Capitolo 2 Il diritto internazionale dell`ambiente

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Capitolo 2 Il diritto internazionale dell`ambiente
Edizioni Simone - Vol. 48/1 Compendio di Diritto dell’ambiente
Parte primaInquadramento e disciplina
Capitolo 2 Il
 diritto internazionale
dell’ambiente
Sommario 1. Introduzione. - 2. I principi generali del diritto internazionale dell’am‑
biente. - 3. Il diritto convenzionale in tema di ambiente. - 4. Le Conferenze
delle Nazioni Unite. - 5. Le Convenzioni e i protocolli ambientali. - 6. I
soggetti del diritto internazionale dell’ambiente. - 7. Il regime della respon‑
sabilità.
1.Introduzione
Per lungo tempo, la tutela dell’ambiente è stata considerata materia di esclusivo interesse interno degli Stati. È soltanto a partire dagli anni ’60, che la Comunità internazionale ha preso coscienza che la salvaguardia dell’ambiente necessita di un’impostazione globale; poiché tutti gli Stati contribuiscono, certamente in misura diversa, al
deterioramento ambientale è necessario che tutti agiscano per la tutela dell’ambiente
inteso come patrimonio comune dell’umanità. È solo in epoca recente, dunque, che la
Comunità internazionale ha iniziato a cooperare per la tutela dell’ambiente perché
consapevole che solo un’azione sinergica è in grado di minimizzare i costi e di
massimizzare i risultati.
Si è venuto così a creare un «tessuto normativo» comune, che può essere definito diritto internazionale dell’ambiente, costituito da norme consuetudinarie e convenzionali, principi generali e altri atti ad efficacia non vincolante.
2.I principi generali del diritto internazionale dell’ambiente
A livello internazionale, i principi generali di diritto ambientale, si rinvengono in
Trattati o sono il frutto di elaborazioni a livello giurisprudenziale.
Essi potranno avere natura di consuetudine, o di principio generalmente riconosciuto
dalle nazioni civili, in presenza delle condizioni necessarie a tal fine nel diritto internazionale, altrimenti manterranno semplicemente il valore giuridico corrispondente
agli strumenti di diritto scritto in cui saranno eventualmente contenuti (FODELLA).
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A) Il divieto di inquinamento transfrontaliero
In una prima fase, il problema dell’ambiente si pone nel quadro dei rapporti di vicinato, soprattutto con riguardo ai corsi d’acqua internazionali e ad emissioni di fumi e
sostanze tossiche dovute ad attività industriali, esercitate in prossimità dei confini.
Oggi, invece, il diritto internazionale in materia di ambiente si sviluppa sulla base di
principi ricavati soprattutto da attività estremamente pericolose, come quelle delle
centrali nucleari in grado di provocare danni di notevole entità anche a grandi distanze.
Dall’esame della prassi, è possibile affermare l’esistenza di una regola di diritto internazionale generale, che impone un divieto di inquinamento transfrontaliero. Questa
regola, prevede che nessuno Stato ha il diritto di usare il proprio territorio o di
permetterne l’uso in modo da causare danno al territorio di un altro Stato.
Questa norma fondamentale, dunque, impone un obbligo, in capo a ciascuno Stato, di
non agire in modo da arrecare un pregiudizio ad altri Stati. È vero che ciascuno Stato
ha un diritto esclusivo all’esercizio della sovranità nell’ambito del suo territorio e, di
conseguenza, il diritto di disporre liberamente delle risorse naturali presenti nel contesto territoriale sul quale si irradia la sua sovranità, ma è anche vero che in una comunità internazionale costituita da soggetti ugualmente sovrani, la libertà di ciascuno
Stato non deve pregiudicare quella degli altri Stati.
L’origine storica del divieto di inquinamento transfrontaliero
Il divieto di inquinamento transfrontaliero trova la sua prima applicazione nella sentenza resa
l’11 marzo 1941, da un Tribunale Arbitrale ad hoc, istituito per risolvere la controversia tra
Stati Uniti e Canada in merito alla Fonderia di Trail. Il Tribunale stabilì che «in conformità a
principi di diritto internazionale… nessuno Stato ha il diritto di usare o permettere l’uso del
proprio territorio in modo da causare danni derivanti dall’emissione di fumi sul territorio di
un altro Stato..., quando ciò determina significative conseguenze e quando è dimostrato da
prove chiare e convincenti» (Lodo arbitrale, UN Reports Int. Arb. Awards III, 1965).
Il divieto di inquinamento transfrontaliero è stato successivamente ribadito e precisato sia nel
Principio n. 21 della Dichiarazione di Stoccolma del 1972, sia nel Principio n. 2 della Dichiarazione adottata in occasione della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 e delle quali si
tratterà più ampiamente in seguito. Il principio n. 21 è ormai considerato dalla dottrina dominante parte integrante del diritto consuetudinario in tema di ambiente e stabilisce che «gli
Stati hanno, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite e con i principi di diritto internazionale, il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse conformemente alle proprie politiche
ambientali, e la responsabilità di assicurare che le attività svolte all’interno della loro giurisdizione o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di spazi sottratti alla giurisdizione degli Stati». Nella dichiarazione di Rio la formulazione del principio
è quasi identica.
