Numero 24

Transcript

Numero 24
Numero 24 - 20.12.2005
Alleluia !
Finalmente tra 10 giorni finisce questo bel anno di XXXXX che e’ stato (per me) il
2005, solo il 1985 gli sta alla pari , per le rogne viste finora …
C’e stato di tutto : dai problemi col lavoro , alla macchina nuova che si piantava al
primo viaggio superiore ai 100 km …
(Vigneta trovata da Ale …)
Poi una bella martellata su un dito (partita l’unghia), mentre cercavo di riparare un divano
da mia madre (buttarlo via no, vero ?), ah! si dimenticavo, pure la lavapiatti si e’ rotta !
Comunque per quest’ ultimo problema io e l’ Ivana ci siamo messi a ridere, con quella
arrogante superiorita’ che hanno i veterani sopravvissuti a problemi piu’ grossi …
Vi confesso che questo e’ un numero un po’ tirato, volevo arrivare almeno a 6 numeri
(il minimo sindacabile) e’ ho sfruttato al volo un report battle di Andrea ; poi ho
allungato la minestra con un bel capitolo sulla guerra Iran-Iraq.
Be ! avremo tempi migliori …
In gamba gente e :
(pagina successiva perche’ la foto non ci stava…)
Buone Feste & 2006 a voi e famiglia !!
Variante sull’utilizzo della maschera a gas
Tratto dal manuale UK–54MT456 dell’ Esercito Inglese
Utility and Function Materials Troup Land
The Greater Battles – Sicily (The Gamers)
USA e UK : Stefano
Germany e Italia : Andrea
Note di Andrea
Ed eccoci di nuovo ad affrontare una campagna nei pochi spezzoni di tempo disponibili.
Questa volta si tratta di Sicily, della The Gamers, con il sistema OCS.
Il sottoscritto impersona il comando Italiano sull'isola, mentre Stefano ha gli Alleati.
Il piazzamento dell'Asse è piuttosto storico, il gioco permette una qualche elasticità all'interno
di zone prestabilite.
La partita si apre con un offensiva aerea Alleata contro la regia Aeronautica e la Luftwaffe, e
porta qualche sucesso, riducendo due unità di caccia Tedesche.
Gli Alleati decidono di sbarcare esclusivamente nel golfo di Gela, Inglesi tra Gela e Scoglitti, e
Americani tra Gela e Licata. I primi sbarchi sono quasi indisturbati, solo le batterie di Gela e
Licata colpiscono qualche mezzo da sbarco, eliminando un paio di punti
(veramente i dadi li ha tirati solo Stefano...).
Mentre i lanci aviotrasportati (Inglesi) nella zona di Biscari sono disastrosi (come storicamente),
con battaglioni sparpagliati e un paio eliminati.
L'avanzata nell'entroterra è inizialmente facile, viene eliminato un battaglione costiero Italiano a
Scoglitti, e un reggimento costiero Italiano nell'entroterra di Licata, dove si è spinta la 2a
divisione Corazzata Americana. Invece Licata e Gela non vengono attaccate, mentre la 207a
Divisione Costiera "decide" di combattere.
La reazione dell'Asse non si fa attendere, la Luftwaffe si getta sulle navi al largo, senza però
conseguire successi di nota, mentre i bersaglieri asserragliati a Licata vengono riforniti con lanci
aviotrasportati.
Mentre le forze terrestri dell'Asse convergono sulla zona di sbarco, la situazione a prima vista
invita a sfruttare la "posizione centrale", infatti Inglesi e Americani sono separati dalla posizione
di Gela, ancora in mani Italiane. Un kampfgruppe della HG (una compagnia di Tigre, un battaglione
corazzato, uno meccanizzato, e un battaglione di pionieri) da Gela attaccano lungo la costa,
appoggiati dalle artiglierie costiere di Gela e da un battaglione di artiglieria Tedesco, eliminando
una brigata e il comando della 50a Divisione Britannica, e irrompendo sulla spiaggia tra i mezzi
anfibi che stanno scaricando rifornimenti, catturandone alcuni. In realtà, da lontano sembrava
un porto di LCT..., ma l'attacco è andato comunque a frutto, e con la fase di sfruttamento
il kampfgruppe ripiega su Niscemi dopo aver comunque portato scompiglio.
Un altro attacco viene portato davanti a Biscari da un reggimento della divisione Napoli
appoggiato da un battaglione panzer della HG, dove un battaglione di paracadutisti Britannici
viene eliminato.
Davanti alle spiagge Americane prendono posizione a Butera un battaglione di mitraglieri
della Livorno e un battaglione di carri leggeri Italiani, mentre a Naro arrivano elementi della
15a Panzegrandier.
Il turno successivo vede sbarcare altre truppe Alleate, sempre però limitate dalla mancanza
dalla scarsità di porti, infatti gli LCT sono stati trasformati inporti solo in due esa, per poterli
usare per sbarcare truppe. Anche questa volta le batterie di Licata e Gela riscuotono il loro
tributo in punti di mezzi da sbarco, e anche un battaglione mitraglieri della 5a Britannica viene
eliminato.
Anche in questo turno i lanci di paracadutisti sono disastrosi... non ne atterra uno.
Gli Inglesi serrano su Comiso, e attaccano Niscemi, costringendo i Tedeschi a ripiegare
disorganizzati, ma perdendo un battaglione di parà Inglesi.
La guarnigione di Gela resiste, anche se disorganizzata, perdendo un battaglione di pionieri
Tedeschi, e costringe gli Inglesi a perdere una brigata della 5a divisione.
A Butera si scrive una pagina di eroismo Italiano.
