficio dal TLCAN, che alcune fonti circoscrivono a non più di un migliaio di persone e di grandi imprese24, le campagne messicane ed i contadini messicani agonizzano in una morte lenta che consuma contemporaneamente le tracce della sovranità alimentare del Paese. Promesse incompiute Non è difficile risalire agli anni precedenti all’entrata in vigore del TLCAN in Messico,quando il governo si prodigava in un’opera di convincimento del popolo sugli effetti positivi che avrebbe comportato il Trattato con gli Stati Uniti e il Canada. Un po’ di tempo passato in un’emeroteca ci aiuterebbe a ricordare le promesse e gli impegni presi a quel tempo: ci dissero che il Messico si stava collocando nella “scia del primo mondo” e aveva solo bisogno della spinta del TLCAN per raggiungerlo, che il TLCAN avrebbe convertito i territori agricoli inefficienti in zone altamente produttive e commerciabili; che i contadini meno “ moderni ” ,che non erano in grado d’esportare, sarebbero stati assorbiti come manodopera nel moderno e crescente settore dell’industria d’esportazione; che il Trattato sarebbe stato “ sensibile ” rispetto alla produzione di cereali basici per l’alimentazione messicana, attribuendogli fino a 15 anni di protezione durante i quali 24 Gómez Cruz, Manuel Angel y Rita Schwentesius, “Desastroso impacto del TLCAN en el sector agroalimentario: es urgente una posición del legislativo para su revisión”, p. 10. sarebbe stata definita una quota fissa d’importazione,con tariffe doganali imposte alle importazioni eccedenti da tale quota; che per i messicani gli alimenti sarebbero stati più economici. Il TLCAN in quegli anni fu inteso come sinonimo di maggiori esportazioni, più posti di lavoro, maggiori investimenti, alimenti di migliore qualità ad un prezzo più basso,diminuzione della povertà….ecc. Purtroppo quasi tutte quelle promesse si sono rivelate false, ma perché non dirlo apertamente? Si trattava di menzogne poiché risultò, sia in Messico sia negli Stati Uniti, da numerose analisi, studi e modelli economici, che i risultati non sarebbero stati per nulla favorevoli per il Messico. Negli Stati Uniti, per lo meno, gli analisti sapevano perfettamente che si sarebbe provocato un esodo dalle campagne e che ci sarebbe stato un aumento delle emigrazioni verso le città e anche verso gli Stati Uniti. Non è un caso dunque che lo stesso anno dell’entrata in vigore del TLCAN, il 1994, cominciarono le grandi manovre delle pattuglie di frontiera statunitensi contro gli emigranti, come l’“ Operazione Guardiano ” e altre che sono state via via organizzate insieme allo stanziamento di cifre sempre più cospicue per il mantenimento della frontiera Sud, per la costruzione di barriere, l’installazione d’apparati sofisticati, la deviazione delle masse migratorie verso regioni inospitali e la crescente militarizzazione e paramilitarizzazione della frontiera25. Fino ad oggi niente ha potuto fermare l’ondata migratoria di messicani e centroamericani verso gli Stati Uniti. Perché? Perché nei nostri Pesi non c’è lavoro. Che faranno le autorità statunitensi nel momento in cui non riusciranno a fermare gli emigranti nemmeno con i proiettili di gomma che oggi gli sparano e il cui uso fu autorizzato dallo stesso governo di Vicente Fox? Quando l’opzione per gli emigranti é affrontare un proiettile di gomma nel deserto dell’Arizona o la miseria permanente del suo luogo d’origine? 25 La spesa degli Stati Uniti per il controllo delle frontiere è cresciuta da 967 milioni di dollari del 1993 a 2.56 miliardi di dollari nel 1999. Nel 1999 c’erano 9000 agenti di frontiera, più del doppio di quelli che c’erano nel 1993. Cifre di Anderson, “Seven Years under NAFTA”, p.7. 17 Risultati macroeconomici Soffermiamoci sui risultati delle tante promesse relative all’agognato sviluppo che TLCAN avrebbe dovuto comportare per il paese, le quali risultano alquanto simili alle promesse che i governi del centro-america fanno ai propri popoli per favorire l’adesione al TLCAUSA (Trattato di Libero commercio Centro America- Stati Uniti). Prima di tutto vediamo ciò che a prima vista può sembrare positivo: il TLCAN ha sì rispettato due delle promesse che furono fatte agli inizi degli anni ’90: il TLCAN ha comportato più investimenti per il paese ed ha significato più esportazioni dal Messico (non esportazioni “messicane”). Le cifre parlano chiaro. Per ciò che riguarda le esportazioni, il Messico oggi esporta il doppio di ciò che esportava nel 1993, anno anteriore all’entrata in vigore del TLCAN (61miliardi di dollari nel 1994; 158 miliardi di dollari nel 2001). Per quanto riguarda gl’investimenti privati, la cifra è superiore di tre volte a ciò che entrava nel paese nel 1993 (in media 4,5 miliardi di dollari l’anno tra il 1998 e il 1993; in media 13 miliardi di dollari l’anno tra il 1994 e il 2002). In effetti ci sono alcuni, anche se pochi, che sono risultati “ vincitori ” con il TLCAN. Per esempio, gli industriali agricoli della birra e del tequila, i produttori e imballatori d’ortaggi e frutta tropicale d’esportazione,gli importatori di carne, di cereali (con Maseca e Misna in testa), importatori di frutta e succhi ed anche l’industria delle bibite. Sono esempi delle migliaia d’imprese o persone che nell’ambito rurale hanno prosperato grazie al TLCAN, rispetto ai milioni di persone che sono risultati “ perdenti ”. Analizziamo per un momento i risultati economici generali, a livello dell’intera economia messicana, per contestualizzare le virtù ed i vizi del TLCAN. Ci focalizzeremo su due momenti, da una parte l’ondata di liberalizzazione,o apertura economica che ha preso piede in Messico all’inizio degli anni ’80; dall’altra, il periodo che decorre dall’entrata in vigore del TLCAN, che comincia il 1° gennaio, 1994. Entrambe i periodi si estendono fino ad oggi. Tanto nel periodo d’apertura, come durante il TLCAN, la crescita dell’economica messicana è andata diminuendo. Dalla forte crescita del reddito pro-capite del 3.4% mantenuta per 30 anni, dal 1945 al 1975,gli anni cosiddetti del “ miracolo messicano ”, la crescita economica si è quasi bloccata: dal 1985 al 2000 è stata di meno dell’1%. In quanto alle esportazioni, anche se sicuramente il Messico si è convertito in uno dei maggiori esportatori del mondo, all’11° posto al mondo, bisogna anche ricordare che il Paese importa più di ciò che esporta, dato che si traduce in una bilancia commerciale cronicamente deficitaria. Nel 2003, il deficit è salito a 14.500 milioni di dollari, vale a dire 4.3 volte gli stanziamenti federali a sostegno dell’agricoltura di quello stesso anno. Dall’entrata in vigore del TLCAN, solo per l’acquisto d’alimenti, il Messico ha erogato 78 miliardi di dollari, cifra superiore al debito pubblico del Paese (74 miliardi di dollari). Si tratta in gran parte di alimenti che prima erano prodotti in Messico e che ora devono essere importati. Rispetto all’occupazione, ci furono grandi aspettative relative all’incremento di posti di lavoro da parte del TLCAN, ma nella realtà c’è stata un calo netto nella crescita dell’occupazione, vale a dire che in media si creavano più posti di lavoro in Messico prima del TLCAN che dopo. Il Presidente Fox, nella sua recente relazione al paese dello scorso 1° settembre, si è fregiato di aver creato, nei tre anni della sua amministrazione, mezzo milione di posti di lavoro. Si è però dimenticato di dire che per far posto ai giovani che anno dopo anno integrano la nuova forza lavoro, l’economia dovrebbe generare circa 750.000 posti di lavoro l’anno. Vale a dire che, durante l’amministrazione Fox, l’economia avrebbe dovuto generare circa 2.250.000 posti di lavoro, cifra di fronte alla quale impallidisce quella di mezzo milione di nuovi posti di lavoro. Inoltre, la maggior parte degli impieghi generati in questi anni riguardano il settore sommerso nel quale non esistono regolamentazioni delle prestazioni lavorative né salario minimo garantito. Parlando solo del settore agricolo la Segreteria del Lavoro (STPS) indica che dall’entrata in vigore del TLCAN si sono persi 1.780.000 posti di lavoro, 600.000 dei quali relazionati con le colture cerealicole di base. I salari reali sono più bassi che mai. Il salario minimo, dall’entrata in vigore del TLCAN, è sceso del 23% in termini reali (di potere 18 d’acquisto) e del 60% dal 1982. I salari contrattuali sono scesi del 55% dal 1987, e del 12% dall’entrata in vigore del TLCAN. Il 60% dei lavoratori non percepisce nessuna delle prestazioni attribuitegli dalla legge messicana, il 33% della popolazione economicamente attiva (PEA) si colloca nel settore informal. Tutto ciò si traduce in più povertà. Il numero di famiglie povere è cresciuto dell’80% dal 1984, e più del 60% della popolazione vive in povertà. In Chiapas, dove la crisi del prezzo del mais si somma a quella del caffè si stima che circa il 70% della popolazione vive in condizioni di estrema povertà. Parlando in modo specifico della popolazione rurale, l’80% vive in povertà e più del 50% in condizioni di estrema povertà. Non solo è aumentata la povertà, ma anche la disuguaglianza. Il coefficiente Gini, (ossia il parametro che misura le differenze tra le classi sociali) è passato da 0.43 a quasi 0.5 dal 1984 ad oggi, il che colloca il Messico tra i paesi con più disuguaglianza di tutto l’emisfero sud e del mondo intero. La triste situazione non termina qui: per quanto riguarda l’ambiente, il governo stimava che i costi di degradazione ambientale (che ha subito un’accelerazione durante il TLCAN) nel 2003 sarebbero stati pari al 10% del PIL cioé intorno ai 36 miliardi di dollari. L’incremento del PIL nel 2003 è stato di soli 9.4 miliardi di dollari. E per quanto riguarda gli alimenti a prezzi più bassi che il TLCAN ci avrebbe messo a disposizione? Terminiamo questa lunga lista di problemi dicendo che semplicemente questa promessa non fu altro che un’esercizio retorico. Dal 1994 al 2002, i prezzi del paniere di alimenti basici aumentarono del 257%, mentre i prezzi al produttore agricolo s’impennarono del 185%. Vale a dire che le importazioni fecero più pressione sui prezzi al produttore che sui prezzi al consumo. Riassumendo, il paese oggi è più povero, con più disuguaglianza, con meno occupazione e più fame che dieci o vent’anni fa. Le politiche neoliberali nel nostro paese semplicemente non hanno funzionato e,grazie al TLCAN, oggi lo Stato non possiede gli strumenti di politica economica per correggere la direzione della nave in modo favorevole al popolo messicano. Il TLCAN è molto più di un trattato di libero commercio, anzi, non è nemmeno un accordo principalmente commerciale, ma è parte di un enorme progetto di revisione delle regole del sistema economico a favore, quasi esclusivamente, delle imprese multinazionali e dei paesi sviluppati. Ricordiamo che l’apertura o liberalizzazione dell’economia messicana è cominciata molto prima (circa dieci anni prima) dell’avvento del TLCAN. Dagli anni ’80, i governi messicani che si sono succeduti hanno diminuito le tariffe,ridotto i sussidi nazionali all’industria, ridotto il ruolo del governo nella conduzione delle strategie economiche e di sviluppo del paese. Il contributo del TLCAN è stato solo quello di accelerare la liberalizzazione e di “ blindarla ” in modo che nessun governo posteriore, specialmente uno di spinta progressista, potesse cambiare le regole. Già intorno al 1988, il popolo messicano cominciò a risentire degli effetti della liberalizzazione, principalmente a causa della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e per la diminuzione sostanziale del potere d’acquisto dei salari. Quell’anno ebbero luogo le elezioni presidenziali e il popolo messicano votò contro il cammino di liberalizzazione che aveva intrapreso il PRI (Partido de la Revoluciòn Institucional) in quel momento al governo, riversando una montagna di voti sul candidato dell’opposizione di sinistra: Cuauhtémoc Càrdenas. Con uno dei furti elettorali più sfacciati della storia del Messico (che ne ha visti molti), sostenuto dalla “caduta” del sistema di computo dei voti la prima notte dello spoglio, fu negata la vittoria di Càrdenas. Così nel 1988 fu impedito il passaggio democratico, ma l’allerta aveva suonato, in modo particolare a Washington. Il pericolo si sarebbe potuto ripresentare più in là. Di fronte ad una tale eventualità si rendevano necessarie una serie di misure che assicurassero la continuità del progetto neoliberale al di là delle velleità di qualunque Presidente, soprattutto nel caso, come nell’ipotesi più osteggiata dagli Stati Uniti, dell’avvento al potere di un nazionalista di sinistra come Càrdenas. I negoziati per il TLCAN tra il Messico e gli Stati Uniti, ebbero inizio appena un anno dopo il furto elettorale del 1988. 19 La situazione nelle campagne messicane Oggi il 22% della forza lavoro del paese è impiegata nelle campagne. Il mais è stato fin da tempi immemorabili, e continua ad essere oggi, il principale prodotto agricolo, occupando il 60% delle terre coltivate e costituendo il 60% dell’intera produzione agricola. Il mais rappresenta il sostentamento totale o parziale di 18 milioni di americani. Per comprendere la situazione attuale del mais in Messico, analizziamo un’altra serie di promesse che furono fatte nei mesi precedenti alla ratifica del TLCAN. Si promise che il Trattato avrebbe protetto le coltivazioni “sensibili”, strategiche per il paese. Nuovamente si trattò di demagogia. Dopo appena due anni dall’entrata in vigore del TLCAN, il governo messicano decise unilateralmente di non far pagare i dazi doganali che le stesse regole del TLCAN gli davano diritto di riscuotere. Per quale motivo? Per richiesta di chi? Per favorire le grandi imprese agricole messicane, Maseca e Minsa, l’allora Presidente Carlos Salinas sospese la riscossione dei dazi, permettendo che tali imprese avessero così accesso a grandi quantità di mais a prezzi economici. Mais che è più economico di quello messicano, non solo per una serie di fattori che rendono le coltivazioni agricole particolarmente favorevoli negli Stati Uniti, ma anche a causa dei sussidi che il governo USA elargisce ai suoi produttori. Tali sussidi raggiungevano un tale livello e continuano a raggiungerlo che la situazione configura un grave caso di “dumping”. Sicuramente, come abbiamo già visto, Maseca e Minsa ebbero un posto nella ristretta elite dei favoriti dal Trattato, producendo farine con il mais statunitense a basso costo, in un momento in cui il prezzo della tortilla sale senza pietà, a causa dell’eliminazione, da parte del governo messicano, dei sussidi al consumo. Coloro che subirono maggiori perdite a causa di questa valanga di tonnellate di mais furono i contadini messicani. Diciotto milioni di contadini subirono le conseguenze del crollo dei prezzi del 45%,dovuto a questo improvviso squilibrio. Allo stesso tempo il governo messicano perse miliardi di dollari che avrebbe potuto riscuotere come dazi applicabili agli eccessi d’importazione,calcolabili in 2.9 miliardi di dollari per il mais e altri 77 milioni per i fagioli. I problemi continuano :il governo messicano per non dispiacere gli Stati Uniti ha rinunciato anche ad ogni tipo di controllo sul tipo di mais importato ,e di fatto esercita un controllo sanitario molto limitato sulle carni e sui prodotti agricoli provenienti da quel paese. Nel caso specifico del mais,sono entrate tonnellate di mais transgenico mescolate al mais normale anche se sono tuttora sconosciuti gli effetti sulla salute umana delle varietà modificate geneticamente. Ciò che è stato ampiamente provato è che il mais transgenico contamina le varietà autoctone e tende ad eliminarle ,rovinando la millenaria opera di selezione delle varietà di mais più adatte ai differenti microclimi operata dai popoli indigeni. L’importazione di cibi transgenici porta ad un’omogeneizzazione delle specie cui consegue la dipendenza dalle sementi vendute dalle imprese multinazionali nonché una perdita di controllo alimentare e il rischio d’epidemie che si potrebbero moltiplicare tra le colture omogenee. La totale trascuratezza del governo messicano nei confronti delle importazioni di prodotti statunitensi contrasta con ciò che accade dall’altra parte della frontiera. I produttori messicani si devono confrontare continuamente con restrizioni sanitarie e a volte anche con veri e propri embarghi, decretati dal potere legislativo o esecutivo USA, i quali non solo si collocano al di fuori dello spirito del TLCAN, ma a volte si tratta di veri e propri atti illegali. L’abbandono delle campagne da parte del governo messicano, accelerato dal TLCAN, si pone in forte contrasto con la protezione, l’appoggio e, ancor più importante,i sussidi che il governo degli Stati Uniti elargisce ai propri produttori agricoli e in particolare alle imprese agricole d’esportazione. Per esempio, nel 2003, il “Farm Bill” ha stabilito un aumento del 70% degli incentivi ai produttori locali. Il mais è, di fatto, la coltivazione che riceve maggior sostegno da parte del governo degli Stati Uniti, basti pensare che nel 2000 le sovvenzioni al grano raggiunsero la somma di 10.100 milioni di dollari, dieci volte gli stanziamenti totali del Messico per l’agricoltura. Ricercatori specializzati hanno calcolato in 105/145 milioni di dollari annuali, i sussidi che il governo degli Stati Uniti 20 elargisce alle sole imprese che esportano in Messico. Tale cifra supera le entrate totali di 250.000 produttori di mais dello stato del Chiapas. Non c’è da stupirsi, dunque, che le esportazioni di mais dagli Stati Uniti al Messico si siano triplicate dall’entrata in vigore del TLCAN, invadendo il 33% del mercato nazionale. E nemmeno ci si può stupire che i produttori messicani vivano nella miseria. Di fronti a sussidi di tale mole qualunque riferimento dei burocrati messicani alla presunta “inefficienza dei nostri contadini rispetto alla produzione statunitense, diventa assolutamente demagogica. Altre cifre che tradiscono la profondità della voragine economica che si sta scavando in Messico grazie al TLCAN: prima del TLCAN,nel 1993,il Messico importò 8.8 tonnellate di granaglie ed oleaginose. Nel 2002 già importava più di 20 milioni di tonnellate dello stesso prodotto cui si devono aggiungere grosse quantità di carni, frutta proveniente da climi temperati e altre materie prime o prodotti elaborati (riso,grano,latticini,tabacco,grassi e oli vegetali,animali vivi e da macello,perfino caffè, anche se il Messico ne è uno dei maggiori produttori al mondo). Più che esportare prodotti agricoli,il Messico li ha importati a tonnellate, con un risultato evidente agli occhi di chi vuole vedere: migrazione dei produttori nazionali, aumento della disoccupazione, annullamento della sovranità sugli alimenti e la distruzione di un’importante parte delle infrastrutture del paese. Le prospettive del TLCAUSA per l’America centrale non regalano grandi illusioni ,soprattutto quando dettaglio più ,dettaglio meno, tale trattato cerca similitudini con TLCAN. Strategie di sopravvivenza Gli effetti del TLCAN sull’agricoltura messicana sono stati negativi per tutti, ad eccezione del piccolo gruppo d’individui ed imprese che ne sono stati avvantaggiati. I contadini messicani e le popolazioni indigene stanno, però, lottando contro le forze che cercano di separarli e si ribellano a chi gli vuole sottrarre il controllo delle risorse naturali, la terra prima di tutto, ma anche la biodiversità, la legna, l’acqua, le risorse energetiche e le altre materie prime. Per cercare di sopravvivere a tale situazione, i contadini hanno maturato alcune strategie . In questa sede esporrò brevemente le strategie adottate nello stato del Chiapas tenendo conto che i dettagli specifici variano a seconda delle differenti regioni del paese. 