Storia di un amore

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Storia di un amore
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Sofia Vignoli
Storia di un amore
Tappe di un cammino
“io riconobbi i miei non falsi errori”
Dante, Purgatorio, XV, 117
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INTRODUZIONE
Desidero esprimere gioiosa soddisfazione per la pubblicazione on line, dopo un “sonno”
ventennale nel cassetto della mia scrivania, del libro Storia di un amore, Tappe di un cammino di
Sofia Vignoli.
Il libro fu terminato nel 1993, anno della morte dell’autrice, e consegnato a me dalla figlia Susanna
perché lo custodissi in attesa della sua pubblicazione, che per vari motivi non fu mai realizzata.
Sofia Vignoli, nata a Greve in Chianti nel 1922, è stata la prima donna in Italia a laurearsi in
Psicologia, presso l’Università di Firenze, Dipartimento del Prof. Marzi, dove poi insegnò per 50
anni Psicologia dell’Età Evolutiva e Psicologia pedagogica. Esercitò la sua docenza anche presso
l’Istituto Magistrale “G. Pascoli” e presso la Scuola di Servizio Sociale di Firenze. Ad Arezzo, dove
visse a lungo dopo l’infanzia siciliana,fondò la Scuola di Mimo e Pantomima e la diresse per
moltissimi anni.
La conobbi nel lontano 1962, casualmente, attraverso un’inserzione sulla Nazione. Volevo
riprendere gli studi interrotti, non per mia scelta, e Sofia mi infuse subito coraggio, mi offrì
sostegno e competenza, mi dimostrò presto molta stima. In mezzo ai suoi numerosi impegni e nelle
mie pause di lavoro da impiegata, riusciva a ritagliarsi del tempo per darmi lezione (lettere,
filosofia, psicologia) in luoghi spesso diversi. Ricordo in particolare un tavolino di un caffè
d’Oltrarno, in Via Guicciardini, sotto la galleria, e qualche angolo pietroso di Piazza Pitti dove
gustavo avidamente le sue parole.
Mi introdusse nel mondo della danza e del mimo. Ho visto con lei decine di balletti di
straordinaria bellezza, fra i migliori al mondo: da Luisillo e Martha Graham, da Vassiliev a
Nurejev, da Berioska a Moiessiev e vari sublimi spettacoli di Marcel Marceau. L’emozione e
l’entusiamo di Sofia erano travolgenti e contagiosi!
Dopo la danza adorava un certo tipo di cinema, come scrive in alcune pagine del suo bel libro.
Durante la mia lunga esperienza di insegnante nella scuola elementare, progettammo attività rivolte
ai bambini, realizzando a Rifredi un Teatro Pedagogico che ebbe numerosi allievi.
Negli ultimi anni dedicavamo il sabato mattina alla visita della nostra amatissima Firenze, ai
suoi angoli più nascosti e poco visitati , dove si sostava raccontandoci la vita. Durante una delle
nostre visite al Museo Archeologico di Firenze ho scoperto l’amore profondo di Sofia per l’Egitto:
di fronte ad alcune statuette di Ushabti e scene di banchetti non riusciva a trattenere la sua immensa
gioia e doveva in qualche modo simpaticamente dimostrarla. Il libro è la storia di quest’amore, uno
dei tanti per chi come lei amava la vita, la conoscenza e le arti, prima fra tutte la danza.
Accanto alla sua vita di bimba reclusa nell’educandato di Siracusa, Sofia si è costruita un mondo
parallelo, quello egiziano, in parte idealizzato attraverso favole e miti ed in seguito storicizzato,
frutto di studi e ricerche. E’ questa “la patria accogliente” che la fa vivere quanto il mondo reale
nega la sua prorompente vitalità e la fa soffrire in una solitudine terrificante perché “non scelta”.
Gli elementi storici e mitici dell’Egitto diventano per Sofia strumenti di lettura del mondo, della
vita dell’uomo e della sua morte: elementi con margini di ambiguità che alimentano, proprio per
contrasto, la verità, cosicché l’antitesi acquista un ruolo necessario nel continuo processo di ricerca.
Essa scrive: “Amo il mistero più di qualunque sapere”, dichiarazione sovversiva che si modella e
modula in modo totale e perfetto sulla sua convinzione che storia e mito non sono per lei diversi per
valore di verità. Il vivere in continuo "contatto" con la storia dell’Antico Egitto e dei suoi miti
genera in lei una sorta di appoggio esistenziale e la mitopoiesi ne è un tratto fondamentale.
Certi miti egizi che va scoprendo si fondano su concetti che aderiscono alle sue teorie gestaltiche
(senso della totalità delle cose, valutazione del tutto), come pure sono profondamente condivise
l’asserzione di non prevaricazione dell’uomo sulla natura, nessuna preponderanza fra umano e
divino e “la morte come introduzione ad un’altra civiltà”
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Sofia è stata il mio Mentore, ma anche amica e madre adottiva. Io non sarei quello che sono oggi
se non l’avessi incontrata.
Il libro è dedicato a Susanna e Stefano, i suoi figli amatissimi.
Agli amici che l’amarono, desidero ricordarla intenta a scrivere , spesso al tavolo della sua cucina
tirolese, nello sforzo di riunire magia e realtà per gettare una luce sul più grande dei misteri, la vita.
Giuliana Occupati
I PAPIRI DEL CIANE
Ogni acqua terrestre un ancestrale Nilo
la tua scrittura di congedo
è una storia d’amore
Magia di miti Egizi
echeggiati nella tua
prima prigionia di bimba reclusa
Il tempo ha modellato
i miti e i riti in danza
unica tua sostanza.
L’acqua soltanto l’acqua
potrebbe restituirti
al balenare acceso d’una volta
a quella vita vera
che nutrivi nell’alveo dell’amore
Sul fondo scendo per
carpire illusioni
immagini riflesse
conchiglie di notizie
sulla tua acquatica sorte.
E’ scritta sull’acqua
la tua prima-ultima fiaba
fra papiri che s’aprono al passaggio
Il tuo corpo venato
di molte sorgenti e vasti estuari
affretta il passo,
cerca improbabili approdi
il tuo cammino solitario
per questo cerchio che si deve chiudere.
Respiro di fiume profondo
il mare che ti accoglie è la tua anima
G. Occupati
Firenze, 1995
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Nota
L’edizione del manoscritto è stata curata da Giuliana Occupati e Valentino Fraticelli.
Sono state apportate necessariamente, visto che Sofia non aveva corretto definitivamente il
manoscritto, leggerissime modifiche di tipo ortografico e di punteggiatura per dare ritmo alla
scrittura. Non si è ritenuto opportuno, pur ravvisandone la necessità, inserire note esplicative sulle
divinità egizie e su alcuni autori meno conosciuti, da lei più volte citati. Le note avrebbero
appesantito, a nostro giudizio, la lettura.
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STORIA D’UN AMORE
Tappe di un cammino
“io riconobbi i miei non falsi errori”
Dante, Purgatorio, XV, 117
Suppongo si possa localizzare il primo momento di questo amore nel periodo dell’educandato così si chiamava - delle suore di S. Vincenzo, a Siracusa.
Fummo trasferiti da Schio perché mio padre aveva rifiutato a lungo la tessera del partito fascista.
Là ho vissuto le mie quattro classi delle elementari; fu deciso che saltassi la quinta sostenendo in
anticipo l’esame di ammissione al Ginnasio. Va detto che l’aritmetica è stata anche allora il mio
tallone di Achille: il mio Apop, drago nemico del sole per gli Egizi.
E’ verosimile che in questo periodo per la prima volta abbia sentito parlare dell’Egitto, non
chiedetemi in qual modo: non lo ricordo.
Come una treccia che ai capelli aggiunga nastri colorati, i ricordi sono intrecciati di sensazioni, di
luoghi, di reazioni mie, di brani di consapevolezza e visioni di oggetti. Non si può districarli senza
mancare di far giustizia al tutto in cui ogni singolo elemento
partecipa a far una totalità.
Così ricordo alcune stanze; il dormitorio al primo piano, bianco di veli ad ogni letto. La chiesa,
dopo lo spazio di accesso, dove il silenzio era garantito e la penombra persuasiva. Ma il silenzio era
permeato di odori ben diversi.
Nella piccola chiesa ho avuto la prima comunione e la cresima. Vi andavo a meditare e forse già
cercavo il luogo dove si può star soli per scelta.
Al collegio-convento si arrivava dal Duomo, imponente, svoltando sulla destra, costeggiando
una grande strada senza alberi. Ricordo: si trovava un lungo corridoio senza tetto, perpendicolare
alla strada, alto di muraglie senza finestre, chiuso da un duro cancello di ferro battuto. Lo stretto
passaggio era severo per un essere di quasi sei anni. Prigioniera, proibita da una cancellata
anch’essa di ferro battuto, una colonna greca diceva che la libertà era bandita. Giunti ad una porta
austera, si incontrava una stanza poco illuminata; sulla sinistra l’accesso alla chiesetta silenziosa e
in penombra. Una scala, a destra, saliva ai dormitori, alle stanze di studio e alla saletta con
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pianoforte, preceduta da una più ampia , gremita di armadi a vetro stipati di santini, messali, rosari,
fili colorati e altri oggetti che a volte venivano dati in regalo. Un lieve sentore di incenso era pur in
questi angolini non concessi a tutte.
All’entrata, una porta a vetri mostrava, dinanzi, la corte. Spaziosa, custodita da quattro muri alti,
svettanti verso l’alto, con varie finestre. Da ogni lato più porte regolarmente chiuse: a sinistra il
refettorio e le stanze per il ricamo; in fondo le classi e l’immissione alla zona dove si preparavano
le ostie, con una piastra con stampi di simboli sacri che le suore decifravano a chi riusciva ad
andare fino a quel posto un poco segreto. Le briciole e le parti non stampate venivano distribuite
dalla suora di turno come ghiottonerie.
In questa zona si inamidavano i grandi cappelli a volo di rondine delle suore. Ricordo il dolciastro
odore dell’amido e il lavorio solerte della suora incaricata, che stendeva delicatamente i teli bianchi
senza la minima piegolina di metallo leggero; qui lentamente si asciugavano per poi , prima che
l’asciugatura
fosse eccessiva, venir piegati e fissati nel modo dovuto, bianchi gabbiani a
disposizione delle sorelle - spose di Dio.
Lasciata alle spalle la chiesetta, nella corte, a destra, uno scalone saliva da una grande arcata per
entrare ad una porta che dava nella stanza che sovrastava l’ingresso: ampia e segreta ai più, era la
sede riservata ai ritiri, mentre il mondo esterno era tenuto a bada da porte e cancelli. Noi piccole lo
si poteva guardare da sotto: il sacro non si mescolava col profano.
La popolazione era assai diversificata in fasce d’età. Poche interne, signorine, affidate come me,
con un’orfanella a disposizione che aiutava ed accudiva, avevamo una famiglia e nei periodi di
vacanza potevamo andare a vivere una vita normale. Un brulichio di orfanelle di varia età, cui tutto
quel che si poteva profetizzare era una gran difficoltà a trovar vita giusta, ignorando tutto del viver
che si svolgeva fuori. Tetto, alloggio, vestiario e cibo eran garantiti, con l’educazione religiosa e
l’apprendimento dei lavori donneschi, come si chiamavano, a salvare da mali peggiori.
C’erano poche maestre laiche, anche loro interne, e un discreto nugolo di sorelle, in veste ad ampie
pieghe azzurre, soggolo bianco inamidato come il cappello di Soeur Jeanne, francese, che mi amava
in modo particolare e mi curava con attenzione; e ricordo d’averla amata, ma anche ricordo di
quanto fossero secche le sue mani, rapide nel somministrarmi sulle tonde meline punizioni ben
chiare.
Preferivo l’abbondante e raramente raggiungibile madre superiora, tra le cui braccia accoglienti
andavo a versare lacrime, quando non erano segrete, che mi faceva sentire non sola piccola, ma
nascosta e consolata.
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Erano, le suore, decorative e segrete, misteriosi i loro dormitori e le loro riunioni in preghiera. A
volte poi si pregava assieme e le distanze svanivano.
A parte, ricordo la maestra di piano, Maria Teresa, che io sincopavo in Mitesa: un’orfanella già
invecchiata là.
Bianchi come neve i cappelli morbidi e candide le braccia che rammento averle visto lavare, e
azzurri di un colore dolcissimo gli occhi splendenti. Un sorriso timido di donna non vissuta. Mi
colmava di doni, ma con la bacchetta teneva alti i miei polsi mentre ero al pianoforte e segnava
sulle dita gli errori sui tasti. Lei è uno dei segni che vanno decifrati. Vi è una prova che il nostro era
veramente un amore e che in lei va riconosciuta una incarnazione di Isi, la salvifica, là, nell’esilio
da mio padre.
Quando ero al Liceo, ricevetti una cassetta di legno verniciato di verde con grossa serratura e
chiave. Dentro, lini, fiandre, ricami, preziosi beni raccolti nella lunga vita di reclusa, con santini e
pezzi di damasco, piccoli ma deliziosi. E i gioielli. Quei gioielli di cui a Siracusa lei, Mitesa,
confidava il segreto ad una frugola argento vivo che amava tanto ascoltare racconti. Era nella culla
con cui era stata messa alla soglia del convento, tanti anni prima della mia nascita. Tra questi un
anello che rappresentava uno stemma e dal quale aveva capito chi poteva essere la sua mamma.
Prima di morire, dolcissima, fra tutte le sue allieve la più lontana, la meno saggia, mi aveva scelta
per tenere il prezioso carico di memorie e sogni.
Dunque era vero: il nostro era stato un colloquio di tenerezza misteriosamente continuato malgrado
tutte le distanze, io ero la proprietaria d’un tesoro legato a un segreto, io che amo il mistero più di
qualunque sapere.
Continuando a visitare il luogo dell’esilio, oltre l’inamidatura, un corridoio portava a strette
stanzette e a intravedere il verde giardino del Vescovado che confinava con il Duomo non lontano.
Dunque, l’ampia corte, serviva per i giochi nelle ore di libertà da studi e lavori o preghiere e anche
per le cerimonie più celebrative, quando si erigeva un palco, ora all’inizio della scalinata a destra,
ora nella parte di fronte, la più lontana dalla chiesetta. Il primo per la cerimonia delle Figlie di
Maria, come le nomine e la bruciatura dei biglietti di richiesta di grazie: tutti in giro, meno le
prescelte, in abito bianco e talvolta con ali posticce, in piedi sul palco accanto alle effigi
superdecorate.
So che una volta le ali da aspirante e la posizione sopra il palco, in vista degli astanti nel cavo
grande della corte le ho avute anch’io, pur se tra gli angeli non meritavo di stare. La coda per i
diavoli non era in uso, per mia salvezza.
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Per le ore di sonno, di studio, di lavoro e di preghiera, il silenzio dominava l’ampio luogo assolato.
Le recite per gli ospiti importanti o per la madre superiora avevan luogo dall’altra parte, sul
medesimo palco ripreso dagli oscuri anfratti dove dormiva nei giorni comuni e là ricordo di aver
danzato un minuetto nel quale anche i cavalieri erano in gonna pieghettata, ma tutti in parrucca di
stoppa sbiancata e a boccoli.
Continua a proporsi nella memoria lo scalone che portava alla stanza del primo piano, dove le
gentili patronesse di S. Vincenzo, signore in calze di seta, andavano a fare i ritiri spirituali con
regolarità.
Per questo scalone passava mia madre per le riunioni della S. Vincenzo; dove mi aveva relegata
fuori dai piedi per aver minor problema con il mio temperamento sbarazzino. La vedevo passare in
pompa magna, superelegante nei suoi vestiti della “Mascotte” di Parigi, sofisticata e decisa a
primeggiare. Il nostro saluto era breve e io tornavo alla mia vita di reclusa di classe superiore, tra
tante orfanelle cui lei non mancava di portare dolci in regalo e probabilmente soccorsi d’altro
genere, perché era generosa, con giusto equilibrio. Io non valutavo con slancio il fatto che ero
affidata come interna a questa cosiddetta educazione delle suore.
Nella corte, se non pioveva, si stava assieme a ore determinate, scegliendo giochi e compagnie,
affannandoci a saltare con la corda - io ero imbattibile ; a gettar per terra e riprendere cinque
sassolini eguali a due, a tre, a quattro, a cinque per volta. Le compagne casuali si alternavano, ma
certo avevo preferenze. Un contatto strano legava spesso me alla più ritrosa del gruppo, nera e
secca, come bruciata dal sole, con occhi splendenti e capelli ribelli, la chiamavano “u lupu” ed era
scontrosa e ribelle, ma giocavamo assieme più che con le altre, l’ammiccamento di sguardi che
evitava le parole era parte del legame che tenevamo in vita. Ma eravamo tante, la scelta non
mancava. Stavamo là a garrire, senza essere rondini.
Una palma, nel mezzo della corte, scalava verso un cielo che si poteva vedere ma non raggiungere,
se non spiritualmente, chi ne aveva la capacità.
E’ dolce la memoria della maestra laica di terza che, tra un ficosecco e noce e l’altro, mi faceva
esplorare il mondo dei rebus che mi incanta ancora. Suono soave della mia infanzia: brevi sussurri,
frasi quiete, amicizia tra non coetanee che mi incanta ancora e che medicava il mio esilio nel segno
di Isi, ancora sconosciuta.