Prima un battaglione Britannico di tank investe il paese in overrun, ma viene sorpreso e annientato
dagli Italiani della Livorno nelle strette vie del paese, con furiosi assalti con bombe a mano e
bottiglie incendiarie (diventa una copertina della Domenica del Corriere, e i cinegiornali Luce
esaltano l'episodio), quindi resiste all'attacco della 1a Divisione USA (The Big Red One),
sorprendendo anche gli Americani, e eliminandone un reggimento, mentre gli Italiani perdono
il battaglione di carri leggeri, ma restano in possesso della posizione con un battaglione della
div. Livorno.
Quindi è la volta della 2a Armoured di scornarsi contro la 15a PG a Nora, dove i suoi carri
vengono respinti e perdono il battaglione da ricognizione.
Licata non viene attaccata, gli Americani si limitano a tenerla accerchiata.
Anche nei cieli, la sorte non arride gli Alleati, due unità di P40 vengono ridotte nel tentativo
di conquistare la superiorità aerea nella zona di Catania.
Decisamente un turno sfortunato per gli Alleati...
La risposta dell’Asse consiste in un’altra serie di contrattacchi nella zona di Niscemi da parte
di alcuni kampfgruppen delle divisioni Hermann Goering e 15° Panzergranadier, che portano
all’eliminazione di una brigata e di un battaglione anticarro della 50° div Britannica, che rimane
ridotta a una sola brigata di fanteria, nonché di un battaglione di artiglieria semovente.
Biscari viene evacuata e la linea della divisione Napoli si attesta sulle alture sovrastanti Ragusa.
Arriviamo al turno del 14 Luglio. Mentre gli Inglesi consolidano la loro parte di testa di ponte,
la 2° corazzata USA attacca ancora a est di Nora, eliminando un battaglione di camice nere
e un reggimento di semoventi Italiani, ma perdendo due battaglioni corazzati, anche a causa
delle incursioni della Luftwaffe.
In questo modo però gli Alleati riescono a creare un buco nella linea dell’Asse in direzione
di Caltanisetta, dove nel frattempo si sta concentrando la divisione Aosta.
A questo punto giunge l’estate anche per i giocatori, con le ferie e tante altre cose da fare
all’aria aperta. La partita si sospende per accogliere su di se una discreta dose di polvere.
Alcune considerazioni: la prima riguarda le unita Tedesche, credo che i battaglioni Tedeschi
siano sopravvalutati, non penso che un battaglione Tedesco possa valere come un reggimento
USA, anche se ovviamente ha un action rating migliore.
La seconda considerazione riguarda le regole aeree della versione 3.1. personalmente trovo
quelle della 2.1 più efficaci. Un esempio tra i tanti, la copertura aerea della flotta Alleata è
garantita solo dagli aerei delle portaerei, non può avere copertura da Malta o Pantelleria.
Merita una menzione il fatto che Sicily utilizza una scala di tempo e di spazio dimezzata
rispetto agli altri giochi della serie, principalmente credo per rendere il gioco “grande”.
Forse mantenendo la scala originale della OCS (quindi risultava una mappa sola), con le
unità dell’Asse un po’ concentrate in meno pedine, il risultato sarebbe stato migliore, magari
utilizzando le regole aeree versione 2.1.
Concludo affermando che la serie OCS rimane comunque il sistema che ritengo più completo,
che connubia divertimento a realismo, e dove le abilità del giocatore vengono premiate.
Sicily però non è il gioco migliore della serie.
Andrea
La guerra Iran-Iraq 1980-1987
La guerra del Golfo, versione tropicale della guerra del 1914-18, lascia dietro di sé una scia di
sangue. Inizia il 22 settembre 1980. In sette anni fa ottocentomila morti. Brucia in fretta uomini e
cose, sacrifica una generazione e inghiotte miliardi di petrodollari su uno squallido campo di
battaglia con le oleose acque del Golfo per orizzonte. il primo colpo lo sparano gli iracheni, ma
nel cuore e nel sangue arabi e persiani sono sempre stati nemici.
Allah è grande ma ha molti profeti. E, come dice la saggezza africana, non c'è posto per due
coccodrilli maschi nella stessa palude. Quando si affrontano il nazionalismo arabo e quello persiano,
incarnazione delle lacerazioni dell'Islam, e il loro mare è il golfo del petrolio, il mondo non deve
aver vergogna a tremare. L'Irak si fa largo a gomitate in una delle zone più delicate e convulse
del mondo; dopo anni di rifiuti, di estremismi, di soprassalti cruenti, di cadaveri di ebrei appesi
ai lampioni, esplode come potenza regionale e si proietta verso il Golfo. Baghdad, laida e
affascinante capitale che fu al centro di tante civiltà polverizzate dal tempo, cerca la rivincita su
Teheran che, nella stagione rampante dello Scià, l'ha umiliata con la sua potenza. Al potere c'è
Saddam Hussein, un militante baasista, coraggioso, crudele, uomo di ferro, divenuto padrone
assoluto dell'Irak nell'estate del 1979, proprio quando il regime degli ayatollah condannava
l'Iran alla follia del Profeta.
Baghdad fa la guerra perché è più forte, perché lo vuole dimostrare, perché vuole assumere la
leadership araba e regionale. Ma l'Irak non scende in campo da solo. Alle sue spalle, alleati
dietro le quinte, ci sono i paesi arabi moderati del Golfo che temono il contagio del fanatismo
sciita di Khomeini e vogliono colpire, finché è debole, il regime degli ayatollah. L'Irak ha tre
carte: le risorse petrolifere di un paese emergente, l'esercito più forte del Golfo, armato da russi
e francesi, e i dollari dei «signori del petrolio». L'Iran, con una rivoluzione e un bagno di sangue
ancora da digerire, sembra un facile bersaglio. L'esercito, indebolito dalle epurazioni e dalle
diserzioni, privo di pezzi di ricambio, demotivato, sembra condannato alla sconfitta. Saranno i
fatti, un giorno, a smentire le facili previsioni.
