La Guerra di Libia - Democrazia e sicurezza

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La Guerra di Libia - Democrazia e sicurezza
anno I, n.1, 2011
Cronache e Rassegne-Focus
La Guerra di Libia
ed il ruolo delle Nazioni Unite
di Giulia Aravantinou Leonidi
Un vento di rinnovamento spazza le dune del deserto libico.
Le proteste scoppiate nel febbraio 2011 in Libia si inseriscono a
pieno titolo nel solco delle rivolte che hanno sinora portato alla
caduta dei regimi di Ben Alì a Tunisi e di Mubarak al Cairo,
lasciando un occidente perplesso e preoccupato ad interrogarsi
sull’esito di tanto inattesi sommovimenti politici che
ridisegnano lo scenario geopolitico arabo-mediterraneo.
Anche il più longevo dei dittatori arabi, Muammar Gheddafi
è stato travolto dall’ondata di protesta scaturita dal desiderio di
abbattere uno status quo che dopo il 17 dicembre 2010 non
potrà più essere restaurato. Dopo trent’anni di colonialismo
italiano e quaranta di regime del colonnello Gheddafi, la Libia
si affaccia ad una nuova guerra e si scopre ancora una volta
vittima di lotte interne sfociate in una guerra civile a cui solo
l’intervento della comunità internazionale può venire in
soccorso.
Poco probabile ipotizzare che la Libia potesse rimanere ai
margini delle rivolte che hanno attraversato gli stati del Nord
Africa negli ultimi mesi. Cauti interpreti, mentre la rivolta
tunisina del pane costringeva la famiglia del dittatore Ben Alì a
riparare all’estero, ritenevano che la Grande Giamahiria
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sarebbe rimasta immune alle proteste, in virtù dei tratti
parzialmente redistributivi del regime del colonnello e delle
ingenti risorse petrolifere e di gas naturale che ne hanno
favorito per anni una posizione privilegiata nei rapporti con le
diplomazie dei governi occidentali.
Le rivolte del Nord Africa presentano indubbiamente delle
similitudini. Si tratta infatti, per quanto riguarda la Tunisia e
l’Egitto, di tentativi di scalzare dal potere regimi scarsamente
rappresentativi dei rispettivi tessuti sociali, dove le difficoltà
dell’economia si intrecciano saldamente alla negazione di
libertà e diritti fondamentali costituzionalmente garantiti nei
Paesi occidentali.
Ma la Libia rappresenta un caso a sé, innanzitutto per la
natura tribale della società che si identifica fortemente con la
figura del colonnello Gheddafi. Significativi cambiamenti
hanno interessato lo Stato libico dopo che il 1 settembre del
1969 Muammar Gheddafi, rovesciando la monarchia Sanusi, ha
proclamato la “Rivoluzione Verde”. L’atteggiamento politico di
Gheddafi è stato dettato sempre dalla sua personalissima
ideologia politica sfociata nel suo manifesto politico in tre
volumi, il libretto verde. L’essenza del pensiero di Gheddafi è
riassunta nella “terza teoria universale” che si proponeva come
alternativa al capitalismo e al marxismo. La teoria propone
l’istituzione di quella che Gheddafi chiama “democrazia
diretta”, in cui i cittadini si autogovernano attraverso la
mediazione o l’intervento delle istituzioni statali o delle
gerarchie militari, tribali, religiose o dell’intellighenzia. Nel
tentativo di dare applicazione concreta alla sua personalissima
concezione di democrazia diretta, Gheddafi ha proceduto a
modificare e , in alcuni casi, a smantellare le strutture sociali e
di governo dello Stato libico. Nel 1973 il colonnello proclama la
Rivoluzione Culturale e successivamente, nel 1975, istituisce “il
potere del popolo”, arrivando infine a proclamare nel 1977 la
Libia “Stato delle masse”. Nel 1979, per enfatizzare la propria
politica di decentralizzazione dei vertici governativi, si
autoproclama Capo della Rivoluzione. La forza innovativa
insita nel sistema politico libico dopo l’avvento al potere di
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Gheddafi emerge dal suo desiderio di rimpiazzare i vecchi
leaders con amministratori capaci di traghettare il Paese verso
la modernità. Nella mente del colonnello i cambiamenti
avrebbero dovuto favorire l’uguaglianza, la mobilitazione delle
masse, l’impegno rivoluzionario, la partecipazione pubblica e
l’autodeterminazione dei cittadini libici. Ma in sostanza, il
cambiamento era funzionale al colonnello che sperava così di
minare l’autorità tradizionalmente appannaggio di ristretti
gruppi elitari, potenzialmente pericolosi per il suo
consolidamento alla guida del Paese. Stupisce in ogni caso,
come cambiamenti tanto radicali ed intesi essenzialmente ad
affrancare la cittadinanza da retaggi che ne paralizzavano lo
stile di vita e l’accesso ai diritti, abbiano finito per avere come
unico risultato il rafforzamento del potere personale di
Gheddafi e la conseguente eliminazione di ogni forma di
controllo politico sul potere esecutivo da lui detenuto.