1. Espansione della produzione agricola in particolare della coltivazione di cereali di base e di altri prodotti destinati all’autoconsumo. Tale espansione si sta realizzando in terre marginali e con rendimenti per ettaro abbastanza scarsi. Trattandosi però di autoconsumo, lontano dalle oscillazioni del mercato, tutto ciò che viene prodotto viene consumato. 2. Semina di prodotti vari (come caffè o prodotti non tradizionali come fiori, frutta “esotica o introdotta”, noce macademia etc.) destinati alla vendita e/o all’esportazione i quali portano un guadagno modesto. 3. Espansione dell’attività d’allevamento in mano a contadini indigeni, esercitata in piccoli appezzamenti di terreno e con piccoli margini di guadagno che però generano un minimo ingresso. 4. Sfruttamento delle risorse naturali più disponibili (in particolare i boschi) anche se non è possibile garantirne uno sfruttamento sostenibile a lungo termine. 5. Emigrazione di almeno parte della famiglia verso le città del Messico o degli Stati Uniti. Per la maggior parte dei contadini e delle comunità indigene del Messico, dunque, le parole d’ordine sono: la terra non si vende. Possederla un po’ di terra e farla produrre, anche se solo per la sopravvivenza a medio termine, per molti contadini e indigeni è l’assicurazione sulla vita più affidabile di fronte alle oscillazioni del mercato e alla volontà delle imprese e del governo di togliergli ciò che possiedono. Futuro A dicembre del 2002 si è formato in tutto il paese un enorme movimento contadino di rifiuto del TLCAN, che si manifestò con la riunione di centinaia di migliaia di piccoli e 21 medi produttori nel centro di Città del Messico. Il movimento, conosciuto come “ El campo no aguanta màs” (la campagna non ce la fa più), riuscì a riunire le proprie forze in quattro blocchi ad adottare un'unica strategia e a presentare un unico documento al governo. L’Accordo Nazionale che nacque come sintesi della tavola rotonda di dialogo tra contadini e governo è costituito dai seguenti punti: 1. Revisione del TLCAN 2. Sovranità alimentare come fulcro e fondamento di tutte le politiche agroalimentari e commerciali 3. Stanziamenti pluriannuali 4. Riforma strutturale della politica agricola 5. Adempimento degli accordi di San Andrés (firmati con l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) 6. Difesa e valorizzazione del patrimonio territoriale delle comunità e delle popolazioni indigene. Anche se la presenza di organizzazioni contadine più vicine al governo, le quali non furono concordi nel richiedere che si stabilissero dei termini per l’attuazione degli patti, divise questo importante movimento e debilitò le promesse che erano state ottenute, le rivendicazioni che furono portate avanti sono un eccellente punto di partenza per eliminare i danni provocati dal TLCAN alle campagne e all’intera società. L’Accordo Nazionale, senza dubbio, sarà nuovamente rivendicato prima delle prossime elezioni federali del 2006. Conclusioni Il Messico ha negoziato uno scadente trattato di libero commercio, pessimo se ci riferiamo esclusivamente ai suoi effetti sulle aree rurali. Il TLCAN ha poi dato luogo ad altri aspetti, molto lontani dal commercio propriamente detto, che hanno avuto ripercussioni dannose in molti altri ambiti. Il Capitolo 11 in particolare, dà alle imprese multinazionali, diritti inauditi attraverso i quali queste possono denunciare i governi nazionali per qualunque legge, norma o regolamento che interferisca con la realizzazione delle proprie “ prospettive di guadagno”. Ad oggi esistono già molti casi d’imprese che hanno contestato atti governativi di fronte al tribunale del TLCAN in processi segreti che si sono risolti a loro favore. Qualificando le leggi e norme nazionali come un “espropriazione indiretta” che deve essere risarcita obbligatoriamente, il Capitolo 11 ha avuto un effetto devastante per le leggi sull’ambiente, sulla protezione dei lavoratori,sulle leggi sociali e incluso sullo stesso processo democratico, non solo in Messico,ma in tutti e tre i paesi che partecipano al TLCAN. Il Capitolo 11sta inoltre avendo un effetto di “censura anticipata”, vale a dire ,i poteri legislativi a tutti livelli si stanno astenendo dal promuovere leggi che proteggano l’ambiente, i lavoratori, la cultura, per timore che ci si possa esporre ad una denuncia da parte di qualche impresa multinazionale. Il problema, però, non consiste tanto nei trattati che si firmano, quanto nella mentalità con la quale si attuano. Se tale mentalità è quella del neoliberalismo o quella del consenso di Washington, il risultato è quasi assicurato: l’immensa base povera della piramide sociale non otterrà nessun beneficio e come abbiamo sperimentato in Messico da decine di anni, la sua situazione tenderà a peggiorare26. Il punto focale intorno al quale si contrappongono le opinioni dei sostenitori e degli oppositori ai trattati di libero commercio, consiste in due differenti idee di sviluppo. La prima equipara lo sviluppo all’aumento del capitale, alla presenza di grandi imprese, in particolare imprese multinazionali, e al lavoro, alla tecnologia e al capitale che dovrebbero produrre. Tale concezione è elitaria ed esclude dalla possibilità di partecipare al processo di sviluppo una gran fetta della società,inoltre nega la possibilità di dirigere ed orientare l’economia a beneficio della maggioranza della popolazione di uno Stato26 “Come disse il rappresentate messicano alle negoziazioni (del TLCAN),’il migliore progetto di questo paese è non avere nessun progetto nazionale e lasciare che il mercato modelli il migliore Messico possibile’. Questa teoria non ha nessun fondamento storico. In nessun paese del mondo il solo mercato ha portato sostenibilità e giustizia sociale”. Da Arroyo, “Lecciones del TLCAN: el alto costo del ‘libre’ comercio (Resumen ejecutivo)”, p.5. 22 Nazione,e tanto meno di tener conto della sua opinione. E’ la famosa teoria dell’elargizione di benefici alla base grazie all’attività della cupola. Una seconda visione ,orientata verso la società,si distacca dall’anteriore non solo per la sua opposizione,ma anche in base alla constatazione che tutti i paesi che oggi si ritengono sviluppati,o del “Primo Mondo”, sono passati per una forte ingerenza statale nella determinazione di politiche che hanno beneficiato una larga fascia della popolazione,ad esempio con l’industrializzazione o attraverso la determinazione di limiti e regole per gli investimenti stranieri. Oggi il TLCAN nega allo Stato la possibilità di adottare tali politiche, ostacolando il percorso che tutti i paesi oggi sviluppati hanno intrapreso nel passato per fortificarsi al loro interno prima di aprire le frontiere. Nessun paese sviluppato ha mai dovuto sostenere la pesante pietra che per i nostri paesi rappresentano i trattati di libero commercio. Nel mondo rurale, queste due visioni del mondo e del futuro incontrano differenti reazioni. Da una parte, la visione predominante al giorno d’oggi, che in maniera semplicistica riscontra i vantaggi nella produzione di beni e servizi in una diminuzione dei prezzi. Dall’altra una visione più ampia che riconosce le molteplici funzioni dell’agricoltura e non le riduce alla sola produzione di beni agricoli al prezzo più basso possibile. Tutti noi ci aspettiamo che l’agricoltura assicuri beni genuini e di alta qualità, che protegga l’ambiente, che vegli sulle risorse limitate, che preservi il paesaggio rurale e contribuisca allo sviluppo delle aree rurali creando nuove opportunità d’impiego27. Vale a dire, “l’agricoltura non produce solo beni in senso stretto, ma genera anche servizi per la società il cui valore non è retribuibile solo attraverso i prezzi degli alimenti e delle materie prime”28. E’ stato detto in altre occasioni: l’espansione del commercio non è fine a sé stessa. Nel migliore dei casi il commercio con altri paesi può essere utilizzato per rafforzare l’economia, ma il commercio “libero” da ogni restrizione e controllo, l’assegno in bianco dato in mano alle imprese multinazionali perché facciano ciò che vogliono, produrrà l’effetto che ha prodotto in Messico e che,ci azzardiamo ad affermare, si ripeterà in America centrale. Il “libero” commercio non mitiga le disuguaglianze, non le elimina né le annulla, al contrario, le accentua. Prima di liberalizzare il commercio, abbiamo bisogno di nazioni e popoli in salute, istruiti e in condizioni di vita degne,con economie sane, orientate al mercato interno o regionale,generatrici di lavoro, che non producano più fuga di manodopera all’estero. In tal caso, il commercio giusto,che non “libera”, ma compensa la profonda asimmetria tra paesi ricchi e paesi poveri,può essere un elemento utile ad una maggiore prosperità della condizione umana. 27 Unione Europea, fonte non pervenuta. Gómez y Schwentesius, “Impacto del TLCAN en el sector agroalimentario: evaluación a 10 años”, s/f, p.3 28 23 3. Il Cafta (Central America Free Trade Agreement): un trattato nuovo per politiche vecchie di Luca Martinelli* Premessa Il primo gennaio del 2006 era stata designata dal Governo Bush come la data per l’entrata in vigore del CAFTA –Central America Free Trade Agreement–, il Trattato di libero commercio che lega i paesi centroamericani (Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua), la Repubblica Dominicana e gli Stati Uniti d’America. A pochi giorni dalla data stabilita, però, è stato annunciato un ritardo: il CAFTA non sarà attivo prima del mese di febbraio o marzo. La dichiarazione del portavoce dell’U.S. Trade Representative’s Office (USTR) informava della necessità di posticipare l’entrata in vigore del Trattato perché Costarica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Repubblica Domenicana non avrebbero ancora «armonizzato» le proprie leggi nazionali alle disposizioni del CAFTA in merito a concorrenza, servizi di telecomunicazioni, servizi pubblici, trattamento riservato alle imprese straniere. Si tratta, né più né meno, di alcuni di quei temi ancora non negoziati (e non negoziabili) all’interno della World Trade Organization (WTO) e che gli USA tentano perciò di far passare attraverso le maglie –più deboli– degli accordi bi- o multi-laterali29. Firmato nell’estate del 2004, durante il 2005 il CAFTA è stato al vaglio dei Parlamenti nazionali e ratificato da tutte le parti ad eccezione del Costa Rica30. Si tratta, per il Governo USA, di un obiettivo economico ma 29 «I contenuti degli accordi di libero scambio regionali e bilaterali sono molteplici e riguardano anche aspetti non strettamente commerciali, come avviene, d’altronde, anche in ambito multilaterale. Oltre al tema dell’accesso al mercato, sia per i prodotti agricoli, per quelli industriali che per i servizi, troviamo settori specifici di questi ultimi, come quello finanziario e delle telecomunicazioni, i diritti di proprietà intellettuale, tre dei famosi “Temi di Singapore”, vale a dire gli investimenti, gli appalti governativi e regole sulla concorrenza, gli standard lavorativi e ambientali. Non a caso, questi accordi sono definitivi Wto Plus, non solo perché contengono tematiche che non fanno parte dei negoziati commerciali multilaterali, ma anche perché su tutti questi aspetti si realizzano liberalizzazioni più profonde». Sensi, Roberto, Gli accordi regionali e bilaterali: uno sguardo d’insieme, documento di lavoro Mani Tese/Campagna per la riforma della Banca Mondiale, gennaio 2006. 30 Il NAFTA è l’accordo di libero scambio che lega tra loro le economie di Canada, Messico e Stati Uniti d’America. È in vigore dal primo gennaio del 1994. –soprattutto– geopolitico31: il Trattato rappresenta, infatti, a una dozzina di anni dall’implementazione del NAFTAi –North America Free Trede Agreement–, il seguente (e conseguente) «passo» verso una nuova colonizzazione (economica ma anche militare e politica) dell’America Latina; un «passo» reso ancor più necessario –negli ultimi anni– dalla gravissime difficoltà che attraversano tutti i processi di liberalizzazione negoziati a livello multilaterale (e in particolare quelli in seno alla WTO, con il fallimento sostanziale dei negoziati multilaterali del Doha Round durante le due ultime riunioni ministeriali di Cancún –sett. 03– e Hong Kong –dic. 05–, e quelli per la creazione di un’Area di Libero Commercio delle Americhe –ALCA32–). Riteniamo importanti tre considerazione preliminari, volte a chiarire la natura dell’accordo negoziato: 1. il Trattato di Libero Commercio non è qualcosa di nuovo; rappresenta –piuttosto– il punto di arrivo e la legalizzazione33 delle politiche imposte nella regione a partire dagli anni 80 nell’ambito dei Piani di Aggiustamento Strutturale, che dettero il via ad una progressiva apertura delle frontiere commerciali e finanziarie dei paesi. Come riassume Joseph Stiglitz, prima di iniziare a (tentare di) tracciare una nuova agenda di riforme per l’America Latina34, che 31 Barahona, Amaru, “En el TLC hemos entregado en bandeja nuestras ventajas más valiosas”, in Revista Envío, Universidad Centroaméricana – UCA–, Managua, settembre 2004; Alianza Social Continental, “La ola del libre commercio”, luglio 2004. www.rmalc.org.mx 32 La negoziazione dell’ALCA è iniziata nel 1994, subito dopo l’implementazione del NAFTA. Originariamente, avrebbe dovuto entrare in vigore dal primo gennaio del 2005. il processo, però, ha subito numerosi stop, a partire dal 2003 e sino all’ultima Cumbre de las Américas celebratasi in Argentina nel novembre del 2005, legati al ricambio politico nei paesi dell’America del Sud e –in modo particolare– alla strenua opposizione di Argentina, Brasile e Venezuela». 33 Marchetti, Peter e René Mendoza V., El TLC: un fetiche que nos desempodera, in Revista Envío, Universidad Centroaméricana –UCA–, Managua, aprile 2005. 34 Stigltiz, Joseph, Hacia una nueva agenda para América Latina. El rumbo de las reformas, Universidad Andina Simón Bolivar – Sede si preoccupi della riduzione della povertà e delle trasformazioni sociali in corso prima che della stabilità macro-economica: «(a) le riforme aumentarono l’esposizione dei paesi al rischio, senza accrescere la loro capacità economica di affrontarlo; (b) le riforme macro-economiche non sono state equilibrate; (c) le riforme spinsero alla privatizzazione e al rafforzamento del settore privato, dando però scarsa importanza ad apportare miglioramenti al settore pubblico»; 2. al CAFTA si accompagna, dal 2001, il progetto del Plan Puebla Panama (PPP), volto a creare –nella regione che comprende nove stati del Sudest messicano e tutto il territorio centroamericano– l’infrastruttura fisica volta a rendere attrattivo per il capitale internazionale l’investimento nella regione35 e a permettere un più efficiente sfruttamento delle risorse naturali. Un progetto la cui realizzazione è subordinata alla capacità dei Paesi della regione di contrarre nuovi debiti presso le istituzioni finanziarie internazionali e regionali (in particolare, la Banca Interamericana di Sviluppo e la Banca Centroamericana di Integrazione Economica) e di attrarre l’investimento privato già nella fase di realizzazione del progetto (ad es., far costruire un’autostrada ad un soggetto privato europeo concedendo a questi una concessione trentennale per la gestione del servizio)36; 3. nonostante il Plan Puebla Panama venga presentato come un progetto di integrazione regionale, quello che manca –prima di tutto– ai Paesi centroamericani sono processi di Ecuador, Corporación Editora Nacional, Quito, 2004. 35 Nelle analisi della Banca Mondiale, infatti, è stata proprio la mancanza di adeguate «infrastrutture» (fisiche e sociali) a comportare il sostanziale fallimento del NAFTA nelle regioni del Sudest messicano. Esquivel, Gerardo, Daniel Lederman, Miguel Messmacher e Renata Villoro, ¿Por qué el TLCAN no llegó hasta el sur de México?. 36 Per un analisi dettagliata del Plan Puebla Panama rimando a Martinelli, Luca, Mesoamerica hacia el barranco: El Plan Puebla Panama y la estrategia de liberalizacion “paso a paso”, CIEPAC A.C., www.ciepac.org, 11 gennaio 2005 25 integrazione nazionale; le (più o meno numerose) minoranze indigene sono ovunque escluse dalla gestione del Governo e dell’indirizzo economico nazionale; i loro diritti sono calpestati; vaste zone periferiche e marginali, in tutto l’istmo centroamericano, sono destinate a restare tali, senza essere toccate dallo «sviluppo» e dal «progresso»: il modello prevede che i «cittadini marginali» siano ricollocati nei grandi corridoi industriali (sedi dell’industria maquiladora) che si svilupperanno intorno a arterie per l’alta velocità (autopistas) costruite laddove ancora oggi la maggioranza dei cammini non sono ancora asfaltati. Paradossi dello sviluppo37. La ratifica del Central America Free Trade Agreement è avvenuta in un contesto di generale opposizione. È interessante notare come negli Stati Uniti d’America questa abbia riguardato, anche il Congresso (che ha passato l’accordo con 217 voti favorevoli e 215 contrari: uno scarto minimo per quella che è stata definita «la priorità commerciale n. 1 di Bush per il 2005»), oltre a sindacalisti, organizzazioni sociali e della società civile, mentre in Centro America i protagonisti principali siano stati esclusivamente le organizzazioni sindacali e quelle contadine e indigene. In tutta la Regione, le forze popolari si sono mobilitate contro il Trattato, affermando che la sua applicazione lederà – necessariamente– il diritto alla vita di milioni di essere umani, comportando la fine del settore agricolo centroamericano, la totale perdita della sovranità nazionale, un peggioramento nei diritti riconosciuti ai lavoratori, la cessione delle ricchezze naturali dei paesi in mano ad imprese straniere. 37 «Passare cent’anni / in un giorno solo, / dai carri nei campi / agli aerei nei cielo», cantava Luigi Tenco nella sua ultima indimenticabile interpretazione, Ciao amore, ciao. Le ragioni della opposizione38 da parte di questi appaiono evidenti e per capirle è sufficiente leggere alcuni dei rapporti pubblicati in occasione del decimo anniversario del NAFTA, nel 2004, tanto quelli prodotti da Organizzazioni non governative anti-liberiste quanto quelli redatti da funzionari della Banca Mondiale: milioni di contadini e indigeni messicani, di fatto espulsi dalle proprie terre dalla concorrenza sleale dei prodotti agricoli sussidiati dal Governo USA39, costretti a una forzata urbanizzazione e a cercare lavoro nei distretti industriali quando non, addirittura, a cercar fortuna oltre la frontiera40. Considerando le notevoli similitudini tra NAFTA e CAFTA (in primis, il fatto che né l’uno né l’altro tengano conto delle profonde asimmetrie economiche esistenti tra le parti contraenti41), è facile leggere tra le righe anche le possibili conseguenze del CAFTA 38 Secondo sondaggi realizzati nei diversi Paesi centroamericani, in Costa Rica il 58% della popolazione chiede di rinegoziare il Trattato o di rifiutare la ratifica; il 60,8% dei domenicani si oppone; il 76% dei salvadoregni ritiene che il CAFTA non aiuterà o, addirittura, peggiorerà la loro situazione; in Guatemala, il 65% della popolazione ritiene che il CAFTA sarò nocivo per il Paese. I dati, raccolti da differenti fonti centroamericane e statunitensi sono riportate in Tucker, Todd, New year sees delay in CAFTA implementation, op. cit. 39 Il Farm bill del 2003 ha stabilito un aumento del 70% degli incentivi ai produttori locali. Si tratta, per lo più, di sussidi all’esportazione, diretti cioè – direttamente– a mettere fuori mercato i produttori locali nei Paesi del Sud. 40 Si calcola che siano almeno 500.000, ogni anno, i cittadini messicani che cerchino illegalmente di attraversare la frontiere con gli Stati Uniti d’America. 