Saddam Hussein imita l'odiato Israele. A sorpresa, il 22 settembre lancia i suoi Mig in profondità
all'assalto degli aeroporti íraniani, a Teheran, a Tabriz, a Bushir. I carri T 62 attaccano a nord,
nel Kurdistan, e a sud, lungo lo Shatt el-Arab: nomi antichi, ricordi di guerre lontane.
L'Iran risponde con l'artiglieria e i carri Chieftain, mentre i suoi cacciabombardieri Phantom
attaccano Baghdad e Bassora. Il 23 Saddam Hussein proclama la guerra totale. I carri iracheni
avanzano e accerchiano Abadan e Korramshahr. Guerra totale? Bisogna diffidare dei comunicati
in Medio Oriente, una terra dove le bordate di lirismo guerriero devono sempre essere temperate.
Ma la posta in gioco è alta e la guerra ha radici troppo profonde per essere un fuoco di paglia.
Per l'Irak è una riedizione della battaglia di Qaddisieh che gli arabi vinsero nel 637 contro l'impero
persiano dei sassanidi. La propaganda di radio Baghdad è martellante: vinciamo come vinsero i
nostri padri. La Mesopotamia è una terra promessa alle contese millenarie. Il Tigri e l'Eufrate la
resero fertile: acqua, sole e giardini sotto le palme. A est, l'altopiano iraniano, bastione inespugnabile
e base di partenza deali invasori orientali, domina queste ricchezze. Qaddisieh fu un miracolo di
Allah, cinque anni dopo la morte del Profeta, perché aprì la Persia al suo.messaggio. Ma i
persiani sono rimasti là, a dominare sugli altopiani, e a guardare dall'alto con occhi ostili la fertile
pianura araba.
Nel 661 esplose il grande scisma dell'Islam tra sciiti e sunniti. L'Islam sciita è impregnato di martirio,
di sacrificio, di morte come sublimazione. Lo sciismo è nato nella tragedia. Maometto non spiegò
come avrebbe dovuto essere regolata la sua successione alla guida del mondo islamico. Gli
ortodossi, i sunniti, si scontrarono con gli scismatici, gli sciiti, sull'interpretazione del suo pensiero.
Il califfo Alì, genero di Maometto e capo degli sciiti, fu assassinato in una congiura nel 661; suo
figlio Hussein fu massacrato pochi anni dopo a Kerbala. La dolorosa commemorazione dei suoi
primi martiri è ancora oggi un elemento culturale e sociale dello sciismo. La sua liturgia moderna
è densa di simboli cruenti. Nello sconfinato cimitero degli eroi di guerra poco fuori Teheran c'è
una fontana dalla quale zampilla acqua rossa come il sangue. «La nuova Repubblica islamica
irachena nascerà a Kerbala.»
La città dove venne ucciso Hussein è ora territorio iracheno e negli slogan bellicosi di oggi ritorna
prepotente la forza del passato. Il futuro, amava dire André Malraux, è il presente che viene
dal passato. Ed è da questo passato di sconfitti dell'Islam, dalla orgogliosa tradizione di sangue,
che le ondate umane trovano la forza morale per gettarsi a mani nude contro il fuoco iracheno.
Iran e Irak sono così l'antitesi nel passato e nel presente: uno stato confessionale, un regime di
preti unico nel mondo moderno in cui l'autorità spirituale ha il potere temporale, contro uno stato
laico, secolare, in cui la religione si esaurisce nel cuore degli uomini. Baghdad è la capitale di una
piccola Prussia «gollista» avida e razionale. Teheran il teatro di un esperimento di torbido
misticismo.
Settembre 1980: l'Irak attacca ma non,sfonda, la guerra lampo non riesce. Dopo una settimana
di combattimenti nessuna grande città iraniana è caduta, tranne Qasre-Chirin, alla frontiera.
Khomeini «tiene». L'aviazione iraniana vola ancora. Il Kuzistan iraniano, l'Arabistancome lo
chiama Hussein, non si è ribellato. L'Irak occupa una fascia di terra iraniana ma non riesce a
controllare lo Shatt el-Arab, il primo obiettivo strategico della guerra. Il 22 Teheran, il 23 Baghdad
hanno il battesimo del fuoco. Allarme, sirene che urlano, le strade che si vuotano, ma i danni sono
limitati, l'aviazione iraniana è zoppa, quella irachena è forte ma gli israeliani sono un'altra cosa.
L'Irak ha in campo due corpi d'armata, 100.000 uomini, l'Iran che ha solo il ricordo di un esercito
regolare, risponde con i pasdaran, i guardiani della rivoluzione che vanno alla guerra come fosse
un appuntamento d'amore. Una brigata conquista Qasr-e-Chirin, una avanza verso Dezful, una
punta su Korramshahr. Ci vuole un mese prima che gli iracheni la occupino. Sul fronte centrale
Hussein prende Mehran, ma non riescepiù ad avanzare. A sud accerchia Abadan, che non cede.
Il fumo nero della raffineria che brucia ricorda che la guerra si chiama anche petrolio. A nord, nel
Kuzistan, la capitale Ahwaz resiste. «Khomeini dovrà inginocchiarsi a chiedere la pace» tuona
Hussein alla Tv, ma sono parole: la guerra lampo è un bel sogno morto all'alba. Il castello di carte
íraniano non è caduto, il blitz diventa guerra d'usura. Su un fronte di 500 chilometri, con un nemico
che non molla.
Il 28 settembre Saddam Hussein offre un armistizio, ma alle sue condizioni. Khomeini lo respinge.
Teheran non negozierà finché un solo iracheno sarà sul suolo iraniano. Il 30 Baghdad è duramente
bombardata. L'Iran, esaltato dal gusto del martirio, sfida Hussein alla guerra aperta, a prendere
l'iniziativa di un bagno di sangue. Il mondo arabo guarda e conta i colpi. Il Kuwait, il «cappuccetto
rosso» del Golfo, multinazionale con la faccia da petrolio, ha l'orecchio incollato alla porta della
guerra.
