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LA "RESISTENZA VERDE" STA RICONQUISTANDO LA LIBIA?
Ad oltre due anni dall'assassinio di Mu'ammar Gheddafi, il governo di Tripoli dichiara lo stato d'emergenza,
mentre la Resistenza Verde sta liberando le città del Sud...
Ad oltre due anni dall'assassinio di Mu'ammar Gheddafi avvenuto il 20 ottobre 2011, il disordine nato dal
vaso di Pandora di quella che un tempo era la Libia non solo sembra tutt'altro che rientrato, ma mette
ormai seriamente in discussione la stessa sopravvivenza del governo “ufficiale”, instauratosi dopo
l'occupazione della NATO. Mentre scrivo, un'autobomba è esplosa da poche ore a Bengasi, provocando
otto morti, e due operai italiani (Francesco Scalise e Luciano Gallo) sembrano esser stati rapiti dal cantiere
edile in cui lavoravano, senza per il momento alcuna rivendicazione dell'accaduto. Le ultime notizie da un
territorio che ormai si mostra un vero e proprio far west mediterraneo, in cui rapimenti, uccisioni e stupri
sono all'ordine del giorno, mentre imperversa una guerra tra bande permanente. In questa situazione, tre
giorni fa il Congresso Generale Libico ha decretato lo stato di emergenza, annunciato in diretta televisiva
dal capo del governo Ali Zeidan. La decisione sarebbe stata presa durante una seduta straordinaria, come
riportato dall'AFP e dalla Voce della Russia, in seguito agli scontri avvenuti in questi giorni nella parte
meridionale del paese. Il riferimento è in particolare alla situazione della città di Sebha, a 770 km dalla
capitale: qui il 18 gennaio, dopo una settimana di scontri a fuoco tra le forze filo-governative e gli uomini
della tribù di Tabu, la base militare di Tamenhant è stata conquistata e occupata da un gruppo di uomini
armati riconducibile a quest'ultima.
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“Ribelli” per le autorità, “lealisti” per i media, si tratta di combattenti libici che si autodefiniscono
“Resistenza Verde” e che non hanno smesso di lottare in difesa della Repubblica Socialista Islamica
nonostante la morte del loro rais. Per loro, il successo conseguito a Tamenhant è molto più che simbolico,
se si considera che si tratta della più grande base militare aeronautica del paese. Accedendovi, i resistenti
avrebbero potuto facilmente avere accesso alle armi e all'equipaggiamento militare di terra e d'aria
presenti al suo interno, insieme alle stanze di controllo dei radar. Forse è proprio per questo che in serata
il ministro della Difesa libico, Abdul-Raziq Shabahi, autorizzava i bombardamenti sulla base (come
riportato da Reuters e Russia Today), che hanno portato alla riconquista della roccaforte militare qualche
ora dopo. Un'occasione, per il governo libico, di ostentare sicurezza nella futura cattura dei colpevoli
dell'affronto, che sarebbero stati tutti riconosciuti ed individuati. Uno scempio umanitario, secondo i
portavoce della Resistenza, perché i bombardamenti avrebbero coinvolto anche la popolazione civile di
Sabha. Eppure, poche ore prima dell'annuncio del ministro della Difesa, il premier Zeidan dichiarava di
avere il pieno controllo sia su Sabha sia sul territorio circostante. Viene da chiedersi, allora, che senso
avrebbe bombardare una città sotto il controllo governativo. Soprattutto perché risulta ancora più difficile
per un esercito non regolare conquistare una base militare come Tamenhant senza aver prima il controllo
anche sulla città adiacente. Tant'è che ad offrire l'aiuto delle proprie forze aeree al governo di Tripoli per il
bombardamento di Sabha sarebbe stato... il principato del Qatar. Non difficile a credersi, se si considera
che lo stesso Qatar utilizzò i propri carri armati a sostegno dei ribelli (o mercenari, a seconda del punto di
vista) che oggi siedono al governo della Libia post-Gheddafi.
Eppure, proprio le vicende di Sabha sembrano mostrare tutta la debolezza dell'attuale governo libico nel
mantenere il controllo del proprio territorio. Un governo che viene definito “monarchico” dai guerriglieri
lealisti (come la bandiera della Libia “liberata”) e che l'11 gennaio scorso ha perso un suo membro, il
ministro dell'Industria Hassan al-Drouhin, trovato assassinato a Sirte, come risposta all'uccisione di 19
persone da parte delle forze governative poche ore prima.
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In questo quadro, la riconquista di Tamenhant potrebbe essere per l'attuale regime libico una vittoria di
Pirro, a fronte di una un'altra riconquista, di ben più vasta portata. Negli stessi giorni degli scontri di Sabha,
i lealisti infatti dichiaravano di aver formato un esercito di 250 mila uomini armati ed equipaggiati, pronti a
cacciare il governo appoggiato dalla NATO, dall'Arabia Saudita e dal Qatar, lanciando un appello a tutto il
popolo libico affinché si unisca nella riconquista della nazione.