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Durante questa vita segregata, importante nel destinarmi ad amare di isolarmi comunque e
dovunque, ho sentito parlare dell'Egitto, certo non con ammirazione né con dovizia. Avrò saputo
delle mummie e poco più.
L’estate ero a casa. Mio padre solitamente mi portava alla fontana d’Aretusa, passo passo, a
raggiungere un gelataio in gamba. Qui mi veniva servita una coppa gigantesca: divoravo con
frenesia, fino a sentir dolere le tempie per la foga - poco educata - con cui mi dedicavo all’impresa,
pur anticipando il dolore che seguiva rapido.
E venivo portata in barca tra i papiri. La gita alle sorgenti del Ciane significava che il battelliere
dalla faccia di legno segnata dal sole mi avrebbe trattata con rude tenerezza, chiamandomi
“picceridda”. Proseguiva presto senza remi, sotto l’intrico dei papiri d’un verde melodrammatico
che chiudevano tutto con dita vibranti e tenacia da aggressori e facevano filtrare una luce malata
discordante col sole trionfante, fuori. L’acqua era densa e tempestata di vegetazione verde chiaro.
Il silenzio era bucato da bisbigli e pacate risonanze che tradivano l’esistenza folta di esseri non
visti, disturbati dalla nostra visita e pur quieti tanto da non lasciarsi vedere, misteriosi d’una vita
solo sospettabile, adombrata. Un paese d’ombra, di riflessione, di sopore ma non del sonno. Qui ho
sentito aleggiare qualcosa d’un mondo di cui sarei rimasta curiosa. Ogni volta che leggo “papiro”
non penso al foglio denso di segni ma alla pianta da cui quel foglio proviene e al quieto bisbiglio di
quei luoghi lontani e mai più rivisitati, fuori dallo spazio e dal tempo. Credo che vivano ormai
diversi, ma per me saranno sempre “i papiri” e li visito ogni volta che entro nel mio mondo
profondo.
So che il Nilo l’ho conosciuto al Ginnasio, dunque già ad Arezzo. Ricordo una pagina in color
sanguigno sbiadito del libro di storia, succeduto con altri al sussidiario unico delle elementari: una
sfinge e le piramidi nello sfondo.
Meccanicamente mi si presenta la frase “Egitto dono del Nilo”. Affiorano anche le notizie, fissate
nel tempo: non ne ho mai persa una.
La storia delle piramidi, il faraone, la mummificazione: notizie che ho accolte come se le avessi già
sapute; non le ho apprese come altre nozioni; stavano dentro di me e son balzate fuori al primo
invito; ne son stata subito permeata. Non era possibile non saperle e si presentavano senza dubbi,
senza quel momento che tutte le narrazioni di storia mi hanno recato, quando mi chiedevo che cosa
importa e quando ha fatto guerra, perché i re, meno che nelle favole, non mi interessavan per
niente.
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No, per l’Egitto ero in pace: l’inondazione, i campi, il limo, le irrigazioni, il rapporto con il fiume e
la documentazione con segni strani eppur chiari e invitanti erano familiari come il culto della morte
e del divino rappresentante sul trono che iniziava subito alla nomina la costruzione del suo
sepolcro. Era tutto familiare in qualche modo.
C’era un nesso tra i miei papiri di Siracusa e il ritorno di quel nome per entrare nel loro mondo.
Un nesso tra episodi lontani nel tempo e nello spazio, costante, come in attesa. La sensazione di
aver già saputo, di non leggere o ascoltare nulla di nuovo, anzi di saperne di più in qualche modo
segreto confermava il mio modo di stare in classe per conto mio, come se fosse determinato dal
fatto che avevo già qualche nozione che mi ancorava a una diversità; un mio paesaggio interiore era
quanto occorreva per andare alla scoperta di un indeterminato che dal di fuori non avrebbe tratto
grandi acquisti.
I compagni di scuola andavano bene per qualche scherzo, ma si era formato l’alone di distanza: a
Siracusa perché parlavo come quelli del continente e ad Arezzo perché avevo un accento da
isolana: sempre d’un altro pianeta.
Il mio approccio all’Egitto non passava per parole pronunciate in modo dialettale ma per
intuizioni che evitavano l’offesa della pronuncia. Altri temi, forse, ma questo, no .Complicata
situazione, questo ingresso al Ginnasio, per pochi mesi a Siracusa. Lontano dal convento che mi
aveva isolata da esperienze esterne, ero immersa in ondate di novità assolute. Trovo nella memoria
una corte, più stretta di quella del convento, nella quale nell’intervallo lungo compariva un ometto
scuro con una minima bancherella di caramelle e cose mangerecce e la presenza nelle mie tasche di
alcuni soldini, con il permesso di acquistare la merendina. Senso di importanza e consapevolezza
della mia incapacità a calcolare bene gli acquisti in relazione alle finanze.
Dalla nebbia emerge la figura di un professore di matematica, neri i capelli ricciutissimi, alto e
dinoccolato, intessuto di impazienza, di brevi e rapide parole, tono dominatorio assolutamente altro
da quanto avevo sperimentato con le maestre, laiche e non. Al suo ricordo rischio il batticuore
anche dopo ben più di mezzo secolo.
E una piccolina biondetta, tutta ossa e vitalità, insegnante d’inglese, che non parlava siciliano.
A febbraio, alla fine della punizione per i demeriti fascisti di mio padre, attraversammo per la
seconda volta la penisola; lasciammo gli aranceti in fiore e da Roma in su trovammo la neve.
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Approdai ad Arezzo e chiesi a mio padre dove era il mare che a Siracusa era piacere e conforto
grande. La risposta mi colpisce ancora come un fulmine “ non c’è mare”. Il mondo continuava a
propormi rebus e non piacevoli.
Qui ricomparve la piccoletta insegnante d’inglese del Ginnasio, trasferita a metà anno e considerai
dono di qualche divinità segreta che l’unica simpatica mi avesse seguita nella peregrinazione da
Siracusa ad Arezzo.
Non andammo a vivere nella casa della nonna paterna, mai conosciuta, nella quale aveva vissuto
il fratello maggiore di mio padre che non ho visto mai ed era morto durante l’esilio in Sicilia.
Andammo in Via Mazzini, in alto della torre degli Azzi, in una casa ben diversa da quelle di
Siracusa, dalle quali vedevo il mare Ionio.
Il Ginnasio non era molto lontano e v’era lo spostamento da casa al grande edificio scuro, nell’aria
fredda che era inedito e suscitava ondate di riflessioni diverse che non risalivano fino a configurarsi
in parole e restavano inglobate in nebbioni ondeggianti. All’uscita, mia madre veniva a prelevarmi
e, quando il freddo, sconosciuto e inospitale aggrediva troppo, mi prendeva a mezza strada al Canto
de’ Bacci, la gialla e dolcissima “Strega” che mi ubriacava e rendeva diverso il malessere proposto
dalla stanchezza e dal freddo. Il rebus di queste aggressioni del clima era per me indecifrabile e le
piccole sbornie lo rendevano ancor più oscuro ma più accettabile.
Altro cielo, altro linguaggio, altri punti deboli e ancora il desiderio di evadere.
Nell’incompletezza di adesione agli eventi reggeva l’evasione con le fiabe, di cui possedevo
colorati libri che nascondevo dovunque a casa e a scuola per salvarmi con loro dalle ferite delle
frustrazioni. Ogni anno bene o male passavo alla classe successiva come se qualcosa del mondo
separato delle fiabe travasasse per magia nel mondo reale, illeggibile.
Le aule ad Arezzo erano oscure malgrado ampi finestroni nascosti da tende grigiastre; gli ampi
corridoi a croce latina che racchiudevano anche il liceo, illuminati da finestroni di colore ambiguo,
si proponevano severi, ingombri d’aggrottati scaffali chiusi da polverose reticelle e piccole
serrature opache a vietare ancor più polverosi libroni.
In quinta ginnasio unificarono due sezioni e stavamo in uno stanzone enorme diviso da una arcata, a
dannazione degli insegnanti, collegati a noi da itinerari che loro credevano di disegnare e che
invece erano sottoposti alle nostre interferenze.
Vi dirò dell’arpa.
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Avevamo banchi apribili, con un contenitore per libri e quaderni sottostante una ribaltina che si
alzava dopo una piccola zona fissa, spazio per posare la penna e per il calamaio infilato, riempito
regolarmente dai bidelli.
Il calamaio serviva ad intingere il pennino che riusciva ogni volta a tracciar geroglifici e macchie
non su papiri ma su quaderni, libri, fogli formato protocollo per le prove scritte, e quant’altro avessi
dinanzi, compreso il collettino bianco che rifiniva il grembiale nero, secondo il regolamento,
controllato dalle bidelle all’inizio dell’anno, trenta centimetri da terra.
Tutto l’insieme era un rebus privato. La gioia d’interpretare macchie e strani segni, impensati come
impensabili, era parente delle favole, non condivisa da altri umani, a casa o a scuola.
L’arpa: vi spiego. Esistevano tipi e forme di pennini, divertenti come un bagaglio di sogni. Le
custodie, regalate ad ogni determinato numero di pennini acquistati, erano segrete scatolette di latta
colorata, divise in due scomparti chiusi da un coperchio scorrevole che scivolava gentile a una
piccola pressione orientata.
I pennini, gioia dei miei occhi, avevano infinite possibilità d’uso a seconda che fossero infilati nelle
penne o altrove. Alcuni, a forma di mano con l’indice steso erano privilegiati. Sistemati a schiera
ordinata in quadrato, parte sottile in su, nell’angolo a destra dello spazio interno del banco,
sottendevano elasticini, con i quali mia madre ogni mattina fermava le mie strettissime trecce.
Eseguivano, sotto l’invito delle unghie o di altri pennini, suoni flebili, ai miei orecchi dolcissimi.
Nei momenti di silenzio, particolarmente quando la professoressa di lettere si preparava con aria
ispirata ad ammannirci grammatica o sintassi latina, lo sfiorarli rendeva il silenzio turbato dal
fraseggio appena percettibile e a lei poco gradito. Allora il volto magro con aria truce tuonava:
“silenzio” in tono dittatoriale. Dopo poco si metteva in posa di oratore ispirato. Il suonino si
ripeteva. La sua faccia assumeva un color violetto per la rabbia, mentre gli occhi balenavano dietro
gli acquari che teneva sul naso.La sua ira mi rendeva accetta, non agli ignari insegnanti ma agli altri
alieni tra i banchi, quelli scatenati, si intende.
Non era una popolarità vasta, ma comunque una rottura dell’isolamento. Quelli che venivano
venerati erano gli alieni del liceo collaterale. All’incrocio dei corridoi un orologio a pendolo sotto
vetro dichiarava le ore e le mezz’ore, determinando il rapporto tra il bidello Carboni e la
campanella che decretava la successione delle lezioni. Erano i grandi nomi del Liceo quelli che
s’incaricavano, ogni volta che passavano davanti all’orologio per andare al “licit”, di dare, se i
bidelli non guardavano, una toccatina alle lancette, guadagnando brevi preziosi minuti alla
scadenza delle lezioni. Purtroppo a volte la toccatina rendeva inverosimile la discrepanza con gli
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altri orologi. Un dubbio affliggeva i conduttori delle operazioni d’ordinamento delle proficue
giornate di studio; tuttavia gli artefici restavano per molti eroi indiscussi e benefattori del gregge e
non potevo sperare che Thot, dio egizio della luna e del sapere, potesse concedermi di accodarmi
alla balda schiera.
Note dolci, queste, che consentono di trovare una continuità del mio vissuto tra realtà e favola,
allora come oggi.
La lettura degli eventi continuava tra le due diverse righe, senza che gli altri comprendessero i miei
binari non paralleli, lasciandomi nell’ambiguo che mi affascinava, come mi affascina.
Un filone, paterno, di amore per il lindore della logica - lui scacchista di gran valore e dominatore
dei codici, tanto che a sua insaputa venivano pubblicate sue sentenze dalla rivista di studi giuridici mi calmava e mi attraeva. Ma era solo un filone. Il magico, il non dicibile, il segreto e illogico era
assai più adeguato alla mia natura sconclusionata e invereconda. L’illogico, che riconoscevo come
tale, scarsamente comunicabile, era come l’intrico dei papiri: mi si confaceva e mi proteggeva.
Così la mia vita andava complicandosi di nozioni che acquisivo con vario grado di difficoltà. La
geografia era sempre ostica. C'era, ad esempio, il dover copiare a colori alcune precisazioni di
regioni e situazioni orografiche o che altro. Ho chiara sotto gli occhi una variegata cartina, costata
ore di lunghi triboli, che a mio parere diceva abbastanza e che tornò sul banco con scritto in rosso
un sintetico “horribile visu”. I miei sentimenti per l’autrice del commento non sono ripetibili. Del
resto non ho mai saputo disegnare nulla: le linee continuano a venirmi curve e le curve diritte e
questo demerito mi sta addosso come il mantello umido del dio di Rilke.
Non era orgoglio quello per cui rispondevo alle frustrazioni andandomene per mondi
immaginari, lasciando sul banco una buccia disattenta e vagando per l'infinito: tornavo a casa.
Favole, fiabe e miti: ne avevo un magazzino fornitissimo e mi ci rifugiavo ovunque, quando la noia
o l’abbattimento pesavano troppo. Il mondo privo di buon senso, denso di fatti inspiegabili ma
continui e prevedibili, con regole severe di lieto fine, mi facevano attendere nell’irrealtà il suono
reale della campanella liberatoria e il susseguirsi di estranei sulla cattedra.
Qualche volta nel mondo reale si apriva uno spiraglio e mi sentivo accolta. Ricordo che Ovidio
era accogliente quanto Nepote era ostile. Ed anche qui è registrata una frustrazione. Spesso c’era da
imparare a memoria. Quel brano delle Metamorfosi l’avevo studiato con gusto perché mi piaceva.
Da quanto l’avevo trafficata, la pagina era come consunta e le parole scolorite. Andai volontaria e
la memoria si bloccò. Rimasi ritta con aria stupida. L’insegnante di lettere dell’anno, un po’
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grassottella, sempre con la caramella in bocca, non cattiva ma aliena, dichiarò che non avevo
studiato. Non dissi più nulla. L' ingiustizia della vita reale mi fece cercare il solito mondo delle
fiabe, mie o altrui, dove la bontà trova il giusto riconoscimento sempre e gli errori degli altri sono
puniti senza tua eccessiva fatica. Il fatto è che nella vita contano i risultati e non i tentativi , come
sempre ho riscontrato.
Me nell’Egitto sognato, al termine della vita, basta esser capaci di dichiarare che non si è voluto far
del male per star vestiti di lino bianco davanti a Osiri. Non lo sapevo allora, ma trovavo nel magico
il conforto dal reale scomodo.
Erano lontano i giorni siciliani e lontana la lotta con una delle interne più anziana di me che
veniva segretamente indicata come la “baffiusa” per i baffetti che ornavano il labbro superiore. Un
giorno in cui mi sentivo particolarmente ostile le dissi “baffiusa” sul muso e lei si appellò alle caste
sorelle. Venni colpita da punizioni senza fine. Ci fu un congresso di signore, presieduto dalla madre
di lei nerovestita, superabbondante e non meno baffuta, che ricevette le mie scuse dette in
ginocchio. Mia madre non ha mai saputo l’episodio disdicevole: avrebbe reagito con tono da
signora del nord, per loro odioso. Le suore tacevano, ben attente a non rivelare niente di troppo che
potesse indurre a prelevarmi dalle loro cure.
Era evidente che si voleva punirmi di non essere dei loro, ospite legata all’orgoglioso e diverso
mondo del continente. Certo l’episodio confermava il mio desiderio di non essere dove ero e
fuggirmene per il mio mondo di fiaba al più presto e vigorosamente possibile.
Come ho detto, ad Arezzo non mancavano i dolori. La mia pronuncia , colorita dal dialetto
siracusano che ormai parlavo correntemente e quotidianamente e la differenza d’esperienza, mi
rendevano una che non era del gruppo. Si ripeteva il mio esser lì senza esserci, il mio non
appartenere.
A Siracusa, nel pomeriggio, dopo i giochi, eseguiti i compiti per la scuola, venivamo schierate
lungo interminabili telai a fare lo sfilato siciliano.
Furon le fiabe che mi resero amabili quelle ore. Una morettina, interna come me, non
un’orfanella, mi prendeva sotto la sua custodia. Al suo fianco, le ore diventavano fuggevoli gruppi
di fantasmi.
Non ho mai gustato nessuna fiaba come quelle tradizionali siciliane, che lei, la saggia decenne
pacata, colava con gentilezza come filigrane verso me, bambina inquieta: fate e maghi e pescatori e
Giambarò e ogni altro dilettoso involucro di sogni si infilava nella cruna dell’ago, a fermare i punti
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che tornivano pochi fili assieme, a formare non una prigionia ma un mosaico di storie per rendere
vivibile il laboratorio disadorno dove giovani corpi si chinavano a far miracoli col refe sottile. Io
spaziavo chissà dove e inesauribile la voce affettuosa colmava generosamente la mia impazienza
per la mancanza di movimento.
Nulla sembrava impossibile, anche fermare la morte su una sedia con un trucco: cavalli magici
portavano a statue con gli occhi piangenti e “Triddicinu” vinceva sempre di buona misura
qualunque impaccio.