Saddam Hussein raddoppia. Fallito il blitz, illusosi di avere colpito al cuore l'economia iraniana,
tenta lo sfondamento frontale. La macchina da guerra irachena è in movimento su un deserto di
sabbia su cui soffia un vento che brucia: T 59, T 62, T 72, il meglio dei carri sovietici, cannoni da
106 senza rinculo, autoblindo Panhard. 1 mezzi ci sono . «Domani ad Abadan» ripetono i generali
iracheni. Ma Abadan brucia sotto la bandiera iraniana; i pasdaran si battono in casa e sono aggressivi.
Il compassato stato maggiore iracheno non trova la chiave per sfruttare la superiorità tecnologica.
Scuola sovietica, armi sofisticate, ma mancano audacia e fantasia, mentre il controllo del partito
Baas, con i suoi commissari politici, fa delle forze armate di Baghdad le più politicizzate del mondo.
L'Iran non è il ventre molle che Saddam Hussein sperava di sfondare. Dopo un mese di guerra
Khomeini è sempre lì. Anzi, minacciato dall'invasione, il paese si stringe attorno al suo vecchio
imam.
«No problem» dicono a Baghdad. Ma i problemi ci sono, e non solo al fronte. Oleodotti tagliati,
terminali danneggiati, il paese non esporta più una goccia di petrolio. Anzi, ne importa dal Kuwait
e dall'Arabia Saudita, omaggio di alleati interessati. A Bassora lunghe code alle pompe di benzina.
Ai ristoranti solo pasti freddi, non c'è gas. Comincia a mancare la farina. Gli stranieri se ne vanno,
gli iracheni guardano e si interrogano. Baghdad è il teatro di Saddam Hussein. Hussein superstar,
poster a ogni angolo di strada. Hussein maresciallo, padre di famiglia, contadino, operaio,
paracadutista. Il capo onnipotente è venerato ma,quando passano a volo radente i Phantom iraniani
la città tace, suona l'allarme, i passanti si stringono ai muri, si sveglia la contraerea. Da lontano,
sordo, giunge il rumore delle esplosioni. Kirkuk, a nord, è il polmone petrolifero iracheno, il cuore
economico del paese che batte sempre più debolmente. L'oleodotto non funziona, il petrolio non
corre più, la città vive al rallentatore. Quando i Phantom attaccano, Kirkuk trattiene il respiro,
mentre dall'aeroporto i Mig prendono il volo ringhiando. Il cielo, che si illuminava la sera della luce
di innumerevoli torce, resta d'inchiostro nelle notti senza luna. Solo i vapori di petrolio che si
infiammano spontanei in superficie rischiarano debolmente il deserto.
«La guerra sarà lunga e dolorosa» dice un diplomatico occidentale. Il petrolio è a 32 dollari al barile
ma i rubínetti di Iran e Irak sono chiusi. Razzi e missili demoliscono obiettivi economici: centrali
elettriche, porti, raffinerie, centri nervosi petroliferi. Dieci miliardi di dollari andati in fumo in un
mese.
Un balzo indietro economico. Ma l'Irak è più fragile psicologicamente. «I nostri soldati» dicono gli
ayatollah «non hanno bisogno di cibo né di denaro. Non hanno bisogno di scrivere a casa. Gli
iracheni, che schifo. Leggono riviste sexy, sono molli e giocano d'azzardo.» I pasdaran, i kamikaze
mal rasati di Khomeini, sono il ferro di lancia della difesa. Combattono contro l'esercito iracheno
e contro la rinascita di quello iraniano. L'Iran raziona cibo e benzina. «Se è necessario» dice
l'imam «gli iraniani si nutriranno di datteri, come ai tempi del Profeta.» A Baghdad Saddam Hussein
si chiede fin dove dovrà andare per vincere tanto accanimento.
Novembre 1980, la guerra Iran-Irak ha due mesi di vita ed è già stallo. Nella primavera del 1981 è
drole de guerre, la guerra gira in folle, tra l'indifferenza generale, dopo aver fatto tremare il mondo.
Ci si batte a colpi di comunicati e il petrolio, in parte, riprende a scorrere. La guerra del Golfo
prende il nome che le resterà incollato addosso per anni: la guerra dimenticata. Gli iracheni
consolidano le posizioni ma non hanno più forze per attaccare. Inevitabile il contrattacco iraniano.
La svolta avviene dopo un anno di lotta quando le truppe di Khomeìni, riorganizzate e meglio armate,
lanciano la controffensiva nel Kuzistan e rompono l'accerchiamento di Abadan. Le armi arrivano
da Israele e, con l'avallo di Mosca, dalla Siria e dalla Libia. L'Urss gioca su due tavoli, Damasco
e Tripoli spezzano il fronte arabo. Re Hussein di Giordania, invece, è risolutamente schierato
con Baghdad; dal porto giordano di Aqaba passa il 70 per cento delle armi per l'Irak.
Primavera del 1982. Gli iraniani festeggiano Nowruz, il nuovo anno persiano, alla loro maniera,
con una vasta offensiva che scatta il 22 marzo. L'attacco, sul fronte centrale, tra Defzul e Susa,
è battezzato «Fath ol Mobine», cioè vittoria sicura, e per una volta la magniloquenza del nome
rispecchia la realtà. In pochi giorni i pasdaran ríconquistano duemila chilometri quadrati di
territorio. Saddam Hussein, pudicamente, dice di «avere modificato le linee difensive», ma
cambia tono: afferma di volere e di avere sempre voluto il negoziato, e tutto quello che pretende
è che «venga rispettata la sovranità dell'Irak». L'Arabia Saudita e gli stati del Golfo, che in
diciotto mesi hanno speso venti miliardi di dollari per sostenere lo sforzo di guerra iracheno,
premono per una soluzione negoziata. Un bel match nullo, in queste condizioni, farebbe comodo
a molti. Anche agli Stati Uniti, che mostrano la bandiera con le portaerei ma non riescono a
controllare la situazione. Ma da Téheran rispondono picche: prima deve andarsene il «criminale
Saddam», poi se ne potrà parlare. Khomeini vuole spingere a fondo verso il suo obiettivo
politicomistico: abbattere Saddam Hussein e i sunniti. Perché i «martiri sciiti» in guerra non siano
morti invano.