41 Tutto il PIL delle nazioni centroamericane rappresentano lo 0,5% del PIL degli Stati Uniti. Il reddito pro-capite è 19 volte minore. Gudynas, Eduardo, Dos caminos distinos: tratados de libre comercio y procesos de integración, in TLC. Más que un tratado de libre comercio (A. Acosta y F. Falconi, comps.), ILDIS e FLACSO, Ecuador, Quito, 2005. pp. 41-62. Sul incidenza del mercato Usa per l’import e l’export della regione centroamericana si veda invece Monge-González, Ricardo, Miguel Loría-Sago e, Claudio GonzálezVega, CAFTA: CHALLENGES AND OPPORTUNITIES IN THE AGRICULTURAL AND AGRO-INDUSTRIAL SECTORS, En breve, October 2003, n. 33. 26 sulle economie centroamericane. o sulle società È palese la mancanza di una forte opposizione governativa o parlamentare al Trattato in tutto il Centro America (laddove il CAFTA non è ancora stato ratificato, in Costa Rica, è riconosciuto il ruolo dominante svolto da parte della società civile organizzata, che ha realizzato una sorta di «educazione» nei confronti dei rappresentanti istituzionali), come l’incapacità, per i rappresentanti dei Paesi centroamericani, di negoziare un accordo che –in qualche modo– difenda gli interessi dei propri cittadini. Il problema, è nella classe politica: «Negoziare significa, prima di tutto, avere un progetto. E avendolo, renderlo fattibile attraverso la negoziazione. Nell’esperienza della negoziazione del Trattato di Libero Commercio degli Stati Uniti con il Centro America, una delle parti, gli Stati Uniti, –e quando alludo agli Stati Uniti, sto pensando alla sua classe dirigente–, hanno un progetto e costruiscono la sua fattibilità. L’altra parte, che esprime gli interessi delle oligarchie centroamericane, non ha un progetto alternativo. E, come si è evidenziato nella firma dell’accordo del TLC, nemmeno la volontà di resistere al progetto della controparte. Il suo progetto, infatti, è quello di entrare a far parte del progetto dell’altra parte»42. Per comprendere al meglio le principali criticità associate al CAFTA, riteniamo importante analizzare le implicazioni del Trattato in relazione a tre aspetti: il suo impatto sul settore agricolo; le implicazioni per l’industria maquiladora; il controllo delle risorse naturali. Il settore agricolo Già nell’ottobre del 2003 un articolo di analisi pubblicato dalla Banca Mondiale metteva in luce le opportunità che il CAFTA avrebbe rappresentato per il settore agricolo e agro-industriale centroamericano, nonché quelle che sarebbe state le maggiori sfide ad una reale efficacia del trattato43.Secondo i ricercatori dell’istituzione di sviluppo con sede a Washington, il Trattato avrebbe dovuto cercare di rispondere a due domande principali: «(a) come garantire un migliore accesso al mercato Usa alle esportazioni agricole e agro-industriali del Centro America, e (b) come promuovere una maggiore apertura all’importazione dagli Stati Uniti di alimenti che sono “sensibili” nei mercati interni dei Paesi centroamericani.» È lo stesso documento, però, ad indicare, in modo chiaro, quali siano le categorie che fruiranno delle nuove opportunità offerte dal CAFTA: «In Centro America come negli Stati Uniti, le uniche reazioni positive ai nuovi negoziati in merito al commercio arrivano dagli esportatori di beni tradizionali (caffè, banane, zucchero, carne) e non tradizionali e dai produttori impegnati nell’agricoltura di sostituzione delle importazioni o di beni fuori commercio». Nello stesso articolo, la Banca suggerisce ai paesi dell’America Centrale di eliminare le tariffe volte a proteggere i “prodotti sensibili” («key agricoltural commodities for domestic consumption (e.g., dairy products, yellow corn, rice, beans, sugar, beef, pork, poultry)»): le restrizioni non sono appropriate –giudica la Banca Mondiale– data la condizione di scarsa competitività associata a questi prodotti. Ovvero, il CAFTA prevede, per il futuro dei mercati centroamericani, che questi siano letteralmente inondati di mais a basso costo prodotto sul mercato Usa (prodotto in eccesso, vale la pena aggiungere, tornando sugli altissimi sussidi che ricevono le grandi aziende agricole statunitensi); ciò metterebbe fuori mercato i piccoli contadini, che producono mais per la sussistenza e che vendono le eccedenze per far fronte alle altre 43 42 Barahona, Amaru, op. cit.. Monge-González, Ricardo, Miguel Loría-Sago e, Claudio González-Vega, op. cit. 27 esigenze della vita (o, peggio, a emergenze che possano loro capitare)44. Un esempio interessante è quello relativo al mercato del riso. Sinforiano Cáceres, Presidente della Federación Nacional de Cooperativas Agropecuarias y Agroindustriales (FENACOOP) del Nicaragua, descrive in modo chiaro lo scenario che ci troveremo di fronte entro pochi anni: «La cosa peggiore del CAFTA, ciò che può rovinarci la vita, è che [scrivendolo] non si sono riconosciute le asimmetrie [esistenti] affinché i prodotti che produciamo noi e quelli che producono loro possano competere lealmente sul mercato. Vediamo, ad esempio, l’esempio del riso. Gli Stati Uniti d’America sono il quinto produttore a livello mondiale. Ad un produttore statunitense produrre un quintale di riso costa 9 dollari e 4 centesimi. Ad un produttore nicaraguense della Valle de Sébaco, delle nostre cooperative, costa invece 8 dollari e 45 centesimi. Ciò significa che, rispetto al riso, potremmo essere competitivi. Ma non lo saremo. Perché il produttore degli Stati Uniti può vendere in Nicaragua, e venderà, il suo quintale di riso a 7 dollari e 65 centesimi. Perché lo può vendere ad un prezzo più basso rispetto a quello che costa produrlo? Perchè riceve dal suo governo un sussidio, e quando porta al porto una tonnellata metrica di riso (22 quintali) per venderla qui a 179 dollari, ha già ricevuto 230 dollari di sussidi per questa stessa tonnellata. O sia, che quando imbarca il suo riso, non gli interessa più molto quanto guadagnerà vendendolo in Nicaragua. […] Finora, il Nicaragua importava riso solo per coprire i deficit della produzione nazionale. Il CAFTA stabilirà una quota annuale massima di importazione, una quota crescente, accada quel che accada sul mercato nazionale. Nel primo anno del CAFTA, il riso importato dagli Stati Uniti sarà pari al 43% della produzione nazionale odierna. Nel 2015 sarà già il 73%.» E lo stesso potrebbe dirsi a proposito del latte, dello zucchero, dei fagioli45. 44 In Centro America oltre il 33% della popolazione è impiegata nel settore agricolo (con una punta del 42,9% in Nicaragua, secondo dati della Banca Mondiale). Per i teorici di Washington, tuttavia, questo non rappresenta un problema. Secondo calcoli elaborati sulla base di dati raccolti in El Salvador, Guatemala e Nicaragua, «la maggior parte delle famiglie in questi paesi guadagneranno qualcosa dal cambiamento nei prezzi associato alla rimozione delle barriere commerciali per i beni agricoli “sensibili”. Più nello specifico, il 90% delle famiglie in Nicaragua, l’84% in Guatemala, e il 68% in Salvador, rispettivamente, sono state riconosciute come consumatrici nette del paniere di beni agricoli sensibili, e, perciò, si può supporre che potranno beneficiare dai cambiamenti nei prezzi relazionati al CAFTA. Solo il 9% delle famiglie del Nicaragua, il 16% di quelle guatemalteche e il 5% di quelle del Salvador sono state individuate come produttrici nette del paniere di beni sensibili e, quindi, potrebbero sperimentare forme di riduzione del proprio benessere.»46 A non permettere un dialogo tra le due posizioni resta, senza dubbio, una profonda divaricazione culturale47 –a partire dalla stessa definizione di «povertà» coniata dalla 45 Sinforiano Cáceres, El CAFTA será como un huracán Mitch, con nombre comercial, in Revista Envío, Universidad Centroaméricana –UCA–, Managua, settembre 2005. 46 World Bank (the), Central America Department and Office of the Chief Economist Latin America and Caribbean Region, “DR-CAFTA: Challenges and Opportunities for Central America”. Analisi della Banca Interamericana di Sviluppo suggeriscono invece che «il reddito rurale non proveniente da attività agricole rappresenta il 59% del reddito in Costa Rica, il 38% in El Salvador, il 22% in Honduras e il 42% in Nicaragua (Reardon et al, 2001).». Arias, Diego, Jessica Todd e Paul Winters, CAFTA and the rural economies of Central America: a conceptual framework for policy and program recommendations, IADB, December 2004. 47 Il documento della Banca Mondiale manca ad esempio di analizzare, in modo dettagliato, come ciò sia conseguenza degli ultimi vent’anni di politiche di liberalizzazione imposte nella Regione centroamericana dalla Wb e dal Imf nell’ambito dei Piani di Aggiustamento Strutturale (nonché di trent’anni di conflitti armati –guerre più o meno civili, dato l’interesse diretto o indiretto dell’esercito Usa–), e prende il dato attuale come a-storicamente dato, appunto. 28 Banca Mondiale per colui/ei che non percepisce un reddito superiore a 2$/giorno–: chi considera l’agricoltura di sussistenza e l’esistenza stessa di piccoli contadini indigeni un refuso del passato, non può ammettere che si possa scegliere di sopravvivere al di fuori del mercato, e lottare contro chi vuole cancellare questo diritto. Non lo può ammettere, soprattutto, quando l’apertura di quei mercati (ovvero, l’ingresso sul mercato di milioni di nuovi consumatori, vale la sopravvivenza del proprio modello economico, un sistema industriale che attraversa una fase di strutturale sovrapproduzione e che incontra –oggi– seri problemi per entrare in nuovi mercati)48. Destino maquilador Milioni di contadini, espulsi dalle proprie terre, verrebbero quindi ricollocati, abbiamo visto, nell’industria maquiladora. Un settore importante e una valvola di sfogo per tanti che, altrimenti, proverebbero a cercar fortuna negli Stati Uniti d’America. Un settore, però, che registra già da alcuni anni una profonda crisi (acuita dall’inizio del 2005 per la fine dell’Accordo multifibre, che limitava il volume di esportazione di prodotti tessili). Nonostante quanto asseriscano i suoi promotori, nemmeno il CAFTA potrà salvare il settore tessile –uno dei principali comparti del settore maquilador – nelle nazioni centroamericane . Todd Tucker, direttore di ricerca per il Global Trade Watch di Public Citizen, negli Stati Uniti d’America, analizzando alcuni dei miti economici relativi al CAFTA49 evidenzia condizioni strutturali che rendono il cotone 48 Senza ombra di dubbio, uno dei principali problemi per l’economia americana, al giorno d’oggi, è quello della sovrapproduzione (agricola ma non solo). Il Centro e il Sud America vengono visti come nuovi mercati ideali, mentre quello europeo ed asiatico appaiono sempre più chiusi alle merci Usa dopo l’allargamento dell’Unione Europea e dato l’emergere delle economie cinese e indiana a fianco del Giappone in Estremo Oriente. 49 Tucker, Todd, Porque CAFTA no puede salvar a Centro América de la expiración de la Cuota Textil, IRC Americas Program, 27 de enero de 2005. www.americaspolicy.org cinese assolutamente imbattibile per le imprese istallate in Centro America. CAFTA o non CAFTA, scrive Tucker, “il Centro America perderà la sua quota di mercato, a causa degli enormi vantaggi di costo in Cina”. Il livello estremamente basso dei salari cinesi, dell’ordine di 15/30 centesimi di dollaro l’ora, comporta costi di produzione difficilmente ripetibili, anche laddove – Guatemala, Repubblica Domenicana, Costa Rica– i salari sono tutt’altro che dignitosi (rispettivamente, 1,49$/h, 1,65$/h e 2,70$/h nei tre Paesi indicati). Nemmeno la vicinanza geografica tra l’America Centrale e gli Stati Uniti pare in grado di garantire vantaggi importanti rispetto all’industria cinese. Innanzitutto, alcune compagnie marittime cinesi stanno notevolmente riducendo i tempi di percorrenza verso la Costa Occidentale degli Usa e – inoltre– i produttori centroamericani non potranno mai convertirsi, per scala e capacità produttiva, in rifornitori “al bisogno” (ovvero, in tempi brevi, qualora i costumi e le mode cambiassero repentinamente) dei grandi magazzini statunitensi. C’è poi, anche in questo caso, un distinguo culturale importante. È necessario, cioè, riflettere se si possa considerare –o meno– positiva la presenza di un maggior numero di imprese d’assemblaggio all’interno del Paese. Calcoli effettuati in Messico, dove l’industria maquiladora è nata, lungo la frontiera settentrionale con gli Stati Uniti d’America – ma crediamo riproponibili anche per il contesto centroamericano– mostrano come il valore nazionale della produzione per ogni $ esportato da un’industria maquiladora è pari a due centesimi (il 2%). Ovvero, che questo tipo di industria –che ottiene importanti concessioni dal Governo (come quella di non pagare imposte, di un utilizzo di acqua illimitato, di non riconoscere alcun diritto sindacale)– non produce ricchezza nel Paese e per il Paese. Può, questo, essere definito sviluppo? Il controllo delle risorse naturali L’abbandono forzoso delle terre da parte delle popolazioni indigene risponde anche ad un secondo ordine di obiettivi delle 29 imprese multinazionali (l’interesse delle corporations –e la ricerca di nuovi e maggiori profitti–è infatti il motore delle politiche economiche imposte dal Governo Usa50), quello cioè di accaparrarsi una sempre maggiore superficie coltivabile –per la grandi piantagioni di quei prodotti agricoli per cui, nell’ambito del CAFTA, ai Paesi centroamericani è riconosciuto un «vantaggio comparativo» rispetto agli Stati Uniti (nota: i negoziatori del CAFTA non sono ancora riusciti ad andare oltre l’economia di David Ricardo)–, nonché le risorse naturali che sono –tendenzialmente– concentrate proprio nelle regioni dove hanno tradizionalmente vissuto i popoli indigeni. E, costi quel che costi, è necessario spogliare le popolazioni indigene del controllo della terra. Anche in questo caso, con il CAFTA –e con le riforme costituzionali da approvarsi per entrare a far parte del Trattato, o approvate negli anni scorsi per compiacere la Banca Mondiale e il Fondo Monteratio Internazionale– si cerca di legalizzare questo saccheggio51. Per comprendere queste considerazione, basti leggere la Legge Generale sulle Concessioni discussa dal Parlamento guatemalteco nel 2004, laddove si dettano le disposizioni 50 Vi è chi definisce la fase attuale come quella della globalizzazione corporativa, intendendo con questo «la globalizzazione costruita su misura per le grandi imprese». Pickard White, Miguel, PRECAUCION: LA GLOBALIZACION PUEDE SER PELIGROSA PARA SU SALUD, CIEPAC A.C., www.ciepac.org, novembre 2002. 51 Per il tema della deforestazione, si rimanda ai risultati della ricerca realizzata in Honduras da Environmental Investigacion Agency (EIA, ) e Center for International Policy (CIP): LA CRISIS DE LA TALA ILEGAL EN HONDURAS. De cómo la importación de madera ilegal hondureña por los Estados Unidos y la Unión Europea incrementa la pobreza, acelera la corrupción y destruye bosques y comunidades, pubblicato nel novembre del 2005. Per quanto riguarda, invece, il tema dell’industria mineraria: Cuffe, Sandra, “Un Desarrollo Patas Arriba y al Revés” Actores Globales, Minería y Resistencia Comunitaria en Honduras y Guatemala, Rigths Action, www.rigthsaction.org, febbraio 2005; o Martinelli, Luca, MUERTES “DORADAS”. TE CUENTO EL ‘CUENTO’ DE LA MINA MARLIN EN GUATEMALA, CIEPAC A.C., www.ciepac.org, novembre 2005. «per promuovere lo sviluppo dell’infrastruttura fisica dello Stato e dei servizi pubblici efissare la normativa di base per la loro esecuzione e/o prestazione da parte di persone giuridiche private, nazionali o straniere,mediante la assegnazione di concessioni.» La legge, che si applica ai seguenti settori (costruzione e/o manutenzione di strade, autostrade, viadotti e tunnel; costruzione e/o manutenzione del sistema ferroviario; costruzione e/o manutenzione di porti; costruzione e/o manutenzione di aeroporti; costruzione e/o manutenzione di acquedotti, oleodotti, gasdotti; istallazione e/o operazione e/o * Questo articolo è stato scritto dal suo autore nell’ambito di un progetto di ricerca del Centro interuniversitario di ricerca per la pace e la cooperazione (CIRPAC) delle Università di Firenze, Pisa e Siena, finanziato dalla Regione Toscana. prestazione del servizio di generazione di energie elettrica; servizi di sviluppo turistico; servizi di Piazze ed edifici pubblici; servizi di depurazione e tutela ambientale; servizio postale; servizi di alimentazione per ospedali, carceri e scuole; elaborazione di documenti di identificazione, quali passaporti, cedole, patenti; sistemi di trasporto di massa (bus, treni di superficie, metropolitane, altri); parchi turistici)52 ha ricevuto il visto buono delle Commissione per la Decentralizzazione e lo Sviluppo del Congreso de la República che riconosce, tra l’altro, il diritto –di coloro, persone individuali o giuridiche, che investiranno forti capitali nel Paese– «di recuperarli e di ottenere i redditi che ogni investitore necessita per partecipare a processi di concessione di servizi pubblici o di costruzione di opere pubbliche». Vale la pena chiedersi chi, su al Nord, avrebbe interesse a prendere il controllo di alcuni di questi settori. 52 «Anche se la seguente enumerazione non deve risultare limitativa». In Dictamen (de la Comisión de Descentralización y Desarrollo de la República de Guatemala) favorable a la iniciativa que dispone aprobar Ley general de Concesiones. 