Accertata l’esistenza nel diritto consuetudinario del divieto di inquinamento transfrontaliero ne deriva il dovere di ciascuno Stato, che intende svolgere attività suscettibili
di arrecare danni all’ambiente, di adottare tutte le misure opportune per eliminare
o attenuare i rischi di danni transfrontalieri; se è vero, infatti, che gli Stati sono
liberi di intraprendere nel loro territorio tutte le attività che ritengono opportune, hanno anche il dovere di non nuocere agli altri Stati. Al fine di verificare la legittimità di
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date utilizzazioni del territorio, il fattore rilevante diventa la diligenza usata dallo
Stato di origine nell’adottare misure idonee a prevenire o attenuare i rischi di danni
ecologici (cd. dovere della due diligence).
B) Il principio di prevenzione
La progressiva presa di coscienza dell’irreversibilità di molti danni ambientali, ha
favorito la formazione di una prassi orientata a riconoscere l’esistenza di un obbligo
di prevenzione cha va ad aggiungersi a quello di riparazione.
Trattasi di un vero e proprio principio generale di diritto internazionale dell’ambiente
consistente nell’adozione di tutte le misure preventive necessarie ad impedire che
la realizzazione di date attività rechi gravi pregiudizi transfrontalieri; esso è
adempiuto attraverso un comportamento improntato sulla due diligence e, di conseguenza, la prova dell’adozione dei criteri di diligenza, richiesti dal caso concreto,
elimina ogni eventuale forma di responsabilità in capo allo Stato.
C) Il principio di precauzione
Nel Principio n. 15 della Dichiarazione di Rio del 1992 (vedi § 3, lett. C) si legge che
«al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno in modo ampio l’approccio
precauzionale secondo le rispettive capacità. Qualora vi siano minacce di danni gravi o irreversibili, l’assenza di una piena certezza scientifica non sarà usata come argomento per ritardare l’adozione di misure efficaci, in funzione al loro costo, per
prevenire il degrado ambientale».
Preso atto dell’irreversibilità di molti danni ambientali causati da attività umane, questo principio stabilisce un obbligo, per gli Stati, di agire preventivamente, al fine di
evitare il prodursi di un danno, anche a prescindere dalla certezza scientifica che
possa giustificare una data azione e la cui acquisizione potrebbe risultare irrimediabilmente tardiva per prevenire un grave pregiudizio all’ambiente (cd. principio di
precauzione).
Il documento elaborato a Rio afferma, inoltre, che le misure necessarie a prevenire il
degrado ambientale devono risultare efficienti in relazione al loro costo; questo implica che il principio precauzionale può essere applicato soltanto in seguito ad un’attenta e rigorosa ponderazione del rischio che il danno si verifichi e dei costi economici
delle misure in grado di evitare un tale pregiudizio all’ambiente. Il costo delle misure
preventive, quindi, deve risultare inferiore a quello che potenzialmente si sarebbe sostenuto nel caso in cui il danno si fosse realmente prodotto.
D)Il principio «chi inquina paga»
Il principio «chi inquina paga», considerato vincolante nei Paesi europei e dell’OCSE e codificato come Principio n. 16 nella Dichiarazione di Rio, non solo richiede che
l’autore di un danno all’ambiente sia considerato responsabile e tenuto a risarci-
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re coloro che sono stati danneggiati, ma, soprattutto, impone agli Stati di non legiferare in modo da garantire che l’autore del danno non sia tenuto al risarcimento.
E) L’obbligo di cooperazione tra Stati in materia di ambiente
L’obbligo di cooperazione tra gli Stati, già presente nella dichiarazione di Stoccolma,
trova nel corso della conferenza di Rio piena codificazione (vedi § 4, lett. A e C); in
questa sede si prevede, infatti, che gli Stati «devono cooperare in uno spirito di partnership globale per conservare, proteggere e ristabilire la salute e l’integrità dell’ecosistema della Terra» (Principio n. 7), «devono cooperare… per lo sviluppo di nuove
regole di diritto internazionale riguardanti la responsabilità e il risarcimento degli
effetti negativi derivanti dai danni dell’ambiente causati, da attività poste in essere
all’interno della loro sfera di giurisdizione o al di fuori di essa» (Principio n. 13) e
«devono cooperare nello sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente nel campo
dello sviluppo sostenibile» (Principio n. 27).
Un diffuso orientamento dottrinale considera come corollario della regola relativa alla cooperazione, tre obblighi di carattere procedurale:
— l’obbligo per lo Stato di informare, tempestivamente, gli altri Stati circa la propria volontà di
intraprendere un’attività suscettibile di arrecare danni all’ambiente;
— l’obbligo di avviare (in caso di opposizione di Stati terzi alla realizzazione di un progetto) le
consultazioni necessarie al fine di arrivare ad un componimento pacifico della vertenza;
— l’obbligo della notifica d’urgenza delle catastrofi naturali e di tutte quelle situazioni atte a provocare danni all’ambiente.
Questi tre obblighi procedurali trovano il loro fondamento nel principio di cooperazione in materia di ambiente e si sono affermati grazie al crescente numero di accordi
e sentenze che ad essi fanno esplicito riferimento.
F) Lo sviluppo sostenibile
Dall’esame della prassi si evince l’esistenza di un ultimo, ma non meno importante,
principio in tema di tutela dell’ambiente, presente in numerose convenzioni e codificato nel Principio n. 3 della Dichiarazione adottata a Rio nel 1992: lo sviluppo sostenibile (in proposito vedi anche Cap. 3, § 4).