Ho dimenticato il nome della compagna siciliana, ma non la figura. In lei si configura una delle
apparizioni di Isi, la salvifica. Ha riconfermato un angolo segreto tutto privato da scoprire che
anche gli Egiziani amavano le fiabe: è stata una conferma di cui ero già certa.
Le fiabe si concludono: io non ho concluso nulla, ma sento confusamente che non è necessario
metter il punto alla fine d’un periodo. Come il giro dell’anno, segnato per loro dalle stagioni e dai
lavori in tre fasi che conteggiavano il proseguire dei giorni, così la presenza di messaggi veri o
fiabeschi, reclama il mio riconoscimento d’una continuità nella differenza. Come loro, sento che
tutto è concluso semplicemente perché è, senza bisogno d’una morale della fiaba che si perpetua e
non finisce. La fine è sempre un principio.
A distanza di anni, in altri periodi di vita, la sensazione di incontrare nei Musei non dati nuovi
ma una conferma di quel che era già in qualche modo conosciuto mi si è rinnovata.
Vedere quei documenti era come tornare a casa dopo un’assenza, riconnettere fila non recise ma
sospese. La parola casa non è giustificata. E’ una sensazione più ombratile simile a scatole cinesi,
un risucchio di ondate piccole e larghe verso un gorgo unico. Non un sapere, ma un godere. Perché
sapere è possedere ed essere posseduti, il godere è semplicemente essere. Farà ridere, ma trovo
efficace dire che non so nulla dell’Antico Egitto ma sento di partecipare all’Egitto degli antichi dei.
Sentivo, nella adolescenza ribollente, che non era un problema di scelte, come avrei poi saputo
studiando, tra credere per capire e capire per credere, né la fermezza che ho trovato in Agostino di
Sagaste. Diversissimo: essere interiormente, se non poieticamente, identificarsi senza né credere né
sapere. Semplicemente “vivere” in contatto.
Studiare i monumenti egizi e la letteratura non è stato un ritorno a casa - casa come contenitore ma un recupero d’un mio essere, un espandersi, un ritrovarsi dopo un’amnesia. Recuperare nello
specchio il significato che sembrava illeggibile, vedere il mio volto riflesso non come estraneo ma
come vivo e mio.
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I primi incontri entro il collegio-convento di Siracusa si mascherano come sentimenti del luogo e
del mio starvi che ricompaiono travestiti da affetti che riempivano la giornata di me prigioniera e i
ricordi successivi si ricompongono con minore impaccio d’emozione. Sempre rimane la sensazione
d’appartenenza.
Egitto dono del Nilo. Egitto patria di molti dei, antropomorfi e teratomorfi, con storie di risposta
dell’uomo alla sfida della morte che conduce a misteri illeggibili ma conosciuti: legame indicibile
ed evidente nel tempo. Non vi è nel mio sentimento per l’Egitto altro che un mio personale modo di
dedizione. Non so se è il vero Egitto, ma certo è la mia patria accogliente.
So che l’Egitto ha posto il suo seme per tutto il Mediterraneo e oltre, nel giro dei secoli e delle
dinastie. Non solo per me il suo messaggio si protende per essere decifrato, nei misterici segni privi
di vocali. L’Egitto che mi cattura e che io catturo è più del breve brivido della durata d’una vita
umana, eppure non è il largo processo di secoli nelle loro variazioni. Nei musei di Parigi come a
Londra e Torino il richiamo dei settori egiziani fu totale, i momenti densi e anche ciò che si è
sbiadito nel ricordo intervengono come l’orchestra che si collega al tema del solista. Di Torino,
negli anni, il ricordo dei singoli oggetti si slabbra di un sentire ancora l’eco dell’emozione: la
tenerezza dinanzi agli oggetti di donna, pettine, portaunguenti, ciotoline e cestini, stoffe e
parrucche, si rinnova come se in lei leggessi l’ombra della mia adolescenza tramontata. Non è
l’Egitto documentato, ma l’Egitto che svolge la natura delle mie emozioni non risolte che si
prospetta dal mio amore, documento d’un intenso connubio dell’istante e dell’ansia della durata,
tale da trovare un punto di forza che unifica i due contrari e tutti i contrari: decadenza e
riconoscimento uniti e contrari come tutte le diadi: umane e della natura, tempo e spazio, luogo e
oggetto nel luogo.
Mi piace il trionfo del punto equidistante dal centro e l’idea cusaniana che ogni punto è cerchio
e fulcro pensando alla retta infinita che è un cerchio di raggio infinito. In altre parole: uscire dal
quotidiano non per sfuggirgli ma per consumarlo qui e ora senza impoverirlo con una
semplificazione eccessiva. Mi immergo nel modo egizio di unire il dio vivente, il faraone, essenza
del potere, alla morte con processo complicato che va oltre il semplice punto del morire. La
mummia è risposta alla negazione del fluire del tempo e anche alla illusione dell'eternità . Lo
svuotamento dei visceri risponde alla conservazione dell’involucro per il Ba, contatto tra il corpo
fisico e la spiritualità e il Ka, doppio eterno fluido, spirito, anima, relazione, e risponde alla
garanzia del restar fuori di colui che ha varcata la soglia del Duat, ed è nel mondo rovesciato,
irraggiungibile al vivente, il Duat la cui porta, Aker, è bifronte.
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Umano e divino sono connessi in forme costanti: Ark è detto il divino nell’uomo; i quattro
canopi che accolgono le viscere hanno le teste dei quattro figli di Horo. Amset, testa umana,
contiene il fegato; Hapi, testa di babbuino, i polmoni; Duamutef, testa di sciacallo, lo stomaco;
Kebenehsenuf, testa di falco, l’intestino. Sono distinzioni, non separazioni. Connettono divinità e
parti del corpo umano. Il significato, preponderante dell’unità delle parti finché sono aggregate
strettamente, si completa nel diverso ruolo di ciascuna, voce indispensabile alla pluralità che
necessita al coro perché il tutto superi il modesto verosimile per integrarsi in una verità più ampia e
onnipresente, da scoprire con riverente ascolto della singola parte nel tutto e con il tutto. Lo
scarabeo al posto del cuore è anch’esso fuori del momento anche se ancorato al singolo evento del
singolo morto. Il simbolo universale è strettamente connesso al singolo caso. Il corpo svuotato,
immerso nel natron o prosciugato dalla piramide non è un contenitore qualunque: parte d’un tutto
che resta immersa in un tutto, ancor più ampio, che reca significato ai piccoli “tutto” che noi siamo.
Colui che ha varcata la soglia è e non è colui che fu, visse, pianse, amò, fece piangere, si fece
amare: si rinnova il messaggio aureo dei frammenti di Eraclito. Nella mia vita i segnali del mondo
dell’ideologia egizia sono stati molteplici e distanziati nel tempo. Ne vedremo alcuni per
riconoscere, se possibile, il legame che io sento e che ho decifrato solo alla fine della vita e dello
studio come unità determinante una serie di mie convinzioni.
Questa storia infatti è largamente autobiografica, non tanto per ossequi all’amore per la
biobliografia della letteratura egizia, quanto per la necessità di mostrare legami con epoche di vita.
Risponde al bisogno di concretare le proprie motivazioni per un lavoro di pulizia, esame di
coscienza apotropaico, di riordino della esistenza prima che sia giunta alla fine.
Quando mio figlio si dedicò a studiare W. Reich e l’orgone, riprese anche alcuni esperimenti e fra
questi le esperienze della piramide. Riprese quelle di Drbal, il praghese; di Cameron, il
californiano. Nella mia memoria rimane chiaro il fatto che vi ho visto con piacere esperienze
connesse con la mitica piramide egizia . A questa mi legava di ammirato stupore, non tanto per il
mitico vedervi intuizioni di numeri, discusso, ma la sua potente presenza umana e anche
superumana.
So di avere guardato al suo lavoro senza distacco, con un quieto convincimento che ripresentava la
sensazione di ritorno, di acquiescenza. Non avevo certezze, né pensieri coagulati in parole, ma solo
un senso di acclimatazione che mi legava di più a lui, diverso e per questo più vicino e caro.
Ancora un particolare del mio legame con questo tema, nel quale non ho raggiunta una
preparazione scientifica, ma solo un colorito affettivo di gioia e pace.
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I miei genitori hanno raccolto e fatto rilegare l’annata del 1926 del “Giornalino della Domenica”.
Vamba crea un intenso mosaico d’argomenti e a me è caro ripercorrerlo perché risento le voci
familiari di chi me lo leggeva prima che imparassi a leggerlo da me. La pagina centrale del 14
febbraio mostra il cofano di Tutankamen - così allora ho imparato questo nome. So quasi a mente
quel che dice: “Costruito in oro, ecco il cofano di Tutankamen, uno dei più sorprendenti lavori
dell’antico Egitto”.
Sono passati decenni e sempre rimane il richiamo di quella figura monocroma e risento l’attrazione
con cui la rimiravo a cinque anni.
Le illustrazioni migliori che ho poi trovato non esercitano un’attrattiva maggiore: riconosco i segni
d’un’antica fiamma.
Mi lega il fatto che la storia è per l’Egitto inestricabile dal mito e dalla leggenda. Storia e mito non
sono per me diversi per valore di verità.
Fin dall’infanzia ho sempre sentito e saputo, non logicamente, che il mito appartiene ad una zona
della realtà che mi si confaceva particolarmente. Non distinguevo tra fiaba, favola e mito e
preferivo i miti alla storia. Probabilmente anche perché non appartengono al bagaglio che dovevo
studiare in forma ordinata dagli altri, su testi scolastici sussiegosi.
Neanche oggi mi chiedo se è determinante che il mito sorga da archetipi collettivi o da inconsci
individuali. Mi risulta determinante il suo valore di aggregatore sociale, la sua capacità d’essere più
duraturo del singolo e trovare nel momento in cui viene trasmesso la sua realizzazione come fonte
di coesione di gruppo.
E so anche che quanto di desiderato e non sperimentato, fiaba, favola e mito contengono,
appartiene non al desiderio vacuo, ma al movente, alla meta cui ciascuno e il gruppo tendono per
proseguire nella ricerca del meglio che fa parte dell’ansia di vita.
Percepisco l’implicito valore sacrale, così ben indagato da Eliade.
Ho sentito un fascino che mi lega nelle considerazioni di Levi Strauss, quando lo considera un
linguaggio, quindi una via di comunicazione articolata nel tempo.
I miti di tutti i tempi mi hanno sempre richiamata e sorretta.
Trovo meno interessanti quelli dei nostri tempi, i Rambo et similia, che non riesco a condividere
come non poetici.
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Riconosco che i miti e le formule fiabesche che ho incontrate per primi mi hanno dato una sorta di
“imprinting” che permane per tutto il corso di questa vita umana.
Mito e leggenda sorgono e si mantengono da motivazioni di esigenze profonde, legate
all’interpretazione della vita e alla volontà di raggiungere anche l’irraggiungibile.
Per me che il Nilo sia essenziale a quella civiltà è un fatto come lo è il viaggio sulle sue acque delle
navi che contengono i simulacri degli dei in trasferta.
Posso legarli alle processioni che mi hanno vista in fila per il Corpus Domini, non meno sacrali e
misteriche per me bambina di quelle che appaiono a me pesante di anni.
Vi si cerca il rapporto tra i viventi e la divinità che allude ad eventi di storie di divinità di cui non si
ha documentazione tangibile. Se non sono veri nello stesso modo, rendono egualmente possibile la
ricerca del rapporto col divino.
Veri di una verità non storica, non per questo meno significativa e pressante per chi intende
srotolare il gomitolo della vita umana con comprensione. Mi ricordo della mitica favoletta del
genio che offre al giovane un gomitolo da svolgere per sapere il futuro. E l’ingenuo si adopera ad
andare in fretta, per sapere presto. Alla fine, col filo è finita la sua vita. La fretta di conoscere il
futuro conduce dunque più presto alla morte.
Qui invece si incontra la prova di sentimenti umani che si ripetono, un proseguire nella via della
comprensione del tutto come un continuum.
Si tratta di inserirli nelle nostre riflessioni in moduli diversi. Non è un cammino a gruppi, ma è
anche un cammino non così solitario e personale come può apparire ad un occhio frettoloso.
Non mi turba il dato di fatto che il conto di Manetone sulle dinastie non è certo. Non mi toglie il
sonno il problema della durata dei Regni. Ripenso ai lettini della camerata a Siracusa, tutti eguali e
diversi.
Ogni diverso che incontro nello studio della civiltà egizia è un dato a sé e non mi vedo impedita dal
considerarlo nell’insieme, come non pensavo al singolo letto, quando entravo nella camerata che
era il “dormitorio”.
Quando Ceram mi documenta, dai bassorilievi della mastaba di Akhutotep, del Regno Antico,
un viaggio immaginario ad Abido, sento che l’immaginario egizio è consono al mio: guarda alla
virtù come ad una realtà proteiforme che non può essere vera in un solo modo, ma richiede che ci si
faccia duttili a tutte le sue varie dimensioni, senza di che lei rimane muta e noi sordi.
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Parliamo quindi del mio modo di rispondere ad alcuni miti egizi.
Il mito di Osiri richiama in me molti echi: intanto, il fatto di due fratelli che lottano e si possono
considerare come male e bene; primi alla memoria Caino e Abele, anche se condivido la
rivoluzionaria interpretazione di Aldous Huxley, che non valuta l’attività d’agrario di Caino
confrontandola a quella di Abele pastore.
Sono fratelli Romolo e Remo: lo spargimento di sangue di Remo sul solco della città sacra fa
pensare che l’atto brutale non è solo documento di prepotere.
Si tratta di un’allusione ai riti primordiali di fecondazione della terra e auspicio, per cui la vittima
diviene sacra. Ne vediamo una citazione magnifica nella "Sacre” di Strawinskji.
Vi è, in me, la condanna di qualunque uccisione e in particolare mi ribello alle uccisioni
ricoperte da una scusa sacrale, per quanto ricoperta dal benestare della così detta legalità.
La storia dei fratelli egizi è diversa da quella di Roma e mi turba meno,
Geb, padre, e Nut, madre, terra e cielo, generano quattro figli: Osiri, Isi, Seth e Nefti. Osiri si dedica
a trasmettere agli uomini le arti che li rendono civili. Il fratello Seth, geloso, trama un tradimento.
Costruisce una bara delle misure di Osiri e lo invita a entrarvi. Osiri, fiducioso lo accontenta e
viene chiuso e gettato nelle acque. Qui incontriamo la pianta di sicomoro. Alle sue radici si ferma
la bara che contiene Osiri. Il suo crescere rapidamente rivela che è una pianta straordinaria. Così le
due sorelle, Isi, sposa di Osiri e Nefti, sposa di Seth, trovano il sarcofago.
Osiri è ora il derelitto, colui che dal massimo dell’influenza nel mondo è sceso nella notte segregato
nella morte.
Le due sorelle lo liberano e Seth, infuriato, lo straccia in quattordici pezzi che getta separati e
lontani.
Mentre per Dioniso fatto a pezzi è lo stesso padre Zeus che ordina il ritrovamento dei pezzi, qui è
Isi che ricompone il morto, come in Mesopotamia Istar fa con Tammuz.
In forma d’uccello Isi concepisce da Osiri ricomposto un figlio:Horo.
Osiri non riacquista la vita, ma ne vive una diversa.
Per questo lo troviamo raffigurato come mummia di colore verde. Diviene spirito della vegetazione
e questo colore sottolinea il suo essere diverso dai vivi, contemporaneamente indica la sua azione
vivificante per la vegetazione.
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E’ un momento in cui si deve riconoscere la ricchezza dell’ambiguità e la faccia bifronte di ogni
realtà. Osiri è morto ed è datore di vita, mummia e dio del grano, vinto ma non distrutto: solo
trasformato.
Il figlio Horo, sceso nel regno dei morti, gli dà in pasto l’occhio che gli è stato strappato dallo zio
Seth e riattiva nel padre la capacità di vedere.
Il dio di chi soffre, che ha sofferto ed ha conosciuto la sconfitta, nel momento in cui diviene dio
creatore e protettore della vita delle piante, oltre che della morte, diviene un’esistenza ambigua e
molteplice, con aspetti contraddittori.
Nel mito di Osiri un altro dato rispecchia incredibilmente un mio bisogno di interpretare la vita
senza semplificarla a linee schematiche.
Seth, che corrisponde a valori negativi, che è anche la tempesta, la malattia, la lite, quanto di più
scomodo potete ideare, commesso il crimine non viene privato della sua divinità. Resta un dio e
diviene barcaiolo della barca di Osiri, che guida sul Nilo Celeste.
Non distrutto né esecrato: trasformato e ricondotto ad obbedire a un principio generale, quello del
trionfo della Maat, l’ordine e la pacificazione.
Questo mito è documentato processo di rivalutazione e di ponderato rapporto tra tutti i personaggi
che vi si agitano. Si può notare l’equivalenza tra agire e far agire. I contrari coincidono. Fratelli e
nemici, sorelle e salvatrici hanno tutti ruoli molteplici.
Osiri colpito a morte suscita l’azione di Isi, la sposa sorella che si fa protagonista dell’azione di
ricomposizione e salvezza, che giunge a generare il figlio postumo salvatore. Non vediamo nel
morto Osiri un passivo inesistente, ma un dio che ha una pausa nel suo modo di esistere, una
trasformazione; come mummia, dopo la morte, diviene più attivo di prima, capace di generare e il
figlio e le piante. Il giusto sacrificato ingiustamente diviene così l’antidoto all’ingiustizia stessa e
risolve in azione di collaborazione la forza negativa che gli ha dato morte.
