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orecchio acerbo
LAMPI
isis
Silvina Ocampo · Pablo Auladell traduzione di Francesca Lazzarato
Silvina Ocampo
traduzione di Francesca Lazzarato
© 1961
Silvina Ocampo
© 2007
Eredi
di Silvina Ocampo
© 2007
orecchio acerbo s.r.l.
viale A. Saffi, 54
00152 Roma
© 2007
Pablo Auladell
(per i disegni)
Traduzione
dallo spagnolo di
Francesca Lazzarato
illustrazioni di
Pablo Auladell
www.orecchioacerbo.com
Grafica
orecchio acerbo
orecchio acerbo |LAMPI|
Il suo nome era Elisa, ma la chiamavano Lisi;
qualcuno le tolse la l e le aggiunse una s, e la chiamarono Isis.
Era sempre seduta alla finestra, a guardare. Io vivevo al pianterreno della stessa casa.
Quelli che passavano per strada dicevano:
E guardavano in su come se vedessero un palloncino o un aquilone.
“Ecco l’idiota”.
Aveva bambole, aveva libri, aveva scatole con differenti giochi di pazienza, ma non ci giocava.
Dopo mangiato e al risveglio si metteva davanti alla finestra.
Da quella finestra si vedevano
in primo piano
la strada dove passava il tram, il venditore di gelati, l’arrotino
e il carro pieno di cesti e sedie di vimini;
in secondo piano
il Giardino Zoologico
e (lo scoprii dopo) uno dei suoi animali;
ora sospetto che per vederlo non avesse bisogno di guardarlo;
lo guardava fisso come il sole, che lascia la sua macchia abbagliante.
Sorrideva quando la gente parlava, ma non pronunciava se non la fine di alcune parole,
subito dopo averle sentite suo malgrado.
C’era chi sospettava che non fosse del tutto idiota, ma che facesse l’idiota.
I suoi grandi occhi verdi sembravano sempre abbagliati dalla luce,
anche quando il cielo era coperto di nubi, al crepuscolo, e perfino nella penombra delle stanze.
La sua immobilità era più perfetta di quella delle aquile,
quando si ammirano nella propria ombra come in uno specchio,
dentro la enorme gabbia che imita la neve con tristi pietre dipinte di bianco.
Più perfetta dell’immobilità del giaguaro,
che non chiude gli occhi se non per dormire o per divorare.
A volte in cielo brillava una cometa,
con la sua coda gialla.
“Guarda l’aquilone” le dicevano,
ma lei non guardava.
“A che le serve avere gli occhi così grandi, se non vede nulla”
diceva la gente.
Non guardava mai qualcosa
che le facesse muovere gli occhi o il collo.
Un giorno le diedero il binocolo
che sua madre usava quando andava a teatro.
La montatura era di madreperla.
Lo lasciò cadere.
Un’altra volta le diedero un sonaglio,
un’altra volta un caleidoscopio.
La famiglia, la servitù o le sue amiche (io ero una di loro),
aveva l’abitudine di condurla a passeggio. A volte la portavamo sino al fiume,
altre volte in una piazza dove c’erano altalene e scivoli, che non le interessavano;
altre volte al Giardino Zoologico, perché era vicino;
ma lei non chiedeva mai che la portassero da nessuna parte.
E lo faceva, credo, non perché fosse umile e docile, ma perché era ferma nel suo
proposito e tenace nel rinunciare a quello che non le andava.
Passavano aerei,
passavano elicotteri,
passavano soldati,
passavano processioni;
non li guardava neppure.
Si sarebbe detto che niente dovesse distrarla.
Le sere erano tutte uguali, ma una di esse per me fu fatidica.
Il trentuno gennaio del millenovecentosessanta mi chiesero di portarla a passeggio.
Era la prima volta che me l’affidavano da sola, perché sua madre la trattava
come una bambina di un anno. Pensavo di portarla al fiume, perché faceva caldo,
ma all’angolo, di fronte ai cancelli dello Zoo, si attaccò alla mia gonna
e con il mento mi indicò l’entrata del Giardino.
Entrammo. Non potevo oppormi ai suoi desideri perché Isis era una bambina così buona;
inoltre era tanto tempo che non manifestava la sua volontà con un cenno,
che quel gesto fu un ordine. Dapprima ci sedemmo su una panchina di fronte ai calessini,
poi percorremo i sentieri del Giardino Zoologico.
Si fermò a guardare un animale
che non sembrava reale, ma disegnato sulla sabbia.
I suoi enormi occhi ci riflettevano.
Mi accorsi che dall’angolo del giardino in cui ci eravamo fermate si scorgeva la finestra
alla quale Isis si affacciava ogni giorno.
Capii che quello era l’animale che lei aveva contemplato e che l’aveva contemplata.
“Dammi la mano” dissi a Isis.
E mi diede una mano che lentamente si andò coprendo di peli e artigli.
Non volli vederla mentre si trasformava.
Quando mi voltai a guardarla vidi un mucchio di abiti che giaceva a terra.
La cercai.
La aspettai.
La persi.
Silvina Ocampo di Francesca Lazzarato
Silvina Ocampo nacque a Buenos Aires nel 1903, in una ricca famiglia dell’alta borghesia: il padre, l‘ingegner
Manuel Silvio Ocampo Regueira, costruiva ponti e strade, e la madre, Ramona Aguirre, era una famosa bellezza soprannominata “la Morena”.
Come tante altre bambine della loro condizione, Silvina e le sue sorelle Victoria, Angélica, Pancha, Rosa e Clara vennero educate in casa, impararono le lingue, viaggiarono molto e passarono lunghi periodi a Parigi e in altre capitali europee.