Lo sviluppo è considerato sostenibile quando soddisfa le esigenze delle generazioni
presenti senza compromettere — attraverso uno sfruttamento indiscriminato delle
risorse disponibili — il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni future; è
questo un concetto che prevede un nesso di interdipendenza e complementarietà tra
la tutela dei diritti dell’uomo, lo sviluppo economico e la tutela dell’ambiente, in
quanto uno svolgimento delle attività economiche che adotti tutte le misure necessarie
ad evitare danni ecologici garantisce, allo stesso tempo, un’adeguata tutela dell’interesse delle collettività umane.
Lo sviluppo sostenibile va inteso quindi, come un concetto dinamico e non statico, un
processo di continuo cambiamento, per cui lo sfruttamento delle risorse naturali, gli
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investimenti, lo sviluppo tecnologico, i mutamenti istituzionali vanno attuati in modo
da tenere in dovuta considerazione non solo i bisogni presenti, ma anche con quelli
futuri.
Le zone non soggette a sovranità
La regola di diritto internazionale che impone a ciascuno Stato l’obbligo di astenersi da attività inquinanti, si pone in modo particolare nelle zone non sottoposte ad alcuna giurisdizione,
perché in queste zone è la stessa utilizzazione degli spazi che non deve arrecare pregiudizio
alla libertà ed agli interessi degli altri Stati.
In relazione allo spazio extratmosferico riveste un ruolo chiave il Trattato sui principi regolatori delle attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio esterno.
In tale accordo la libertà di utilizzazione dello spazio, infatti, trova un limite nel divieto di
causare pregiudizio all’ambiente. L’art. 9 stabilisce, infatti, che «le parti effettueranno lo
studio dello spazio extra-atmosferico, compresa la luna e gli altri corpi celesti, e procederanno alla loro esplorazione in modo da evitare gli effetti dannosi della loro contaminazione come
pure le modificazioni nocive dell’ambiente terrestre risultanti dall’introduzione di sostanze
extra-terrestri».
L’alto mare è un’altra zona al di fuori della giurisdizione degli Stati. Tuttavia, in quest’area,
ai fini della tutela dell’ambiente, esiste una rilevante eccezione al principio della libertà dei
mari dal momento che per uno Stato è possibile esplicare la sua autorità anche nei confronti di
navi battenti bandiera straniera, al fine di adottare tutte le misure necessarie per prevenire o
eliminare un pericolo grave ed imminente di inquinamento che minaccia la costa, a seguito di
un incidente marino.
La disposizione in parola trae origine dall’incidente della Torrey Canyon. Nel marzo del 1967,
questa petroliera, battente bandiera liberiana e carica di oltre 100.000 tonnellate di idrocarburi,
si incagliò su alcune rocce al di fuori delle acque territoriali della Gran Bretagna. Il governo
britannico, per evitare ulteriori danni all’ambiente marino, decise di intervenire bombardando
il relitto per bruciare il petrolio rimasto a bordo. Nessuno Stato protestò per le misure adottate
dalla Gran Bretagna, nonostante fosse intervenuta in una zona al di fuori della sua giurisdizione.
Questa deroga al principio della libertà degli Stati in alto mare trova piena codificazione nella
convenzione di Montego Bay del 1982 (vedi § 3 lett. A); dispone, infatti, l’art. 221 che la libertà dei mari non può «pregiudicare il diritto che hanno gli Stati, alla stregua del diritto internazionale, sia consuetudinario che convenzionale, di fare applicare, al di là del mare territoriale, delle misure proporzionate ai danni che essi hanno effettivamente subito al fine di
proteggere la loro costa… contro l’inquinamento o una minaccia di inquinamento derivante
da un incidente di mare».
3.Il diritto convenzionale in tema di ambiente
L’emergere delle nuove tematiche ambientali richiamò subito un’attenzione globale
proprio in ragione della natura internazionale dei problemi ad esse collegati e della
convinzione che soltanto le soluzioni comuni e le strategie collettive potessero condurre a risultati apprezzabili.
In realtà, ancora nella prima metà del XX secolo, la regolamentazione esistente in
campo ambientale si rifaceva essenzialmente ad alcune norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e aventi natura consuetudinaria: si trattava per lo più di
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orientamenti di massima che postulavano il divieto di inquinamento transfrontaliero,
l’obbligo di ridurre i rischi di incidenti e quello di prevenire eventuali danni.
Negli ultimi decenni del secolo scorso la sensibilità verso la ricerca di determinazioni
congiunte si rafforzò notevolmente, sia per l’intensificarsi dei fenomeni di inquinamento, che per il verificarsi di gravi incidenti (come quello citato del 1967, quando la
petroliera Torrey Canyon riversò il suo carico di petrolio a largo della Gran Bretagna).
Furono essenzialmente questi i fattori che accelerarono il processo di trasformazione
del diritto ambientale determinandone l’evoluzione da consuetudinario a convenzionale.
4.Le Conferenze delle Nazioni Unite
A) La Conferenza di Stoccolma
La nuova fase del diritto dell’ambiente si inaugurò con la Conferenza delle Nazioni
Unite sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel 1972 e conclusasi con l’adozione, oltre che di una Risoluzione relativa ad accordi istituzionali e finanziari, di
un Piano d’azione e di una Dichiarazione di principi che espressamente ribadì:
— la necessità di prevenire le principali cause di inquinamento e i maggiori rischi
ecologici;
— la libertà di sfruttare le risorse naturali conformemente alla Carta delle Nazioni
Unite e in modo da garantire a tutti soddisfacenti condizioni di vita;
— il richiamo ad una politica di cooperazione volta a limitare eventuali danni o aggressioni all’ambiente e che coinvolgesse tutti gli Stati in virtù di un principio di
eguaglianza.