Ricordare ciò che è stata la Libia di Gheddafi ci aiuta a capire
come sarà la Libia quando i venti della tempesta rivoluzionaria
che sta spazzando il Nord Africa avranno cessato di spirare.
Quali forze si contenderanno il posto di comando del raìs,
saranno forse quelli che oggi imbracciano le armi contro di lui?
La storia ci insegna che chi inizia le rivoluzioni raramente le
porta a termine. E i diritti rivendicati, le libertà per cui ci si è
battuti troveranno questa volta una vera e propria carta
costituzionale ad ospitarle e garantirle?
Prima di porci questi interrogativi, occorre ripercorrere le
tappe di questa crisi sfociata in operazioni militari che vedono
ancora una volta l’Italia protagonista nelle vicende che
riguardano la Libia.
La rivolta in Libia, si è detto, sebbene abbia elementi
peculiari, presenta dei caratteri similari alle rivolte che hanno
acceso le piazze della Tunisia e dell’Egitto. Ed è proprio a
ridosso della caduta di Mubarak in Egitto, che nei giorni delle
proteste aveva tra l’altro incassato il sostegno di Gheddafi, che
la polizia libica interviene a Bengasi per disperdere un sit-in di
protesta contro il governo, organizzato allo scopo di sollecitare
il rilascio del rappresentante legale delle famiglie dell’eccidio
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del 1996 in una prigione di Tripoli, innescando
inconsapevolmente la miccia della rivolta. Il 17 febbraio in
occasione della preannunciata “giornata della collera” contro il
regime, indetta in occasione del quinto anniversario
dell’uccisione da parte della polizia di un gruppo di
manifestanti, a Bengasi i toni della protesta si inaspriscono e
otto persone vengono uccise dalle forze dell’ordine mentre
notizie di nuovi scontri giungono da tutto il Paese ed investono
anche la capitale Tripoli. È l’alba di un nuovo periodo di
sanguinose lotte per il popolo libico. Nei giorni seguenti sulle
televisioni di mezzo mondo si rincorrono le notizie che parlano
di un numero crescente di morti e di inquietanti raid missilistici
sulla popolazione inerme, mentre uno dei figli di Gheddafi
dalla televisione di stato accusa l’occidente di fomentare le
proteste allo scopo di acquisire il controllo sulle importanti
risorse energetiche di cui il Paese dispone. Dopo la notizia di
bombardamenti aerei sulla folla di manifestanti un comunicato
ufficiale del Governo americano condanna con forza l’uso della
violenza sulla popolazione ed il Regno Unito convoca
l’ambasciatore libico per protestare contro l’uso indiscriminato
della forza per reprimere le manifestazioni di piazza.
È il 22 febbraio quando il Segretario Generale delle Nazioni
Unite, Ban-ki-Moon annuncia la riunione del Consiglio di
Sicurezza con al centro la questione della crisi libica per
cominciare a valutare le sanzioni da imporre alla Libia, sanzioni
fortemente volute dalla diplomazia britannica e tedesca, oltre
che dall’Alto Rappresentante PESC dell’UE. Lo stesso giorno
l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani chiede
un’indagine indipendente a livello internazionale sulle violenze
in Libia, mentre vota all’unanimità la sospensione della
Repubblica socialista popolare di Gheddafi dall’organismo e
adotta una risoluzione di condanna del governo libico per la
violenta repressione delle rivolte, istituendo un’apposita
commissione di inchiesta allo scopo di individuare elementi che
riconducano ad attività criminose perpetrate a danno della
popolazione civile. Anche la Corte internazionale dell’Aja
chiamata dall’ambasciatore libico alle Nazioni Unite ad aprire
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un’inchiesta nei confronti del colonnello Gheddafi per crimini
contro l’umanità ⎯ conferma il proprio impegno.