Un movimento che, secondo Reseau Voltaire, avrebbe già portato in queste settimane alla liberazione di
molte città del sud, dove sarebbe tornata a sventolare la bandiera verde della Jamahiriya. Si tratta di
Aghdabia, Mars al-Braga, Ras Lanuf, Saluq e Tobruq; a cui si aggiungerebbero, secondo fonti lealiste,
Amsaad, Dome, Tamimi, Baida, Afattaùh, Priairie Qmins, Ddina ed altre realtà minori. Nell'elenco
compariva anche la stessa Sabha, prima dei bombardamenti. Numerose le manifestazioni popolari a
sostegno della Resistenza in tutta la Libia meridionale, che hanno come tratti distintivi il drappo verde o la
foto del defunto Gheddafi, tanto che il governo si sarebbe affrettato a proibire nella zona ovest della
capitale ogni manifestazione di sostegno alla Resistenza Verde. Alcuni siti vicini ai resistenti scrivono
addirittura di manovre interne al governo di Zeidan per rimuovere alcuni ambasciatori, che avrebbero già
fatto sapere il loro appoggio al ritorno della Jamahiriya. Ma, in assenza di elementi certi, è difficile
individuare il confine tra informazione e contro-propaganda. Di veramente certo c'è che, ad oltre due anni
dalla morte di Gheddafi, la Libia continua a grondare sangue.
Non è difficile comprendere, quindi, l'appoggio di gran parte della popolazione alla Resistenza Verde.
“Ora la vita è decisamente peggiore di prima, non c'è sicurezza, non c'è cibo per le persone, non
c'è gas a Tripoli, né elettricità, le strade sono in pessime condizioni e gli ospedali privi di
medicine, mentre ovunque avvengono omicidi e le donne vengono rapite”.
A parlare è uno dei comandanti delle truppe lealiste, che si presenta come Azmi, ufficiale delle operazioni
speciali del Comando Verde, intervistato dalla Pravda online il 18 dicembre scorso. Che si dice convinto di
una futura restaurazione della Jamahiriya (“dall'85 all'88% della popolazione avrebbe espresso questa
scelta alle urne”, se fosse stato possibile), anche in virtù della debolezza dell'attuale governo, che
controllerebbe direttamente solo una piccola parte del territorio nazionale, lasciando il resto in mano a
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milizie, bande, gruppi islamici e gruppi terroristici collegati ad Al Qaeda (escluso il sud).
Per restaurare la nuova repubblica socialista islamica, Azmi vede come punto di riferimento un altro
Gheddafi: si tratta di Saif-al-Islam, il figlio dell'ex rais che osò denunciare i finanziamenti del padre all'allora
presidente francese Sarkozy (in prima fila nell'attacco alla Libia). Oggi Saif è detenuto ad al-Zintan, una
cittadina nel nord del paese, dove i media occidentali l'anno mostrato, ammanettato, nelle prime fasi del
processo a suo carico. Ma secondo l'ufficiale della Resistenza intervistato dalla Pravda
“non vi è nessun governo in Libia che possa realmente processare Saif, tutti stanno soltanto
prendendo tempo. La scelta è tra condannarlo a morte o liberarlo, ma non ci sono elementi
giudiziari contro di lui (...)”.
Mentre invece godrebbe dell'appoggio del popolo e del Consiglio delle tribù, che facilmente gli
permetterebbero di formare un governo:
“C'è molto sostegno per Saif, il popolo libico lo voterebbe”, anche se “le nazioni della NATO, gli
USA, il Qatar e la Turchia non lo accetterebbero”.
Parole che però non tutti sembrano condividere all'interno dello stesso Esercito Verde. Il sito Jamahiriya
News Agency, ad esempio, si chiede chi sia Azmi e quale comando rappresenti realmente. L'accusa, non
troppo indiretta, è di essere una pedina nelle mani di chi vuole mantenere la Libia nell'attuale condizione di
occupazione, che risulta del tutto illegittima dal punto di vista della legalità internazionale.
“Azmi parla di riformare il sistema attuale anziché rifiutarlo”, scrive J.N.A, mentre “non votare è il
modo migliore con cui le persone possono rifiutare di dare legittimità al regime di burattini della
NATO”.
Nell'intervista della Pravda, Azmi esprimeva inoltre la convinzione che il tribunale di Zintan avrebbe alla
fine deciso il meglio per Saif-al-Islam, concedendogli la libertà, e che in realtà lo stesse proteggendo dalla
probabile cattura da parte dei mercenari filo-israeliani e filo-qatarioti di Misurata. Convinzione irrealistica
per Jamahiriya News Agency, secondo cui Saif sarà tenuto in vita solo finché sarà utile, ricordando invece
la lettera scritta dalla madre Safia il 20 ottobre scorso, in cui faceva appello alla comunità internazionale
per avere notizie sulle condizioni di detenzione del figlio.
Divisioni e prese di posizione che rispecchiano la complessità della situazione libica. Una situazione in cui
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le truppe di occupazione, costituite prevalentemente da mercenari stranieri, perdono sempre più terreno a
vantaggio della Resistenza Verde e, se non fosse per l'aiuto dei soliti noti, sarebbero già state sconfitte
definitivamente insieme al governo che vorrebbero difendere. Se ciò avverrà e se basterà a riportare la
pace in terra libica sarà il futuro a dircelo.
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