I risultati emergenti dalla Conferenza di Stoccolma apparvero subito molto importanti, sia perché richiamarono l’attenzione internazionale sulla gravità del problema
ecologico, sia perché i lavori si conclusero con l’istituzione dell’UNEP (Programma
delle Nazioni Unite per l’ambiente), organo ausiliario dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite avente funzioni di studio, programmazione, promozione, razionalizzazione e assistenza tecnica agli Stati nell’ambito del diritto internazionale dell’ambiente, dotato di una propria struttura (Consiglio di alta amministrazione e Direttore
esecutivo) e di autonomia. Fu nell’ambito di queste competenze che il Programma,
avente anche il compito di adottare raccomandazioni e atti non vincolanti da sottoporre alla ratifica degli Stati, diede l’avvio ad una serie di negoziati che si conclusero poi
con l’adozione di importanti convenzioni.
B) Il Rapporto Bruntdland
Nel 1983, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite costituì la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo (World Commission on Environment and Develop-
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ment) alla quale attribuì il compito di analizzare i punti critici dell’interazione tra uomo
e ambiente e di proporre misure concrete per fare fronte alle problematiche di deterioramento ambientale.
Nel 1987 fu pubblicato il Rapporto Brundtland, dal nome del Primo Ministro norvegese che presiedeva la commissione, il quale conteneva una serie di «Principi legali per la protezione ambientale».
Il c.d. rapporto Brundtland definisce lo sviluppo sostenibile quel principio che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità per le
generazioni future di soddisfare i propri bisogni.
Da tale definizione emergono due concetti chiave:
— quello dei bisogni, inteso come la totalità delle esigenze della generazione presente in contrasto con quelle delle generazioni future;
— quello dei limiti, posti allo sfruttamento sfrenato delle risorse ambientali.
In sostanza sono quattro gli elementi fondamentali che costituiscono lo sviluppo sostenibile:
— il principio dell’uso equo e sostenibile delle risorse naturali: rappresentato
dall’uso razionale e prudente delle risorse naturali;
— il principio dell’equità intergenerazionale: inteso come norma programmatica
che impone che agli Stati di considerare, nell’applicazione delle proprie politiche,
le esigenze ed i bisogni non solo della generazione presente ma anche di quella
futura. Ciò significa porre un limite ad un uso indiscriminato ed eccessivo delle
risorse naturali in modo da evitare un depauperamento delle stesse ai fini del loro
godimento per le generazioni future;
— il principio di equità intragenerazionale: ogni Stato nell’applicazione delle proprie politiche di sviluppo deve rispondere non solo alle esigenze del suo popolo ma
anche a quelle degli altri Paesi. In pratica emerge la necessità da parte di tutti gli
Stati di cooperare per il raggiungimento di un medesimo obiettivo comune;
— l’integrazione tra le politiche dello sviluppo e quelle della tutela ambientale:
si tratta di affrontare i problemi relativi all’ambiente attraverso l’adozione di un
approccio globale ed equilibrato integrando le esigenze economiche di sviluppo a
quelle ambientali.
C) La Conferenza di Rio de Janeiro
Fu nel clima dei nuovi contenuti definitori forniti dal Rapporto Bruntdland (vedi lett.
B) al concetto di sviluppo sostenibile che, dopo più di due anni di lavori preparatori,
venne convocata a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente
e sullo sviluppo (giugno 1992).
L’attenzione della Conferenza internazionale si incentrò sulla necessità di rivalutare i
principi espressi a Stoccolma e di considerare lo sviluppo sostenibile come un punto
di riferimento essenziale ed irrinunciabile nel nuovo approccio alle tematiche ambien-
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tali, intese in un’ottica sempre meno settoriale. Maturata e svoltasi in un grande fermento, la Conferenza si concluse offrendo la redazione di tre importanti documenti:
— la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo;
— l’Agenda XXI;
— la Dichiarazione di principi per la conservazione e lo sviluppo sostenibile delle
foreste.
La Dichiarazione sull’ambiente e sullo sviluppo rappresenta un vero manifesto di
principi e sancisce innanzitutto il diritto di ogni generazione a collocarsi come soggetto centrale intorno al quale organizzare lo sviluppo sostenibile e ad avere una vita sana
e produttiva, da vivere in armonia con la natura.
A questo obiettivo prioritario sono subordinati altre importanti iniziative, strettamente collegate a
statuizioni di principio, ovvero:
— quella di evitare e ridurre i rischi dell’inquinamento e di tutelare le esigenze ambientali;
— di cooperare per combattere la povertà al fine di conseguire uno sviluppo omogeneo o almeno equilibrato fra tutti Paesi, in modo da eliminare le disparità più evidenti di tenore di vita fra
le diverse popolazioni del mondo;
— riconoscere l’importanza di una partnership globale allo scopo di tutelare l’integrità dell’ecosistema terrestre rispetto al quale i vari Paesi hanno responsabilità comuni ma differenziate in
base al maggior apporto inquinante dei Paesi più sviluppati.
Il tema della responsabilità si riflette anche in altre linee sistematiche tracciate durante la Conferenza e precisamente quando si afferma che i costi dell’inquinamento devono essere sostenuti
dall’agente inquinante e quando, in base al principio precauzionale, si sottolinea che nei casi di
rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire
da pretesto per rinviare l’adozione di misure adeguate ed effettive dirette a prevenire il degrado
ambientale.