30 31 PARTE SECONDA :: le risorse naturali 4. Morti Dorate Il racconto della miniera Marlin in Guatemala di Luca Martinelli Riassunto: Il proposito di questo (bollettino) rapporto è di aggiornarci sulle lotte che il popolo guatemalteco sta combattendo contro le industrie minerarie canadesi e statunitensi che vogliono violare i diritti dei popoli indigeni per sfruttare con avidità i minerali dal sottosuolo. Si ripete, tristemente, il patrono degli incidenti che recentemente è stato documentato dal quotidiano La Jornada sulle compagnie minerarie che lavorano in Chiapas. Il tema dell’esplorazione e dello sfruttamento minerario in America Centrale si è fatto più interessante negli ultimi anni. Questo sia a causa dell’aumento dei prezzi nei mercati mondiali (l’oro, +19,1% nel periodo compreso tra il 2003 e il 2004, è passato da 363.44 a 433.15 USD l’oncia; l’argento, +59,7%, da 4,90 a 7,63; ecc.); sia per l’approvazione, in molti paesi della regione e in tutta America Latina, di una legislazione “troppo aperta” sugli investimenti sulla ricchezza mineraria, ma in ogni modo patrocinata dalla Banca mondiale, il Guatemala, l’Honduras e il Messico (per citarne alcuni) stanno concedendo diverse concessioni, la maggior parte ad imprese internazionali statunitensi e canadesi. Il passato mese di agosto, La Jornada ha pubblicato una serie di reportage a cura di Rosa Rojas, riguardo alla situazione delle miniere in Chiapas dove si evidenzia che in questa regione il governo federale solo negli ultimi cinque anni ha concesso espropriazione e lo sfruttamento minerario di 357 ettari di terra. Gli episodi di violazione dei diritti umani relazionati all’attività mineraria sono numerosi, così come lo sono state le manifestazioni e le azioni di gruppi (tra cui indigeni e contadini) colpiti per le esplorazioni e lo sfruttamento delle miniere. Tra questi, bisogna evidenziare il caso del Marlin Project, una storia dell’America Centrale purtroppo come tante di violenza, repressione e di resistenza contro un governo che vende o meglio, regala i beni della Nazione a favore d’interessi economici stranieri. Lo scorso 8 settembre, la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto riguardante il Marlin Project realizzato dal Compliance Advisor/Ombudsman Office. Questo ufficio si 32 trova all’interno dell’ International Finance Corporation (IFC), braccio destro della Banca Mondiale che concede prestiti a privati e che aveva prestato 45 milioni di dollari a la Glamis Gold, impresa internazionale canadese che tramite la sua filiale guatemalteca Montana Exploradora si sta occupando del Marlin Project. Il rapporto è stato scritto dopo aver ricevuto nel gennaio del 2005 una denuncia formale contro la IFC che finanzia lo sfruttamento a cielo apero di metalli, concesso all’impresa “Montana Exploradora del Guatemala”. La denuncia, diretta a la IFC da parte di Magali Rey Rosa del collettivo “Madre Selva”, un’organizzazione civile guatemalteca attiva contro le concessioni minerarie (più di 550 nel paese e che occupano più del 10% del territorio nazionale). Questo documento riconosce che i rapporti del progetto presentati ai lider delle comunità indigene non evidenziano con precisione i possibili impatti negativi del progetto e critica la ricerca che la Banca Mondiale dovrebbe in teoria effettuare, secondo quanto dettano le sue regole interne e le leggi internazionali (in particolare, l’articolo 169 dell’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro). Inoltre il documento mette in dubbio il fatto che il progetto rispetti gli accordi firmati negli atti della Politica di Sicurezza Sociale e Medio Ambiente della Banca Mondiale. Nel frattempo, il 18 giugno le comuntità del municipio di Sipacapa si riunirono in assemblea popolare per pronunciarsi contro la presenza nel terriotorio municipale della miniera di Marlin. Ma nè l’impresa, nè il governo guatemalteco ha manifestato interesse sui risultati che l’assemblea popolare ha raggunto, alla quale partecipò il 98% dei cittadini riuniti in assemblee comunitarie per discutere i pro e i contra del progetto. Dodici delle tredici comunità del municipio si sono dichiarate contro la miniera di Marlin. Il progetto ancora non si è sviluppato al massimo ma nonostante ciò a già provocato le prime vittime attraverso la contaminazione dell’ambiente. Vite perse Raul Castro aveva 37 anni quando, insieme a migliaia di contadini guatemaltechi delle provincie di Quiche e di Solola, prese parte alla protesta che ha bloccato le autostrade di Los Encuentros. Proprio qui ostruirono il passaggio ad un cilindro, un enorme tubo di acciaio utilizzato per lo sfruttamento delle miniere, tubo di proprietà della Montana Exploradora S.A., la filiale guatemalteca della Glamis Gold che sfruttava prima una cava d’oro, il Marlin Project, nel dipartimento di San Marcos. Il 9 gennaio del 2005, con l’inizio del quarantesimo giorno di blocco della circolazione, il governo annunciò l’intervento dell’esercito: “Non c’è più niente su cui discutere. Già abbiamo dialogato con le autorità e non possiamo ancora permettere che chiunque faccia ciò che vuole”, affermò il segretario Carlos Vielman alla agenzia Associated Press. Due giorni dopo, Raul Castro morì durante lo scontro tra i militari e i manifestanti a Los Recuerdos. Domenica 13 marzo 2005, Alvaro Benigno di 23 anni stava ritornando alla sua abitazione dopo aver assistito al concerto del coro di San Miguel Ixtahuacan, nel dipartimento di San Marcos, quando durante il tragitto si trovò difronte Ludwin Waldemar Calderon e Guillermo Lanuza, guardie giurate contrattate dal Gruppo Golan, incaricato di provvedere alla sicurezza del Marlin Project. I due gli barrarono la strada e gli spararono 5 o 6 colpi di pistola a bruciapelo. La morte di Alvaro Benigno, che lascia una moglie e una figlia di tre anni, è un messaggio per la popolazione di San Miguel e per quanti lottano contro l’attuazione del progetto. Gli inversionisti vengono prima Mentre si rafforza l’opposizione contro l’attività mineraria in tutto il Guatemala, opposizione coordinata dal Fronte nazionale contro lo sfruttamento delle miniere e dalla chiesa cattolica, il presidente guatemalteco Oscar Berger si giustifica affermando che “bisogna difendere gli interessi degli inversionisti”. A maggior ragione se si tratta della Banca Mondiale che partecipa al progetto con un prestito di 35 milioni di dollari alla Glamis Gold e la IFC con un’inversione 33 diretta di 10 milioni di dollari. Con simili interessi, risulta impossibile pensare che qualsiasi governo, di qualsiasi schiaremento politico, possa prendere ferme decisioni a favore dei propri cittadini. Il finanziamento della Banca Mondiale rappresenta per la Glamis Gold un salvacondotto, “con l’obiettivo di mitigare i rischi politici e sociali del progetto”. Secondo le organizzazioni sociali che si oppongono al Marlin Project, “è chiaro che la partecipazione della IFC risulta essere una sicurezza politica per la Glamis”, perchè come scrive Sandra Cuffe, esperta di problemi relazionati alla industria mineraria in Guatemala e in Hunduras (in un docuemento realizzato per la ONG canadese Rights Action), i governi stranieri non volgiono interferire con un progetto della Banca Mondiale. Il progetto si sviluppa rapidamente e in più circola la voce che le attività di sfruttamento iniziino prima della fine del 2005, anticipando di un anno l’inizio previsto. Nel frattempo continuano le minaccie contro tutti quelli che, non impauriti dagli assassini di Raul Castro e Alvaro Benigno, continuano a opporsi pubblicamnete a la nuova cava. Lo scorso 5 aprile, venne trovato in fiamme una macchian di proprietà della Fondazione Maya (FUNDAMAYA), organizzazione integrante del Fronte nazionale contro la industria mineraria. Il messaggio era diretto a Carlos Humberto Guarquez, Dominga Vasquez e al marito di quest’ultima, Alfonso Guarquez. Il primo membro attivo di FUNDAMAYA, la signora Vasquez è il sindaco del comune di Solola e partecipò attivamente al blocco che portò alla morte Raul Castro. Il marito del sindaco, giornalista, aveva scritto vari articoli in cui spiegava i motivi dei manifestanti. “Questo succede, Signor Carlos Humberto per aver partecipato a queste stupitaggini della società civile; domani sarà il giorno per te di lasciare questo mondo; ogni cosa arriva al suo termine, anche per la Signora Dominga e per suo marito Alfonso Guarquez” vi era scritto in castigliano insicuro e pieno di errori di ortografia in una delle 5 lettere trovate al lato dell’automobile bruciata. Una “miniera d’oro” Il destino del Marlin Project è diventare una vera miniera d’oro per la impresa canadese. Secondo lo studio sull’impatto ambientale, il progetto garantirà all’impresa profitti globali per 707 milioni di dollari nei dieci anni previsti per le estrazioni. Di tutto il guadagno solo 1% rimarebbe in Guatemala, a causa della logica delle esenzioni pagate dalla Glamis Gold in cambio delle concessioni e delle licenze. Una miseria che andrà divisa tra il governo federale e quello municipale, secondo quanto stabilisce la Legge dell’attività mineraria approvata nel 1997 con la benedizione della banca Mondiale e delle multinazionali del settore. La Glamis Gold pensa che il progetto avrà una durata di 13 anni, durante i quali saranno estratti 2.1 milioni di oncie d’oro e 29.2 milioni oncie di argento (combinando sia le attività a cielo aperto sia quelle sotterranee). La spesa reale per estrarre l’oro è di 107 dollari la oncia e il prezzo sul mercato mondiale sul finire del 2004 era di 433.15 dollari la oncia. Un’analisi del febbraio 2004 del ricercatore indipendente Robert E. Moran, basato sullo studio sull’impatto ambientale del progetto, a sua volta realizzato dalla Glamis Gold sulla base di un modello studiato dalla IFC per la attività d’estrazione, evidenzia la insostenibilità sociale e ambientale di questi enormi profitti, i cui effetti si manifesteranno ai danni della popolazione dei comuni di San Miguel Ixtahuacan e di Sipacapa. Lo studio, conclude Moran, è privo di “un sistema permanente di controllo dell’acqua, di dati attuali sulla disponibilità dell’acqua all’interno della regione, di informazioni sulla composizione chimica della vena metallifera, delle roccie di scarico e i restanti residui. Infine mancano misure per i possibili effetti tossici che potrebbero danneggiare gli organismi viventi dei suddetti residui e delle roccie di scarico”. Alla fine, non ci sarà nessun beneficio per gli abitanti che rimarranno con montagne di rifiuti: 38 milioni di roccie polverizzate – e la terra, i fiumi e le falde acquifere contaminate. Tutto questo in cambio di 1,400 posti di lavoro durante il primo anno di apertura della cava, e 180 durante i 10 anni successivi. 34 Strane consultazioni La Defensoria Q’echi’ un’organizzazione indigena che lavora per difendere i diritti umani, dichiara che “la concessione di centinaia di autorizzazioni da parte del Ministero per l’energia e le attività minerarie constituisce una grave violazione dei diritti per migliaia di guatemaltechi indigeni, che non sono stati consultati nè informati del fatto che, i diritti di proprietà del sottosuolo delle proprie terre sono stati concessi ad una compagnia mineraria”. In base all’Accordo 169 della OIT riguardo i diritti dei popoli indigeni e tribali, rattificato dal Guatemala come parte integrante degli Accordi di Pace del 1996, i movementi sociali del paese rivendicano la illegalità del Marlin Project. Nonostante la Glamis dichiari di aver consultato le popolazioni indigene ’colpite’ dal progetto, una ricerca indipendente realizzata dal giornale gautemalteco Prensa Libre nel novembre del 2004, dimostra che il 37.5% delle persone danneggiate dalla cava non sapevano niente della concessione mineraria. Altri, secondo quanto riportato in un documento datato marzo 2005 e pubblicato dalla Bank Information Center (Centro di Informazione sulla Banca), “si lamentavano del fatto che la impresa parlasse solo dei benefici del progetto, senza informare riguardo i rischi per la salute e per il medioambiente”. Il 95% del totale degli intervistati dall Prensa Libre si dichiarò contro il progetto, invalidando quindi quanto asseverato dalla Glamis Gold. Secondo la impresa, il progetto disponeva “di un amplio appoggio tra le comunità”. L’opinione pubblica sulla Glamis no migliorerà con la creazione della Fondazione Sierra Madre, che insieme al prestito concesso dalla IFC della Banca Mondiale, sono considerate iniziative volte ad ottenere un salvacondotta per il Marlin Project. Un processo di sviluppo comunitario basado sul rispetto della cosmovisione dei maya delle comunità del dipartimento di San Marcos, sostengono questi, non può essere definito da un multinazionale interessata esclusivamente a difendere i propri profitti. Impresa VS comunita’: diverse idee di sviluppo “La visione dello sviluppo delle comunità indigene, delle Ong e degli attivisti che lottano contro la povertà è diversa, per molti aspetti, dalla visione dominante”, sostiene Rigths Action, organizzazione canadese che appoggia la lotta contro l’industria mineraria delle comunità indigene del Guatemala e dell’Honduras. “Protestando contro gli interessi delle compagnie menerarie candesi e statunitiensi, le comunità locali e le organizzazioni stanno lottando per un’idea di sviluppo controllata e definita a partire dalle esigenze delle stesse comunità”, conclude la Ong canadese. Risulta assurda la dichiarazione della Glamis Gold che considera tutti quelli che si oppongono al suo progetto “una minoranza di attivisti del antisviluppo“. Sono, secondo la impresa, agitatori stranieri che arrivano mobilitare la popolazione guatemalteca, che apparentemente non può da sola rendersi conto degli staordianri benefici portati dalle attività minerarie, che rappresentano lo sviluppo, così semplicemente per lo meno nell’ideologia della compagnia. A tal proposito la Banca Mondiale pensa che: “Il settore dell’attività mineraria è un’industria essenziale e un cammino non immediato ma importante per aiutare i poveri ad ottenere alcuni dei benefici della società moderna”. Come per esempio, l’autostrada che congiungerà le comunità di Concepcion Tutuapa e di San Miguel Ixtahuacan. Sono venti chilometri di autostrada e quindi un’inversione di 5 milioni di dollari, secondo quanto annunciò la Glamis Gold il 6 settembre in presenza del presidente del Guatemala Oscar Berger, che ringraziò la impresa con parole commuoventi: “nessuno ci perderà; tutti ci guadagneremo. San Miguel ci guadagnerà grazie a nuovi posti di lavoro, alle attività economiche e alle infrastrutture...Questo è un progetto esemplare”. Tutto ciò venne detto alcuni giorni prima che si pubblicasse il rapporto del Compliance Advisor/Ombudsman office. Nonstante questa nuova autostrada, ancora è lungo il cammino per la giustizia per un popolo che non si è ancora risollevato dalle ferite di 35 36 anni di guerra civile, che insanguinarono il paese fino al 1996. Ferite che si sono riaperte in seguito alla rattificazione, nel marzo 2005, dell’Accordo di Libero Commercio con il Centro America (Central American Free Trade Agreement, CAFTA, secondo la sigla in inglese), che sottomette di nuovo il Guatemala al dominio degli Stati Uniti d’America. Come 50 anni fà, quando il governo del presidente ’comunista’ Jacobo Arbenz fu sconfitto a causa del colpo di stato, elaborato dalla Cia e quindi lla Agenzia Centrale di Inteligenza del governo statunitense. 36 5. La corsa all’oro è ricominciata. Da Repubblica delle banane a Repubblica delle miniere di Luca Martinelli Settant’anni fa a controllare Honduras erano le compagnie bananiere –le ‘nonne’ della Chiquita e della Dole–; oggi –invece– la piccola Repubblica centroamericana è alla mérce delle imprese minerarie, per lo più canadesi e statunitensi. Le concessioni già rilasciate coprono più di un terzo del territorio nazionale (112.088 km2 la superficie di Honduras), ma quando verranno accettate le 147 richieste avanzate negli ultimi due anni si arriverà al 45,2%. La metà di un paese ‘regalato’ all’industria estrattiva in cambio di briciole: le royalty sono dell’1%, secondo uno standard imposto dalla Banca Mondiale, che negli ultimi anni ha contribuito a riscrivere le leggi minerarie in una settantina di paesi; il Governo è incapace, a causa della corruzione (l’Honduras occupa il 107° posto su 159 paesi nella classifica di Transparency International, vedi Ae n. 64), –ma anche impossibilitato, a causa della morsa del debito estero–, di governare le risorse naturali (minerali, foreste, pianure alluvionali, spiagge) nell’interesse del paese e dei cittadini. Una storia vecchia come il mondo, o almeno come la Conquista, quella delle miniere in America Latina, descritta splendidamente da Eduardo Galeano nel suo Le vene aperte dell’America Latina; la storia che ritorna, oggi che l’oro tocca i 520 dollari la oncia (31 grammi, circa), il valore più alto degli ultimi 22 anni, e sono lontani gli anni 90 (un’oncia scambiata per 253,2 dollari). La corsa è ricominciata. «La nuova Ley de Mineria, approvata subito dopo l’uragano Mitch che colpì Honduras e tutto il Centro America nel 1998, venne presentata come una strategia per la riduzione della povertà: avrebbe attratto gli investimenti esteri e generato posti di lavoro», spiega Salvador Zuniga del Copinh –il Consiglio civico di organizzazioni popolari e indigene di Honduras–. Una bella favola, a cui non crede nessuno: la Ley, affermano funzionari del DEFOMIN – Dirección Ejecutiva de Fomento a la Minería, l’organo di verifica della regolarità delle concessioni, invitato però (e di fatto) a fomentare l’attività estrattiva–, è stata scritta dall’ANAMIN, il cartello delle imprese minerarie. Non a caso, perciò, promuove gli interessi di queste: un'unica licenza le autorizza ad avviare le attività di esplorazione e di sfruttamento delle miniere (exploración y explotación in spagnolo, fino al 1999 erano necessari due permessi distinti). Pensate: se tutti i concessionari iniziassero insieme le attività estrattive, Honduras diventerebbe un’unica, grande, miniera; le imprese, poi, possono espropriare “per ragioni di pubblica utilità” terreni confinanti con le concessioni, anche quando «i legittimi proprietari non danno il permesso», e «utilizzare [tutte] le acque, dentro e fuori la concessione». Un saccheggio legalizzato, insomma. Come quello della miniera San Martin, nel Valle del 37 Siria, «eletta –ci racconta Sandra Cuffe, canadese, attivista e ricercatrice, in Honduras da tre anni per Rights Action– a simbolo della minaccia portata dalla nuova legge». Nel 2000 sono iniziate le attività estrattive di Entre Mares, sussidiaria hondureña della canadese Glamis Gold, e da allora niente è più come prima. La minaccia più grande si chiama cianuro. Secondo lo studio d’impatto ambientale, «l’oro può essere estratto a basso costo, e ciò assicura la sostenibilità economica del progetto». Come? La San Martin è una miniera a cielo aperto e i costi (economici) d’estrazione sono fino a 10 volte più bassi. Utilizza, però, un processo ad alto impatto ambientale e energetico: prima si tagliano tutti gli alberi e si fa saltare il coperchio –migliaia di tonnellate di terra, liberando nell’ambiente altri minerali potenzialmente dannosi–, poi si estrae l’oro – disseminato nella roccia– utilizzando il cianuro per separarlo dagli altri minerali. La miniera crea 18mila t di detriti rocciosi al giorno (per dieci anni) e impiega –ogni anno– 6mila t di cianuro di sodio (è sufficiente una molecola ad uccidere un organismo vivente delle dimensioni di un grosso pappagallo. Nel gennaio 2003, una fuga avvenne nella miniera d’argento San Andrés, sempre in Honduras: almeno 18.000 pesci morirono nel Río Lara, da cui si riforniscono di acqua numerose comunità indigene e la città di Santa Rosa de Copán); l’acqua utilizzata nel processo – «Siamo autorizzati al consumo di 220 galloni (832.8 litri) al minuto», commenta il direttore di Entre Mares, e fatti due conti risultano oltre 650milioni di litri d’acqua all’anno– viene reimmessa nell’ambiente. Inquinata. Nel corso del 2004 la Caritas Arcidiocesana di Honduras ha fatto svolgere analisi indipendenti – autorizzate da Entre Mares e dal DEFOMIN– su campioni di acqua e di detriti (7, prelevati in 6 differenti siti alla presenza di rappresentanti dell’impresa e del Governo). In quattro dei sette campioni d’acqua è presente arsenico (ben) oltre il livello di guardia (fino a 0,054mg/l quando il limite consentito è di 0,01); in tre dei sette campioni di sedimenti è presente mercurio (6,27mg/kg con una soglia di guardia di 0,11). Gli effetti si fanno sentire: la gente si ammala –malattie della pelle, respiratorie e gastrointestinali– e, al di là delle giustificazioni dell’impresa –«È per la sporcizia e per il contatto con gli animali»–, le malattie sono legate all’inizio delle attività estrattive. Il dottor Juan Almendares e la fondazione Madre Tierra hanno realizzato periodiche brigate mediche nel Valle del Siria. Alla fine del 2003 –l’ultimo dato a disposizione–, il 98% della popolazione di El Pedernal (la comunità più vicina alla miniera, 1.690 abitanti) soffriva di problemi dermatologici (con un aumento significativo, rispetto al 12% del 2001), il 30% di malattie respiratorie, il 36% di patologie neurologiche (insonnia, stress, ansia); secondo un’inchiesta della rivista El Libertador, invece, nel 17,7% delle famiglie ci sono più di due persone malate. A causa dei prelievi selvaggi dell’impresa anche l’acqua scarseggia. In una regione che era il granaio della capitale, Tegucigalpa, 70km più a sud, la gente è costretta oggi a comprare mais e fagioli; i raccolti si sono ridotti del 15-20% e circolano meno soldi, ma adesso –secondo El Libertador– l’83,9% degli abitanti di El Pedernal, situata agua abajo rispetto alla miniera, deve acquistare l’acqua da bere e per cucinare. La popolazione è esasperata e si acuisce la lotta contro la miniera San Martin: la guidano il Comité Ambientalista Valle de Siria e il neonato SITRAMEMHSA, Sindicato de Trabajadores de Minerales Entre Mares de Honduras S.A., cui hanno aderito 190 dei 260 lavoratori della miniera. Nel 2004, un alleanza di organizzazioni della società civile ha anche presentato una proposta di riforma della Ley de Mineria, che il Governo non ha nemmeno preso in considerazione. Poco importa abbia le mani in pasta o le mani legate, il risultato non cambia. 