Come un punto che segue una linea circolare partendo dall’alto scende per poi risalire e
ritrovare il punto da cui si è mosso, così nell’insieme degli accadimenti tutti e quattro i figli del
cielo Nut e della terra Geb trovano la completa esplicazione del loro significato.
Il tutto che li contiene rende possibile comprendere la connessione tra i quattro ruoli, compreso
quello di Nefti che a sua volta ha un figlio da Osiri. Un senso cosmico insegna a non giudicare da
miopi ma attendere di avere tutti i dati per decifrare il messaggio. Meravigliosa lezione dell’Egitto
antico.
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Onnos è divinità inquietante che svolge gran parte della sua attività nell’acqua del mondo degli
Occidentali. Passato oltre “quelli dal volto minaccioso”, divinità collaterali, divora coloro che
incontra, mangia le madri e quanti il dio della vendemmia, Sesmu , ha sbranati. Egli apre la terra a
“colui che ritorna”, dopo avere camminato nell’oscurità. Questo cannibale collabora alla salvezza
di Osiri, con Isi e Horo.
Nella faticosa impresa del rinnovamento della rinascita indica il dolore del distacco dal “prima”
e si lega al senso di vittoria per il “dopo”. Un completamento di quanto si compie nella vita umana,
che è una serie di allontanamenti e riprese diversificate. La prima fase è indicata nelle figure
materne, come già altrove dalla Grande Madre, così Mut, sposa di Ammon o Nut, madre dei quattro
dei, cielo sposa alla terra. Oltrepassata la lotta con il non umano dio dell’acqua, Neher-Kau, saliti
su Henu, la barca che Anubi guida, carica di defunti, non saremo sradicati ma trapiantati ed è il
terribile Onnos che partecipa a questo viaggio dopo la morte, a cui possiamo dare anche il compito
di alludere alla realtà psichica umana. Nello svincolamento dalle radici, non per piombare
nell’annullamento ma per consentirci di rinascere e rinnovarci, vediamo gli estremi collaborare.
Proprio come quando l’adoloscenza ci rende indipendenti dal grembo familiare ma non estranei:
partecipi in forma meno dipendente, diverso da Onnos è il dolore della crescita che conduce ad
essere persona autonoma. Ed è un dio crudele che partecipa ad un’opera di trionfo del bene. Sotto il
segno della Maat.
Una notevole differenza dalle altre culture e da altri miti viene a proposito del serpente, da noi
colpevolizzato come segnale di tradimento. Da loro è divinità di vario tipo. Troviamo Vatchit,
signora del fuoco, serpente arrotolato intorno ai fiori di loto nel papiro di Ani: spezza i poteri delle
tenebre e scaccia i nemici di Ra, dunque è benefico.
Nell’Occidente è segno dei morti a un grado profondo di tenebra si ode soltanto, non c’è più
acqua e la barca si muta in serpente nella quinta ora di Amduat e nella settima ora si trova Apopi, il
drago pericoloso. Nella dodicesima ora si trova ancora un lungo serpente-dio che diventa Kefre, lo
scarabeo che esce, sole rinato.
A Buto c’è una dea dall’aspetto di serpente, Uto. Iaret è serpente eretto a indicare la verticalità
dell’universo. Non è la sola divinità-serpente: Kemate è “colui che completa il suo tempio”
serpente delle tenebre primeve. Altro serpente è Nehaher, che avvolge Osiri morto. Non di minore
interesse la divinità di Sito, primordiale serpente con la coda in bocca, figlio della terra che fa
pensare a Ouroborus; questo dio cinge il mondo. Ure è serpente sacro; teste di serpente cobra sulla
testa del faraone rivelano familiarità con l’animale velenoso, indicando ambivalenza. Un cobra
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attornia il disco solare di Ra Harmaklus nel papiro di Hunepa. Abbiamo una statua di Tut-en-Amen
come dio Harakty con un cobra sulla fronte.
Serpenti grandissimi ornano alcuni templi. Ed esiste un gioco del serpente, tavola che parte a
spirale attorno al centro per andare a formare stazioni come nel gioco dell’oca, terminando
all’esterno con la testa di serpente.
Con la figura di serpente si opera per aprire occhi e bocca della mummia. Ambivalenza evidente.
Ma anche serenità.
Se Donadoni propone che la rappresentazione animalesca sia solo una metafora, trovo non meno
interessante quel che dice della divinità. Sottolinea la capacità delle divinità egizie di combaciare
l’uno con l’altro all’infinito e tra loro e con le esigenze umane. Dinanzi allo schematismo di altri
miti che pongono male e bene divisi e incomunicabili respiro una visione più universale.
Vi è anche un altro mito che non si svolge in terra che concorda con queste interpretazioni.
La psicostasia è un rito legato alla loro concezione del rapporto vita-morte. Le cerimonie e le
operazioni della mummificazione, che si svolgono sotto la sorveglianza di Anubi trovano in lui
garanzia, perché egli è preposto al sostentamento dei defunti. Le operazioni in terra tendono ad
assicurare che non si distrugga il cadavere e che avvenga la purificazione del defunto. Ma se la
cerimonia di apertura degli occhi e della bocca è affidata al sacerdote vivo, la parte più importante
è concepita come evento che accade tra gli “Occidentali”. Ne esistono molte descrizioni e molte
illustrazioni nel Reu-Nu-Pest-En-Rhu, il “libro dei morti” o “capitoli dell’avvenire quotidiano”.
Nel Museo Archeologico di Firenze abbiamo una magnifica rappresentazione della cerimonia
dell’aldilà. Il rito si svolge nella stanza del Doppio Maat. Il defunto non si presenta solo, ma viene
accompagnato dinanzi a Osiri, perché sia giudicato, da molti dei. Si tratta di un bilancio totale che è
momento del singolo e della sua gerarchia di valori sociali e religiosi, in una coralità austera e
definitiva. Abbiamo una dichiarazione di innocenza o confessione negativa che ha quarantadue
pronunciamenti e quarantadue dei ne garantiscono la verità. “Io non ho commesso colpe contro gli
uomini”, inizia e prosegue con pignoleria pazientissima. La cerimonia è severa e si vede come sia
importante non per il singolo, ma per tutta la schiera degli dei del Duat, aldilà.
Il cuore del defunto è posto su un piatto d’una bilancia, sull’altro è una piuma di struzzo della Maat.
Se la piuma pesa più del cuore si ha la condanna. Anubi controlla la bilancia, Thot registra il
risultato su una tavoletta, di fianco sta Ammit, divoratore dei morti, testa di coccodrillo, corpo di
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leone e posteriore di ippopotamo. Sopra la bilancia sta un’altra forma di Thot, un babbuino
accovacciato.
La pesatura positiva viene comunicata ad Osiri, verde, in abito regale, assiso su un trono. Dietro
stanno Isi e Nefti, su un fiore di loto, sono i quattro figli di Horo cui sono legate le effigi dei vasi
contenitori degli elementi tolti al cadavere. A volte invece di Osiri abbiamo Horo con testa di falco.
Vi sono interrogazioni su dei e compiti ed eventi del mondo segreto. Su tutto presiede la Maat, a
volte accompagnata da Amentit, entrambe con piuma di struzzo sulla testa.
Molti timori connessi alla morte vengono esorcizzati. Non si teme il camminare al buio a testa in
giù, né il mangiare cibi ripugnanti, per la presenza degli dei che collaborano a fare trionfare la
Maat, garantire sia il risorgere del sole al mattino che il trionfo della giustizia per il defunto.
Cogliendo questi aspetti mi rendo conto del perché ho sempre sentito il fascino e l’accettazione di
questo modo d’interpretare l’esistere. E non mi importa di essere certa che la pensavano così: quel
che conta è che mi hanno messa sulla strada per incontrare un mio pensiero persuaso.
Lasciati per un momento i miti, dirò d’un altro episodio che considero una testimonianza del
significato di questa storia d’amore.
Il primo incontro con “Civiltà sepolte” di Ceram risale a un periodo infelice della mia esistenza e il
libro rimase tra le cose che non ebbi con me quando venni via dalla galera. Il rimpianto era pari alla
leggerezza che sentivo nel ritrovare vivibili i giorni. Decenni dopo, mentre vado alla scuola di ballo
di Marga Nativo a godermi il suo delizioso modo di fare lezione, una bancarella di libri, appena
passato il Ponte alla Carraia, sempre lì ad ogni mio passaggio, mi richiama senza che mi riesca di
capire bene perché. Ho fretta di arrivare e guardo quasi seccata con me stessa: ecco che riconosco
le tre musiciste in copertina: tra i libri c’è una copia del Ceram che rimpiangevo da tanto.
Capisco che lo sguardo rapido e frettoloso ha colto il segnale e la percezione subliminale ha
registrato e trasmesso l’avviso.
E’ un piccolo filo gioioso dell’intrigo che mi lega al tema e che nella sua semplicità non rifiuta di
fare da tessera in un mosaico.
In questo amore trova conferma un altro dato che mi sta a cuore. Io non posso credere all’antitesi e
al distacco tra naturale e fittizio, tra creato sopra di noi e creato dall’uomo. Tutto mi si configura
come naturale. Nel mio mondo interiore non ha luogo l’idea di una naturalità tutta bruta
contrapposta alla civilizzazione razionale, come non c’è l’ammirazione settecentesca per il buon
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selvaggio: ognuno è misto di immediatezza e razionalizzazione ed è da vedere nelle sue
molteplicità.
Trovo naturalezza anche nelle soluzioni più raffinate dei nostri problemi: se vi siamo giunti,
possiamo credere che esistevano in noi i presupposti per realizzarle. V’è naturalità nel salto piccolo
e frenetico d’una danza primitiva come nel passo contegnoso e riservato d’un minuetto. Non vedi
confini tra tipi di soluzione, ma gradualità.
In Egitto non si accetta la presenza di capelli e peli. Con estrema adattabilità si sostituiscono i
capelli con parrucche, diverse per diverse circostanze. Non si rifiuta il dato di fatto che i capelli
lunghi sono scomodi, lo si aggira alludendo alla realtà mentre la si sostituisce con un oggetto che
elimina gli elementi sgradevoli.
Semplicità di soluzione, naturale in un essere come l’uomo che non ha lasciato nulla di immediato
nel suo rapporto con ciò che lo circonda. Naturalmente modifica il letto del fiume e la situazione
della montagna, coltiva e alleva modificando piante e animali: interviene sempre a suo vantaggio vero o presunto - pur assecondando la natura che non può essere negata.
Il trucco egizio degli occhi di cui testimoniano anche gli oggetti ritrovati, proteggeva da
infezioni mentre sottolineava e impreziosiva lo sguardo, che tanto pesa nei rapporti umani.
Un altro elemento che si presenta come determinante del mio stato d’animo, l’ho trovato chiarito da
una stele funeraria nel prezioso museo archeologico di Firenze. Hatyay, sovrintendente agli armenti,
è raffigurato in atto di adorazione dinanzi a Ra-Harakhte, dalla testa di falco, e Osiri. Sotto sta la
scena fondamentale di lui con la sua anima cui Nut, dea del cielo e madre di Osiri, porge l’acqua
purificatrice. La dea è raffigurata come due braccia che sporgono da un delizioso sicomoro, dalle
foglie ovali, nette e dettagliate. Tutta la scena contempla il rapporto della divinità con l’uomo, nelle
sue forme di corpo e anima e, quel che più conta, sottolinea la totalità dell’esistere, nell’uomo come
nel dio, nella pianta e nell’animale. Il saldo legame non separa con divisioni quando distingue in
forme diverse. Scaturisce integro dal fluire dall’albero dotato di braccia e di mani e dall’uomo
accosciato e proteso a contenere il flusso che dall’albero-divinità gli arriva vivificante.
Pieno di sapore questo integrare le forme diverse, nessuna delle quali può pretendere a primeggiare
o prevaricare. I loro dei possono assumere la forma di bestia, del loto, del sicomoro, dell’oggetto
sacro, disponibili ad una protezione per cui non si chinano, ma si volgono a proteggere e accolgono
lodi e preghiere senza che nessuno esca dal posto che gli è toccato in sorte.
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Questo olimpo totale accetta gatti, babbuini, coccodrilli, falchi e altri animali. Trovo un’implicita
pacificazione, un senso del legame che impedisce a una delle forme di presumere d’essere il tutto:
vittoria sulla stolta pretesa dell’uomo d’essere il re del creato, posto sopra tutto, giustificando
questa baldanza come un volere di dio.
Orgoglio e presunzione che nega la compartecipazione.
Mi sento a mio agio per l’ambiguo, non determinato che lascia posto alla sfaccettatura, alla
molteplicità collaborativa dei ruoli.
Non sono propensa ad accettare l’Egitto delle maledizioni magiche di cui si sono fatti sbandieratori
coloro che cercano più l’effetto che gli affetti.
Mi pare necessario ripetere che non trovo che abbia significato positivo accettare in blocco
come dosi massicce di vangelo le interpretazioni correnti sia tra i profani curiosi che tra gli esperti
veramente dentro alle dottrine e ai dati che ci sono pervenuti. Una sorta di eclettismo quando non
sia tale da ledere il buon senso negli accostamenti, mi si presenta come una situazione di docile
duttilità contrapposta alla tetragona assolutezza di scelte. Trovo qualcosa di mio, ad esempio, nei
sogni legati alle sedute del medium Helen Guillet e Paolo Franzini narrati da Fenoglio. Non so fino
a che punto mi riesce di accettare la parapsicologia, sono in situazione di sospensione di giudizio;
credo all’intuizione liberata dai ceppi della convenzionalità, anche di altissimo livello, e credo che
si possa trovare ragione di fiducia cauta. Non ricerco precisazioni sempre concrete e documentate.
Cerco un contatto con modi di essere e di sentire che possono venire incontro proprio come da
sculture, pitture, poesie, fiabe e miti. I resoconti di queste sedute spiritiche e le successive scoperte
in caverne e rivelazioni di antichi sacerdoti e faraoni che parlano di una reincarnazione della Guillet
già vissuta nell’Antico Regno, mi si traducono immediatamente in modi di sentire, un sentire ciò
che non è stato occulto, ma interiore, in un tempo amodale non situato precisamente, ma diffuso e
concentrato nello stesso tempo, una maniera di essere. Leggere senza decifrare parola per parola,
ma unendo previsione e reale lettura cogliendo il senso totale.
Qualcosa di analogo all’astrologia e all’oroscopo: non ci credo, ma li accolgo come indici simbolici
e tali non da potere predeterminare, ma da poter fare che ciascuno individui quel che vorrebbe e
inconsciamente cerca.
Nelle precisazioni di alcune frasi che si leggono nei papiri riconosco un alone, un sentore che mi
induce a fare una accettazione che rimane non precisa, non definita, ma lascia scorrere l’intuizione
e mi trasmette una sensazione di un tipo particolare di certezza. Non trovo nulla di veramente
concreto. Concreta è la bellezza solenne e pacata del tempio di Haschepsut a Deir el Bahari, e
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concreto il silenzio che risponde allo sguardo che lo osserva, nel mio esistere. Concreto dono di Isi
è che possiamo vedere la cappella in Elefantino di Amenophis III, che resta solo nel disegno di
Denon. Ed è dono di Isi perché fu distrutto nel 1022, novecentonovantanove anni prima della mia
nascita. Concreto e non reale, e vero nella sua assolutezza e equilibrato.
Eppure anche queste certezze contengono un qualche cosa di fluttuante, un rumore, risucchio di
onde e la serie di domande non espresse che non trovano risposta è uno sfondo che partecipa in
modo costruttivo. Così mi piace profondamente che vi sia uno scambio continuo tra sacro e magico
e umano.
Isi è madre, sorella, sposa: dea del magico, ora prevale un ruolo, ora l’altro; sentiamo di volta in
volta sullo sfondo gli aspetti che vengono lasciati in ombra, a completare l’immagine.
Se prendiamo in considerazione il testo d’una cerimonia sacra, cogliamo questa alternanza di ruoli.
Mentre sta rallevando in segreto il figlio postumo di Osiri, va a cercare cibo e uno scorpione punge
il bambino. Quando scopre dall’odore che cosa è successo, disperata si abbandona ad una
invocazione agli dei, elencando i meriti di Horo. Giunge Nefti, la sorella sposa di Seth e anche
Thot, l’Ermes greco, dio della luna e del sapere. A lui Isi domanda l’uso della magia per salvare il
fanciullo avvelenato; Isi appare donna, madre dolente che solo sa a chi rivolgersi per ottenere il
giusto intervento di salvezza. Thot lascia Isi consolata e corre alla barca di Ra, Meseketet. In altro
caso è Isi che interviene con la magia a salvare dal morso dello scorpione il figlio di una abitante
della palude. Ruoli che appaiono contraddittori e evidenziano invece l’importanza della situazione
che muta la capacità di operare; ciascun fatto richiede di scegliere il ruolo adeguato, flessibilmente.