Altro principio emergente dai lavori di Rio è quello della collaborazione scientifica, che sola può
suggerire soluzioni innovative di contenimento dell’inquinamento, per attuare le quali è necessario
investire tutti i livelli operativi e svolgere campagne di informazione e sensibilizzazione, coinvolgendo Stati nazionali e popolazione. Si pongono altresì nuove necessità, come quella di effettuare la valutazione di impatto ambientale, di sensibilizzare gli Stati a diffondere immediatamente la
notizia di eventuali catastrofi o di ogni altra situazione di emergenza etc.
Sempre nel solco della tutela ambientale a Rio fu redatto anche un altro importante
documento, l’Agenda XXI, contenente un programma di pianificazione delle azioni
da intraprendere a livello mondiale, nazionale e locale dall’ONU, dai singoli governi
e delle amministrazioni locali, al fine di realizzare un modello di sviluppo sostenibile
per il XXI sec. (da qui il nome Agenda XXI), attraverso un utilizzo equilibrato delle
risorse umane, naturali ed economiche.
Ultimo risultato conseguito a Rio fu la Dichiarazione sulla gestione, la conservazione e lo
sviluppo sostenibile di ogni tipo di foresta, basata sull’esigenza di contenere gli squilibri climatici derivanti da una incontrollata deforestazione.
A distanza di 20 anni dal primo summit di Rio, quasi 200 Paesi di tutto il mondo si sono
riuniti (20-22 giugno 2012) in occasione del vertice ONU RIO + 20. Tuttavia, deve essere evidenziato che in seno al recente vertice è stato sviluppato un documento dal quale
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non emergono impegni precisi e vincolanti per i Paesi se non una spinta verso la
«green economy» quale strumento fondamentale per raggiungere lo sviluppo sostenibile.
D)Il Vertice di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile (WSSD)
Il WSSD (World Summit on Sustainable Development), organizzato dall’ONU, si è
tenuto a Johannesburg, in Sud Africa, dal 26 agosto al 4 settembre 2002 ed ha visto
la partecipazione di 189 Stati.
Lo scopo ultimo che l’ONU ha inteso perseguire con il WSSD è stata l’individuazione di modalità operative concrete che consentano agli esseri umani di migliorare
la qualità della loro esistenza preservando al contempo le risorse naturali.
Con il WSSD, oltre ad una riaffermazione dell’impegno di tutti nell’Agenda XXI di
Rio si è raggiunto l’importante risultato di riempire il concetto di sviluppo sostenibile
di maggior significato grazie al nuovo collegamento concettuale tra povertà, ambiente e risorse naturali e si è finalmente capita l’importanza della collaborazione tra
Governi e settore privato nella realizzazione di piani di azione fattibili.
Il documento finale redatto dai partecipanti è stato articolato in due parti:
— la Dichiarazione politica, frutto di complessi negoziati tra gli Stati, ha precisato
cosa deve essere fatto in nome dello sviluppo sostenibile;
— il Piano d’Azione sullo Sviluppo Sostenibile contiene 152 obiettivi concreti da realizzare divisi in cinque principali aree d’azione conosciute con l’acronimo di WEHAB
(dalle iniziali delle parole inglesi water, energy, health, agricolture, biodiversity).
Per ciascuno dei 152 obiettivi sono state presentate iniziative di collaborazione volontaria tra
Governi, ONG e privati.
5.Le Convenzioni e i protocolli ambientali
A) Le principali Convenzioni
Indubbiamente quello di Stoccolma fu l’appuntamento più significativo dell’epoca che
ha fatto da apripista alla successiva stipula di importanti trattati che sarebbero divenuti il cardine della futura disciplina, seppur negli ambiti parziali e settoriali cui le loro
disposizioni erano dirette. A questo proposito meritano menzione:
— la Convenzione di Ramsar sulle zone umide di importanza internazionale del
1971, il cui scopo è quello di indurre gli Stati aderenti a predisporre adeguati strumenti conservativi delle caratteristiche ecologiche delle cd. zone umide (paludi,
acquitrini, etc.) minacciate inesorabilmente di scomparire a causa della «invasione
progressiva da parte dell’uomo»;
— la Convenzione di Ginevra del 1979 sull’inquinamento atmosferico a lunga
distanza, redatta per fronteggiare il fenomeno delle piogge acide dovute ad emissioni di zolfo, idrocarburi e ossidi di azoto che, trasformandosi in acidi, ricadono
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sulla terra anche a notevoli distanze dai luoghi di origine provocando danni rilevanti. Ne deriva che il suo campo di applicazione si estende all’inquinamento atmosferico «la cui fonte sia compresa in tutto o in parte in una zona che rientra nella giurisdizione nazionale di uno Stato e che abbia effetti dannosi in una zona che rientra
nella giurisdizione di un altro Stato» (vedi anche Parte III, Cap. 2, § 11).
— la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, tesa a conciliare
due esigenze fondamentali:
a) il diritto sovrano degli Stati a sfruttare le proprie risorse naturali (art. 193);
b) l’obbligo degli stessi a proteggere e preservare l’ambiente marino, istituendo
zone di salvaguardia degli ecosistemi e delle specie della fauna e della flora.