Sul fronte internazionale, mentre cresce la mobilitazione
diplomatica, il 25 febbraio il Presidente americano Obama firma
un provvedimento per il congelamento di somme e beni
detenuti dal leader libico negli Stati Uniti, schierandosi di fatto
al fianco dei rivoltosi.
L’Italia, ex “amica” del colonnello, intensifica gli sforzi
diplomatici e si dichiara favorevole ad elevare sanzioni mirate
nei confronti del regime di Gheddafi ed il Governo, dietro
richiesta britannica e statunitense, accorda il via libera alla
riapertura della base militare di Sigonella, intravedendo la
possibilità dell’imposizione di una no-fly zone sui cieli libici.
Nella notte tra il 26 e il 27 febbraio il Consiglio di sicurezza
dell’ONU, manifestando grave preoccupazione per la
situazione in Libia e condannando la violenza e l’uso della
forza nei confronti dei civili, ha approvato la risoluzione n.1970
(2011). La risoluzione stabilisce un embargo nei confronti della
Libia per quanto riguarda le armi e altri materiali militari,
chiede agli Stati membri dell’ONU di fornire assistenza
umanitaria e riferisce la situazione in Libia alla Corte penale
internazionale. Si prevedono, inoltre, sanzioni individuali nei
confronti della famiglia Al-Qadhafi e di altri ufficiali libici,
quali restrizioni della libertà di viaggiare e il congelamento dei
loro fondi e di ogni altra risorsa finanziaria ed economica.
I principali punti della risoluzione n. 1970 sono: il
deferimento alla Corte penale internazionale dell’Aja,
competente per investigare crimini di guerra, crimini contro
l’umanità e genocidio, necessario in quanto la Libia non è parte
dello Statuto di Roma e obbligo per il prosecutor di riferire
regolarmente al Consiglio di Sicurezza; l’imposizione di
embargo sulle armi e di altre restrizioni; l’imposizione di
sanzioni mirate a colpire figure chiave del regime che
prevedono, tra il resto, il divieto di viaggio per una serie di
soggetti fedeli o parenti di Gheddafi, congelamento dei beni di
Gheddafi e dei suoi stretti familiari, impegno a garantire che i
beni sequestrati saranno messi adisposizione nell’interesse della
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popolazione della Libia, stabilimento di un comitato destinato
all’imposizione di sanzioni mirate contro altri individui ed enti
responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, inclusi gli
ordini di attacco e di bombardamenti aerei sulle popolazioni
civili o strutture; le misure di assistenza umanitaria, volte anche
a sostenere il ritorno nel paese delle agenzie umanitarie.
La risoluzione, inoltre, fa riferimento al Capitolo VII della
Carta Onu, che autorizza la comunità internazionale ad
intervenire se un governo non è in grado di garantire pace e
sicurezza ma con espresso riferimento a mezzi non militari:
infatti, nella risoluzione, è presente un riferimento esplicito
all’articolo 41 della Carta, che prevede l’ipotesi di misure che
non coinvolgono le forze armate (come richiesto, secondo
quanto riportato da fonti di agenzia, da Russia e Cina). La
risoluzione adottata dalle Nazioni Unite per la prima volta vede
l’approvazione all’unanimità del deferimento alla Corte penale
internazionale dell’Aja di un Capo di Stato indiziato di aver
commesso crimini contro l’umanità. É lo stesso Statuto della
Corte a prevedere che per i Paesi che non l’abbiano ratificato sia
esclusivamente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a
disporne il deferimento di autorità.
Per quanto riguarda i rapporti del nostro Paese con la Libia,
il trattato bilaterale di amicizia, partenariato e cooperazione
siglato a Bengasi il 30 agosto 2008 è considerato inoperante e
sospeso in via di fatto per mancanza della controparte e
Gheddafi non è più ritenuto dal Governo italiano un
interlocutore valido. A seguito dei recenti sviluppi della
situazione libica, la sospensione del trattato italo libico è stata
richiesta in atti di indirizzo presentati alla Camera da alcuni
gruppi parlamentari nei momenti iniziali della crisi libica. Dal
punto di vista strettamente giuridico, occorre innanzitutto
ricordare che i trattati sono vincolanti per gli Stati e non per gli
organi di rilevanza internazionale dello Stato che li hanno posti
in essere. Il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione
tra Italia e Libia vincola dunque, i due Paesi e non solo i
governanti pro tempore al momento della firma dello stesso.