38 SCHEDA 1 :: HONDURAS Sette milioni di abitanti sparsi su un territorio grande un terzo dell’Italia, Honduras è l’unico tra i paesi centroamericani a non aver conosciuto, negli anni tra il 1970 e il 1990, l’insorgere di un esercito di liberazione nazionale. Anzi: dalla base Usa di Palmerola, in Honduras, si muovevano le truppe dei contras, addestrate per combattere le guerriglie in Nicaragua ed El Salvador. Governato da una dittatura militare –quasi ininterrottamente– fin dagli anni 30, le prime elezioni libere si sono svolte nel 1981. Da allora, il Partito Nazionale (PN) e il Partito Liberale (PL) condividono potere ed interessi economici, in un bipartitismo perfetto. Nelle ultime elezioni – tenutesi il 26 novembre del 2005– PN e PL hanno raccolto il 95% dei voti (per la cronaca, ha vinto Mel Zelaya, del PL, che sarà presidente per i prossimi 4 anni); i partiti minori –Democrazia Cristiana (DC), Unificazione Democratica (UD) e Partito per l’Innovazione e l’Unificazione Nazionale (PINU)– avranno, in tre, meno di dieci seggi al Congresso. Poche famiglie –legate ai due partiti di governo– si fanno sempre più ricche mentre il resto del paese affonda: il 10% degli hondureñi controlla quasi il 40% della ricchezza, in perfetta media centroamericana, mentre il PIL procapite –900$ l’anno– è il più basso della regione dopo quello del Nicaragua; il 63% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (nelle aree rurali, dove vive la metà degli hondureñi e la totalità di quanti appartengono ad una etnia indigena, la povertà riguarda i 3/4 della popolazione); almeno 650mila famiglie dipendono dalle rimesse degli immigrati, 1miliardo e mezzo di dollari (quasi il 10% del PIL) nel 2005. Come ultimo regalo al paese, il presidente uscente –Maduro del PN– ha firmato il CAFTA, Central America Free Trade Agreement, poi ratificato dal Congresso. Il trattato, in vigore dal 2006, aggraverà la dipendenza di Honduras dall’economia Usa: già oggi, oltre la metà delle importazioni arrivano dagli Stati Uniti d’America e supera il Río Bravo il 69% dell’export di Honduras. L'Honduras si trova in Centro America, ha poco meno di 7.000.000 di abitanti ed una estensione inferiore a quella del Nord Italia. La sua posizione e conformazione favorisce l'esistenza di biodiversità (sempre più rare nel mondo!). Ricco di acqua dolce, di giacimenti minerari, di oro e argento, di terre fertili, di boschi antichi di legno pregiato e tanto altro. La realtà dell’Honduras non é molto diversa da quella di una miriade di altri paesi del cosiddetto “terzo mondo”, ricchissimo di risorse di ogni genere e con una popolazione ridotta all’estrema povertà. Queste immense ricchezze da sempre sono state gestite da una ristretta elite che, legata ai dettami derivati dai governi e dalle imprese straniere (specialmente nordamericane) , non é nulla più che il prolungamento dei tentacoli delle imprese stesse. L’Honduras, a differenza dei paesi del Centro America con cui confina (Guatemala, Nicaragua, El Salvador), non ha vissuto né lunghe guerre né rivoluzioni, ma é stato ugualmente governato da lunghe dittature e da regimi militari che non attuavano diversamente da quelle degli altri paesi. Alcune cifre ci servono a delineare un quadro della situazione che si vive in questo paese. Un quadro molto triste perché, leggendo la denuncia fatta dal rappresentante della FAO in Honduras nel corso del 2003, l’80% della popolazione vive in condizioni di povertà e non ha accesso a servizi sociali di base. Il 40% dei bambini soffre di malnutrizione. Ogni giorno muoiono circa 100 persone per patologie legate alla carenza di cibo ed all’ingestione di acqua contaminata, in special modo bambini. Nelle zone rurali il tasso di mortalità infantile é di 7 bambini su 10. Per quanto riguarda l’istruzione risulta che 1.200.000 persone sono analfabete e che 1.500.000 degli honduregni tra i 5 ed i 24 anni sono esclusi dal sistema educativo. Negli ultimi anni il déficit commerciale é cresciuto del 400% rispetto alla produzione nazionale totale. Da altre fonti risulta che, dal 1998, i casi di assassinio e di esecuzioni extragiudiziali di minorenni sono stati più di 2.300. Il governo stesso ha riconosciuto che agenti di polizia hanno partecipato in molti di questi assassinii. L’impunità é assoluta. 39 Dal rapporto annuale di Amnesty Internacional risulta che Bambini e minorenni, compresi soggetti in stato di arresto, sono stati uccisi da agenti di polizia, da personale penitenziario o da individui non identificati (squadroni della morte). Solo nel 2004, in due diversi penitenziari, sono rimaste uccise prima 69 persone (in aprile) e poi piú di 100 (in maggio) a seguito di “strani incidenti”. Specialmente nella zona della Costa settentrionale, aumenta inverosimilmente il turismo sessuale. Aumenta il numero delle persone che spariscono perché finite nella rete di una sorta di “tratta di donne e bambini” a scopo di sfruttamento sessuale. Il numero di ammalati di AIDS é tuttora incalcolabile, anche se la malattia é oggi la terza causa di morte negli ospedali pubblici. Sono altrettanto incalcolabili, per la loro enormità, le cifre che corrispondono al lavoro infantile. Potremmo andare avanti a scrivere cifre su cifre e tutte rispecchierebbero una situazione estremamente preoccupante e crescente di deterioramento delle condizioni sociali ed economiche. Il paese vive una profonda crisi derivata dall’ingiusto modello economico applicato da sempre e dalla degenerazione etica della classe politica dirigente. Conoscendo questo paese e le sue immense risorse questa situazione pare quasi incredibile, ma proprio queste risorse sono la causa dell’impoverimento delle masse popolari e dell’arricchimento dei soliti pochi. Le materie prime e la mano d’opera hanno costi bassissimi, quindi le grandi multinazionali stanno letteralmente invadendo il paese con maquillas (fabbriche di assemblaggio), sfruttamento minerario, etc. I popoli indigeni d’Honduras L’Honduras é un paese multietnico e multiculturale, il 12% della popolazione é indigena, suddivisa in 7 principali etnie (Lenca, Garifuna, Thawaka, Miskito, Pech, Tolupane e Chortì). Questi popoli vivono in uno stato sconcertante di abbandono da parte del governo, emarginati socialmente, politicamente ed economicamente. Il Governo ha ratificato la Convenzione 169 della O.I.L. (Organizzazione Internazionale del Lavoro, ossia la normativa a livello mondiale sui diritti dei popoli indigeni) nel 1994, ma non l’ha mai rispettata. Se il popolo honduregno é ridotto alla fame, gli indigeni del paese lo sono doppiamente. Sono poche le comunità indigene che hanno una scuola o un centro di salute o buone strade. Non viene riconosciuto il diritto alla terra a livello comunitario, così come é nella loro cultura. La mortalità infantile raggiunge cifre spaventose e le condizioni di vita sono di indigenza assoluta. Il popolo Lenca è il più numeroso. E’ un popolo umile, solare e fortemente legato alla propria terra. Il loro modello di vita è semplice (sono quasi tutti contadini) e strettamente legato alla natura. La loro "cosmovisione" si presenta come matura consapevolezza di dover abitare questo pianeta non come dominatori degli altri esseri viventi e della natura tutta, ma come parte di un ordine naturale armonioso, fragile e complesso col quale coesistere in armonia. Secondo un'economia orientata a garantire e trasmettere la vita, con una visione dei rapporti sociali comunitaria e non di competizione individualista, con una spiritualità che arricchisca la vita. Purtroppo sono sempre meno le terre a loro disposizione e questo implica, oltre che la povertà assoluta vista la loro predisposizione contadina, anche la perdita d’identità indigena e comunitaria in quanto obbligati a spostarsi verso le zone urbane. Luca Martinelli 40 6. Il cartello del legno in Honduras di Luca Martinelli “Difendiamo i boschi”. In Honduras è poco più che uno slogan, riportato sulle targhe di tutti i veicoli immatricolati nel paese. Il Governo, gli amministratori pubblici e gli imprenditori più ricchi e potenti della piccola Repubblica centroamericana (112mila kmq di superficie, circa 7 milioni di abitanti) formano un cartello che in nome del profitto sta mettendo a rischio le risorse forestali di Honduras. Per legge, 24 leyes differenti, la più importante delle quali è la Ley Forestal del 1972, è possibile tagliare fino 1,2 milioni di metri cubi di legname ogni anno, anche se la cifra reale è sicuramente maggiore, “perché non esiste alcun controllo sullo sfruttamento illegale delle foreste”. Non sono solo le Ong ambientaliste a denunciarlo; ad ammetterlo è Gustavo Morales, già responsabile della gestione forestale per conto del Governo honduregno. Tra il 1990 ed il 2000, l’Honduras ha perso circa il 10% della propria superficie forestale (5,4 milioni di ettari, in totale, nel 2000). Secondo uno studio del 2003, la metà dei pini -che rappresentano il 96% degli alberi tagliati e la maggior parte del legname esportato- e l’80% del mogano -più prezioso- vengono tagliati illegalmente. Olancho, il più grande tra i dipartimenti in cui è diviso l’Honduras, con una superficie di oltre 24.500 kmq, è anche la riserva forestale del paese. Quasi il 50% delle foreste di Honduras si trovano nei suoi confini. Non per molto, però: secondo il Movimento Ambientalista dell’Olancho (MAO), in lotta contro i tagli illegali, ogni cinque minuti si distrugge un ettaro di bosco. 120 camion escono ogni giorno dall’Olancho caricando almeno 20 metri cubi di legname. 10 milioni di alberi sono tagliati ogni anno. Leader del MAO è Padre Andrés Tamayo, sacerdote salvadoregno parroco nel municipio di Salamà: “Ho visto gli alberi scomparire e le piogge ridursi, e i contadini iniziare a perdere i propri raccolti e soffrire la fame. Questo mi ha fatto prendere la decisione di pronunciarmi per la loro difesa”. Così Tamayo spiega il proprio impegno, che lo ha portato nell’aprile di quest’anno a ricevere negli Stati Uniti d’America il prestigioso Goldman Prize, una sorta di premio Nobel per l’ambiente. Intanto, proprio dagli Usa arriva la conferma dell’esistenza di una “rete per la depredazione forestale in Honduras”. Una ricerca sul campo realizzata nel corso del 2005 dall’Agenzia per l’Investigazione Ambientale (EIA) e dal Center for International Policy (CIP) denuncia, tra l’altro, la devastazione della Riserva della Biosfera del Rìo Platano, la più grande del paese, che copre 800.000 ettari nella regione nordorientale di Honduras, tra i dipartimenti di Colòn, Gracias a Dios e Olancho. Stabilita nel 1980 per proteggere una sezione vitale del Corridoio Biologico Mesoamericano, si stima che già un 10% della Riserva sia stato ‘tagliato’ (illegalmente). Tanto che, dal 1996, l’UNESCO classifica l’area “in pericolo”. I ricercatori dell’EIA, spacciandosi per imprenditori stranieri interessati ad investire in Honduras, hanno intervistato alcuni dei principali industriali del settore. Il più ricco è senz’altro il cubano José Lamas, “l’intoccabile”. Quando nel 2004 la Magistratura cercò di indagarlo, sparirono 41 dagli uffici della Cohdefor ( la Corporacion Honduregna de Desarrollo Forestal) tutti i documenti che autorizzavano le sue attività. La sua Aljoma Lumber, con sede a Medley, in Florida, è il principale importatore di legname honduregno negli Usa: 70 milioni di tavole all’anno (il 60% dell’export del paese), per un fatturato di oltre 200milioni di dollari. Lo stesso Lamas è presidente e principale azionista di Bamer (Banco Mercantil de Honduras), che riunisce i più grandi speculatori del paese finanziandone gli investimenti (tra gli ultimi, quelli per il controllo dei quattro aeroporti internazionali di Honduras e per partecipare al progetto di sviluppo turistico della Bahia de Tela, che vede interessati anche capitali italiani). L’EIA ha incontrato anche Gilma Noriega, figlia di Guillermo, titolare di Maderas Noriega, un’altra impresa che esporta vari milioni di tavole ogni mese, principalmente verso gli Stati Uniti d’America e il mercato europeo. “Attualmente, pagando non avrà problemi con il Governo”, ha risposto a chi gli chiedeva come ‘entrare’ nel mercato honduregno del legname. E ancora: “Lavoriamo in Olancho da 16 anni. Basta trovare un accordo con il sindaco, e pagarlo perché le permetta di continuare”. La corruzione tocca, naturalmente, anche le strutture governative. Nel 2004, il direttore di Cohdefor, Gustavo Morales, è stato costretto a dimettersi proprio per aver favorito Noriega, concedendo permessi di taglio in Olancho. La corruzione nella Cohdefor è pratica comune: molti ingegneri e tecnici accettano mazzette per ‘segnare’ più alberi di quelli per i quali ufficialmente si è dato il permesso di taglio, facilitando in questo modo il taglio illegale; gli impiegati incaricati delle ispezioni informano gli industriali prima di realizzarle. Spesso, poi, quando si tratta di visitare le regioni prima di concedere i permessi, il viaggio dei funzionari di Cohdefor è pagato dalle stesse imprese. Dal taglio al trasporto: agenti di polizia permettono il passaggio di camion che caricano un volume di legname con documenti falsificati o utilizzati illegalmente per numerosi carichi. Un vero e proprio “cartello” cui le organizzazioni ambientaliste hanno risposto organizzando una Marcha por la vida e chiedendo una moratoria al taglio nella regione orientale del paese. Nulla, purtroppo, la risposta delle autorità. 42 7. Bahia de Tela Il capitale italiano all’assalto delle spiagge Garifuna di Luca Martinelli «Vivevamo, poveri ma tranquilli». Ha le idee chiare il vicepresidente del Patronato di Triunfo de la Cruz, una comunità garifuna situata nel golfo di Tela, lungo la Costa Atlantica di Honduras. I garifunas, i negri di Honduras, sono centocinquantamila, il 2% della popolazione nazionale secondo le statistiche ufficiali; sono cinque o seicentomila (compresi quelli che vivono all’estero, principalmente negli Stati Uniti d’America) secondo i dirigenti di Ofraneh, l’Organización fraternal de los negros de Honduras che lavora dagli anni settanta in una trentina di comunità, dislocate lungo tutta la Costa Atlantica del Paese centroamericano. I discendenti dei primi garifunas giunti in Honduras alla fine del settecento, provenienti dell’isola caraibica di Sao Vicente, sopravvivevano dedicandosi alla pesca e all’agricoltura: poveri ma tranquilli. A metà degli anni novanta, però, il Governo ha deciso che le loro terre erano una risorsa per il Paese; e che loro, che lì vivono da 209 anni, dove sono arrivati «ben prima dell’indipendenza del Paese dalla Spagna» – come ci tiene a sottolineare Ofraneh –, erano di troppo. Da allora non c’è più pace per i garifunas, costretti a combattere una guerra impari contro alcune delle famiglie più ricche e potenti del Paese. Il nodo del problema è il turismo: per il Governo (e alcuni imprenditori che ne muovono i fili) è l’unica salvezza per la disastrata economia del Paese; lo ha scritto anche il Washington post (gennaio 2004) che l’Honduras è oggi una delle prime dieci destinazioni turistiche a livello mondiale. L’ex ministro del Turismo Thierry de Pierrafeu (il Governo è cambiato il 27 gennaio scorso, dopo le elezioni di fine novembre) lo definisce “Eco-etno turismo”: mettere a disposizione del turista la natura del paese e la ricchezza culturale dei suoi popoli originari. Svenderle, secondo i garifuna: non credono che il turismo porterà prosperità e lavoro per la gente delle comunità. «Al più ci chiameranno a lavorare come camerieri, o per sculettare nei nostri “balli tradizionali”» racconta il presidente del Patronato. Nel 1992 ci fu il primo tentativo di investire a Triunfo de la Cruz. Il progetto si chiamava Marbella: un complesso residenziale lungo una striscia di sabbia di almeno tre km, dal villaggio fino alla riserva naturale di Punta Izopo. Ville e villette con giardino in riva al mare, piscina e belle mura in cemento armato. Per aggirare la legislazione nazionale, che protegge l’inalienabilità delle terre comunitarie, protette dalla Costituzione (oltre che dalla Convezione n. 