Ci sono momenti apparentemente minori, nel corso di guerre tremende, che sono invece decisivi.
Il mondo è distratto ai primi di maggio del 1982, la stessa stampa sorvola, ma l'Iran, con calma,
si sta creando le basi della prima grande vittoria. Attraversato il fiume Karun, i pasdaran penetrano
nelle difese irachene tagliando in due il fronte: a nord la sacca di Susangerd, a sud quella di
Korramshahr. Gli íraniani sono a 15 chilometri dalla frontiera internazionale con l'Irak. Il
18 maggio la raggiungono. Inizia la battaglia di Korramshahr, la «città del sangue». Il 24 giugno
la capitale del Kuzistan, rasa al suolo, cade sotto i colpi dei pasdaran. E’ una svolta nella guerra.
L'Irak è stato espulso dall'Iran, dove conserva solo Mehran e Qasr-e-Chirin, due teste di ponte
insignificanti. Khomeini ammonisce trionfante i paesi arabi: «Non fate nulla che ci obblighi a
compiere i doveri che ci impone il Corano». Saddam Hussein si trova minacciato dal boomerang
che due anni prima aveva imprudentemente lanciato. Perché? Perché l'Irak rischia di perdere una
guerra che sembrava avere in tasca? L'esercito iracheno aveva apparentemente tutto in mano per
vincere: l'effetto sorpresa, armi moderne, i petrodollari sauditi, l'aviazione. Ma sono mancate tre
cose date per scontate: il crollo dell'esercito di Khomeini, la rivolta degli arabi iraniani e la
competenza dei generali di Baghdad.
La «guerra santa» contro l'invasore ha esaltato il popolo iraniano. A Korramshahr e ad Abadan, la
gente, araba o persiana, inquadrata nelle milizie islamiche, si è battuta selvaggiamente contro i carri
iracheni, strada per strada, casa per casa, con bombe
a mano, fucili da caccia, coltelli. Un esercito superequipaggiato urtava contro un muro invisibile,
una forza mobile e imprendibile, e pagava un pesante tributo di sangue. Ai grassi e sudati generali
di Baghdad è poi mancata la fantasia, indispensabile in una guerra d'attacco. Perché dare la priorità
al porto di Korramshahr, sull'estuario dello Shatt el-Arab, rispetto alla base aerea di Dezful,
punto strategico chiave, che avrebbe permesso di controllare tutto il Kuzistan, compresa
Korramshahr, e di tagliare fuori il resto del paese dai rifornimenti petroliferi. E perché lanciare due
divisioni e dieci brigate di carri all'assalto di Abadan per poi immobilizzarsi per mesi a quattro
chilometri dal porto petrolifero?
Ora il gioco è passato di mano. L'esercito iracheno è costretto alla ritirata, lasciandosi dietro
50.000 morti. La tentazione dell'Iran è quella di attaccare. Dietro la frontiera incomincia
l'angoscia di Bassora. Khomeini. aveva giurato di abbattere i tre «satana»: lo Scià, Carter e
Saddam Hussein. Difficilmente rinuncerà alla terza preda.
Tutte le guerre sono giuste per chi le dichiara. «La rivoluzione non è esportabile come un volgare
prodotto commerciale» aveva detto Khomeini, ma ora che l'Irak è in difficoltà, invaderne la terra
è un diritto-dovere. «Aiuteremo il popolo iracheno a liberarsi dal regime baasista», «rovesceremo
il regime ateo di Baghdad alleato dell'imperialismo amerìcano», ripete con crescente monotonia
radio Teheran. La fraseologia iraniana è rituale: la realtà è che l'Iran, dopo avere contenuto la
resistibile pressione dell'esercito iracheno, cerca di cogliere al volo i frutti supplementari della
«vittoria di Valmy». Con una carta in più: un esercito sconfitto è una minaccia per il potere.
Ancora un colpo, pensano gli ayatollah, e Saddam Hussein cadrà come una pera matura.
Sono i calcoli sbagliati di Teheran, gli stessi commessi due anni prima da Baghdad. Khomeini non
considera tre cose: che gli scíiti íracheni, come gli arabi del Kuzistan non si butteranno nelle
braccia degli invasori; che per difendere la propria terra gli iracheni sputeranno l'anima e che una
guerra lontano dalle proprie linee crea un monte di problemi alle bande di adolescenti portati al
fronte in corriera. Comincia così la serie dei fiaschi iraniani («successi parziali» nel linguaggio di
Teheran) che si protrarranno per tutto il 1982. Il 13 luglio l'Iran attacca. E’, l'operazione Ramadan,
la proiezione in Irak. L'obiettivo è Bassora. Radio Teheran diffonde un breve poema il cui ultimo
verso è.: «Da Bassora, in avanti verso Baghdad». Due settimane, quattro violente battaglie,
migliaia di morti. «Abitanti di Bassora» dice un minaccioso Khomeini «accogliete i fratelli iraniani
per tagliare le mani ai baasisti.» Ma Bassora tiene, le sue strade sembrano trincee, sacchetti di
sabbia, nidi di mitragliatrici, milízianì con i kalashnikov e i fischietti rabbiosi. Il triangolo formato
dallo Shatt elArab, le paludi e la frontiera è stato trasformato in un gigantesco campo trincerato
in cui si sono attestate le truppe irachene cacciate dal Kuzistan. «Siamo a sette chilometri da
Bassora», scrive il 15 la stampa iraniana, ma è solo propaganda. L'attacco non riesce e si sente
l'eco dei sospiri di sollievo di Washington e Riad. La caduta di Saddam Hussein avrebbe rimesso
in causa l'equilibrio regionale a vantaggio di Mosca. Si sarebbe formato un asse
Damasco-Baghdad, la Giordania ne sarebbe uscita indebolita, il Kuwait preso a tenaglia tra Iran e
Irak, l'Arabia Saudita sulla difensiva. I calcoli sbagliati del «franco tiratore» Khomeini, la sua
azzardata «fuga in avanti» sono l'unica arma di un Occidente frustrato. Il basso profilo americano
è la faccia diplomatica dell'impotenza.