L’ambiguità rende rischioso il lavoro d’interpretazione. Colmare le lacune che troviamo nei
documenti può essere fatto imitando due modi di restauro. Ieri si colmavano le lacune senza
rispetto, fingendo certe le supposizioni, come nella Chimera d’Arezzo, il cui serpe-coda
chiaramente errato morde le corna, mentre, qui a Firenze, nella bacheca accanto, possiamo vedere
una piccola Chimera intatta non toccata da restauri che mostra la coda libera e non volta a mordere.
Nel restauro dei nostri giorni si lascia chiara l’integrazione ipotetica, senza fingere di sapere quel
che non si sa, come si è fatto per il prezioso “vaso Francois”, sempre a Firenze.
Modo saggio non presuntuoso, non privo di fantasia ma che sfugge al fantasticato fumettistico.
Atteggiamento indispensabile per le testimonianze di un passato anche meno lontano. Ci si può
muovere tenendo conto della direzione indicata da Champollion: “L’arte egizia si consacra alla
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notazione delle idee più che alla rappresentazione delle cose scultura e pittura son branche
specifiche della scrittura”.
Scrittura come elemento scelto per trovare un’utile via di comunicazione.
Dinanzi alla loro comunicazione, dobbiamo cautamente distinguere quanto è veramente sicuro da
quanto appare perché così siamo inclini a credere, per motivi personali o collettivi legati al nostro
attuale tipo di esistenza.
L’arte egizia dimostra d’essere consapevole di uno dei suoi requisiti: la possibilità di comunicare,
far partecipi, usare la pietra come documento che sfida i secoli per fermare l’attimo di vita. La
verità che viene graffita fa partecipi d’una verità non data nel bruto elemento informativo, ma da
ricostruire con l’occhio che legge oltre, unendo emotività e ragionamento.
E’ un modo di rispecchiare la molteplicità che abbiamo segnalata. L’integrazione fortissima tra
pratica e teoria, tra rituale e attuale, vita e morte, scienza, religione e politica precede la
specializzazione, necessaria per non disperdere le conquiste del passato, dato il torrente di scoperte
che si susseguono. E’ anche adesione all’unità onnicomprensiva nella quale i contrari si fanno densi
di connessioni.
In Egitto alla schematizzazione del corpo nella rappresentazione pittorica e nella scultura, si
contrappone la fisiognomica, per cui riconosciamo i tratti di molti faraoni. Il lavoro artigianale,
ripetitivo, giunge a dare anche connotazioni che indicano precisi rilevamenti. La scarsa eleganza di
volto e figura di Ecknaton dice che lo si guarda come uomo oltre che come simbolo e divinità:
entro il ruolo vige l’attenzione alla realtà umana e lo cogliamo sposo e padre in momenti di
intimità. Nelle figure stilizzate, la trasparenza della gamba sotto il lino, nella schematica
interpretazione dell’andare, con le gambe sempre pianamente rivolte dalla stessa parte, gratifica il
senso della presenza e del passo. E’ un accettare l’ambiguo come nostro. Così abbiamo teste non
congruenti col corpo. La sfinge ha corpo di leone e testa umana; il Ba, testa umana e corpo
d’uccello; altri dei hanno testa di babbuino e corpo umano. Leggo il senso del legale,
dell’equivalenza, dell’unità del divino e l’umano, non sento contrasto ma sintonia.
A Torino del papiro satirico dalla tomba di Tutankhamen nella descrizione del mondo alla rovescia,
mi colpisce il gatto a guardia di oche, l’uccello che sale sul sicomoro con una scala, l’ippopotamo
contadino, i gatti assediati dai topi. Gli animali suonano strumenti musicali, un quadrupede usa
l’arpa a nove corde. E’ una percezione del rovescio ed una ironia sui ruoli. Ma, oltre la satira,
probabilmente troppo personalmente, leggo la continuità del tutto.
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Mi è caro che la cultura egizia faccia l’invasione degli Hicsos non un motivo d’abbandono e
trascurataggine, ma uno stimolo a fare più salda l’unità dei due regni.
Dice Pernigotti che si valuta meglio la situazione politica circostante per giudicare la situazione
reale: un uso integrato della frustrazione, dinamica della civiltà. E dagli Hicsos pare che abbiano
appreso le tecniche per la produzione della lega stagno-rame.
Problematica la mia reazione al re che fu pacifista e fece guerra alla tradizione. Si sa che
Eckhnaton provocò una controreazione che portò il successore Tutankhamen a cancellare quanto
poté, cominciando dal nome delle opere del predecessore. Non sono sicura di leggere bene l’evento.
Ne sento il fascino, ma non so come debbo giudicare il trasferimento della capitale da Tebe a Tel-el
Amarna, la lotta contro lo strapotere dei sacerdoti: è da vedervi il riconoscimento della necessità di
dare forme nuove ad esigenze costanti?
Temo che mi condizioni l’idea d’un dio unico. Certo questo faraone nel proporre le sue dottrine
intende proteggere l’Egitto come un padre protegge il figlio. Gli è accanto Tii, sua madre; ha un
favorito, Ei, basso sacerdote, marito della nutrice del re.
Ho letto una interpretazione che riconosce nella sua opera di rinnovamento un attacco alla figura
paterna e per estensione alla madre astratta, configurata in Nut, moglie di Ammone. Non mi
persuade e preferisco vedervi la forza innovativa che l’etologia configura nella giovinezza di fronte
all’irrigidimento della vecchiaia conservatrice.
Quel che mi piace di questa storia è un altro elemento.
Ic-en-Aton, il nome assunto, è motto e programma che sostituisce quello di Amenhotep, o
“Ammone è contento”. Significa “splendore del disco solare”. Egli indica l’unico come dio.
Riconosciamo una tendenza all’assolutismo; nello stesso tempo egli afferma che non v’è alterità nel
non egizio: tutti sono fratelli in Aton. La furia con cui propone il suo credo me lo rende
incomprensibile come fu anche ai suoi contemporanei e forse la debolezza fisica spiega
l’inverecondia con cui si impose senza curarsi di persuadere. La sua concezione, anche se imposta,
contiene questo germe di superamento del modo antiquato - e purtroppo ancora in vigore - della
fobia per il diverso. Moderna la teoria e antiquato il modo di proporla, non per questo meno utile da
recepire. Di sé dirà di essere il figlio carnale che solo conosce Aton, escludendo i sacerdoti. Il
fascino che mi lega nasce dalle tante ambiguità che lo rendono indecifrabile e indimenticabile.
Non è l’unico momento di riflessione che non trova una soluzione e che lascia gran parte
d’incertezza nel mio approccio a questo particolare mondo antico.
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Mi rendo conto che molti degli accostamenti che risultano spontaneamente dalle mie riflessioni
sono poco sostenibili, tuttavia mi si ripropongono con insistenza.
Citerò un esempio.
Si trovano, nelle tombe antiche, solo due statuette di servitori, chiamati “rispondenti” o “io sono
qui”: le ushabti. Rispondono all’idea che nell’aldilà possono sostituire il morto nelle incombenze
pesanti, come qui gli schiavi. Passando i secoli, se ne trovano nelle tombe veri sciami, con divisioni
di ranghi, dato che alcune sono chiaramente coordinatori di lavori. Sono di proporzioni minime e
nella mia testa, abusivamente, richiamano i tremendi guerrieri cinesi che ho visto a Venezia, armata
di sasso a custodia di un re morto che nessuno deve turbare, come eguale configurazione di compiti
nell’aldilà di non vivi per altri non vivi.
Devo confessare altre contaminazioni difficili da accettare ma insistenti. Tra tante dee, mi coglie
di sorpresa la leonessa di cui non si doveva dire il nome, indicata come la possente, Sekhmet, corpo
umano e testa di leonessa. Il suo ruolo è davvero inquietante, è la dea della medicina e della magia.
Quando gli uomini divengono peggiori, a lei vien dato l’incarico di eliminarli. E’ dunque strumento
di equilibrio, crudele ma benefico.
Divenendo eccessiva la strage, gli dei le offrono da bere birra tinta di rosso col “didi” così che la
creda sangue. Lei perde coscienza per l’ubriachezza e il massacro è fermato. Sekhmet mi richiama
Giuda. Lui deve tradire per forza perché si compia il sacrificio che salva l’umanità. E’ con un bacio
che consegna ai carnefici la vittima priva di colpe. Tutti esecrano Giuda, il suo nome è infame. Ma
nell’evento salvifico è indispensabile, come Onnos e Sekhmet. Sekhmet è adorata come dea, non
maledetta come simbolo di tradimento e infamia determinata. Le sue imprese sono nel libro della
vacca celeste, attribuito alla dea Hator, giovenca benefica.
Vedo in divinità come Sekhmet, Onnos, Seth, l’intuizione del fatto che le ombre servono a dar
risalto alla luce, che nessuna storia di solo eroi ha sufficiente rilievo, che le forze negative non sono
solo negative: vedo la comprensione del ruolo necessario dell’antitesi, del bene e del male come
aspetti d’un’unica realtà.
Mi piace che si veda in potenze difficili da accettare un contributo alla necessaria vittoria della
Maat, giustizia e pace. Riconosco determinante il fatto che figure femminili appassionanti e ricche
di sfumature popolano sia la storia che il mondo dell’arte egiziana. Mi si presenta come certa la
sensazione che proviene dalla storia di una regina, tanto più facile da interpretare quanto diversa dal
complesso momento di Eckhnaton.
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Hashepsut, alla morte del fratello-sposo Thutmosi II assume il titolo di reggente, non per un figlio
ma per Thutmosi III che è nato da una concubina del faraone. La vediamo in posa da faraone in un
reperto di Dar el Bahri, volto dolce e breve, bocca sottile, corpo snello, sguardo duro. Ora è a New
York, al Metropolitan Museum. Assume responsabilità che risolve con determinazione, in modo
personale.
Leggiamo sui graffiti che per poter metter arbusti di incenso con altre preziosità nella tomba che si
faceva costruire inviò cinque navi oltre l’equatore, in terra di Purit, ancora considerata una favola,
forse alle foci dello Zambesi. Più che i suoi acquisti d’oro e avorio sono queste piante odorose che
mi lasciano col respiro breve per l’emozione. L’ammiro per la gentilezza con cui pensa alle piante
odorose immerse nel segreto della sua ultima casa come segno d’una raffinatezza deliziosa.
Il suo tempio, fatto da Senmut, a Dal-el-Bahari, di fronte a Luxor, crea silenzio e attesa, con un
ritmo di colonnati multipli a danza architettonica. Forse fu uccisa dal figliastro. Il fatto che alla sua
morte (1468 a.C.) come per Eckhnaton e tanti altri vien compiuta una condanna della memoria e
una cancellazione del nome mi dice solo l’eterno andamento ondulato delle vicende umane, così
sinuoso da essere difficile da interpretare per chi non accetta altro che la linearità. Sono grata a
Mariette che spende cinquanta anni per liberare il tempio dalla sabbia, e a lei per l’incanto che le
storie che la riguardano trasmette.
Con un sorriso squisito che mi ricorda Sesostri I (XII din.), tra i volti più amabili che ho
osservato sta Malaqaye, moglie di un faraone numida (700 a.C.).
Siamo al tempo delle lotte contro gli Assiri e questo sorriso invade chi lo guarda con la sua
perfezione; più che ambiguo, porta il segno di una personalità decisa di chi sa usare la bellezza
come elemento di forza.
Non minor fascino ha Nefertari, detta “l’amata da Mut”. La tomba scoperta da Schiaparelli la vede
come dea Hator e gioca a Senet, la dama egizia. Oggi i coniugi italiani Mora stanno lavorando a
dare il giusto rilievo ai reperti. Il suo volto è austero e sovrasta un corpo delicato appena adombrato
da lini candidi che lasciano vedere la linea elegante delle braccia armoniose e sentiamo che il suo
incedere era tutto armonia.
Non meno gradevole la notizia che fu amica della pace.
Mentre Re Ramesse lotta in guerra contro gli Ittiti lei, Nefertari, “la più bella” scrive
amichevolmente alla sovrana di Hatta. Ed è un segno della potenza della bellezza, che non ha
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bisogno di orgoglio e prepotenza, aprendo la strada alla comprensione e all’amore, come ben dice il
mito di Eros dell’ateniese Platone.
Più noto il nome della sposa di Ecknaton (XVIII din.), il faraone che mi sconcerta. Il busto
trovato da Borchardt è a Berlino. La sua bellezza ha ispirato molti poeti. In un rilievo calcareo di
Tell-el-Amarna, Nefertiti, “la bella è qui”, sotto i raggi di Aton, sta dinanzi allo sposo. Il faraone
bacia un figlio e lei ne ha uno sulle ginocchia e uno in braccio. Le pieghe della veste rivelano lo
splendore d’un corpo vibrante pieno di significato e il volto ben noto, dagli occhi allungati culmina
nella bocca socchiusa che ti invita a sognare come da lei sgorgassero parole, baci e sorrisi. Da lei
nasceranno sei bambine e nessun maschietto.
Così mi coglie quel che è documentato in scarabei, con la storia del matrimonio di Amenofi III
con una regina che si delinea persona di qualità particolari. Di lei, Tii, si dice che non è di stirpe
reale: figlia di Inia, sacerdote e di Tuju, cantante di Min e Ammone, lascia un segno della sua
presenza. A lei si collega la sfinge detta Siriana con quattro zampe, ali, viso di donna, corona sulla
testa e collana, ricca come la rosa di problemi d’interpretazione di questa arcana figura.
Non è come regina che mi interessa. Esiste un documento nel quale suo fratello la fa dipingere
circondata da animali: una scimmia e un gatto che cerca di acchiappare un’oca. La vedo quindi in
un momento di semplice lotta per la sopravvivenza, immersa nel quotidiano. Lei resta in un alone di
regalità.
Mi commuove il gesto di Nebkheperure, sposa di Tut-ench-Amon nel legno stuccato della tomba
del faraone fanciullo al Cairo: proprio quello da me conosciuto dal Giornalino della Domenica di
Vamba. Lei dinanzi al giovane sposo seduto in trono porge la mano a toccarlo lievemente sulla
spalla con tenera dolcezza. Son giovani e paiono indifesi: la dolcezza di quel gesto travalica la
carica che li appesantisce per sottolineare il rapporto che li lega e che continua nei secoli in questa
memoria. La delicatezza di questa donna fanciulla rimane senza pari.
Da una statuetta in calcare trovata a Tebe (XVIII din.) ci giunge il volto di una fanciulla che ha
in mano un fiore di loto. La sua parrucca da due strisce piatte al centro della testa e il movimento
della parrucca è uno zig-zag geometrico fermo e deciso che contrasta con la squisitezza delle linee
del volto un po’ stupito; assume il compito di far “importante” questa presenza maliziosa e
invitante più che decisa.
Idealmente mi metto al centro d’una stanza, tutte intorno immagino queste donne così lontane,
baciate dalla fama, immerse nell’infinito e mi trattengo con loro. Se faccio l’inventario dei miei
meriti fisici, come quando ero giovanissima e studiavo allo specchio per capire quello che nessuno
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specchio poteva dirmi, vedo che non abbiamo nulla in comune, loro belle, loro decise, loro fuori dal
tempo. Eppure non mi sento a disagio tra tanta bellezza, me ne rallegro. Sono convinta che se il mio
corpo stanco e la faccia rugosa traggono vantaggio dal nostro incontro, l’adolescente che è in me,
che mi tiene ancora alla ricerca d’un indefinito, si giova del loro influsso come se col loro sorriso
mi dessero coraggio e lasciassero un riflesso del mondo che hanno lasciato da tanti secoli.
Connubio d’amore tutto particolare ricco di sfumature gaie appena velate dalla certezza della
provvisorietà dell’eterno concepito da noi umani. Altro elemento che accetto: il modo egizio di
intendere la magia. Non è lasciata a sé, ma si innesta in ogni parte della vita: religione, politica,
quotidianità comprese.
Si dà spazio non al pensiero logico astratto, ma a una sintesi del dialogo tra sensibilità e mente,
senza prevalere dell’una sull’altra. Più che fiducia cieca, considero il senso del magico
riconoscimento della forza di un volere che si innesta nella percezione come contatto di capacità
estreme, che non si lasciano inquadrare in una prigione diadica, ma si esplicano a forma di raggiera.
Leggendo le formulette, i vari modi di procedere e le indicazioni tecniche che ci sono giunte,
faccio due considerazioni: la lettera appare bambinesca e ingenua; i risultati vanno oltre. Un esame
ricco di figure di re Rachevitz è divertente come una favola.
Difendersi dai veleni forse è meno facile che suscitare amore in chi non ci nota. Sono temi eterni
del desiderio umano. Aver fiducia nei giochi della magia è come incarnare nel mistero le forze di
cui è portatrice la grande luce dell’intuizione, anche preconcettuale; mettere in azione una parte del
nostro potere che sfugge ad una piatta abitudine che non realizza in pieno quello che possiamo. Mi
dice molto la massima di re Merikare: “Ra creò la magia come un’arma per difendere gli uomini
dalla mala sorte.” Vi leggo la conferma del loro senso di unicità dell’essere in tutte le sue forme,
dell’appartenenza di dei, piante, oggetti, animali ed uomini a quel tutto che è configurato nella
Maat, ultimo approdo; verità e giustizia. Lei, figlia di Ra, sposa di Thot, dio lunare che è patrono
delle scienze e inventore dei geroglifici detti “parole divine”, è segnale per me di quella sintesi che
conduce a trovare significato positivo in ogni tragitto, avere fede che il dominio della Maat ci
accoglierà tutti, ciascuno per la sua strada. Questa, ai miei occhi, è la somma magia. In questo
mondo che parte dal principio che il segno grafico dell’animale ferito potrà influire sull’andamento
della caccia via via per tutte le complesse fatture e gli oggetti magici, statuette di cera, scarabei
incisi, dischi solari, occhi magici, arrivo a sentire riposante il loro mettere la magia anche nel
rapporto con l’oltretomba a protezione dei morti.