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata dall’Honduras nel giugno 1994), il Governo municipale di Tela ha votato una 43 delibera secondo la quale il territorio di Triunfo de la Cruz apparteneva al centro urbano della città. Un espediente per poter iniziare a privatizzare la costa: la lottizzazione oggi va avanti con il finanziamento dell’Unione Europea nell’ambito del programma Path (Programa de Administración de Tierras de Honduras), realizzato con la collaborazione di Organizzazioni non governative che realizzano le attività di catasto (tra le altre, l’italiana Cisp, Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli www.cisp-ngo.org). Anche se l’opposizione ha fermato Marbella (solo una decina le ville effettivamente costruite, più una mezza dozzina di scheletri rimasti incompleti vicino alla spiaggia), la comunità ne paga oggi le conseguenze: Triunfo de la Cruz ha subito seri danni per le piogge torrenziali che hanno colpito l’Honduras nell’autunno del 2005. I corsi d’acqua sotterranei, ingrossati dalle piogge, hanno trovato nei muri di cemento armato un ostacolo al proprio cammino verso il mare e se lo sono aperto dove hanno potuto: tra le case della comunità. Molti hanno perso tutto. Sono nati nuovi fiumi (uno è stato ribattezzato rio Gama, dal nome dell’ultimo uragano del novembre 2005) e una parte della comunità oggi è raggiungibile solo in canoa. Per il caso Marbella Alfredo Lopez, rappresentante di Ofraneh a Triunfo de la Cruz, si è fatto sette anni di carcere. L’accusa a suo carico, montata ad hoc dai pubblici ministeri, era di traffico di sostanze stupefacenti. La sua colpa, quella di essere uno dei leader della comunità. Alfredo non è mai stato processato. «Mi hanno preso una prima volta nel 1995. Due paramilitari. Mi ha interrogato l’intelligence: mi chiedevano se sapevo cosa ci fosse in gioco con il progetto. Lì ho capito che stavamo toccando interessi forti». La detenzione definitiva avvenne il 27 aprile del 1997, a Tela. «Quattro giorno dopo il mio arresto venne ucciso in un ristorante Jesus Alverez, un altro dei leader di Triunfo», continua Alfredo. «Il movimento perdeva due persone importanti in un colpo solo. L’organizzazione era a terra e tutti i progetti collettivi si fermarono», ricorda. Nel frattempo grazie ad una Radio comunitaria Alfredo riusciva a comunicare con la sua gente e appoggiava così, dall’interno del carcere, la rinascita del Comitato, alla cui guida c’è Teresa Reyes, sua moglie. A tre anni dall’arresto, Alfredo riceve un’offerta che rispedisce al mittente: soldi in cambio del permesso per far entrare il progetto nelle comunità. Rifiuta e viene trasferito nel carcere di Puerto Cortés, a più di 200km da Triunfo de la Cruz: «Dopo cinque anni senza un processo era chiaro che fossi un prigioniero politico. Presentammo il caso alla Commissione Interamericana di Diritti Umani (CIDH) per riesaminarlo. Alla fine sono uscito dopo quasi sette anni, ma senza giustizia. Non credo che mai si farà». La nuova battaglia di Alfredo Lopez e di Ofraneh è contro “Los Micos. Beach and golf resort”. Conosciuto come proyecto Bahia de Tela, è il diamante nella strategia di sviluppo turistico di Thierry de Pierrefeu: alberghi di lusso, 2000 appartamenti, 6 multi-residences per un totale di 168 ville, centri commerciali, parchi tematici e di intrattenimento. Sono previsti anche un campo da golf e un villaggio garifuna ricostruito all’interno del complesso. In totale, un mostro di oltre 300 ettari in una zona vergine tra i villaggi di Tornabé e San Juan. Per un investimento stimato tra i 140 e i 200 milioni di dollari. Opporsi è rischioso: in novembre hanno bruciato la casa di Wilfredo Lopez di San Juan de Tela. Hanno cercato di bruciarlo vivo, insieme ai documenti raccolti sul progetto. Il 15 gennaio altri membri del Patronato e del Comité di San Juan sono stati attaccati da pistoleri al soldo di Promotora de Turismo (PROMOTOUR), l’agenzia di proprietà di Jaime Rosenthal Oliva, uno degli imprenditori più ricchi di Honduras, che pretende il controllo delle terre di San Juan Nuevo. Fanno parte, però, del titolo di proprietà collettiva della comunità de San Juan: «1775 ettari che i garifuna utilizzano dal 1911» precisano quelli di Ofraneh denunciando l’attentato. «Il Governo è infuriato con il popolo garifuna. Funzionari vengono inviati nelle comunità per spiegare i benefici di Bahia de Tela. Noi vogliamo che ci dimostrino quali saranno questi benefici», si arrabbia Miriam Miranda, coordinatrice di Ofraneh. 44 Ovunque, stanno cercando di comprare i leader comunitari: sono quasi riusciti a fermare le proteste a Tornebé e Miami, un’altra comunità della baia. A Triunfo de la Cruz sono esperti: con il Fondo Prosperidad della Banca Mondiale hanno provato a dividere il Patronato offrendo prestiti personali ad alcuni leader per avviare piccole attività economiche (forni, bed & breakfast). dell’Honduras. Hotel, villaggi vacanze, bar e internet café gestiti da compagnie occidentali sulla spiaggia bianca dei Caraibi, senza alcune ricaduta positiva – né economica (al di là dei posti di lavoro) né sociale – per la popolazione locale. Non ce l’hanno fatta: la gente ha ben presente lo sfacelo di Roatán, l’isola al largo della Costa Atlantica che è diventata la Cancún È meglio, pensano, restare poveri ma tranquilli. «Non siamo contrari al turismo. Siamo contro questo tipo di turismo». I garifuna non ne vogliono una in casa propria, anche se raccontano sia l’unico progresso possibile. 45 PARTE TERZA :: la società 8. Virginia e la maquila Storia di una donna indigena in Guatemala di Francesco Filippi Un racconto e alcune considerazioni sulle strategie di sviluppo basate sull’industria maquiladora in Guatemala e in Chiapas53. E’ la prima volta che intervisto qualcuno; dietro il registratore non mi trovo a mio agio e mi meraviglio che la persona che sta dall’altro lato si apra e mi racconti tante cose. Soprattutto quando dall’altro lato c’è una persona come Virginia. Virgina ha 25 anni, poco più di me, e un bambino di tre anni. Il padre di suo figlio non ebbe il coraggio di condividere le difficoltà di allevare ed educare un bambino e se ne andò. Così Virginia, a 22 anni, si trovò con un figlio neonato, sola e senza lavoro; senza lavoro perché nella casa dove lavorava come domestica era stata licenziata quando scoprirono che era in gravidanza. Anche dal primo lavoro che ebbe, Virginia venne 53 Il presente articolo si basa su dati, storie e informazioni reali raccolte dall’autore in varie interviste fatte in Guatemala, nel dicembre 2004, con: sindacalisti delle federazioni FESTRAS e UNSITRAGUA, esponenti del gruppo di monitoraggio indipendente COVERCO e della O.n.G. CALDH licenziata; era segretaria in un ufficio notarile e si trovava bene al lavoro. Fino a quando, per strada, un proiettile la raggiunse casualmente alle spalle, lasciandola immobile in un ospedale per un bel po’ e, soprattutto, lasciandola senza il suo posto di segretaria, poiché il suo datore di lavoro non ebbe la pazienza di aspettare che salisse dall’ospedale. Come allevare un bambino senza lavoro? Come assicurargli una vita degnitosa? Fortunatamente, il paese di Virginia, Guatemala, alle donne giovani e alle ragazzi madri come lei, offre una favolosa opportunità: lavorare in una maquiladora. I governi guatemaltechi degli ultimi 20 anni, sinceramente preoccupati, per la situazione di disoccupazione, povertà, violenza nella quale vivono centinaia di migliaia di giovani guatemaltechi, si sono impegnati in cercare e creare opportunità, prima di tutto, di lavoro. In Guatemala, la manodopera ha alcune caratteristiche peculiari: le scarse risorse economiche della quali gode la popolazione, la forte concentrazione di queste risorse nelle mani di poche persone e gli scarsi investimenti pubblici in settori quali 46 l’educazione, hanno creato grandi numeri di lavoratori non qualificati né specializzati; la crisi del caffè (uno dei principali prodotti del Guatemala), che determinò una drastica diminuizione del prezzo pagato al produttore, e del settore agricolo in generale, ha lasciato in una situazione molto grave milioni di guatemaltechi impiegati nel settore primario, i quali hanno deciso di lasciare la campagna e andare nelle città in cerca di migliori opportunità di lavoro e di vita. Questo fenomeno ha aumentato ancora di più le masse urbane disposte ad accettare qualsiasi lavoro per poter guadagnare il necessario per “tortillas e fagioli”. Che lavoro dare a queste persone ignoranti, indigenti, molte delle quali giovani e donne? Un altro elemento importante della descrizione della manodopera guatemalteca è rappresentato da una delle eredità lasciate dalla guerra: la totale disarticolazione del movimento operaio. Durante la guerra, attivisti, sindacalisti, lavoratori che semplicemente chiedevano il rispetto dei propri diritti vennero repressi, sottoposti a forti pressioni, torturati e assassinati. Il clima di paura e terrore fece si che i sindacati perdessero iscritti e appoggio: oggi la percentuale di lavoratori sindacalizzati è infima, nonostante il codice del lavoro guatemalteco garantisca la libertà sindacale. E’ così che i governi del Guatemala, assieme alle imprese nazionali, straniere e multinazionali, ebbero una grande intuizione: fare della scarsa qualificazione dei lavoratori, della loro povertà e necessità estrema, e della propria vulnerabilità non uno svantaggio nel cammino per uno sviluppo umano integrale, che occorre combattere attraverso investimenti nel settore educativo e nella formazione, attraverso programmi sociali e la tutela effettiva dei diritti del lavoro, bensì un vantaggio. O meglio, un vantaggio competitivo utile per attrarre e fomentare gli investimenti stranieri e nazionali come le maquiladoras: grazie all’abbondanza della manodopera poco costosa e non qualificata e grazie alla paura che i lavoratori ancora hanno d’organizzarsi per migliorare le proprie condizioni, Guatemala può attrarre grandi numeri di stabilimenti dove si compiono le fasi produttive più semplici e che richiedono manodopera in misura maggiore (assemblaggio, confezione, ecc.). Il governo si è impegnato molto per facilitare ancor di più gli investimenti di questo tipo, accordando agli investitori del settore maquilador, agevolazioni fiscali per l’importazione degli inputs produttivi, per la lavorazione degli stessi e per l’esportazione dei manufatti. Il Guatemala ha saputo trasformare problemi che, generalmente, colpiscono negativamente lo sviluppo di un paese in elementi che lo alimentano. Invece implementare cari programmi pubblici per sanare questi problemi, per lo più insostenibili in un’epoca nella quale agli stati si raccomanda di ridurre le proprie spese in nome del dogma liberista, Guatemala ha approfittato di questi per “diventare un paese esportatore”, come annunciano i grandi cartelli pubblicitari posti, lungo le strade guatemalteche, dall’AGEXPRONT (l’associazione degli esportatori di prodotti non tradizionali). La strategia del Guatemala è stata un grande successo: i vantaggi competitivi elencati e le facilitazioni fiscali hanno attratto nel paese molte maquiladoras, soprattutto nel settore tessile e dell’abbigliamento. Nell’ottobre 2004, in Guatemala c’erano 225 maquiladoras della confezione, 44 tessili e 275 di accessori e dei servizi, con un totale di 145.511 impiegati. Quando visitai VESTEX (Guatemala Apparel and Textil Commitee), la sollecita impiegata Claudia mi raccontò, illustrandomi montagne di numeri, questa storia di successo economico, spendendo molto tempo informandomi del contributo fondamentale che le maquiladoras apportano alla crescita del paese in termini di esportazioni, PIL, posti di lavoro, ecc. Virginia, invece, mi raccontò un’altra storia. La sua storia. Trovare lavoro in una maquila non era stato un problema; non le avevano chiesto requisiti, competenze specifiche o determinati livelli di scolarizzazione. Solo voglia di lavorare e di contribuire, unendo il proprio sforzo a quello dei datori di lavoro, a fare del Guatemala “un paese esportatore”; ha, quasi, un senso patriottico questa espressione anche se il dato per il quale 166 delle 225 imprese di confezione hanno capitale straniero 47 (soprattutto coreano) supposto patriottismo… toglie molto del Virginia doveva lavorare 8 ore al giorno per un salario mensile di 1440 Quetzales (195 dollari statunitensi), più le ore di straordinario che chiaramente erano volontarie anche se ben accette come prova di buona volontà; così le avevano detto. Virginia, senza molte alternative, chiaramente accettò; con il salario non riusciva a comprare “tortillas e fagioli” per lei e per proprio figlio ma, per lo meno, aveva un salario fisso e sicuro. Dunque, Virginia entrò nella maquila. Lavorava con altre 400 persone circa, in gran parte donne. I bagni erano solo 4 e, in queste condizioni, non era facile fare i propri bisogni velocemente come era richiesto dalla gerenza. Su d’una lavagna bianca, ogni giorno, i gerenti scrivevano le mete di produzione che bisognava raggiungere, ossia il numero di capi d’abbigliamento da confezionare. Virginia non rifiutava le ore extra perché non voleva perdere la fiducia della direzione e perché aveva bisogno di queste ore per raggiungere una somma mensile sufficiente alle proprie necessità di ragazza madre; Virginia lavorava, così, circa 13 ore al giorno e, sostenendo questo sforzo, era sicura che avrebbe ricevuto una paga soddisfaciente. Arrivò un periodo nel quale le mete fissate sulla lavagna bianca erano sempre più alte e il suo orario raggiungeva, alcuni giorni, le 16-18 ore di lavoro! In questi giorni suo figlio di ammalò e Virginia, un giorno, finite le 8 ore di lavoro, salutò la propria collega (con la quale quasi mai parlava per non rimanere indietro nel produzione, nonostante le loro macchine da cucire fossero molto vicine, come le aveva messe la direzione allo scopo di risparmiare spazio) e lasciò il proprio posto per portare il figlio dal medico. Un urlo in spagnolo imperfetto la fermò, spaventandola. La responsabile coreana della sua linea di produzione la raggiunse chiedendole violentemente dove voleva andare; Virginia spiegò la propria situazione. La coreana quasi la picchiò, gridandole che, se se ne andava, non doveva più tornare al lavoro, e che erano lontane ancora dalla meta di produzione giornaliera e che, quindi, nessuno poteva uscire. Virginia, spaventata, ritornò alla propria macchina, mentre tutte le sue colleghe, zitte e con lo sguardo basso, continuavano a cucire, senza osare guardare la coreana. Suo figlio, a casa della nonna, continuava ad avere la febbre. Arrivò il giorno di paga. 1600 Quetzales (216 dollari). Le numerose ore di straordinario effettuate per raggiungere le mete di produzione della lavagna bianca, lasciando proprio figlio con la febbre senza attenzione medica, le avevano reso 160 Quetzales (22 dollari). Virginia non ci poteva credere e pensò che ci fosse un errore; decise di chiedere spiegazioni. Il responsabile risorse umane le confermò che 1600 quetzales erano la paga e, inoltre, le mostrò la rinuncia al lavoro, sottoscritta da lei, dicendole che se per caso non le piacesse il lavoro o lo considerasse incompatibile con le proprie necessità personali, poteva andarsene senza problemi, naturalmente senza ricevere nessuna indennizzazione, dato che aveva firmato la rinuncia volontaria al lavoro che liberava l’impresa da ogni obbligo. Virginia non poteva dire molto; le avevano detto che quel foglio, la rinuncia, era parte del contratto e lei, non sapendo leggere molto bene, aveva firmato con fiducia. Addirittura chiese scusa a testa bassa e ritornò al proprio posto di lavoro. Uscendo dalla fabbrica, Virginia raccontò alle proprie colleghe ciò che le era successo. Così che, parlando con loro, scoprì che le ore di straordinario non venivano pagate per ora bensì a discrezione della direzione, anche se erano, praticamente, obbligatorie. Dopo pochi mesi di lavoro, Virginia iniziò ad avere problemi respiratori; molte sue colleghe soffrivano gli stessi disturbi ed era chiaro che ciò aveva a che vedere con la grande quantità di polvere e pelucchi, residui delle operazioni svolte nello stabilimento, che si posavano sulle macchine e sopra ogni oggetto nella maquila, dato che molto raramente si facevano le pulizie nella maquila e non esistevano ventilatori. Viginia doveva andare al Seguro Social (istituzione pubblica che garantisce ai lavoratori assistenza medica gratuita) per verificare le proprie condizioni di salute, quindi chiese il permesso e i documenti necessari alla direzione; nuovamente fu quasi licenziata e le negarono il permesso, accusandola di essere pigra e di dichiararsi ammalata per non lavorare. In 48 verità, la direzione non aveva nemmeno i documenti necessari a Virginia per ricevere assistenza medica, perché non le avevano mai pagato il Seguro Social, nonostante la direzione avesse sempre detratto dalla sua paga la somma dovuta all’istituzione. Virginia capì che lamentarsi era pericoloso. Per lo meno se a lamentarsi era la unica. Pertanto iniziò a parlare con le proprie colleghe per vedere se anche loro avevano gli stessi problemi e per cercare una soluzione tutte insieme. Molte colleghe non volevano nemmeno sentirne parlare: le dicevano che se ciò che lei voleva fare era un sindacato, loro non ne volevano sapere perché era troppo pericoloso, che loro preferivano sopportare le condizioni di lavoro piuttosto che mettere in pericolo loro stesse e le proprie famiglie. Virginia non capiva, mettere in pericolo, perché? Le sue colleghe le raccontarono che in alcune maquiladoras, chi aveva organizzato il sindacato era stato messo sotto pressione e picchiato. Ad una donna avevano, addirittura, violentato la figlia, ad altre minacciato i famigliari. Virginia aveva paura, soprattutto per suo figlio; ma sapeva anche che, in queste condizioni, non c’era futuro né per lei né per proprio figlio. Quindi, incontrando alcune colleghe più disponibili, si fece promotrice dell’organizzazione di un sindacato nella maquiladora. Virginia e le sue colleghe sindacalista o iscritte al sindacato sono state licenziate; hanno denunciato alle autorità competenti la direzione della maquila, chiedendo di essere reintegrate nel proprio lavoro e sono in attesa della sentenza. Inoltre, nella maquiladoras, improvvisamente, è nato un altro piccolo gruppo di lavoratori che si oppone al sindacato, affermando che il sindacato colpisce gli interessi dei lavoratori stessi in quanto dove c’è sindacato le imprese perdono ordini di produzione. La stessa direzione dell’impresa ha organizzato questo gruppo, arrivando a pagare alcuni lavoratori affinchè vi si integrino e si oppongano al sindacato. Secondo la direzione non esistono problemi in relazione al trattamento e alle condizioni dei lavoratori, come confermerebbe il fatto che l’impresa abbia adottato e volontariamente “applichi” un codice di condotta che garantisce i livelli minimi di tutela dei lavoratori. In Guatemala, nonostante gli sforzi compiuti da varie centrali sindacali, solo in tre maquiladoras esiste sindacato, in una, la maquila dove lavora(va) Virginia, la situazione è molto difficile perché i lavoratori organizzati sono stati licenziati. I tre sindacati esistenti appartengono alla federazione FESTRAS. Potrebbe essere la storia di Virginia la storia di una donna chiapaneca? Probabilmente si, soprattutto fra qualche anno. Come non dimenticano di sottolineare i politici messicani, il Chiapas condivide con l’America Centrale molte caratteristiche e un piano di sviluppo di questo stato messicano non può non integrare anche i vicini centroamericani. Il Chiapas, per esempio, condivide con il Guatemala molti dei vantaggi competitivi che sono stati fondamentali nell’attrazione delle maquiladoras; ossia, il Chiapas ha gli stessi problemi che il Guatemala ha convertito in supposti vantaggi: una numerosa manodopera non qualificata proveniente, in parte, dalla campagna (dopo che l’invasione dei prodotti agricoli statunitensi e la crisi del prezzo del caffè hanno espulso migliaia di contadini) e che è la meno costosa di tutto il Messico, con una scarsa tradizione di organizzazione sindacale. Il governo messicano, con i paesi centroamericani, ha lanciato, negli ultimi anni, piani di sviluppo come il Plan Puebla Panamà e il Plan Marcha hacia el Sur (marcia verso il Sud) che, accordando facilitazioni e privilegi agli investitori e attraverso la creazione di infrastrutture di trasporto, ecc., promette di attirare investimenti che sappiano approfittare dei “vantaggi” del Chiapas; in relazione alla scarsa tradizione sindacale del Chiapas, nel sito intenet del governo statale chiapaneco (www.chiapas.gob.mx), si può trovare una presentazione del Plan Marcha hacia el Sur che propone, esplicitamente, questo dato come un vantaggio per gli investimenti nello stato, dimenticando e attaccando palesemente il diritto all’organizzazione sindacale dei lavoratori, garantito dalla costituzione messicana e dai trattati internazionali della OIL ratificati dal Messico. 