Data questa necessaria premessa un primo aspetto meritevole
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di attenzione riguarda la relazione tra gli impegni contenuti nel
trattato e l’azione intrapresa dalla comunità internazionale a
seguito della violenta repressione intrapresa dal regime libico
nei confronti dei propri cittadini.
L’articolo 56 della Convenzione di Vienna prevede che un
trattato che non contenga disposizioni relative alla sua
estinzione e che non preveda la denuncia o il recesso non è
soggetto a denuncia o recesso a meno che:
(a) sia accertato che le parti avessero intenzione di
ammettere la possibilità di denuncia o di recesso, o
(b) un diritto di denuncia o di recesso possa essere dedotto
dalla natura del trattato.
L’intenzione di denunciare o ritirarsi da un trattato deve
essere notificata da una parte all’altra con almeno dodici mesi
di anticipo. L’art. 60 della Convenzione prevede che una
violazione sostanziale di un trattato bilaterale ad opera di una
delle parti legittimi l'altra ad invocare la violazione come
motivo di estinzione del trattato o di sospensione totale o
parziale della sua applicazione. Lo stesso articolo precisa che
per “violazione sostanziale” di un trattato si intende un ripudio
del trattato non autorizzato della presente Convenzione;
oppure la violazione di una disposizione essenziale per la
realizzazione dell'oggetto o dello scopo del trattato. Si segnala
che la Convenzione detta un’articolata procedura per far valere
l’estinzione di un trattato (Parte V, Nullità, estinzione e
sospensione dell’applicazione dei trattati, sez.4, Procedura, artt.
65-68 della Convenzione).
In particolare, la procedura prevede che:
§
la parte che invochi sia un vizio del suo consenso ad
essere vincolato ad un trattato, sia un motivo per contestarne la
validità o per sostenere l'estinzione del trattato, il recesso da
esso o la sospensione della sua applicazione, deve notificare la
sua pretesa alle altri parti;
§
se, dopo un periodo che, salvo i casi di particolare
urgenza, non sarà inferiore ai tre mesi a partire dal ricevimento
della notifica, nessuna parte fa obiezioni, la parte che ha
proceduto alla notifica può adottare la misura proposta;
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§
se però è stata sollevata un’obiezione da un'altra parte,
le parti dovranno ricercare una soluzione attraverso i mezzi di
risoluzione pacifica delle controversie indicati dall'articolo 33
della Carta delle Nazioni Unite;
§
se, nei dodici mesi seguenti alla data in cui l'obiezione è
stata sollevata, non è stato possibile pervenire ad una soluzione
pacifica della controversia si adotteranno le seguenti procedure:
o
ogni parte di una controversia, può, con una sua
richiesta, sottoporre la controversia alla decisione della Corte
internazionale di giustizia, a meno che le parti non decidano di
comune accordo di sottoporre la controversia ad arbitrato;
o
ogni parte di una controversia può mettere in opera la
procedura indicata nell'Allegato alla Convenzione indirizzando
a questo effetto una domanda al Segretario delle Nazioni Unite.
Tra le cause di estinzione o di sospensione del trattato può
essere anche l’impossibilità di esecuzione. Anche il mutamento
fondamentale delle circostanze (clausola rebus sic stantibus) può
rappresentare al contempo causa di sospensione ed estinzione
di un trattato. Si ricorda che il trattato italo-libico non
contempla né l’ipotesi della denuncia né la possibilità di una
sua sospensione. Parte della dottrina internazionalistica
individua, tuttavia, nella situazione di guerra, ovvero di
conflitto armato internazionale, una causa di sospensione dei
trattati tra le parti coinvolte nella misura in cui la situazione di
conflitto determini un mutamento fondamentale delle
circostanze. In tal senso, qualificando l’azione militare incorso
come “conflitto armato internazionale” (come appare potersi
desumere dalla situazione, anche ai fini dell’applicazione alle
parti del diritto umanitario internazionale, e fermo restando che,
dal punto di vista dello Jus ad Bellum, si tratta di un uso
legittimo della forza ai sensi del diritto internazionale), si
potrebbe ipotizzare la sospensione del trattato.
Per quanto concerne il ruolo delle Nazioni Unite, la violenta
repressione messa in atto dal regime libico nei confronti dei
propri cittadini ha rappresentato la motivazione per l’adozione
della risoluzione n. 1973(2011) del Consiglio di sicurezza
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dell’ONU e all’avvio di operazioni militari da parte di una
coalizione internazionale per la sua implementazione.