Il fronte si stabilizza con gli iraniani che tengono in mano un pugno di terra irachena. Inizia la guerra
d'usura, quella in cui la vittoria pare una dea impossibile da afferrare. Sembra la prima guerra
mondiale, una tremenda guerra di posizione con grandi e inutili attacchi punitivi che esplodono
interrompendo lunghe stasì. Trincee e camminamenti scavati nella sabbia e nella palude, come sul
Carso o sulla Somme, offensive frontali che provocano migliaia di morti, spostamenti minimi del
fronte, spaventoso logorio di uomini e mezzi. L'Iran attacca frontalmente, l'Irak sí difende
statìcamente.
Baghdad è condannata a una strategia difensiva da uno stato maggiore privo di iniziativa e
flessibilità e dalla superiorità numerica iraniana. L'aviazione irachena compensa la maggiore
aggressività dei pasdaran. E la guerra dimenticata. Su un fronte di 500 chilometri si infrangono
le speranze del benessere petroliero e si esaurisce un patrimonio umano. E intanto si allunga la
sinistra contabilità della morte: a metà del 1983 una stima prudente è di 300.000 morti e 900.000
feriti.
L'Irak è più fragile. Il fronte interno è meno solido. Il culto sclita del martirio attenua l'impatto delle
perdite sulla popolazione ìraniana. La guerra non è popolare a Baghdad, colpita a freddo dalle ostilità
nel 1980 nel momento in cui gustava i primi frutti della società dei consumi. Le sconfitte di un
esercito
considerato invincibile hanno abbattuto il morale della gente e la stessa immagine di Saddam Hussein
è uscita indebolita. Stanchezza, malessere, disincanto. Nel 1982 tre ministri vengono fucilati.
Il governo rivede i programmi di sviluppo, l'inflazione si impenna, il tenore di vita cala.
Ma, malgrado il pesante tributo pagato alla guerra, Baghdad vive: ristoranti pieni, night club
rumorosi,
frenesia del superfluo per rendere sopportabile l'austerità. Ogni giovedì sera è festa sotto i lampioni
del viale Abu Nawas che corre lungo la riva sinistra del Tigri.
E’ la kermesse, il riposo del guerriero, bottiglie di birra, danzatrici del ventre, migliaia di soldati
in borghese o in divisa, i crani rasati, i tratti tirati, gli occhi segnati.
Nei locali notturni le entraineuses argentine e filippine con la loro tenerezza a tariffa. Gli anziani
fumano il narghilè. La guerra è a poche ore di strada ma la città delle mille e una notte è diventata
flemmatica. Il monumento ai martiri ha la forma di un doppio cuore rovesciato, nei vecchi suk
lungo via Rashid le giovani vedove allontanano con un gesto stanco i tessuti colorati e acquistano
stoffe color lutto. Bisogna che i civili tengano, meglio di come l'esercito ha resistito ai pasdaran.
Ottobre 1983: la guerra del Golfo rischia di diventare la guerra del petrolio. La Francia fornisce
all'Irak cinque Super Etendard, con cento missili Exocet, l'arma giusta per condannare a morte
le petroliere del Golfo.Esausto economicamente, incapace di ottenere la pace, contestato a
Baghdad Saddam Hussein sa che il tempo gioca contro di lui. Deve uscirne, e presto.
La sua idea: colpire l'Iran al cuore, nella sua ricchezza, il petrolio. Telieran, al contrario di
Baghdad, continua a esportare tranquillamente due milioni di barili al giorno che assicurano il
finanziamento della guerra. L'Iran sta vincendo la guerra del petrolio. Per affondare la petroliera
iraniana c'è un solo mezzo: distruggere le installazioni petrolifere, i terminali. Con che cosa?
Non con l'esercito, che ha denunciato i suoi limiti, ma con l'aviazione. E allora, perché non
offrirsi ì Super Etendard e i loro famosi Exocet, che, dopo i successi alle Falkland, hanno acquisito,
a torto o a ragione, la fama di armi assolute? -La Francia è disponibile. Ha troppo investito in
Irak per lasciar cadere un debitore così importante. Ed ecco che i grigi Super Etendard prendono
la via di Baghdad. Si è levato l' Etendard, titolano i giornali francesi, mentre il collerico Iran,
che vuole la pelle di Saddam Hussein, annuncia che a Francia e Irak la farà pagare cara.
Mentre la force de frappe irachena vola sul Golfo il fronte arriva al Tigri: nélla culla della civiltà
umana una delle guerre più imprevedibili della storia sembra, una volta di più, a una svolta
decisiva. Il conflitto è entrato in una fase nuova, la terza. La prima fu il blitz iracheno, destinato,
nelle previsioni, a un rapido successo contro un Iran sconvolto dalla guerra civile e dissanguato
dalle epurazioni. Al suo fallimento (e ci rinfresca una lezione antica almeno quanto Valmy: mai
fare guerra a un paese rivoluzionario; come dicono accada ai pazzi, la sua forza si centuplica)
seguì una enigmatica guerra di logoramento, che si trascina da anni. L'Iran attacca con una serie
di spallate (orma ci avviciniamo a cifre che ricordano l'Isonzo), piega l'Irak non lo spezza ma lo
soffoca. Baghdad, da Prussia araba che sognava di diventare, teme di ritrovarsi Polonia del
Medio Oriente, terra di spartizione. Ed ecco scattare l'arma della sopravvivenza, i Super
Etendard, i Mirage dell disperazione.