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Questo è sostanzialmente il “Libro dei morti”, apotropaico per il grande viaggio. E’ detto anche
“Formula per uscire di giorno” cioè resuscitare che altrove è detto “Capitoli del futuro quotidiano”.
Il muoversi con l’immaginazione tra la variegata serie di oggetti magici diviene un approdo: non un
approccio alla superstizione , ma una forma di gioco serio che, al di là della maschera della magia
rivela la sostanza. Bracciali incisi, statue profilattiche coperte di formule, crotali per il ritmo,
pozioni con capelli d’uomo morto, scelta di colori e rituali con formule sono da legare alla
sensibilità che induce a lasciare doni funerari in dotazione per le celebrazioni dei sacerdoti per il
defunto.
Prima riflessione: le mutilazioni al corpo del defunto vietano di sperare in un’altra vita. Senso che
ogni parte è necessaria, senza dare gerarchia che svaluti una parte a favore d’un’altra. I canopi
contengono le parti che vengono tolte alla mummia e sono quattro le divinità che le contengono.
Il libro che indica come si immagina la conclusione della vita, mostra una valutazione totale delle
azioni compiute in vita. E si sottolinea così anche il valore magico della parola.
Mi rammento i giochini della mia infanzia, con le parole. Le parolacce per le “cattive cosine”
nella fase sbarazzina, le conoscevo dalle cameriere con cui, uscita mia madre, rompevo la
solitudine di interi pomeriggi, essendo proibito uscire o giocare con compagni non scelti dai grandi.
Mi dicevo di non saperle, bluffando con me come con gli altri. E ridacchiavo quando il medico con
aria segreta diceva a mia madre d’un posto di villeggiatura “è un posto dove curano la tibici”,
alludendo alla tubercolosi. O quando si diceva “è morto d’un malaccio”, frase per tutte le malattie,
dal cancro al mal francese che non si nominavano perché considerate vergognose. Per questo il
rapporto degli Egizi con il potere magico della parola e del nome è risultato quotidiano e inglobato
nel mio personale modo di trovare difese dall’invasione degli adulti controllori, anche se sapevo
che il mio mondo non era davvero difendibile. L’esser consueto mi faceva gradire il gioco di dire
senza nominare. Più tardi mi sono detta: è morale dire pane al pane; ho riconosciuto nel lessico, che
si andava diffondendo, lo stesso modo di ostentare le parolacce, mentre al cinema il neorealismo
faceva spettacolo dello sciacquone e della seggetta e più tardi il fondo schiena e il nudo sempre più
integrale divenivano obbligatori.
Ma anche rimpiango l’altro modo, che vela, indica, allude e non vedo quale dei due sia più degno di
dire il vero. Vi è un’ambiguità nell’uso della parola che non è finzione ma lascia spazio a intuire.
Nell’intreccio delle mie riflessioni il tema dell’eterno ritorno si congiunge al concetto di
Anassagora che nulla si crea e nulla si distrugge. Lui condannato come empio ha pensato a una
“nous” ordinatrice non molto distante dalla Maat. La sua “nous” è cosa, sia pure sottile e pura e mi
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par che alluda alla configurazione della verità dell’egizio come fanciulla alata, con la piuma di
struzzo sulla testa. La periodicità nei miti Egizi mi fa sempre pensare al ritorno che è fine e
principio.
Quando per lunghi decenni ho insegnato filosofia, ho permeato il mio metodo didattico d’una
ricerca di equilibrio tra accettazione di ciascun filosofo e libertà di considerarlo solo come uno
stimolo alla riflessione, perché centrale nello studio non è mai stato per me inglobare una nozione,
ma partire dalla nozione per giungere ad un eclettismo entro il quale tutto poteva vibrare e il nucleo
iniziale riuscisse a trovare spunti di nutrimento senza asservirsi ad alcuna teoria. Questo
disancoraggio spiega come un piccolo accenno mi spinga a riconoscere un possibile incontro e poi,
con piena tranquillità, mi lasci vedere contemporaneamente uno iato. Quel che conta non è il dato,
l’oggetto-stimolo. E’ il girovagare, liberato dalla spinta ricevuta, che è essenziale.
Così l’eterno ritorno che ha risolto nel tempo una serie di aspettative dell’uomo occupato a
leggere sé e il mondo, si lega benissimo all’esistenza d’una continuità tra vita e morte. Non vedo un
segno di sopravvivenza dell’individuo né una possibilità di certezza nel qualificare la morte come
semplice negazione e rovesciamento della vita.
L’egizio icasticamente dice: “il miele dolce ai vivi è amaro ai morti”. Vi vedo solo una allusione
per immagine. Ma vedo la contiguità degli eventi come gradiente verso la verità. Horo, ora come
falcone solare che da Est va a Ovest e entra nella bocca della dea ogni sera per rinascere la mattina
dopo, ora come figlio di un dio padre di se stesso legato alla dea cosmica Ha-Thor, “casa di Horo”,
consorte e madre, ha peso di illuminazione di questa contiguità. Mi affascina la preghiera riportata
da Campbell: “Nella tua bocca la parola normativa (hu); nel tuo cuore l’intelligenza (sia). Il tuo
verbo è il tempio dell’ordine divino (Maat).”
Non leggo il ritorno o la ciclicità ma il senso dell’immensità del tutto e del suo appartenere anche al
minimo. Mi rincuora leggere in Campbell: “Gli dei sono funzione della più grande totalità di Ptah
che è la loro eterna forza vitale, il loro Ka.”
Entro questo panorama di moti d’intesa sotterranea sta anche il fatto che mi consola che gli Egizi
ebbero in vari campi intuizioni geniali ben leggibili anche a chi vive nei nostri giorni.
Theodor H Garter interpretando il mito cananeo dell’Arco Celeste’ identifica il dio “Sive
Destrezza e Astuzia” fabbro divino che viene dall’Egitto, con Ptah, che aveva la sua fucina in Menfi
e testimonia che, come Creta era il centro che diffondeva la ceramica, l’Egitto forniva Palestina e
Siria con abbondanti importazioni di manufatti.
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Il fatto che il termine “chimica” si possa riferire alla loro parola “chemi” che indica “terranera” mi
fa pensare a una continuità con ricerche attuali non manifesta ma significativa. I greci chiamarono
Arpedonapti gli agrimensori egizi cioè “annodatori di corda”. E con le corde tenute ben tese
giunsero a delineare punti e congiungimenti che permisero calcoli tali da poter poi servire per
incredibili armonie della piramide. Mi diverte che questo mio approccio all’Egitto abbia
l’apparenza d’un intrico di coincidenze senza legame, mentre io vi leggo un tracciato, quasi una
predestinazione.
Un discepolo, laureato con me, mi dava gioia perché riusciva in tutto meglio di me, a
dimostrazione che non avevo sciupato le sue capacità. L’allievo prediletto è una rinuncia al
complesso di Erode, che fa prevalere una miope gelosia sul gusto di avere contribuito all’opera
d’arte d’una costruzione positiva di personalità.
Incaricato di condurre un seminario parallelo al mio su valori pedagogici, ha scelto la religione
egizia come argomento senza che mai io avessi trattato questo tema con nessuno. Questo mi parve
una riconferma del mosaico. Proprio nei giorni in cui attendevo di sapere cosa avesse scelto,
passando per Pisa, in una vetrina di merceria s’impose un canovaccio per mezzo punto che
rappresenta la barca di Osiri, con varie divinità. Per quanto fosse evidentemente folle pensare di
aver tempo per un lavoro così ampio, nonostante l’assurdità della spesa, mi trovai ad averlo
comprato prima che qualsiasi considerazione avesse prevenuto l’acquisto. Le misteriose figure non
sono state ancora ricamate, ma l’oggetto fascinoso è in casa e attende ago e sogni che gli dedicherò.
Proprio come si fa da piccini, che si mettono da parte gli enigmi dei discorsi e dei comportamenti
degli adulti, ben sicuri che si riuscirà a decifrarli in un secondo momento, così ci si costruisce una
sorta di riserva di presenze da decifrare a comodo.
E questo è accaduto mentre leggevo avidamente le opere ricche di fascino e scientifiche di nuovi
amici: Armuzzi, Bresciani, Clark, Curto, Erman, Donadoni, Gardiner, Montet, Roccati, e alcuni
articoli su “Archeo” e “Airone”: incontri di sogno.
Gli incontri con gli oggetti che sono nei musei sono distanziati nel tempo a seconda dei viaggi e
delle possibilità di dirigerli: a un tempo veri e mitici.
Ho consapevolezza che cercare di dipanare i motivi che generano questo senso di appartenenza e
familiarità non è impresa sensata: le ragioni e le concause possono essere lontane e verosimilmente
le leggo “ a posteriori”. Non è possibile determinare con certezza cosa era nei vari momenti di vita
e cosa ora sembra esser stato, guardando a più di mezzo secolo di distanza. Solo posso riconoscere
alcune linee di persuasione che, di allora o di oggi, fanno parte del tessuto di questo mio amore.
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Alcuni elementi molteplici e spesso intrecciati tra loro sembrano proporsi come accettabili.
Ad esempio: gli animali fecondatori nelle ierogamie del sincretismo creto-minoico sono paredri
(colui che sta vicino) e qui sono già definitivamente dèi e operano divinamente. Non è come per
Enkidu, nel mito mesopotamico di Gilgamesch, che nasce bruto e diviene lentamente pari al
fratello-amico per l’eternità.
Congiungimento divino e forza creativa in Egitto non sono graduali, per il paredro non c’è un
essere assunto in cielo “a posteriori”, ma solo il possesso d’una dea come fatto prevedibile e in
qualche modo scontato.
La figura più significativa ai miei occhi è quella del giovane dio, Horo, il fanciullo carico
d’incombenze che sembrano più grandi delle sue spalle. E’ stato complicato districarsi da
autodidatta con le letture, perché Horo è nome attribuito a varie divinità: qui parlo del figlio
postumo di Osiri. E’ utile un raffronto con altri fanciulli di altre mitologie. Un figlio che ha vita
difficile è Zeus. Scampa alla voracità del padre per l’azione salvifica della madre coadiuvata da una
capra e dai coribanti. E’ a volte toro, altra cuculo, altra cigno. Lo vediamo portare fecondità negli
aspetti zoomorfi. Nella Creta minoica non è figlio di Era ma suo paredro. Egli è diverso da Adone,
Osiri, Attis o Zagreo perché non conosce la morte.
Amene storie quelle del suo seminare figli in ogni campo per cui l’appellativo che gli compete è
quello di “pater” che lascia in ombra il suo ruolo di figlio. Abbiamo una figura patriarcale che fa
pensare ad un dominio maschile incontrastato o comunque preponderante. Siamo in campo diverso
con Horo che è difensore del padre. Giovine destinato alla morte e fatto risorgere proprio da Zeus è
Zagreo. Questa figura ci riconnette di forza al ciclo della natura, alle vegetazioni che muoiono e
rinascono e per questo più vicino a Osiri che a Horo.
Gli spostamenti di ruolo, non rari nelle altre mitologie, sono più facili nel mondo degli dei egizi e
possiamo chiederci come leggere queste storie adeguatamente. Zagreo, figlio di Zeus e della figlia
che Zeus ebbe da Demetra, Persefone, sorpreso e divorato dai Titani, salvato per l’intervento del
padre e di tre dee, Rea, Atena, Demetra, assume la figura di Bacco, dio dell’esuberanza che troverà
molti epiteti divini.
Dalle ceneri dei Titani che lo hanno inghiottito nascerà l’uomo e nelle connessioni orfiche troviamo
una delle differenze importanti. Dai tempi micenei viene la concezione del corpo come prigione e
tomba (soma, in greco significa corpo e sema significa tomba). Nel suo rito si chiedono
purificazioni per ottenere la libertà dal peso. Erodoto chiamerà bacchici i culti orfici. La funzione di
Zagreo è ben diversa da quella di sostenitore dei diritti del padre morto dalle pretese di uno zio
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invasore. Inoltre, nel rito egizio, il corpo non è considerato una prigione; sappiamo da un
frammento dei testi religiosi tradotti da Donadoni che si associa ogni singola parte del corpo del
faraone defunto a un dio. Si sottolinea la sensazione che è importante il tutto, in una scelta non
dualistica manichea della spiegazione del mondo: anche gli elementi negativi hanno un significato;
si crede che la Maat sopravverrà a garantire la giustizia finale.
Il momento della nascita dell’uomo non è centrale ma si lega a un groviglio di nascite successive
e multiple in una vastità che tutte le contiene.
Horo è il legame che non lascia chiudere il passato, non meno complesso di Osiri, che è assimilato
ora al Nilo, ora alla Terra, ora alla Luna, ora al grano. Horo vendica il padre, glorifica la fecondità
della madre, pone un limite alla prepotenza dello zio senza ucciderlo, subisce ingiurie, ferite,
mutilazioni ma se ne libera, non teme il tribunale degli dei, sostiene i faraoni, supera la morte
facendone un momento in una serie di eventi.
Anche la figura di Enkidu, fratello di Gilgamesh è nettamente diversa da Horo. Enkidu nasce
contrapposto all’eroe perfetto. Come Zagreo è bestiale e feroce, dedito alla caccia. Poi,
gradatamente, per l’opera di una cortigiana si trasforma in un essere che sempre più assomiglia al
fratello eroe, cui si lega in molte avventure di successo. La morte di Enkidu giunge quando la loro
somiglianza è maggiore. Gilgamesh non può rassegnarsi e lotta disperatamente perché gli sia
possibile scoprire come vincere la morte e strapparle il fratello. Non è il dolore costruttivo di Isi: la
giovinezza non riesce a raggiungere il riscatto dalla sconfitta.
Il serpente, potere negativo, gli sottrae la pianta spinosa che prolunga l’esistenza. Si nullifica
l’opera della dea Aruru che con una manciata d’argilla ha creato Enkidu; quella della cortigiana che
lo ha fatto uscire dalla ferinità: quella del fratello che ne ha completata la formazione. Qui abbiamo
la dimostrazione che la disperazione che proviene dal lutto non è accettabile all’eroe già rinomato e
caro agli dei e agli uomini; egli è disposto a qualunque azione pur di rompere la legge cui tutti sono
condannati a soggiacere. Non è l’ira funesta di Achille per Patroclo, ma assai più una disperazione
totale dell’umanità per la sorte che è più forte d’ogni desiderio di vita. Si sottolinea, per Enkidu, la
sconfitta che genera disperazione e sconforto.
Horo ha caratteristiche che lo legano a un senso cosmico più filosofico e grandioso.
Gilgamesh dipende da Enlil e Enki, appartiene alla cosmologia di Nippur e Uruk, nella quale
l’umanità è nettamente divisa dalla sfera divina.
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Horo si connette al faraone; ogni intronizzazione in Egitto considera il sovrano una incarnazione di
Horo che ne garantisce la legittimità. Gli interrogativi umani che in Gilgamesh sottolineano la
indifesa dipendenza dalla morte sono messi qui in secondo piano.
La diversità è ancor più segnata se si pensa alla storia di Attis, il fanciullo il cui nome significa “
il bello “. Agddistis, selvaggio figlio bisessuale della roccia Agdos, una delle forme della Grande
Madre, è tracotante. Dioniso, su invito degli dei per arginarne la tracotanza, gli fa trovar vino in una
fonte, foggia una corda di capelli, gli lega il membro ad un albero. Destandosi, Agdistis si evira.
Dal sangue colato inghiottito dalla terra nasce un mandorlo o un melagrano. Dal frutto, una
principessa concepisce un bambino: Attis. Lei viene condannata a morte e salvata in segreto dalla
Grande Madre. Attis, il figlio, anche detto caprone, è concupito da Agdistis. Invitato a sposare la
figlia di Mida, al comparire di Agdistis si evira sotto un pino, dedicando l’atto a lui, e muore.
Agdistis ne chiede la rinascita a Zeus che concede solo che il corpo non si corrompa, ne crescano i
capelli e rimanga vivo il mignolo.
Horo, assalito da Seth, perde un occhio che regala poi al padre e evira lo zio nella lotta per
difendere i resti di Osiri. Abbiamo anche l’episodio dello zio che finge di violentarlo e dichiara agli
dei di averne abusato. Qui interviene Isi che toglie il seme di Horo e lo getta sull’insalata che Seth
mangia. Horo non ha subito violenza e può dichiarare agli dei di avere a sua volta giocato lo zio.
Si tratta di grovigli che legano simboli e intuizioni su vita e morte a concezioni di rapporti che sono
familiari e di sangue, ma anche metafore della struttura che costituisce il nucleo centrale del
convivere nel quale duramente violenza e danno hanno spazio che rischia, a torto, di apparire
necessario. Pure il fine che muove queste divinità antiche non è sempre solo legato ad una
affermazione di sé e Horo è sempre legato alla sua venerazione per il padre tradito dallo zio.