La sorella maggiore, Victoria, era molto vivace e da piccola voleva fare l’attrice, ma da grande fondò Sur, un’importante rivista letteraria che parlava di cultura europea ai latino-americani, e viceversa. Silvina, invece, da piccola non sapeva proprio cosa avrebbe voluto fare. Tra le sorelle Ocampo era l’unica bruttina, la più timida e
silenziosa, e una volta cresciuta avrebbe ricordato la propria infanzia come “un periodo davvero tremendo”, perché, diceva, “ero troppo sensibile. Spaventosamente sensibile, ma nessuno se ne rendeva conto, forse perché
non parlavo mai. Essere tanto sensibili è terribile. Non per scrivere, non per creare qualcosa, non per dipingere
o fare musica… ma per vivere”.
Una volta cresciuta, comunque, studiò disegno con un maestro importante come Giorgio De Chirico e negli anni ’30 cominciò a pubblicare libri di racconti e di poesie, così straordinari da far pensare a chi li leggeva che Silvina era davvero una grande scrittrice, forse una delle più grandi del suo secolo.
A volte spiegava a qualche amico (per esempio a Jorge Luìs Borges) che se amava tanto i testi brevi era anche per via di una certa istitutrice inglese avuta da bambina. La severa Miss le aveva assegnato un tema “a
piacere”, e Silvina, che aveva un’immaginazione inesauribile, aveva inventato la sua prima storia, riempiendo ben dodici quaderni per raccontare le avventure di due principi rinchiusi in una torre. L’istitutrice, allora,
l’aveva rimproverata dicendo: “Non si fa così. Non bisogna scrivere tanto, perché viene a costare troppo: si
consumano molta carta, molto inchiostro, molte penne e molto tempo per leggere”. E Silvina non l’aveva mai
dimenticato.
orecchio acerbo
Le sue storie, che somigliano a frammenti di altre narrazioni perdute o dimenticate, oppure a ricordi del futuro,
sono insolite e bizzarre, con un tocco di umorismo nero e di fantasiosa ferocia che trasforma le cose di ogni giorno (semplici passeggiate, pranzi in famiglia, piccole bugie o visite allo zoo) nella porta d’ingresso a uno spazio
misterioso, irriconoscibile, in cui possono compiersi tragedie inattese e metamorfosi stupefacenti, o consumarsi orrori piccoli e grandi. E molti dei protagonisti sono bambini e bambine descritti come creature spesso crudeli ma mai colpevoli, perché delitti, metamorfosi, fughe e giochi pericolosi o perfidi hanno un unico scopo: la
trasformazione della realtà attraverso il desiderio, che annulla il confine tra animato e inanimato, tra umano, animale e vegetale, tra grande e piccolo.
LAMPI
Racconti brevi e folgoranti dei classici della letteratura fantastica, d’avventura e noir.
Esposti alla luce delle immagini che, come un lampo nella notte, improvvisamente rovescia la visione delle cose.
Nella stessa collana:
CAPITAN OMICIDIO
di Charles Dickens illustrazioni di Fabian Negrin
IL NARRATORE
di Saki illustrazioni di Michele Ferri
Qualcuno ha scritto: “Cosa sono i racconti di Silvina se non piccoli sepolcri ornati di piume e pietruzze, riti di
una bambina cattiva che ha ucciso un insetto e adesso gli rende onore?”. Forse Silvina, rimasta così legata alla
memoria, alle immagini e agli incubi dell’infanzia, a differenza di tanti altri adulti continuava a ricordare e a mettere in pratica le regole di un gioco che da bambini tutti abbiamo giocato, per poi dimenticarlo.
Nonostante fosse così appartata e solitaria, per molti e molti anni della sua vita da adulta Silvina Ocampo fu
legata a un’altra persona, che adorava e dalla quale non si sarebbe mai separata. Nel 1933, infatti, conobbe
Adolfo Bioy Casares, figlio di una sua amica: un ragazzo più giovane, molto ricco, molto gentile e così bello che
lei se ne innamorò la prima volta che lo vide, ancora prima di rivolgergli la parola. Anche Adolfo faceva lo scrittore, e un anno dopo avrebbe pubblicato un libro geniale, L’invenzione di Morel. Si sposarono nel 1940 contro
il parere di tutti e non si lasciarono più, finché nel 1993 Silvina morì, ormai molto vecchia. Abituati a vederli
sempre insieme, intenti a sussurrare tra loro, gli amici li chiamavano “los Bioy”e li consideravano un’unica
creatura con due teste. E Borges, che voleva bene a entrambi, a volte diceva:”Bioy è molto intelligente, ma Silvina è un genio”.
Stampato su carta Fedrigoni Arcoprint E. W. | Finito di stampare nell’aprile 2007 da Telligraf, Civita Castellana (Viterbo)
Imperturbabile. Silenziosa. Immobile. Schiva.
Nulla pare interessarla, né le bambole, né i libri, né gli amici.
Passa ore e ore affacciata alla finestra, ma i suoi occhi verdi sembrano non accorgersi della vita che le scorre a fianco.
“A che le serve avere gli occhi così grandi, se non vede nulla” dice la gente.
Ma non è che Isis non veda, Isis non guarda.
Non vuole essere distratta. Non vuole che la vita, i desideri, le speranze degli altri
la distolgano dalla sua misteriosa metamorfosi.
Rapido, fulmineo, lo sguardo fantastico di Silvina Ocampo
nell’interpretazione di uno dei più interessanti fumettisti spagnoli, Pablo Auladell,
ci apre scorci di realtà oltre l’assurdo.
euro 15,00