“Bloccheremo lo stretto di Ormuz ! “ grida Khomeini
Chiudere lo stretto è certamente più facile come minaccia che come realtà. Ma la minaccia esiste,
su questo stretto bello, fatto di rocce rosse che cadono a picco da duemila metri in un mare d'olio
tiepido e, al di là dell'ultima insenatura, una corolla di isole, gli ultimi scampoli di Oman che scrutano
le colline iraniane. Bloccarlo come? Affondando delle navi è impossibile, non è il canale di Suez.
Con le mine? Ci sono i dragamine. E poi l'Iran bloccherebbe anche il proprio export. Saremmo al
suicidio di un paese. L'Occidente istintivamente sussulta, poi ragiona e si calma: il petrolio è
abbondante, l'Opec non domina .più il mercato, Washington si è impegnata a tenere aperto lo
stretto e Reagan sembra uomo di parola. La Midway incrocia nel mare d'Arabia alla testa di una
flotta americana e anche Gran Bretagna e Francia muovono le loro navi. Gli obiettivi di Reagan
sono due: mantenere Ormuz aperto e impedire all'Urss di guadagnare terreno. Mosca però, che
sa che la pace è lontana, sembra voler congelare la situazione. La disfatta di Iran o di Irak,
rimettendo in causa l'equilibrio delle forze, obbligherebbe a prendere una posizione precisa.
Le due superpotenze, malgrado la temperatura polare delle loro relazioni, seguono vie parallele,
non conflittuali, contando su un errore dell'altra: sostengono cioè tatticamente il più debole, l'Irak,
sperando però un giorno di prendere al laccio l'Iran. La strategia cinica di una guerra interminabile
è così consapevolmente -favorita da tutti.
Se i «Grandi» fanno da pompieri, Baghdad punta a internazionalizzare la crisi. Il 27 febbraio
1984 l'aviazione irachena attacca. Mirage e Super Etendard bombardano l'isola di Kharg, il
polmone dell'Iran, accanendosi sul terminale e sulle petroliere. La guerra ha raggiunto fisicamente
l'oro nero del Golfo, inserendo nell'equazione internazionale una nuova incognita. L'Irak prende
dei rischi, gioca d'azzardo, tenta di bloccare il petrolio iraniano con le forze aeronavali, con i
missili, con le mine. L'Iran risponde con le stesse armi per costringere l'Occidente e i produttori
di petrolio a ingabbiare Baghdad.
Siamo al «tanto peggio tanto meglio». Le petroliere sono un facile bersaglio, e non importa se
appartengono a paesi alleati. Il 25 maggio i cacciabombardieri iracheni colpiscono otto navi
nel nord del,Golfo; i Phantom iranìani bersagliano i tanker sauditi. E un tiro al piccione: nel mese
di maggio 19 navi vengono danneggiate, dall'inizio della guerra sono cento. Rafsandani ribadisce
che l'Iran «ha il diritto di rendere insicure tutte le rotte petrolifere del Golfo Persìco». La guerra
potrebbe dilatarsi a macchia d'olio: si temono attacchi ai pozzi sauditi e l'uso di aerei kamikaze
contro le petroliere. Gli Usa forniscono a Riad missili terra-aria Stinger. Nove navi da guerra
americane, e due inglesi pattugliano la zona. La tensione, come i premi dei Lloyd's, sale alle
stelle. Il 3 giugno nuovo pesante raid iracheno. L'export petrolifero iraniano si è dimezzato
e l'Iran, soffocato sul mare, cerca la rivincita nelle paludi del Tigri.
Verdun qui non c'entra. Qui non c'è terra ma acqua salmastra. Un umore verde che il deserto
emana trasformando la desolata Mesopotamia in una laguna bassa e piatta, solcata da piccole
piazzole di canne. E un orizzonte liquido che si stende per chilometri fino a Bassora; in qualche
punto è come un mare nano, dove non riesci a toccar terra. Qua e là qualche bufalo che sguazza.
Di gente poca, con le facce nere di sole, cosparse di rughe, come hanno solo i pescatori.
Con un po' di fantasia, un paesaggio lagunare di vecchi arazzi.
La battaglia è cominciata nella notte, il 27 febbraio. Gli iraniani attaccano di notte perché non
hanno aerei. Spingono come disperati, mangiano tutto il terreno che .possono, poi al mattino
arrivano i Mirage iracheni col loro carico di morte e tutto torna come Prima. Quella notte, però,
è diverso. Gli iracheni si fanno sorprendere dai pasdaran che vengono dalla frontiera, fatta
anch'essa di acqua e di fango. Vengono in massa 50.000 uomini su vecchi barconi, gommoni,
gondole di pescatori, qualsiasi cosa purché galleggi. L'artiglieria irachena fa quello che può,
semina strage nell'acqua ma al mattino le difese sono travolte e gli iraniani penetrati per 18
chilometri.
L'obiettivo è la strada Bassora-Baghdad. Spezzata quella, l'Irak è tagliato in due.
Interviene l'aviazione a mitragliare gli iraniani ma si aprono dei varchi, alcuni commandos arrivano
fino alla strada. E’ un momento critico, dura un attimo, poi vengono spazzati via. A Baghdad
quel giorno tremano in molti. In poche ore volano in cielo (l'affollatissimo cielo di Allah)
30.000 uomini.sulle paludi stagna il puzzo della morte e i cadaveri si gonfiano dondolando
dentro l'acqua a ogni colpo di vento. «Aurora 6», così si chiama l'offensiva, è fallita, ma ormai
gli iraniani hanno «assaggiato» le placide acque del Tigri e ci riproveranno. Sono ragazzi di 14 anni,
vecchi di 60, mandati allo sbaraglio con una fascia verde attorno alla fronte. I giovani pasdaran
che aspirano al martirio, sono 700.000. La scuola dei martiri funziona a tempo pieno.