La convenzione, che dedica particolare attenzione al tema della cooperazione
mondiale e regionale, insiste sull’elaborazione congiunta delle norme e delle procedure, sottolineando la necessità di notificare prontamente i danni e di condurre
attività di studio e ricerca ambientale;
— la Convenzione di Vienna per la protezione della fascia di ozono del 1985,
avente l’obiettivo di contrastare gli effetti nocivi derivanti dall’assottigliamento
della fasce di ozono, fenomeno che determina un aumento dell’irradiazione ultravioletta di origine solare con conseguenze fortemente negative sulla salute umana
e su tutti gli ecosistemi suscettibili di subire forti alterazioni. Con l’obiettivo di
specificare e rafforzare gli obblighi previsti nella Convenzione, nel 1987 fu adottato il Protocollo addizionale di Montreal, recante un calendario progressivo di
riduzioni di emissioni di clorofluorocarburi (CFC), ed altri gas ad effetto serra, del
50% nell’arco di dieci anni, dal 1987 al 1998. Tale Protocollo prevede, inoltre, un
regime di speciali concessioni per i Paesi in via di sviluppo;
— la Convenzione di Vienna tenutasi nel 1986 sul tema dell’energia nucleare e
della necessità di una tempestiva notificazione in caso di incidente, di allarme o di
emergenza radioattiva e di un’altrettanto immediata assistenza in caso di incidente;
— la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC)
adottata a New York nel 1992 nell’ambito del Summit di Rio de Janeiro (vedi § 4),
per rispondere ai rischi derivanti da fenomeni di inquinamento capaci di provocare
alterazioni e squilibri climatici e di incidere inevitabilmente sugli ecosistemi;
— la Convenzione sulla biodiversità del 1992 (CBD) al fine di tutelare la diversità
biologica intesa come «la variabilità tra organismi viventi di qualsiasi tipo compresi, tra gli altri, quelli terrestri, marini e di altri ecosistemi acquatici e i complessi
ecologici dei quali questi sono parte; ciò include la diversità all’interno delle specie,
tra le specie e degli ecosistemi»;
— la Convenzione contro la desertificazione del 1994, identificata come «la degradazione delle terre in zone aride, semi-aride e subumide principalmente causata
dalle attività umane e dalle variazioni climatiche»;
— la Convenzione sul diritto all’utilizzazione dei corsi d’acqua internazionali del
1997, basata su due principi cardine: la necessità di un’equa e ragionevole utilizza-
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zione dei corsi d’acqua da parte degli Stati rivieraschi e l’obbligo per gli stessi di
cooperare e scambiarsi informazioni per salvaguardare i fiumi dall’inquinamento;
— la Convenzione di Aarhus del 1998 sull’informazione ambientale che prevede il
dovere delle autorità pubbliche di mettere a disposizione del pubblico le informazioni sull’ambiente che vengono loro richieste e, più in generale, il dovere assoluto
di divulgazione dell’informazione ambientale in possesso dell’apparato pubblico.
B) Il Protocollo di Kyoto e i successivi sviluppi
La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 (vedi
lett. A) è un atto internazionale importante ma al tempo stesso alquanto generico nei
suoi contenuti. Essa, infatti, ha come obiettivo ultimo quello di stabilizzare «le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa
qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto entro un periodo di tempo sufficiente per permettere agli
ecosistemi di adattarsi naturalmente a cambiamenti di clima e per garantire che la
produzione alimentare non sia minacciata e lo sviluppo economico possa continuare
ad un ritmo sostenibile» (così recita l’art. 2 della Convenzione).
Le concrete modalità per procedere alla stabilizzazione e alla riduzione dei gas serra
nell’ambiente sono demandate ad un apposito organo, la Conferenza delle Parti (COP)
che si riunisce annualmente e ha il compito di esaminare lo stato di attuazione della
Convenzione ed elaborare Protocolli specifici nei quali sono determinati quantitativamente le percentuali di riduzioni dei gas serra che ogni Stato si impegna ad attuare
nell’arco di un periodo di tempo prestabilito.
Il più importante di tali atti integrativi è il Protocollo di Kyoto adottato nella città
giapponese l’11 dicembre 1997 nel corso della terza Conferenza delle Parti (COP-3).
Frutto di numerosi compromessi, il Protocollo si pone come principale obiettivo la
riduzione delle emissioni di gas inquinanti del 5% rispetto a quelle rilevate nel 1990
(assunto come anno base), attraverso una serie di impegni da attuarsi nel periodo di
riferimento 2008-2012.
Partendo dal presupposto che gli Stati hanno delle responsabilità diverse rispetto
all’emissione di gas, a Kyoto sono state individuate tre diverse categorie di Paesi ad
ognuna delle quali sono stati affidati compiti ed obiettivi diversi:
— Paesi in via di sviluppo: per essi non sono previste riduzioni di gas a effetto serra
ma esclusivamente obblighi di cooperazione e scambi di informazioni;
— Paesi in transizione verso un’economia di mercato, per i quali il Protocollo prevede obblighi ridotti in tema di emissione di gas ad effetto serra;
— Paesi economicamente avanzati, per i quali il Protocollo stabilisce individualmente la percentuale di riduzione dei gas serra (ad esempio Unione europea 8%, Giappone 6%) che nel complesso dovrebbe contribuire a raggiungere l’obiettivo finale
del 5%.