49 Il numero delle maquiladoras in Chiapas e nel Sud-Est messicano è aumentato molto negli ultimi anni e l’installazione delle maquilas in quest’area è stata salutata dalle massime autorità come l’inizio di un nuovo sviluppo industriale. Il Messico conferma, così, una miope posizione liberista; invece di educare e formare le risorse umane locali, invece di proteggere la produzione agricola di fronte alle esportazioni statunitensi, invece di implementare un’industria d’alto valore aggregato e capace di generare un vero sviluppo, invece di dare attenzione alla fondamentale eredità culturale e sociale autoctona, promuovendone l’emancipazione economica e sociale e la salita da una situazione di povertà ed emarginazione plurisecolare, il Messico preferisce espandere un’industria, quella maquiladora, che lascia i lavoratori nella povertà e nella precarietà, che non genera relazioni positivi e forti con l’industria locale e, nella quale, semplicemente si assemblano e si confezionano inputs importati., producendo manifatture destinate all’estero. L’opzione scelta dal Messico non pare capace di indurre uno sviluppo umano integrale, che determini miglioramenti, non solo negli indici macroeconomici, bensì anche nei reali livelli di benessere e nell’effettivo rispetto delle libertà e dei diritti della popolazione chiapaneca meticcia e indigena. 50 SCHEDA 2 :: LE MAQUILAS IN MESSICO E IN CENTROAMERICA Storia dell’industria maquiladora È il governo messicano il primo ad aprire le proprie frontiere all’industria maquiladora, “che nasce in Messico nell’anno 1964, dopo la sospensione del “Programma bracciante”, come parte del Programma Nazionale per la Frontiera e con l’obiettivo di risolvere una necessità concreta: dare un impiego permanente ai lavoratori temporali (braccianti) che oltrepassavano la frontiera per lavorare nelle piantagioni U.S.A.”54. La Repubblica messicana muoveva verso la fine della politica di sostituzione delle importazioni che aveva caratterizzato il modello di sviluppo industriale a partire dagli anni ’40, e con questo si eliminavano le imposte sull’importazione di materie prima, macchinari e parti per l’industria di assemblaggio le cui imprese dovevano essere localizzate entro 20 miglia dal confine settentrionale del paese (c.d. “regime di Zona Franca”). Fu il Governo di Echeverria a permettere (1972) la distribuzione delle maquiladoras su tutto il territorio della Repubblica ma l’espansione, anche durante la Presidenza di Lopez Portillo (19761982), rimase limitata. De la Madrid e Salinas de Gortari, che hanno governato il Paese tra il 1982 ed il 1994, hanno invece dato un impulso straordinario allo sviluppo del settore con ogni sorta di riforma costituzionale e fiscale volte a favorire l’ingresso del capitale straniero. Tra il 1980 ed il 1990 il numero di imprese registrate passò da 620 a 1703 con una crescita del 200% circa, mentre l’occupazione nel settore passò nello stesso periodo dalle 119.556 alle 446.436 unità. Nel corso degli anni ’90 il numero di maquiladoras passò da 1703 a 3296 (giugno 1999) con un incremento di circa il 100% per quanto riguarda l’occupazione. Il dato interessante è che nella stessa decade tale industria, stanziatasi inizialmente solo lungo la frontiera settentrionale del paese, ha espanso la propria influenza fino ad essere presente in 27 degli stati della Federazione tra cui Puebla, Guerrero, Yucatan e Quintana Roo nella regione sudorientale, anche se la percentuale installata al di fuori della frontiera Nord è tuttora bassa. Le maquiladoras nel sud-est messicano Nel corso degli ultimi quindici anni, un programma governativo, la “Marcha hacia el Sur”, ha promosso la progressiva penetrazione dell’industria maquiladora nella regione sud orientale del Paese, rispondendo alle esigenze degli Stati Uniti d’America, delineate nel documento Santa Fé II, che delinea le strategie Usa verso l’America Latina negli anni novanta. “Gli Stati Uniti dovranno riconsiderare il programma di Impianti Gemelli/Industrie di Frontiera con il Messico, alla luce dei possibili costi economici e sociali di lungo periodo per entrambe le repubbliche. Le maquiladoras lungo la frontiera messicana-nordamericana, hanno portato impiego a centinaia di migliaia di messicani. Senza dubbio, non è chiaro se lo stesso beneficio si sia dato per i lavoratori nordamericani. Inoltre, i milioni di messicani che sono stati attratti verso il nord, e le cui aspirazioni non sono state soddisfatte, tendono ad entrare negli U.S.A. attraverso la frontiera e ciò accelera ulteriormente la immigrazione illegale. Molti dei messicani che oltrepassano la frontiera sono uomini che non possono ottenere un impiego presso le maquiladoras, giacché le principali abilità manuali ed il lavoro a cottimo sono realizzati in modo migliore dalle donne. […] La concentrazione di nuove industrie lungo la frontiera settentrionale del Messico ha reso ancor più disequilibrato il già irregolare sviluppo del paese. Perciò, le industrie nordamericane dovrebbero 54 Andrea Comas Medina, Las maquiladoras en Mexico y sus efectos en la clase trabajadora, Novembre 2002. http://www.rcci.net/globalizacion/2002/fg296.htm 51 considerare la possibilità di spostare le proprie macchine molto più all’interno del Messico. Questo spostamento verso il sud aumenterebbe lo sviluppo equilibrato del Messico, promuoverebbe le industrie locali, stabilizzerebbe la famiglia messicana ed aiuterebbe a risolvere alcune delle condizioni sociali e sanitarie stimolate per il Programma di Industrie della Frontiera. Nel lungo periodo, tale spostamento verso l’interno del Messico, beneficerà entrambi i paesi”55. La presenza di impianti maquilador nella regione sud-orientale del paese è così cresciuta in modo vertiginoso negli ultimi anni e – d’accordo con le statistiche dell’INEGI – nel novembre del 2000 ne esistevano già 377, la maggior parte delle quali impegnate nel settore tessile. Esse ripetono le caratteristiche già ampiamente riscontrate ove le maquiladoras si sono istallate dagli anni ’60: “un quasi inesistente grado di integrazione con l’industria nazionale e bassissimi salari per le operaie e gli operai se comparati con l’intensità del lavoro”56 (più bassi del 30% rispetto a quelli delle maquiladoras della zona centrale del paese e del 40% più bassi rispetto alla frontiera nord). Nel Municipio di Tehuacan, Puebla, esiste una struttura di circa 250 tra grandi, piccole e medie imprese dove maquilan i propri vestiti grandi firme quali Tommy Hilfigger, Calvin Klein o Gap in impianti dove pagano ai propri operai salari di 350-400 pesos mensili57. Nel Municipio di San Cristobal de Las Casas, Chiapas, intervenne addirittura Vicente Fox per la cerimonia di inaugurazione della “Trans Textil International” (TTI), la prima maquiladora nella Regione Altos, la cui installazione è stata resa possibile da un investimento pubblico di 17 milioni di pesos, 6 del programma federale “Marcia verso lo Sviluppo”e 11 del Governo statale, che, inoltre, comprò per 11 milioni di pesos l’immenso stabilimento dal precedente proprietario, cedendolo poi a TTI in comodato. Era l’11 di aprile del 2002. Secondo una ricerca pubblicata nell’aprile del 2003 dal ricercatore Miguel Pickard di CIEPAC, ad un anno dalla sua apertura “il 60% dei [450] lavoratori dell’impianto sono donne, il 40% delle quali indigene. L’età media è di 22 anni. Gli impiegati ricevono il salario minimo, attualmente 40.30 pesos al giorno (3.84 dollari U.S.A.) corrispondente alla “zona C”, quella ove meno si guadagna nel paese. Ufficialmente si lavora per 45 ore alla settimana, ripartite in 5 giorni, più due domeniche al mese, i giorni dei pacchi”58. Se al momento della sua nascita TTI fabbricava maglie per l’esportazione, oggi essa riceve prodotti semilavorati da imprese gemelle di Puebla e Tlaxcala che finisce di assemblare. L’impresa ha già cambiato nome e sta licenziando lavoratori. “Secondo la denuncia di una donna licenziata recentemente, la maquiladora non si chiama più Trans Textil ma è conosciuta come STS Spintex, da dove si presume che cacceranno 200 impiegati su un totale di 450 persone che vi lavorano”59. Pur affermando di non avere soldi per mantenere tanti operai, l’impresa sta cercando nuove persone da occupare, il cui stipendio verrà coperto dai sussidi del Servizio Statale per l’impiego. L’industria maquiladora in Messico oggi La massima espansione dell’industria maquiladora è data nel giugno del 2001 quando si contano 3.763 stabilimenti e 1.347.803 lavoratori impiegati. Da allora il settore registra una crisi importante che ha portato alla chiusura (ottobre 2003) di 937 stabilimenti ed alla perdita di 277.892 posti di lavoro in circa due anni. La crisi ha colpito principalmente gli Stati di Chihuahua (Ciudad 55 Documento de Santa Fé II, Una estrategia por America Latina en la decada de 1990, Santa Fé, 1988. http://www.geocities.com/proyectoemancipacion/documentossantafe/santafeii.doc 56 Alejandro Villamar, El Plan Puebla Panama: extension y profundizacion de la estrategia regional neoliberal, o nueva estrategia de desaarrollo integral y sustentable desde las comunidades, RMALC, febbraio 2001. http://www.laneta.apc.org/biodiversidad/documentos/ppp/planpprmalc.htm 57 Fabiola Martinez, No se aplca la ley laboral en factorias de Puebla, La Jornada. 8 settembre 2002. 58 CIEPAC, Boletin Chiapas al dia No. 339, Tran Textil International S.A. de C.V., la maquiladora de San Cristobal de Las Casas, 23 aprile 2003. www.ciepac.org 59 Carlos Herrera, Fabrica Trans Textil, un engano, Cuarto Poder. 28 gennaio 2004. 60 Gordon H. Hanson, The Role of Maquiladoras in Mexico’s Export Boom, University of California, San Diego, July 2002. http://www2-irps.ucsd.edu/faculty/gohanson/Rice%20Maquila.pdf 52 Juarez, - 64.058 impieghi, il 23% del totale) e Baja California (Tijuana, - 262 impianti e – 52.870 impieghi, il 19% del totale). Nonostante la crisi degli ultimi due anni, il bilancio dell’industria di assemblaggio dall’entrata in vigore del NAFTA resta positivo (almeno in termini macro-economici): - a partire dal 1994 sono 523.323 i nuovi posti di lavoro creati nel settore; - tra il 1990 ed il 2002 il settore ha conosciuto una crescita media annua (in termini di valore reale) del 10% mentre la crescita media annua del PIL del paese si è attestata sul 3%; - nel 2000 il commercio internazionale partecipava con il 32% alla formazione del Prodotto Interno Lordo (contro l’11% nel 1980), in un contesto in cui le maquiladoras generano il 48% del commercio estero del Messico. Per quanto riguarda invece il “paese reale”, tale crisi assume un valore drammatico se si pensa che l’industria maquiladora ha rappresentato, dal 1994 ad oggi, il locomotore economico del paese, l’unico settore che ha saputo garantire quella crescita miracolosa promessa dai padri del Trattato di Libero Commercio, crescita ottenuta, però, a scapito di un effettivo miglioramento sociale ed economico per i cittadini del paese. Le ragioni che possono spiegare la crisi sono molteplici: (a) l’eccessiva sensibilità dell’economia messicana rispetto all’andamento di quella statunitense in generale ed al comparto manifatturiero in particolare. “L’attività delle maquiladoras cresce più rapidamente del prodotto degli Stati Uniti durante un periodo di boom e si contrae maggiormente in un periodo di recessione. Tra il 1990 ed il 2001, mentre l’output manifatturiero U.S.A. cresceva di un modesto 4% annuale, il valore aggiunto della maquiladora cresceva di uno straordinario 13% annuale. Tra il 2001 ed il 2002, quando l’output manifatturiero decresceva del 4% negli Stati Uniti, quello dell’industria maquiladora cadeva dell’11%”60; (b) un cambio di politica fiscale che ha comportato un aumento del 35% della tassazione sui profitti di una compagnia; (c) un aumento del salario medio degli occupati nel settore (dell’ordine del 8-9% netto tra il 2000 ed il 2002) che ha comportato lo spostamento di molte industrie verso paesi (Cina, in primis) ove è possibile incontrare oggi una manodopera a più basso costo. La crisi ed il Centro America La crisi dell’industria maquilador, in special modo nel comparto del tessile dopo la fine dell’Accordo Multifibre (Amf, 31 dicembre 2004), sembra destinata a colpire anche il Centro America, dove il costo della manodopera è sicuramente inferiore a quello messicano, ma superiore a quello cinese. Nonostante quanto asseriscano i suoi promotori, nemmeno il Cafta, Central American Free Trade Agremeent, trattato di libero scambio in corso di ratifica e che liberalizzerà il commercio e gli investimenti di capitale tra Stati Uniti d’America, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Repubblica Dominicana, renderà possibile la sopravvivenza del settore tessile nelle nazioni centroamericane. Todd Tucker, direttore di ricerca per il prestigioso Global Trade Watch di Public Citizen, negli Stati Uniti d’America, analizzando alcuni dei ‘miti economici’ relativi al Cafta contraddice questa affermazione, mostrando i palesi limiti dell’accordo di libero scambio, e le condizioni strutturali che rendono il cotone cinese assolutamente imbattibile per le imprese istallate in Centro America. Cafta o non Cafta, scrive Tucker, “il Centro America perderà la sua quota di mercato, a causa degli enormi vantaggi di costo in China”. Il livello estremamente basso dei salari cinesi, dell’ordine di 15/30 centesimi di dollaro l’ora, comporta costi di produzione difficilmente ripetibili, anche laddove – Guatemala, Repubblica Domenicana, Costa Rica – i salari sono tutt’altro che dignitosi (rispettivamente, 1,49$/h, 1,65$/h e 2,70$/h nei tre Paesi indicati). Nemmeno la vicinanza geografica tra l’America Centrale e gli Stati Uniti pare in grado di garantire vantaggi importanti rispetto all’industria cinese. Innanzitutto, alcune compagnie marittime cinesi stanno notevolmente riducendo i tempi di percorrenza verso la Costa Occidentale degli Usa e – inoltre – i produttori centroamericani non potranno mai convertirsi, per scala e capacità produttiva, in rifornitori “al bisogno” (ovvero, in tempi brevi, qualora i costumi e le mode cambiassero repentinamente) dei grandi magazzini statunitensi. 53 Tessile e maquiladoras Oggi, dopo la fine dell’AMF il 31 dicembre 2004 e guardando ai dati relativi ai primi mesi del 2005, possiamo tracciare un bilancio della crisi che – effettivamente – ha colpito il settore tessile centroamericano, per lo più rappresentato da maquiladoras, imprese d’assemblaggio a prevalenza di capitale straniero e che operano sotto il regime di Zona Franca e senza riconoscere alcun diritto ai lavoratori impiegati. Infatti, nonostante esempi come quello dell’impresa statunitense Cone Mills, sussidiaria della International Textile Group, che ha già annunciato investimenti per 80 milioni di dollari in Guatemala nel corso del 2005, il futuro non appare roseo. Secondo una nota pubblicata dall’Herald Tribune, nei primi due mesi del 2005 hanno chiuso i battenti 18 maquiladoras in Guatemala, Honduras, Costa Rica e Repubblica Dominicana, con una perdita di circa 10.000 posti di lavoro. Solo in Guatemala, nel 2004, 14 maquiladoras hanno chiuso i battenti, spostando le proprie attività in Cina, e si stima che 45 (su 225) potrebbero fare lo stesso quest’anno. Oggi, nel Paese, il settore da lavoro a 140.000 persone (500.000 in totale in tutto il Centro America) su un totale di circa 3 milioni e mezzo di persone attive sul mercato del lavoro (la metà delle quali, però, nel solo settore primario). In El Salvador, dove il dollaro è moneta nazionale, nel 2004 sono andati perduti tra i 6.000 ed i 12.000 posti di lavoro. ** ** ** ** ** 54 9.”Marafobia”, tra psicosi e realtà Le bande giovanili e la società centroamericana Di Miguel Pickard In Messico e in America Centrale la presunta invasione delle bande giovanili (maras) provoca panico nella popolazione e si moltiplicano le leggi e le azioni repressive. Questo modo di affrontare il problema è destinato a fallire perché considerare le maras semplicemente come un problema di sicurezza e di ordine pubblico equivale a peccare di semplicismo. Conoscere meglio queste bande ci aiuterebbe a non cadere nel panico generale e ad affrontare più efficacemente il problema. Analizzare le cause di questo fenomeno giovanile, che hanno radici profonde nella grave situazione sociale ed economica del Centroamerica e del Messico, potrebbe rendere più facile ideare soluzioni al problema che vadano oltre la semplice repressione, misura tanto inutile quanto inefficace, se si prendono in considerazione le contraddizioni strutturali di paesi come El Salvador, Honduras, Guatemala e Messico. De-costruire il terrore. Negli ultimi mesi, i quotidiani locali e nazionali del Chiapas (stato sudorientale della federazione messicana) e del Messico hanno dato un’ampia informazione sull’attività criminale delle maras. Gli articoli relativi all’insicurezza in città del Chiapas come Tapachula, Arriaga, Ciudad Madero, danno la sensazione che queste aree si trovino nel mezzo di una vera e propria invasione delle maras in Messico. Tali articoli sono soliti presentare le mara come le uniche responsabili degli alti indici di criminalità della regione della Serra e della Costa del Chiapas. Quotidiani e riviste hanno dedicato prime pagine e copertine eloquenti: sono stati pubblicati titoli quali “Fuori controllo” 61 o “Le maras ci invadono” 62, accompagnati da foto di giovani pieni di oscuri tatuaggi e con espressioni spaventose e da testi che raccontano con grande ricchezza di macabri dettagli i crimini degli appartenenti alle maras (detti mareros). Quasi senza eccezione, i mezzi di comunicazione trattano in modo sensazionalista il problema “maras”. Funzionari e politici locali e nazionali di differenti partiti non hanno tardato ad affrontare l’argomento, confermando un atteggiamento superficiale e invocando maggiore presenza delle forze dell’ordine, maggiore controllo e repressione. I funzionari di polizia e gli organi di sicurezza dello stato denunciano la mancanza di risorse che limita la loro azione, concentrando sempre l’attenzione sulla necessità di reprimere il fenomeno. Un deputato federale del parlamento messicano dichiarò, al quotidiano locale chiapaneco Cuarto Poder del primo dicembre 2004, che “il governo federale deve contribuire alla lotta contro questo problema assegnando maggiori fondi e personale 61 62 Tratto da “Milenio”, no. 330, 12 gennaio 2004. Tratto da “Cambio”, anno 3, no. 100. 