Il mito dell’ermafrodito e le dissacrazioni con il sesso non sono tali da modificare la sostanza
delle storie. In Egitto il figlio difende il padre e non se stesso: il timore della morte è trasferito in
volontà di far che essa sia un mutamento di situazione e non distruzione, e il timore del morto è
trasferito in un rapporto che pone una reciprocità, non recide gli antichi legami: rende così meno
temibile l’evento. Molte teorie sulla reincarnazione possono essere riportate a simili desideri, ma
non con una situazione eguale: ritornare quasi identici, senza che vi sia altro mutamento che di
tempo e luogo, non è accettare con pacificazione interiore il mutamento che pure interviene.
Diverso anche il sonno di Endimione, altro giovine amato da dei. Selene, nome che allude alla
luce, ama il giovine cacciatore che è amato anche da Ipnos, alato dio del sonno. Egli riceve il sonno
in cambio della morte da Zeus. Il mito greco presenta un rapporto molteplice nel quale il giovine
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riceve amori e doni, non compie azioni salvifiche. Così Adone, che Kerenyi assimila a Tanmuz. Il
suo nome significa “mio signore”, è amato dalla dea dell’amore, Afrodite-Ashtoret, cui appartiene
il pianeta Venere. Una musa critica la dea per questo amore. Egli è figlio di Mirra, nottetempo unita
all’ignoto padre Tia. Nasce dall’albero in cui gli dei hanno mutato Mirra.
Di lui si invaghisce la signora degli inferi, Persefone. Ogni anno vien ferito a morte da un cinghiale.
La dea dell’amore, dolente, lo pone in una cassa. Egli divide l’anno in tre periodi, una parte per sé,
una vive con Persefone, una con Afrodite.
Riconosciamo una metafora del ritorno delle stagioni. Adone subisce scelte non sue. Diverso Osiri,
che nel libro dei morti di Anai dice:” io sono Osiri, sono l’Ieri e il parente del domani. Gli dei
lottavano tra di loro fino a quando ho donato l’ordine”. Egli dunque tiene il libro della vita senza
fine e guarda alla pacificazione universale come meta cui tutto è irresistibilmente votato.
Adone gli è simile, certo lontano da Horo.
Abbiamo visto una piccola serie di giovani costretti ad affrontare il tema della morte e le diverse
sfumature sono chiare dalle loro storie.
Altro apporto viene dalle lettere ai defunti nelle quali si elencano i benefici procurati loro e si
chiede assistenza e protezione. Ricordiamo i Lari a Roma e perfino nell’estremo oriente la
venerazione degli antenati ha larga parte nella concezione dei doveri.
E’ una testimonianza che la vera eredità non sta nei beni materiali. Anche i lasciti ai sacerdoti che
devono sacrificare per i defunti hanno valore positivo, sottolineano il legame affettivo: anche se si
tratta d’una delega, non negano il fatto. Vi è rispetto più che utilizzazione, pur se la casta dei
sacerdoti lucra del lascito e alla lunga la delega può far perdere il significato di accettazione di chi è
più adatto al rito e diventare una delega scansafatiche.
Posso riconoscere, nel mio cercare i motivi, che amo l’Egitto perché la sua gente ha risolto il
duplice sentimento dinanzi al morto e alla morte. Con la mitica piuma sul piatto della bilancia della
psicostasia, cerimonia di giudizio dell’anima appena arrivata nel mondo degli “Occidenta”, ha
posto il gusto per l’eterno senza cedere al timore del mutamento inevitabile o delle lotte. Non si è
configurato un oltretomba solo facile e felice, una sorta di ritorno a miticheggiate età dell’oro; non
ha rinnegato il desiderio di ritorno, di riconquista, quella sete di vita che accompagna ogni
mitopoiesi umana.
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Riconosco una qualità di equilibrio tra desiderio e attesa che lascia tanto spazio a ciò che si può
fare per il defunto e al soccorso di divinità che non si staccano dall’evento del piccolo uomo che è
morto.
Nell’Egitto neolitico si trovano tracce del culto della Grande Dea, spesso dea-vacca; assai vicina
alla Potnia Mediterranea, accompagnata da un figlio-amante. Tra le scene di ierogamia abbiamo la
Grande Dea danzante con paredro ittifallico o un dio adolescente; a Gerzeh una corona di stelle
sovrasta la testa della dea. Il senso cosmico sembra evidente.
Ho già detto che vedo così la presenza d’ogni tipo d’animale sacro, di cui troviamo anche cimiteri,
raccolte di mummie di animali: senso della onnipresenza d’uno slancio vitale. L’Egitto sembra
avere concepito una unificazione della morte dell’albero e dell’animale e dell’essere umano,
intuendo la funzione di rinnovamento e di modifica che questo fenomeno riveste nella storia del
nostro piccolo mondo.
A me, chiacchierona, piace la cerimonia dell’apertura della bocca della mummia. Conclude un
lungo ciclo di operazioni sacre eppure sottolinea l’importanza che entro il rito hanno gesti
semplicemente umani come nelle cerimonie per gli dei: vestizione, lavacro, offerta del cibo. Si
rinnova la continuità dell’azione quotidiana che si trasforma in elemento di culto. Per il dio come
per il defunto si offrono vitto e strumenti di vita.
Le processioni cui ho preso parte nella mia infanzia, spandendo fiori e passando lentamente, una
dietro l’altra lungo strade assolate, biancovestite e inneggianti, lentissime, ricordano viaggi
periodici come quello di Hathor, dea vacca a Hefu dallo sposo Horo.
Il fatto che le divinità non abbiano profilo definito e fisso non mi disturba: mi piace.
Keith, dea della guerra e dell’inondazione, è confusa con Ptah, dio creatore protettore degli
artigiani e Osiri, dio dei morti e della vegetazione.
Anche questo mi lega al mondo egizio: il culto è riconoscimento che non manca della sfumatura
“do ut des”, “do quoniam dedisti”, ma è assai di più. Il rapporto tra i fatti e il significato è a metà
tra umano e divino senza preponderanza dell’uno sull’altro.
Questo tessuto mi irretisce. Così vedo la cerimonia dell’apertura degli occhi e della bocca della
mummia e la collego al fatto che la comunicazione è essenziale perché esista la sintonia del tutto.
Questo nesso tra divino e umano è incantevole.
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Erano bravi vasai, come vediamo testimoniato a Fiesole: Khnun crea con l’argilla l’umanità, dio
detto ”guardiano delle sorgenti del Nilo”. Non è solo: gli sono accanto Compasin Satei e Amiquet.
Lavoro divino, che merita non una ma due consolatrici: lavoro che diviene un dono d’abilità
all’uomo
Mi incantano le molte divinità locali, che possono stare accanto alle altre di cui non negano le
prerogative.
Ancora debbo dire che un altro fatto mi invita a sentirmi in accordo con questo mondo lontano
nel tempo e nello spazio. Ad Abido si trova una testimonianza che prima della quinta dinastia si
uccidevano mogli e servi, uso assai diffuso nel nostro miserabile mondo umano. Ancora in India si
vede con condiscendenza il sacrificio della vedova sul rogo del marito.
In Egitto l’uso viene abbandonato presto. Quali che siano le motivazioni che possono portare a
difendere il rito, sacrali, dinastiche, etiche, a me pare documento di civiltà riconoscere l’identità
personale di mogli e figli e il loro diritto a vivere la loro vita e la loro morte personale, non
considerandoli oggetti del grande morto.
Così amo Sabbadon il Faraone etiope che pare abbia abolito la pena di morte.
Altro fatto che mi riempie di gioiosa adesione: gli attributi da favola e ricchi di poesia con cui si
adorna il loro narrare.
Il traghettatore nell’aldilà è “colui che guarda dietro di sé”; Khenty Amentyu, dall’aspetto canino, è
“colui che presiede agli Occidentali”, che sono i trapassati. Upauet, anch’esso di forma canina, è
“colui che apre le strade”. Harsafe, ariete, è “colui che è sul suo lago”. Atum-Ra, il bisessuato è “il
nato di per sé quando non c’era niente, neanche la morte”. Osiri, colui che occupa il trono, è detto
con affetto “lo smembrato stanco di cuore, padre del grano”.
I punti cardinali sono detti “i quattro timoni del cielo”: e possiamo rilevare che il timone è simbolo
di indicazione di direzione non casuale, ma contemporaneamente indica duttilità di rispondenza al
particolare essere della via da percorrere.
Mi coglie un profondo gusto di poesia quando leggo, ne “Il canto dell’argorotà: “La morte, lavien!
È il suo nome e chiama ognuno a sé”:
Non meno denso di sapore è quanto ci dice Sheikh Ibda al Nubi descrivendo il soldato forte con
l’arco valoroso senza eguali rapido ed energico come le lodi che Sinuhe fa del primo faraone della
XII dinastia come guerriero forte che stermina i nemici. E aggiunge “Ma è Signore d’amore, grande
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di dolcezza che conquista con l’amore”.
L’arte egizia è un trionfo del fiore di loto, scolpito su pilastri, in mano di fanciulle, e con la sua
fragile presenza ad un tempo separa in ritmo per i suoi petali ed unisce per la sua bellezza.
Così è dolce e determinato il modo in cui denominano il defunto non condannato alla psicostasia:
“il Giustificato”. Nella cappella funebre di Tut-ench-amon c’è un essere antropomorfo
mummiforme, con cerchi formati da serpenti che si mordono la coda, al capo e ai piedi. Forse è
Aken ed è denominato “colui che nasconde le ore” Protegge Ra nel suo viaggio negli Inferi,
“nasconde le ore”, a me suona come uscire dal quotidiano per mutare esistenza. Il rapporto è ancora
più toccante nelle parole che illustrano la figura: “estraete dalla bocca di Aken l’uscita delle ore che
costituiscono la vostra felicità. Le ore escono per riposarsi nei luoghi destinati. ”Favoloso tra tutti il
figlio di Sekhmet, non nominabile dea della peste, Nefertum:”bambino che è in origine un fiore”.
Siamo nel mondo della metafora intrisa di poesia. Sono impregnati di divinità anche gli oggetti:
pilastri, scettri, pietre, come il Benben di Eliopoli e gli dei trasmettono divinità alle loro statue,
cosicchè l’oggetto non viene separato nettamente dal vivente.
Queste componenti si salvano dalla lenta mutazione che si incontra in ogni mito, che si configura
gradualmente nel tempo a fare più evidente l’elaborazione con cui l’uomo cerca ininterrottamente
di rendere eterno il momentaneo e di prolungare il momento in un tessuto meno contingente eppure
sensibile ai processi che la vita impone senza tregua.
Le diverse cosmologie mi lasciano ad un tempo un senso di confusione e di aderenza ad un
principio in forme diverse. Le diversità non mi documentano visioni alternative, ma la costante
ricerca d’interpretare le vicende dell’origine senza perdere il senso della totalità.
Lottoade di Ermopoli non parte dalla serie che troviamo a Menfi. Ermopoli ci dice di coppie che
concorrono alla creazione: Nun e Naumet sono l’oceano primigenio e accanto hanno Huh e Hauhet,
l’acqua che si agita, con Kuk e Kauet, l’oscurità che precede la creazione del sole e, infine, il ruolo
di creatore del sole appartiene a Nian e Niat.
Il procedere a coppie ci parla di compresenze, di collaboratività, il decentrare le funzioni che
debbono portare alla configurazione della divinità solare mi conferma nel sentire che non si tende a
unificare la figura del creatore semplificando. Che poi Nian e Niat siano sostituiti da Amon e
Amauet conferma la mia sensazione.
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Che a Menfi si parli di Ptah come di un dio che immagina il mondo nel suo cuore prima di emettere
il verbo creatore, mi conferma la sensazione di valutazione particolareggiata del tutto, perché Ptah
ha bisogno dell’assistenza di otto dei e troviamo Tabenen, la terra che emerge dall’oceano, Nun e
Naumet, l’oceano, Atum, sole creatore che a sua volta è creato, e Horo, Thot, Nefertum, dio
serpente, e Edfu. Qui le cose sono viste con più partecipazione razionale; sia l’atto del prevedere
prima di creare che la concezione della necessità di un coro di creatori e di dei guardiani per
difendere l’opera dalle forze del male rappresentano una visione globale complessa e persuasiva.
Testimonianza che la verità non è un punto da cogliere una volta per tutte pietrificandola, ma un
rapporto continuo di vitalizzazione partecipante.
Può essere che le divinità teratomorfe alludano a primitivi rapporti con l’animale e siano traccia
di un tempo neolitico, quando il concetto di creazione assimilava la femmina alle bestie e nella
generazione della prole rendeva minore l’incidenza della madre, necessaria perché l’animale
nutrisse l’uomo, cacciatore ma non del tutto accettabile come forza che può contrapporsi. Una
evoluzione dalla concezione che poneva la Grande Madre come ombelico del mondo. La loro
ierogamia piuttosto parla di collaboratività, del tutto come primo dato fondamentale. Considerando
quanto rivelato dalle scoperte archeologiche del comportamento dell’essere umano, del suo modo
di concepire la tomba, riscontriamo anche nel periodo preistorico la presenza di pietre tombali che
segnano un doppio procedimento: difesa del morto e difesa dal morto. La chiusura, verosimilmente,
da una parte protegge le spoglie e dall’altra evita che l’amato scomparso riesca a uscire per turbare
con la sua apparizione i restanti.
Nella fase più remota i crani che ritroviamo rivelano l’uso di mangiare il cervello per
partecipare dei poteri dello scomparso, e questo è visibile nelle tombe del periodo preceramico.
Nell’Egitto di cui possiamo fare storia si svuota il cranio, ma non lo si incide più come anticamente
e non lo si stacca dal corpo. Occhi e bocca della mummia vengono poi aperti con il cerimoniale che
rende al defunto il loro uso. E’ un mutamento di motivazioni che pone in evidenza l’intento di
favorire la sua rinascita ad altra vita e pone in secondo piano l’altra motivazione, di difesa. Se dalle
sepolture più antiche torniamo alle loro storie dell’origine, incontriamo elementi che confortano le
nostre deduzioni.
Penso all’immagine di Atum, detto “Verbo creatore” che emerge dal liquido primigenio che si
divide in Shu, l’aria e Tefnut, l’umidità. Da loro poi vengono quei quattro protagonisti di cui
abbiamo cercato il significato, Isi, Osiri, Nefti e Seth, nel loro intreccio di vita e di morte.
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Ambiguità che confermano la mancanza di rigidità nella concezione egizia del dio. Così Nun, caos
liquido, sputa e si autofeconda perché decide di non essere più solo.
La luna è recepita spesso, anche ai nostri giorni, come la simbolica presenza di chi muta, di chi non
è costante, non sicura, non fidabile. Ebbene, a lei viene unita non una divinità soltanto. Dei lunari
sono Thot il saggio, Khonsu, colui che distribuisce i compiti, figlio di Amon e Mut, Hator, Tefnut e
Sekhmet.
Interpreto questa pluralità come rispetto del valore della mutevolezza e amo la mutevole luna che
garantisce una periodicità che è ben lontana dalla volubilità in cui la si vorrebbe relegare.
Un momento che mi colpisce come scenico è l’arrivo del faraone defunto nell’aldilà, con il
turbato gruppo degli dei del mondo contrario che si affrettano a rendergli omaggio. Occorre un
giuramento per entrare nei campi occidentali, dominio di Osiri: forma di iniziazione con cui si
chiude un cerchio, si cambia appartenenza. Il dio funebre sul trono trasmette un senso di grandiosità
in continue sfumature di grigio, lui, Osiri, verde, come lo vediamo raffigurato. L’atmosfera non si
può dire statica, ma di un dinamismo attutito e rallentato, se riflettiamo alla lunghezza delle
proclamazioni della confessione negativa della psicostasia. Se le cose diventano difficili, il nuovo
arrivato può sbandierare un diploma rilasciato dagli dei solari. Le ore del viaggio notturno, contate
con cura, coprono tutta la notte. Il turbine nel quale viaggia somiglia a quello del temporale delle
favole, in continua rispondenza tra elementi della natura e nuova natura del trapassato. Non solo
faraoni troviamo accolti e giudicati, e tra gli altri ci dice molto il papiro di Ani, 1420 a.C. circa, che
riporta le fasi con accuratezza. E ascoltiamo come il defunto identifica ciascuna parte del corpo con
diverse divinità: “Io sono colui che ha rispettato gli onori. Io sono il Legame, il dio di Tamaris, che
unì a Ieri l’orbe del sole. Non vi è nessun membro che sia privo di un dio. E’ Thot che protegge la
mia carne. La mia strada è quella di Ra e la strada di Ra è la mia.”
Nella storia degli dei si ha conferma che oltre alla forza del legame di sangue si contrappone alla
mala sorte la benefica amicizia, che permette di collaborare per risalire la china e inserirsi
positivamente. I trapassati sono chiamati “coloro delle sedi misteriose” e il giorno del trapasso è
detto “il tuo giorno”.
Il colore trionfa nel regno dei viventi, si parla della corona dell’Alto Egitto come della rossa e di
quella del Basso si dice “la verde”, anche se presto vengono unificate. Come una tela di ragno,
vibratile, celata, l’intrico del potere sorregge l’evento, in terra e in ogni dove, cielo, acqua,
oltretomba. Questa continua rete ha il fascino delle magiche sedi delle fate e la rispettabilità del
potere divino non congelato in una figura di despota patriarca.