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Parte prima Ambiente: inquadramento e disciplina internazionale ed europea
I meccanismi di flessibilità previsti dal Protocollo di Kyoto
Elemento chiave del Protocollo è il concetto di flessibilità; sono, infatti, previsti diversi meccanismi che consentono alle Parti di scambiare unità di riduzione di emissione di gas. Si tratta:
— del Clean Development Mechanism (CDM). I Paesi industrializzati e ad economia in
transizione possono realizzare progetti nei Paesi in via di sviluppo che producono benefici ambientali in termini di riduzione delle emissioni di gas-serra e di sviluppo economico
e sociale dei Paesi ospiti; tali progetti generano crediti di emissione per i Paesi promotori
dell’intervento;
— della Joint Implementation (JI). I Paesi industrializzati e ad economia in transizione
possono realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas-serra in un altro Paese
dello stesso gruppo e, congiuntamente con il paese ospite, possono utilizzare i crediti che
ne derivano;
— dell’Emissions Trading (ET). Si tratta di un vero e proprio mercato dei crediti di emissione tra Paesi industrializzati e ad economia in transizione. In pratica uno Stato che riesce
a conseguire una diminuzione delle proprie emissioni di gas serra superiore all’obiettivo
determinato dal Protocollo può cedere tali «crediti» a un Paese che, al contrario, non sia
stato in grado di rispettare i propri impegni.
L’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto era subordinata a due condizioni:
— doveva essere ratificato da almeno 55 Stati firmatari della Convenzione sui cambiamenti climatici (l’Italia ha provveduto con la L. 1° giugno 2002, n. 120);
— gli Stati firmatari dovevano includere un numero di Paesi che nel loro complesso
producessero almeno il 55% delle emissioni inquinanti del pianeta secondo i dati
del 1990 riportati nell’Allegato I al Protocollo.
La netta opposizione di alcuni Paesi firmatari della Convenzione del 1992, in particolare gli Stati Uniti, ha reso particolarmente complessa la fase della ratifica che si è
completata soltanto nel 2004 quando la Russia ha depositato la sua adesione; il Protocollo è entrato in vigore il 16 febbraio 2005 senza la partecipazione degli USA, paese
di primaria importanza per le emissioni di gas serra nell’atmosfera.
Dopo l’adozione del Protocollo di Kyoto hanno avuto luogo ulteriori sessioni della
Conferenza degli Stati membri, tra cui si menziona la Conferenza di Marrakesh del
2001 (COP 7), dove sono stati conclusi una serie di accordi che specificano, dal punto
di vista operativo, il sistema di scambi dei permessi di emissione il cui primo approccio si rinviene nel Protocollo di Kyoto.
Quindi, nella Conferenza di Bali del 2007 (COP 13), è stata adottata una «Road map»
sul dopo-Kyoto che individuava, come scadenza per definire i nuovi impegni in materia di cambiamenti climatici, il 2009 anno in cui si è tenuta la Conferenza di Copenaghen (COP 15). Tuttavia, le grandi attese riposte nella suddetta conferenza non hanno
avuto il riscontro sperato, in quanto la stessa si è conclusa con una semplice intesa che,
seppur sottoscritta da una vasta platea di Stati, non ha comportato obblighi vincolanti
per alcuno di essi ma soltanto generici impegni e non ha stabilito tempi certi per giungere alla stipula di un nuovo Trattato.
Nell’ultima Conferenza di Durban del 2011 (COP 17) si è, infine, raggiunto un accordo con il quale si è stabilito il prolungamento del Protocollo di Kyoto (dal 2013 al
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Capitolo 2 Il diritto internazionale dell’ambiente
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2017), rinviando l’adozione di un nuovo protocollo o di altro strumento per ridurre
la CO2, che dovrà essere approntato non oltre il 2015 e dovrà entrare in vigore entro
il 2020.
6.I soggetti del diritto internazionale dell’ambiente
Dopo aver analizzato le fonti del diritto internazionale dell’ambiente, occorre brevemente elencare i soggetti del diritto internazionale dell’ambiente che sono costituiti,
in primis, dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali.
Gli Stati costituiscono i soggetti essenziali ed originari della comunità internazionale,
anche nel settore del diritto internazionale dell’ambiente e rappresentano, pertanto, il
punto di riferimento per lo sviluppo e l’attuazione delle normative internazionali finalizzate alla protezione dell’ambiente e degli ecosistemi (MONTINI).
Le organizzazioni internazionali interessate alla questione ambientale hanno soprattutto il ruolo di coordinare le attività svolte dai singoli Stati entro i confini nazionali e
di indirizzarle al rispetto dei principi generali sanciti nei vari trattati, nonché di promuovere strategie di prevenzione e sviluppo in tema di protezione dell’ambiente.
Nell’ottica di un approccio orizzontale alle tematiche ambientali, quasi tutte le organizzazioni internazionali, da quelle che si occupano di economia a quelle che si occupano di problemi sociali, sono coinvolte in programmi ambientali.
Tra le organizzazioni internazionali possiamo annoverare le Nazioni Unite, che hanno
un ruolo di punta nelle politiche globali di protezione e sostenibilità ambientale e le
Commissioni regionali delle Nazioni Unite (es. UNECE). Vi sono, inoltre, le Agenzie
specializzate che firmano accordi di collaborazione con le Nazioni Unite al fine di
integrare al meglio la tematica specifica di cui si occupano con le problematiche mondiali in tema di ambiente (FAO, UNESCO, WMO, IMO, UNIDO, etc.). Ancora si
menzionano l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite sull’ambiente), organo sussidiario delle Nazioni Unite, creato dall’Assemblea Generale allo scopo di proteggere e
valorizzare l’ambiente per le generazioni presenti e future (vedi anche § 4), l’UNDP
(Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) nato allo scopo di rafforzare la cooperazione internazionale per lo sviluppo, il CTE (Comitato per il commercio e l’ambiente), l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e
l’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica).