55 preparato alle varie istituzioni incaricate del controllo e della sicurezza della frontiera (con il Guatemala), come la Segreteria di Sicurezza Pubblica Federale, la Procura Generale della Repubblica e l’Istituto Nazionale di Migrazione” 63. Oltre alle promesse di un maggiore controllo si parla di altre misure. Si discute di abbassare l’età penale, di coordinare azioni congiunte con gli altri paesi centroamericani e di approvare leggi più severe contro le maras, prendendo come esempio i paesi centroamericani, dove un solo tatuaggio è motivo di sospetto e di incarcerazione. Dopo alcune azioni dei mareros che hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, la polizia del Chiapas ha realizzato operativi nei quali sono stati arrestati centinaia di presunti integranti delle maras. Il 20 novembre 2004, nel contesto delle celebrazioni per la Rivoluzione Messicana a Tapachula (Chiapas), mentre gli studenti delle scuole secondarie sfilavano, membri delle due maggiori bande giovanili in Messico e in Centroamerica (Mara Salvatrucha 13 e Mara barrio 18) si scontrarono. Quando vennero esplosi presunti spari (nonostante nessuno dei mareros arrestati nell’occasione portasse armi da fuoco), scoppiò il caos. Una volta ristabilito l’ordine, 57 persone erano state soccorse per crisi nervosa ma nessuna presentava ferite provocate dai mareros. Due giorni dopo questo evento, voci di un possibile attacco nelle scuole secondarie di Tapachula, da parte della Mara Salvatrucha, generarono un’ondata di terrore nella città. In varie scuole, gli studenti fuggirono dalle aule e numerosi genitori arrivarono per portare i propri figli a casa. Si trattava di un falso allarme. Questi fatti sono solo due esempi dell’isteria che la presenza delle maras, nel sud est messicano, sta provocando. A questo clima si rispose con un forte operativo della polizia: solo il 23 di novembre più di 26 persone vennero arrestate, oltre ai venti arresti del 20 novembre64. Nei giorni seguenti alla rissa del giorno della Rivoluzione, sono stati arrestati, in totale, quasi 200 presunti integranti di maras 65. Oltre a scontrarsi tra gruppi tra loro dichiaratamente nemici, le maras si dedicano principalmente ad assaltare gli immigrati clandestini che arrivano in Messico dal Centroamerica, diretti agli Stati Uniti. Furti e delitti contro gli immigrati irregolari sono molto comuni nella Costa del Chiapas, regione di passaggio obbligato per molti di loro. Questo fenomeno criminale ha assunto dimensioni tali che esiste un’istituzione pubblica, dipendente dall’ Istituto Nazionale di Immigrazione messicano, creata per “proteggere” gli immigrati nell’area, il Grupo Beta Sur de Protección al Migrante 66. Nella frontiera Sud, tra Messico e Guatemala, è normale attribuire a le maras i delitti contro gli immigrati irregolari. Ma siamo sicuri che i mareros siano responsabili di un numero così grande di delitti? Lo stesso Grupo Beta Sur informa che il 51 % di questi delitti è commesso dagli agenti dei diversi corpi di sicurezza messicani e il 49 % da delinquenti comuni; solo in due su nove casi gli aggressori sono mareros 67. Questo tentativo di ridimensionare il “pericolo maras” in Messico non vuole sottostimare il fenomeno: queste bande transfrontaliere che si sono estese dagli Stati Uniti al Centroamerica e, ora, in Messico, costituiscono un problema serio e in espansione ma sicuramente le maras non sono colpevoli di tutti i mali che a loro si attribuiscono. Affrontare il problema senza fobie né panico è l’unica maniera di trovare soluzioni migliori di quelle già implementate in America Centrale e in Messico. Una critica alle America Centrale misure antimaras in Mentre in Messico si insiste nell’imitare le misure legislative e di polizia prese nei paesi centroamericani contro le maras e nel coordinare azioni tra questi paesi e il Messico, il terrore scatenato contro i mareros in Guatemala, Honduras e El Salvador ha avuto gravi conseguenze. 66 63 Da: “Cuarto Poder”, 1 dicembre 2004. 64 Dati di “Cuarto Poder, 21-23-24 novembre 2004. 65 Pandilla de globalización, La Jornada, 30 novembre 2004. In relazione a questa istituzione consultare il bollettino “Chiapas al Día” no. 157, 28 maggio 1999, da CIEPAC, A.C. 67 Invasión o viendo maras con tranchete? 9 marzo 2004. Da: http://ciss.insp.mx/migracion/ 56 “Utilizzando le maras come capri espiatori … Guatemala, Honduras e El Salvador, tra luglio e agosto 2003, hanno annunciato, quasi contemporaneamente, misure repressive denominate rispettivamente Plan Escoba, Operación Libertad e Plan Mano Dura. Le maras sono state assimilate alle organizzazione criminali, appartenere ad una mara costituisce un reato in sé e i minorenni sono giudicati come fossero adulti” 68. In El Salvador, chi ha dato impulso alla strategia repressiva è stato Mauricio Sandoval, direttore del Polizia Nazionale tra il 1999 e il 2003, proprietario di numerosi mezzi di comunicazione nel paese e dirigente dell’Alianza Republicana Nacionalista (ARENA), partido di destra vincitore delle ultime elezioni in El Salvador. Sandoval si è dichiarato a favore, parlando delle misure contro le maras, di “derogare alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in quanto questa può essere valida per le democrazie stabili ma non per El Salvador” 69. La repressione, iniziata poco prima delle elezioni, aveva un chiaro intento di propaganza elettorale e ha avuto scarsi risultati: fino a febbraio 2004 la polizia salvadoregna aveva arrestato 10.178 presunti mareros, dei quali il 95 % è stato liberato per mancanza di prove. Gli omicidi e i delitti nel paese, ovviamente, non cessarono. Inoltre, l’aumento della tensione ha portato alla ricomparsa di gruppi militari attivi durante la guerra in El Salvador, negli anni ‘80 e ’90. Si sospetta che dietro ad alcuni orribili omicidi di giovani, ci siano membri del gruppo Sombra Negra che, tra il 1992 e il 1993, si dedicava a eliminare attivisti e ex-guerriglieri 70. Per affrontare questa ondata repressiva le maras si adattano. Si spostano in Messico, reclutano adepti sempre più giovani, si rendono meno visibili e i capi si nascondono ed entrano in contatto più stretto con il crimine organizzato. Una politica repressiva che vuole soddisfare necessità immediate di sicurezza pubblica, reclamata a gran voce da una popolazione estenuata da tanta 68 Philippe Revelli, Dietro la violenza delle gang in Salvador, da Le Monde Diplomatique marzo 2004. Edizione italiana edita da Il Manifesto. 69 Philippe Revelli, Dietro la violenza delle gang in Salvador, ibidem 70 Alberto Nájar, La vida en territorio mara, da Masiosare, domingo 7 de marzo 2004. www.jornada.unam.mx/mas-maras.html criminalità, non arriva alle principalmente sociali, del problema. radici, Analizzare le cause e prendere le misure conseguenti. Studi e ricerche svolti in Guatemala, Honduras, Nicaragua e El Salvador e raccolti nel testo Maras y pandillas de Centroamérica, realizzato da vari gruppi di ricerca di questi paesi, suggeriscono le principali cause dell’espansione delle maras nell’area e propongono misure, non meramente repressive, che potrebbero arrivare alle radici del problema e contribuire a contenere il fenomeno in America Centrale, prevenendo una maggiore estensione del problema in Messico. Le bande giovanili in Centroamerica non sono un fenomeno nuovo ma il numero di integranti, il livello di violenza e la posizione egemonica che hanno raggiunto le maras a partire dagli anni ’90, fanno di queste un elemento importante per comprendere la situazione centroamericana. In verità, le due maras che oggi generano l’allarme sociale (Mara Salvatucha y Mara Barrio 18) non sono originarie dell’America Centrale, bensì sono un “prodotto di esportazione” degli Stati Uniti, in particolare di Los Angeles. In questa città, già a partire dagli anni ’60, la Mara 18 (che allora era la Gang 18th street) era potente nel proprio quartiere e, quando la giovane Mara Salvatrucha tentò di invadere il territorio della Mara 18, scoppiò la guerra tra le due bande. Questi gruppi eran formati da immigrati latinoamericani, soprattutto messicani e salvadoregni, questi ultimi in fuga dalla guerra civile in corso nel proprio paese. Negli anni ’80 il cresciente commercio di droga nella città fomentò l’attività delle maras. Dalla fine della guerra in El Salvador e parallelamente all’entrata in vigore di leggi migratorie statunitensi sempre più restrittive, iniziarono le deportazioni di latinoamericani e, soprattutto, di salvadoregni ai propri paesi d’origine. Molti giovani deportati avevano fatto parte di bande giovanili negli Stati Uniti, cosicché le deportazioni in massa ebbero un ruolo importante nell’evoluzione della Mara 18 e della Mara Salvatrucha in Centroamerica. La cultura delle maras importata dagli Stati Uniti trovò nei paesi centroamericani condizioni favorevoli per il proprio sviluppo, contribuendo all’aumento dei mareros in El 57 Salvador, Honduras, Guatemala e, recentemente, in Messico. Le maras sono gruppi di giovani con una identità ben marcata, per la quale riti e simboli assumono grande importanza. I tatuaggi indicano l’affiliazione ad una delle due bande o segnano permanentemente momenti importanti della vita privata o comunitaria del marero (la prima fidanzata, il numero di delitti commessi, ecc.); grande importanza hanno anche le prove che i mareros devono passare per entrare a far parte della banda: ad esempio, sopportare per un dato tempo i colpi violenti perpetrati dagli altri membri della banda, tenere un rapporto sessuale con una/un integrante della mara, commettere un delitto, ecc.. La solidarietà tra componenti della mara è un valore assoluto e il gruppo riconosce l’autorità di un capo. Si può uscire dalla banda solo per motivi riconosciuti come validi: il matrimonio, l’avere figli, aderire ad una confessione religiosa, ecc.. Se la decisione personale di uscire dalla banda non viene accettata dal gruppo, il marero pentito viene perseguitato e la punizione può essere anche la morte. Le maras si dedicano al racket, al commercio di droga, al furto di veicoli, agli assalti, ecc., anche se il motivo principale della loro esistenza è la guerra contro la banda nemica per il controllo del territorio, segnalato con graffiti. E’ importante comprendere gli elementi che hanno facilitato l’espansione delle maras per affrontare efficacemente il problema. In tal senso, è fondamentale studiare il contesto nel quale vivono i giovani e le giovani che appartengono alle maras, accettando che il problema è il prodotto di condizioni sociali e non il risultato di caratteristiche genetiche o psicologiche personali dei mareros. Analizzare un contesto sociale significa analizzare numerose variabili che, tra loro, hanno complicate relazioni. Vari studi fatti in Centroamerica mettono in luce numerosi elementi che influiscono sull’esistenza e sullo sviluppo delle maras. Innanzitutto, è chiaro che esistono relazioni tra alcune variabili socioeconomiche e le maras. In particolare, esistono dati che confermano la relazione tra maras e educazione, reddito delle famiglie, affollamento delle famiglie nelle case, stato delle infrastrutture del quartiere (strade, igiene, ecc.). Alcuni dati sembrano particolarmente significativi: considerando, nel congiunto, le ricerche svolte in alcune comunità in Guatemala, Honduras e El Salvador, dove c’è attività delle bande, la media degli anni di scolarizzazione è di 4,33 (mentre nei luoghi dove le maras non sono un problema, è di 5,41 anni). Il reddito medio delle famiglie che vivono in aree colpite dal problema delle maras è di 257 dollari mentre nelle comunità senza attività delle maras è di 320 dollari. I luoghi dove le case sono maggiormente affollate, le strade e altre infrastrutture sono in cattivo stato, sono maggiormente colpiti dal problema delle bande giovanili. In generale, si può affermare che le maras si sviluppano nei quartieri dove esistono condizioni di precarietà sociale, con molte famiglie vulnerabili che vivono in case troppo piccole per accogliere adeguatamente i nuclei familiari. Inoltre, queste variabili sembrano essere associate ai livelli di violenza nelle comunità, che a loro volta sono relazionati allo sviluppo delle maras: dove si verifica una maggiore incidenza della violenza, maggiore è lo sviluppo delle maras. Maras, violenza e le variabili socioeconomiche analizzate appaiono, dunque, parte di uno stesso circolo vizioso. Nonostante possano sembrare ovvie le relazioni tra povertà e maras, gli indicatori appena illustrati non hanno sempre una relazione univoca con l’espansione delle maras. Per esempio, la relazione tra redditi familiari e maras non è sempre confermato: mentre in Honduras sono i quartieri più poveri a registrare più mareros, in El Salvador non è così. Pertanto, è più preciso parlare di un contesto sociale e comunitario di povertà, che di povertà delle famiglie o delle persone. Per comprendere meglio la complessità delle condizioni che favoriscono lo sviluppo delle maras, è necessario introdurre il concetto di capitale sociale, inteso come l’insieme delle relazioni tra le persone che permette loro di cooperare con lo scopo di raggiungere obiettivi comuni. Le variabili del capitale sociale che sembrano influire di più, positivamente o negativamente, sulla presenza delle maras sono la fiducia tra le persone, la partecipazione comunitaria, la presenza di spazi pubblici di incontro o l’esistenza di spazi pubblici “perversi”. E’ chiaro che tutti gli elementi che diminuiscono la capacità di una comunità di costruire reti sociali atte ad affrontare collettivamente le necessità di appoggio e di identità dei giovani 58 e capaci di regolare il comportamento delle persone, favoriscono lo sviluppo delle maras. La fiducia tra le persone in una comunità inibisce la formazione delle maras. Gli spazi pubblici di incontro e di divertimento “positivi” (edifici pubblici, piazze, ecc.) facilitano le relazioni positive tra le persone, neutralizzando l’apparizione delle maras. Al contrario, spazi pubblici perversi, come le case di prostituzione, ecc., stimolano la violenza e la formazione delle bande giovanili. Anche l’amministrazione pubblica pare giocare un ruolo importante: stimolando l’interazione tra le persone in una comunità, amministrando bene le risorse delle comunità e controllando i fattori negativi, le autorità municipali, più vicine alle necessità della popolazione di quelle statali o federali, possono influire indirettamente sullo sviluppo delle maras. Dunque, il fatto che una comunità sia povera, non è un motivo in sé affinchè lì si sviluppino le maras, come non è sufficiente che nella comunità ci sia poca fiducia tra le persone. Povertà e abbandono da parte delle istituzioni si mescolano con scarsità di luoghi di incontro comunitari, con l’assenza di controllo dei luoghi che generano violenza, con la carenza di meccanismi di partecipazione e con l’insicurezza generata dalla violenza. Difronte a una tale complessità di condizioni che determinano congiuntamente lo sviluppo delle maras, è chiaro che semplici misure di polizia sono inutili e dannose. Negli operativi, la polizia entra nelle comunità, reprime, controlla e poi si ritira, lasciando la comunità più disarticolata, più sospettosa e sfiduciata. Inoltre, molte comunità oggi sono in mano di differenti chiese che mescolano assistenza a fondamentalismo religioso e che tentano di risolvere il problema attraverso conversioni personali ma senza trasformare le condizioni di vita della gente. E’ necessaria una serie di politiche e di programmi integrati, nei quali organizzazioni e governi locali si impegnino congiuntamente. Invece di insistere con la semplice repressione, sarebbe importante rivalorizzare la comunità nel controllo del problema, mediante differenti misure. Combattere la povertà e la miseria è fondamentale però è un obiettivo difficile e che richiede tempo, cosicchè mitigare i loro effetti potrebbe essere un obiettivo più realista. Ridurre le situazioni di abbandono e marginalità di molte comunità, modificare il contesto sociale dove vivono i giovani e dotare quest’ultimi di abilità e opportunità, facilitandone l’integrazione sociale sono le sfide delle autorità pubbliche. Quali sono le misure pratiche da prendere? Consistono nel moltiplicare i programmi dedicati ai giovani, migliorare le infrastrutture, i servizi e la partecipazione nei quartieri e nelle comunità. Queste misure locali devono essere inserite in un quadro generale di politiche più amplie che correggano la diseguaglianza e pongano rimedio alla povertà che colpisce diffusamente l’America Latina. Affrontare integralmente il problema delle maras, arrivando alle radici sociali del problema, con politiche e programmi nei quali lo stato e le autorità locali compiano il proprio importante ruolo, è l’unica maniera che il Messico ha per controllare e risolvere il fenomeno, senza incorrere negli errori commessi dai paesi centroamericani. Purtroppo, in questi mesi il Messico ha imitato pedissequamente le misure repressive già attuate in Centroamerica. Inoltre, le politiche neoliberiste, implementate nella federazione da vent’anni, non lasciano spazio a interventi pubblici efficaci, né a livello locale né a livello nazionale. Senza una completa comprensione del problema e delle sue cause, è praticamente inevitabile che le maras continuino a svilupparsi, alimentate dalle gravi contraddizioni strutturali che il Messico condivide con l’America Centrale. 59 10. Tra fuochi incrociati I migranti centroamericani nella loro traversata verso il Nord Di Miguel Pickard 60 Bibliografia Anderson, Sarah, “Seven Years under NAFTA”, Institute for Policy Studies, Washington, D.C. s/f. Arroyo Picard, Alberto, “Lecciones del TLCAN: el alto costo del ‘libre’ comercio (Resumen ejecutivo)”, RMALC, México, noviembre 2003, disponible en: www.rmalc.org.mx Calderón Salazar, Jorge A., “Diez años del TLCAN: balance inicial”, en Economía informa, No. 327, junio 2004, Facultad de Economía, UNAM, México. Carnegie Endowment for International Peace, “NAFTA’s promise and reality”, 2003, disponible en www.ceip.org/pubs Gazol Sánchez, Antonio, “En torno al agotamiento del TLCAN”, en Economía informa, No. 327, junio 2004, Facultad de Economía, UNAM, México. Gómez Cruz, Manuel Angel y Rita Schwentesius, “Desastroso impacto del TLCAN en el sector agroalimentario: es urgente una posición del legislativo para su revisión”, CIESTAAM-Universidad Autónomo de Chapingo, s/f. Gómez Cruz, Manuel Angel y Rita Schwentesius, “Impacto del TLCAN en el sector agroalimentario: Evaluación a 10 años”, CIESTAAM-Universidad Autónomo de Chapingo, s/f. Oxfam Internacional, “Dumping sin fronteras: cómo las políticas agrarias de EEUU destruyen los medios de vida de los productores mexicanos de maíz”, agosto 2003. RMALC (Red Mexicana de Acción Frente al Libre Comercio), “Para el pueblo de México los diez años de la firma del TLCAN no es motivo de celebración”, s/f. Disponible en www.rmalc.org.mx Ruiz Nápoles, Pablo, “El TLCAN y la balanza comercial de México”, en Economía informa, No. 327, junio 2004, Facultad de Economía, UNAM, México. Zarsky, Lyuba y Kevin P. Gallagher, “NAFTA, foreign direct investment, and sustainable industrial development in Mexico”, Americas Program, Interhemispheric Resource Center, enero 2004. Zúñiga, Juan Antonio, “Magnates, los beneficiados por los subsidios en EU, revela estudio”, La Jornada, México, D.F., 6 de enero, 2003. Miguel Pickard BIBLIOGRAFIA “Cuarto Poder”, 19-20-21-22-23-24-25-26-27-28-29 novembre ‘04; 1 dicembre ‘04. “La jornada”, 23-27-30 novembre ‘04; 3-6 dicembre ‘04. “El proceso”, 7/12/2002-28/02/2004-6/03/2004-5/06/2004-12/06/2004-4/09/2004-8/11/2004. Cruz J. M., Pandillas y capital social en Centroamérica, in “Maras y pandillas en Centroamérica”, Universidad Centroamericana de San Salvador. Revelli P., Dietro la violenza delle gang in Salvador, in “Le monde diplomatique”, edizione italiana del marzo 2004. Najar A., la vida en territorio mara, en Masiorare 324° domingo 7 de marzo 2004. Regional presidents sidestep constitutions to make war on gangs, de “Noticen” Vol. 9, N.° 5, Latin America Data Base (LADB), University of New Mexico. 61 La mafia salvadoreña invade Chiapas, en “Milenio.com”, 21/9/2003. Liebel M., Pandillas y maras: señas de identidad, da “Envío” año 21, no. 244, Julio 2002, UCA-Managua. “Milenio”, no. 330, enero 12 de 2004. “Cambio”, no 100, año 3. Invasión o viendo maras con tranchete? 9 marzo 2004. Da: http://ciss.insp.mx/migracion/ 62