La risoluzione 1973 (2011) adottata nella notte del 17 marzo
2011 autorizza gli Stati membri ad adottare “tutte le misure
necessarie” per proteggere la popolazione civile. La
risoluzione, in particolare, stabilisce il divieto di sorvolo dello
spazio aereo libico al fine di proteggere i civili (c.d. “no-fly
zone”); istituisce de facto un bando ai voli di aerei libici fuori
dallo spazio aereo libico; rafforza il bando al traffico di armi con
la Libia e ribadisce le sanzioni individuali, già stabiliti con la
precedente risoluzione 1970 (2011). La risoluzione è stata
adottata con 10 voti favorevoli e 5 astensioni (fra cui quelle dei
Membri permanenti Cina e Federazione Russa).
In particolare la risoluzione 1973:
•
•
•
•
Richiede l’immediata adozione di un cessate il fuoco
e la completa cessazione di ogni violenza e di
qualsiasi attacco o abuso a danno di civili;
Sottolinea l’esigenza di intensificare gli sforzi per
addivenire ad una soluzione della crisi che risponda
alle legittime richieste del popolo libico e prende atto
delle decisioni del Segretario Generale di mandare il
suo Inviato Speciale in Libia, nonché del Consiglio di
Pace e Sicurezza dell’Unione Africana di inviare il
suo Alto Comitato ad hoc in Libia, allo scopo di
facilitare il dialogo per approdare alle riforme
politiche necessarie per trovare una soluzione
pacifica e sostenibile;
Richiede che le autorità libiche ottemperino ai loro
obblighi in base al diritto internazionale, compreso il
diritto umanitario internazionale e la normativa sui
diritti umani e sui profughi, e prendano tutti i
provvedimenti necessari per proteggere i civili e
soddisfare i loro bisogni essenziali, nonché per
assicurare il passaggio rapido e senza ostacoli
dell’assistenza umanitaria;
Delibera di imporre un’interdizione su tutti i voli
nello spazio aereo della Jamahiriya Araba di Libia,
allo scopo di contribuire a proteggere i civili;
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•
•
Autorizza gli Stati Membri che ne abbiano informato
il Segretario Generale, che agiscano su iniziativa
nazionale o attraverso organizzazioni o accordi
regionali, operando in collaborazione con il
Segretario Generale, a prendere tutte le misure
necessarie, anche senza tener conto del paragrafo 9
della risoluzione 1970 (2011), per proteggere i civili e
le aree a popolazione civile minacciate di attacco
nella Jamahiriya Araba di Libia, compresa Bengasi,
escludendo l’ingresso di una forza di occupazione
straniera in qualsiasi forma e qualsiasi parte del
territorio libico
Delibera che il congelamento dei beni imposto dai
paragrafi 17, 19, 20 e 21 della risoluzione 1970 (2011)
sia applicato a tutti i fondi, altre attività finanziarie e
risorse economiche che si trovino nei loro territori e
che siano posseduti o controllati, direttamente o
indirettamente, dalle autorità libiche, come designate
dal Comitato, o da individui o entità che agiscano per
loro conto o su loro istruzioni, o da entità possedute
o controllate da esse, come designate dal Comitato, e
delibera ulteriormente che tutti gli Stati faranno sì
che sia impedito ai propri cittadini o ad altri
individui o entità nel proprio territorio di rendere
disponibile qualsiasi fondo o attività finanziaria o
risorsa economica a favore o beneficio delle autorità
libiche, come designate dal Comitato, o di individui o
entità che agiscano per loro conto o su loro istruzioni,
o di entità possedute o controllate da esse, come
designate dal Comitato, e prescrive al Comitato di
designare tali autorità libiche, individui o entità entro
30 giorni dalla data di approvazione di questa
risoluzione e successivamente ove ciò sia
appropriato.
La risoluzione ha dato il via libera alle operazioni militari in
cui anche l’Italia si trova ad essere coinvolta. Tali operazioni,
che non comportano l’ingresso di forze armate sul territorio
libico, sono tutt’ora in corso e non è possibile al momento
prevedere una data certa per il loro termine. Bisognerà, dunque,
attendere per valutare la portata delle sollevazioni dei popoli
del Nord Africa e per verificare le tappe di un’eventuale
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transizione democratica nella quale diritti e libertà
fondamentali possano trovare finalmente uno spazio di
garanzia. Solo il tempo potrà consentire di affermare che la
sicurezza internazionale di cui le Nazioni Unite sono custodi è
stata ristabilita ancora una volta.