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Questo è l’essere segreto che mi richiama ad ogni incontro. Mi colpisce il richiamo dell’immagine
poetica che pervade queste pagine riscoperte nei secoli e ricomposte a comunicazioni
comprensibili.
Citerò un esempio per tutti di particolare intensità. La gentilezza con cui viene rappresentato un atto
d’amore è delicatissima. La si legge negli scritti di Pierre Lévaque. Aamosen, sposa di Tuthmosi I si
desta improvvisamente alla presenza del dio Amon. Coglie subito e dichiara il sentore della sua
divinità, ma aggiunge una dolcissima espressione umana: “è meraviglioso contemplare il tuo viso”;
ed ecco il dio che si immerge nell’amore, potenziato in lui da una osservazione così piana e
quotidiana. Il dio comunicherà alla sovrana che il nome della figlia che le ha messo in seno è
Khnemet-Amon-Hatchepsut.
Non meno poetica l’invocazione di Isi che ricorda a Osiri il loro vincolo: “sono tua sorella - gli
dichiara - della tua stessa madre e tua moglie” e, teneramente, “vieni a me di corsa. Io ti ho amato,
Signore dell’amore” e lo descrive come un signore della voluttà.
Tra i testi religiosi lo considero particolarmente caldo di emozione.
Allocuzioni dense di consonanze sono continuamente in ogni loro pagina. Nel papiro di Ani, di cui
abbiamo già detto, a me suona come conciso e poetico uno degli ultimi momenti: “Salute a voi
possessori di Maat, divine potenze legate ad Osiri che distrugge la falsità.”
In questo mio viaggio a ritroso a indicare le tappe che costituiscono i vari incontri d’amore, devo
ricordare alcuni film. Il cinema è uno dei miei amori e dei del mio olimpo sono Dreyer, Carné,
Eisenstein, Ford, Hitchcock, Kazan, Kurosawa, Lang, Losey, Malle, Siodmack.
Ne “Il segreto delle Piramidi” di Louis King con Warner Oland, del ’35, mi colpì in modo che gli
anni non hanno sbiadito il momento in cui il falso cinese dichiara entro una tomba:”tra vita e morte
sta la saggezza umana”. Tocca due segni sulla parete e si apre la stanza del tesoro. E’ stata solo la
mia fantasia a cogliere quel momento come il più significativo di tutto il film, o ho semplicemente
riconosciuto un elemento del mio curioso rapporto con questo mondo così spesso trasferito in
ridicolaggini dalla banalità corrente?
Anche il ritorno in vita di Boris Karlov nella “Mummia” (1931, Karl Freund regista, con Jack
Pierce truccatore) per la lettura di un papiro magico è di fatto banale e ridicolo, solo l’interprete
riesce ad emergere intelligentemente da questa interpretazione diminutiva del significato delle
invocazioni alla vita. So di aver tanto rimuginato su quel film che sembra inverosimile che mi abbia
coinvolto tanto.
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Così ho visto con gioia “Assassinio sul Nilo” di Guillermin, di Agata Christie. Mi ha mostrato
luoghi e templi come li avessi dinanzi, mentre nella realtà con la mia vista balorda non li vedrei
così bene. L’ho considerato un dono della sorte.
Prevale, in questo filone di memorie, un senso di grottesca inadeguatezza. Ricordo un film su
Cleopatra, 1934 di C.De Mille, con Claudette Colbert, di cui avevo un depliant che mostrava le
scene più grandiose con la diva in trono, coperta da due antine. L’ho conservato per anni, eppure mi
irritava, lo sentivo sconciamente lontano dal mio Egitto.
Confesso che non ho voluto vedere il “Cleopatra” di Mankiewicz, il cui ridicolo era tale da
mettermi in fuga. Invece la mia gratitudine va alle video cassette sull’Egitto, ideali per orbi, con
atteggiamento abbastanza scientifico da renderle capaci di suscitare riflessioni utili.
Le tappe che ho indicato nel mio viaggio a ritroso in questa storia hanno ben poca consistenza.
Ho privilegiato le più lontane, cercando di dare una visione del momento di vita in cui hanno avuto
luogo, persuasa che sono le più difficili da mettere in giusta luce e anche più vicine all’origine di
questo particolare contatto con un mondo lontano. Il piccolo elenco di coincidenze, narrato
tentando di dare un’idea delle distanze di tempo e luogo che separano i singolo episodi, è concepito
come una prova che intervengono elementi ben eterogenei, piccoli, insignificanti.
Non intendo proclamare che realmente essi sono precostituiti a formare una unità. Ne formo,
interpretandoli, un tutto. Non mi disturba affatto pensare che sono io nel mio modo di aggregarli
che ne delineo una storia d’amore.
Nella vita a volte leggiamo espressioni d’amore nel volto d’una persona che non si sogna nemmeno
d’apprezzarci. Pure, quella errata interpretazione d’uno sguardo, modifica il nostro modo di pensare
a noi e agli altri.
Quel che conta è che nella mia vita interiore queste inezie han peso che diviene affetto. Ripeto, non
intendo dire che è vero, che questa è realtà, ma che questa è la mia realtà nel rapporto con l’Egitto
sognato.
E’necessario aggiungere alcuni dati.
So che il mio modo di farmi spazio entro il mondo dell’Antico Egitto è eccessivamente
discontinuo. La reazione è diversa dinanzi a opere più lineari ed accoglienti che dinanzi a lavori
densi come nuvole di tempesta e sovraccariche di dati che rischiano di divenire per me fuorvianti.
C’è sempre un grado diverso d’intervento di lettura e la naturale pigrizia mi fa accedere prima a
quelle più semplici.
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E’ a Londra, nel British Museum, che si trova un pettorale della XIX dinastia o forse più tardo. Un
fondo ocra tendente più al giallo che al rosa chiude tra due serie di linee parallele, sopra e sotto più
dense e ai due lati più sottili, segni azzurri lapislazzulo. Anubi posa la lunga coda a sinistra e il
muso arguto a destra, senza che compaia il suo sguardo. Spostato sul quadrante alto a sinistra di chi
guarda sta l’occhio di Horo ed è alato. Le ali, segnate di sottili indizi in azzurro, sono non
simmetriche. La destra vibra per tutto lo spazio come se indicasse l’ampiezza dei sottintesi; la
sinistra cade verso il basso, a legare cielo e terra. L’occhio è e non è quello che guarda e il senso
cosmico racchiuso in tanta semplicità non chiede uno spreco di adrenalina. Ti puoi adagiare e
assaporare con tutta distensione e piacevolezza.
Nella stessa sezione, nello stesso museo, incontri un frammento di pittura murale in due strisce.
Descrive una festa: le gentili fantesche sono deliziosamente nude. Il banchetto è offerto ricco e
allude alla speranza che così ricchi siano i banchetti degli Occidentali. I due poggiatoi a sinistra
sono talmente colmi e sovraccarichi che devi un attimo fermarti per valutare i rapporti di volumi e
colori che ne derivano, gli occhi tardano a seguire verso destra l’andamento della cerimonia del
pasto.
Alla leggera grazia delle fanciulle che servono, corrisponde l’agiata eleganza delle signore sedute
sugli sgabelli scuri dalle zampe leonine. I veli sono suggeriti ma le collane e gli ornamenti sono
analizzati nella loro gaia rotondità e nel loro fasto, come le chiome, parrucche da cerimonia, ornate
e sovrastate dal cero che lentamente deve cedere il suo profumo. Vi sono, piccoli piccoli, due
uomini, servitori, uno per striscia: sono le donne ricche e povere che hanno peso e colore e
costituiscono i personaggi d’una storia. Belle, segrete, nude o ornate, inno alla vita e al fasto,
celebrano la gioia immobili in gesti consumati e sapienti. I bianchi lini non tolgono alla loro
eleganza nessun richiamo che da loro prepotentemente viene a catturare chi guarda e a stento
realizza che sono immobili da secoli.
Qui l’adrenalina diviene scomoda.
Ho provato una emozione sfrenata, sempre al British Museum dinanzi ad una scena di caccia dalla
tomba di Nebamun, Tebe, 1450 a.C. circa, frammento intenso e frequentatissimo. In uno spazio
esiguo convivono segni di scrittura rapidi calati a destra dall’alto al basso e tagliati nel quadrante
destro superiore dalla mano di lui con un arco sottile. Sotto il braccio, la moglie regge la faretra.
Lui ha il passo elastico, i fianchi coperti da un breve telo bianco. Dal tondo ornamento del collo che
copre anche le spalle scende sulla schiena una colata di nastri ondeggianti. Tra le gambe la giovane
figlia, piccola e ben prepotente, ti coagula a guardarla con voluttà. E un paradiso di voli di ali di
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variegati uccelli d’ogni specie e colore domina il lato sinistro, quasi imitato da tre fiori di loto e una
folla di papiri dai lunghi steli coronati da fiori. Questi fiori sono a ondate successive, come cariche
di arcieri in guerra, invincibili e proclamatori.
Sotto, umidi pesci indicano la presenza dell’acqua: respiri a fatica sia che tu guardi, sia che ti fermi
ad analizzare. Il tutto ti lega, ti domina, e sei lieto di essere legato e dominato. Ecco, so bene che
questo non prova che io abbia alcun ordine nel mio modo di riferire sulla storia d’amore; pure
questi sono veramente resoconti di incontri d’amore.
Devo precisare, inoltre, che non si tratta di un diario né di una confessione.
Fa parte di questo intrico di papiri la differenza fra diario e confessione e il sospetto di non
veridicità che entrambi mi lasciano. Il diario, se non è scarno e solo di annotazioni tecniche,
contiene, come la confessione, una parte di mascheratura che consiste nel voler leggere nelle
proprie scelte non i veri motivi ma quelle motivazioni che sono più tranquillizzanti. Per questo
nella confessione negativa che è parte della psicostasia, quarantadue dei sono chiamati a
confermare quanto si dichiara. Ma a me non interessa tanto la verità grezza perché anche le
mascherature dicono molto: rivelano l’immagine che cerchiamo di rendere credibile, con tanto più
impegno quanto più non siamo sicuri che siano vere cause e legami che dichiariamo. Spesso le più
grosse bugie non le diciamo agli altri, ma a noi stessi.
Ma bisogna riconoscere che nella ricerca del sé e del reale non abbiamo “menzogne”. Appare il
riconoscimento di ideali che non sempre realizziamo perché non completamente nostri. Sono
aspirazioni più che maschere e fan parte del nostro esserci. Così non mi preoccupo se l’Egitto di cui
vi parlo non è vero: è mio più di qualunque Egitto storico.
La complessità del sentimento che mi lega al mondo egizio può sembrare negata dalle
dimensioni minime di questi episodi che definisco storia di un amore. I punti d’incontro sono
irrisori, ma la loro risonanza si dilunga in soffuse moltiplicazioni. Sento di aderire alla concezione
che leggo nei miti egizi tanto più quando in miti di altre civiltà incontro fatti cui non consento. Alla
boria azteca che pretende che l’uomo sia in grado di nutrire il dio e che considera il sacrificio
umano modo essenziale per dare continuità all’esistenza della divinità, mi sento estranea. Vi leggo
una tracotanza da iperfetazione dell’io disumanante e il fatto è legato al potere che si ricopre con
una storiella e sacrifica gli ingenui senza difesa.
Quanto graditi, in confronto, alcuni riti egizi!
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Quando Campbell mi spiega la paletta di Narmer del 2850 a.C. circa, mi ricorda che Spengler
considera il loro rapporto con la morte come introduzione ad una particolare civiltà, corrispondente
a quanto accade nella evoluzione dell’uomo che cerca di farsi una visione del mondo.
La paletta attesta una sintesi tra temi mistici della Mesopotamia, con leoni o pantere dai lunghi colli
incrociati e il tema derivato dall’unione delle due regioni d’Egitto, Basso e Alto.
Si può riconoscere nell’operazione di sintesi un’immagine del concetto di morte portato a
concordia col concetto di vita. Si appagano due elementi del mio mondo interiore.
Primo, il fatto che la civiltà vive di sintesi e di scambi e non d’isolamento con rifiuto
programmatico dell’altro, obbedendo alla legge del ricambio di cui la morte è funzione. Ciò
comporta una crescita interiore e un più duttile senso dell’io come misura della propria percezione
del mondo.
L’uomo non è colui che determina la sopravvivenza dei suoi dei, ma colui che partecipa del tutto,
accanto ad ogni altro essere esistente, per una “concordia discors” che è raffigurata nella Maat.
La paletta di Narmer ha due facce ed una rappresenta una schiera di nemici morti. Il momento
tragico dei corpi dei vinti decapitati dichiara la crudeltà della guerra e rende valore alla figura del
faraone, una volta presente con la corona dell’Alto Egitto e l’altra con la corona del Basso. Uno e
molteplice, sintesi delle diversità che arricchiscono, quasi a negare la brutale vicenda di guerra
sempre orrida e nefasta. Non per nulla dobbiamo ad un pascià che faceva esercitazioni di guerra le
cannonate che hanno deturpato il volto della sfinge.
Sintesi della diversità degli stati d’animo che devono dare modo di realizzare un contatto che
risponda alla realtà non solo umana. Sintesi e non separazione per cui la crudeltà viene posta non
come una necessità del dio, ma come momento accanto ad altri nel processo totale.
Vi leggo un messaggio di crescita, non la proclamazione di forza e predominio. Forza e predominio
mi si dichiarano mezzi e non fini. Campbell dice che la crisi economica e politica non diede origine
ad una nuova idea della civiltà, ma attesta il sopravvivere nei millenni attraverso crisi antiche e
nuove del mondo egizio che fu liquidato da Roma.
L’altro elemento è il costante volgersi a espressioni che fan del bello una sostanza nutriente
dello spirito. E’ un elemento che, di questo mondo lontano, mi fa sentire che ebbe consapevolezza
che l’uomo, cui occorre il pane, non ha meno bisogno della bellezza per trovare se stesso.
Non voglio dare l’impressione che questo sia un amore esclusivo. Non è neanche l’amore più
grande. Amo giocare ad interpretare le nuvole, nelle quali leggo storie veramente infinite. Amo il
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cinema, soprattutto quello in bianco e nero dei grandi maestri. Amo il mare, amo il caldo. Amo la
danza più che la vita e questo è il grande amore, sopra del quale sono solo i figli.
Ma nessuno di questi amori contrasta o limita questo di cui ho narrato le tenui vicende casuali.
Ditemi pure che mi sono permessa d’offrirvi un viaggio nell’Egitto come un gioco. Non rinnego
affatto la mia consuetudine a considerare il gioco un nutrimento essenziale al sapere. Non pretendo
di essere stata obiettiva, non pretendo d’insegnare, né di proporre un prototipo.
Ognuno deve costruire da sé il suo mondo: l’unicità per l’uomo è diritto e dovere.
Né in alcun modo si può difendere, per conto mio, l’idea che dalla storia o dalle storie degli altri si
può apprendere per la propria.
E’ doloroso e rassicurante il non poter tornare indietro.
Non tornerei a Siracusa, perché non troverei la mia Siracusa, né la cara presenza di mio padre, con
la sua voce dolce e sempre decisamente toscana. Non andrei a visitare l’Egitto.
E’ viltà? E’ coscienza che dei molti tipi di verità ciascuno cerca quello che entra negli ingranaggi
che gli danno sicurezza e base per proseguire. Non andare indietro come i gamberi, né piangere sul
latte versato, ma procedere, anche se non si può dire per quale porto, perché non si sa e non occorre
saperlo: un porto che per uno è accogliente, per un altro è malo approdo e inutile sosta.
E’ passato quasi tutto della mia vita. Eppure come sono vicini i papiri del Ciane, come è profonda
l’ombra delle Latomie e solatio il Teatro greco, ed io vi entro senza peso e senza occhi ma con tutto
di me che è vero e che conta: proprio come per le tombe dei faraoni.
Così entro nei templi mai visitati e saluto le dolci immagini di esseri che non sapranno mai nulla di
me e di cui so solo quello che in me ha trovato risonanza senza rimpianto e senza baldanza;
teneramente e quietamente. Se agli altri sembra mal fatto chiedo scusa, ma vado per il mio mondo a
modo mio.
Convengo che ho fatto come i giornalisti, che si vestono di penne di pavone, dando come propria
scienza qualcosa che non è direttamente preparazione di studio approfondito.
Non ho fatto che qualche lavoro da autodidatta e ritengo che sia stato chiaro che non pretendevo
d’essere una vera intenditrice. Al contrario, devo dire che ho gratitudine che ha anche un colorito
d’invidia per quei nostri egittologhi che non solo sanno andare a ricercare negli scavi, ma sanno
scrivere deliziosamente.
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Io ho solo composto un piccolo mosaico. Posso accettare che il mio parlare di tessere d’un mosaico
somigli al samskara buddista, potenza latente che più tardi si rivela in un fatto manifesto, di cui
parla Stcherbatsky.
Le tappe di cui ho parlato sono una storia d’amore particolare. Una storia d’un amore cui non
interessa nulla di essere corrisposto. Vi è un atto di affetto e una forma di fede. Ogni religione, ogni
scienza è vera, in parte almeno, ed è legittimo cercare la propria verità trascegliendo, mettendo in
funzione quanto aiuta a crescere.
Non si tratta di credere per capire, né di capire per credere ma, diversamente, essere interiormente,
identificarsi, senza fermarsi né al credere né al sapere.
Firenze 1992-93