Ultimo, ma non da ultimo, accanto agli Stati sono emersi altri attori (non statali) del
diritto internazionale dell’ambiente, tra cui si citano principalmente le organizzazioni
non governative (ONG), ma anche le imprese, gli individui, etc. la cui partecipazione
e il cui coinvolgimento sono ritenuti ormai indispensabili in materia di ambiente e di
sviluppo sostenibile, tanto da aver acquisito in diversi contesti dei veri e propri diritti
ed obblighi, pur essendo prematuro sostenere che tali attori si siano già affermati come
soggetti di diritto internazionale in senso stretto (FODELLA).
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Parte prima Ambiente: inquadramento e disciplina internazionale ed europea
7.Il regime della responsabilità
Il problema della responsabilità per danni all’ambiente è piuttosto complesso. Pur
esistendo un principio di diritto internazionale che prevede un divieto di inquinamento transfrontaliero, la cui violazione comporterebbe il sorgere di una responsabilità da
atti leciti, i numerosi accordi internazionali posti in essere a tutela dell’ambiente hanno disposto regimi di responsabilità specifici che si sovrappongono a quello previsto
dal diritto internazionale generale.
A) Il concetto di responsabilità comune ma differenziata
Gran parte della dottrina concorda sull’esistenza di una speciale responsabilità dei
paesi industrializzati nel campo della protezione dell’ambiente. È, infatti, innegabile
che questi Stati abbiano contribuito e contribuiscano in misura maggiore al degrado
ambientale del pianeta e, soprattutto, abbiano mezzi e capacità notevolmente diversi
per promuovere progetti di tutela e risarcimento ambientale.
Questa considerazione spinge molti a sottolineare, con forza, la necessità di un regime
differenziato di responsabilità rispetto agli obblighi di tutela dell’ambiente. Questo
concetto trova piena affermazione nel Principio n. 7 della dichiarazione di Rio, laddove si sottolinea che «i paesi sviluppati danno atto della responsabilità gravante su di
loro nel raggiungimento, a livello internazionale, degli obiettivi di sviluppo sostenibile determinata sia dalla pressione che le società di questi ultimi esercitano sull’ambiente globale, sia sulle tecnologie e le risorse finanziarie di cui essi dispongono».
Nella prassi, il principio di una responsabilità comune ma differenziata, si traduce,
all’interno delle varie convenzioni, nella previsione di regimi duali di responsabilità
per il raggiungimento di obiettivi ambientali, applicabili ai paesi sviluppati e a quelli
con un livello di sviluppo più basso.
B) La disciplina internazionale della responsabilità civile per inquinamento
Nel diritto internazionale pattizio troviamo, da tempo, regole specifiche volte ad introdurre meccanismi di responsabilità civile inquadrati all’interno di contesti internazionali, in particolare per i fenomeni di inquinamento derivanti da attività pericolose.
Si tratta di norme strutturate come convenzioni di diritto uniforme che contengono
anche aspetti di diritto internazionale processuale. Quando si parla di attività pericolose, si fa soprattutto riferimento alle centrali nucleari; a tal proposito, la Convenzione
di Parigi sulla responsabilità nei confronti dei terzi nel settore dell’energia nucleare del
1960 e la convenzione di Vienna sulla responsabilità civile per danno nucleare del
1963, oltre a prevedere un regime di responsabilità oggettiva in caso di incidente,
obbligano i gestori delle centrali a stipulare polizze assicurative per coprire il rischio
nucleare.
Importanti regole di responsabilità civile per fenomeni di inquinamento transfrontaliero sono adottate anche nel quadro della normativa nazionale relativa alla circolazio-
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Capitolo 2 Il diritto internazionale dell’ambiente
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ne dei rifiuti pericolosi. Il Protocollo del 1999, annesso alla Convenzione di Basilea
del 1989 sul movimento transfrontaliero di rifiuti, ha come primo obiettivo proprio
quello di introdurre un regime di responsabilità e risarcibilità del danno determinato,
per l’appunto, dal movimento transfrontaliero e dallo smaltimento di rifiuti pericolosi:
si tratta di una responsabilità di tipo oggettivo che prescinde dalla prova della colpa e
che grava sul detentore del rifiuto dal momento in cui ne entra in possesso fino al suo
smaltimento.
Questionario
1. Cosa si intende per divieto di inquinamento transfrontaliero e quali sono i
corollari di tale principio? (par. 2, lett. A)
2. Come si definisce il principio che obbliga gli Stati ad agire preventivamente
al fine di evitare il prodursi di un danno, anche a prescindere dalla certezza
scientifica del suo verificarsi? (par. 2, lett. C)
3. Quali specifici obblighi discendono dal principio di cooperazione fra gli Stati?
(par. 2, lett. E)
4. Qual è la regola internazionale dominante posta a tutela delle zone non soggette a sovranità? (par. 2, lett. F)
5. Quali sono i contenuti del «Rapporto Bruntdland»? (par. 4, lett. B)
6. Con l’adozione di quali documenti si concluse la Conferenza di Rio del 1992?
(par. 4, lett. C)
7. Il raggiungimento di quali obiettivi e il rispetto di quali scadenze sono indicati
nel Protocollo di Kyoto? (par. 5, lett. B)
8. Quali sono i soggetti del diritto internazionale dell’ambiente? (par. 6)