Khomeini ha un'arma su cui Saddam Hussein non può contare: la carne umana, una quantità
enorme di uomini. Se avesse anche solo un pizzico di copertura aerea e una logistica decente,
la guerra non avrebbe più storia.
Battuti nelle paludi del sud, gli iraniani vanno a segno a Majnoun, 80 chilometri a nord di Bassora
nell'operazione Kheibar. Le chiamano isole di Majnoun, in realtà sono una penisola artificiale
vicina alla frontiera iranìana, 60 chilometri quadrati di superficie, fatta di colline sabbiose, campi
petroliferi, paludi; un piano d'acqua separa due colline di sabbia. Il 24 febbraio i pasdaran la
conquistano di forza. Il 6 marzo l'Irak organizza il contrattacco. «Ripuliremo Majnoun in poche
ore» dice il generale Al Fakhry, comandante del fronte sud, una delle stelle montanti dell'esercito
iracheno. «Cacceremo le orde di mendicanti che hanno invaso le nostre paludi» gli fa eco il
generale Maher Abdel Rachid, il «Bigeard iracheno». Ma sono parole. Majnoun resiste, nella
battaglia più sanguinosa della guerra. L'Irak getta nella mischia aerei, carri, cannoni, baionette;
riconquista il lato nord, ma il sud resta nelle mani dei pasdaran, riforniti dall'Iran attraverso le
paludi. Scoppia la bomba delle armi chimiche: l'Irak a Majnoun ne fa uso senza scrupoli.
Gas nervino. E’ la maledetta pioggia gialla che i tedeschi rovesciarono su Ypres. Le professioni
di innocenza di Baghdad non convincono, e poi Al Fakhry è stato chiaro: «Non abbiamo l'abitudine
di accogliere il nemico con i fiori». «Quando ti vedi arrivare addosso valanghe di uomini» dice un
diplomatico occidentale «e le mitragliatrici ti si fondono in mano, qualsiasi mezzo può essere
buono.»
Ma anche questo è segno che l'Irak ha paura. Majnoun, da cui un uomo su tre non è tornato,
resta agli iraniani. E fa da testa di ponte per il prossimo' inevitabile attacco alla Bassora-Baghdad.
E’ la primavera del 1984 e le ultime stime della carneficina (nessuna veriflica è ovviamente
possibile) parlano di 250.000 morti iraniani e di 80.000 iracheni. I danni materiali sarebbero di 200
miliardi di dollari. Tutto ciò per quella che l'inglese «Guardian» definisce «la guerra più futile
e costosa della storia contemporanea».
Un anno serve a leccarsi le ferite. Poi, secondo copione, scatta puntuale l'offensiva iraniana.
E’ il marzo 1985 e la stampa internazionale si. sveglia a colpi di titoli e di copertine. Non c'è
sorpresa, i satelliti spia americani hanno fornito all'Irak le informazioni del caso. L'Iran bombarda
Bassora, poi e poi va all'attacco: otto divisioni di pasdaran, 50.000 uomini, forzano le difese
irachene nelle paludi di Howeiza, superano il Tigri, tentano di dividere il 3 Corpo d'armata,
penetrano sino a trenta chilometri in territorio iracheno la proiezione più profonda dall'inizio della
guerra . In prima linea ci sono reparti dell'esercito regolare, misti al pasdaran. Questa volta
sembra che. l'Iran abbia sfondato, a Baghdad corre un brivido di paura. L'Irak scaraventa
nella battaglia di tamponamento tutto quello che ha, compresa la Guardia. L'aviazione compie
seicento missioni al giorno. Il giorno 16 i pasdaran tentano di cogliere il frutto proibito, la strada
Bassora-Baghdad.
E’ un peccato di superbia che pagano caro. Giunti allo scoperto vengono
respinti dagli iracheni in una battaglia di annientamento; in tre giorni perdono 15.000 uomini.
Il 18 Saddam Hussein, a Baghdad con gli alleati re Hussein di Giordania e l'egiziano Mubarak,
segue la lotta minuto per minuto. A sera l'Irak festeggia la vittoria delle paludi. Ancora una volta
Khomeini non ce l'ha fatta. L'operazione Badr è fallita. Ora Teheran deve subire ì contrattacchi
aerei iracheni che martellano Kharg. In agosto metà dei terminali è fuori combattimento.
L'export iraniano cala. La guerra si ripete: il sacro furore di Khomeini contro la fredda
determinazione di Saddam Hussein. Nessuno dei due paesi può forzare il destino.
L'Iran, improvvisamente, cambia bersaglio e punta all'estremo sud, alla penisola di Fao, l'ex
terminale iracheno che si protende nel Golfo. La notte del 9 febbraio 1986 è piovosa, le nuvole
basse impediscono all'aviazione irachena di decollare. Nel buio gli uomini rana e i commandos
iraniani attraversano silenziosamente lo Shatt el-Arab, prendono di sorpresa le linee nemiche
lungo il fiume, fanno saltare le fortificazioni. Annientate le prime difese, all'alba scatta l'offensiva
Aurora 8.
Dopo una finta a nord, all'altezza di Korramshahr, a ondate successive, 100.000 uomini
su mezzi anfibi si rovesciano sulla sponda irachena e dilagano nella penisola di Fao. L'Iran ha
migliorato logistica e coordinamento. Squadroni di elicotteri da trasporto sbarcano tra i canneti
reparti di guastatori e tonnellate di materiale. La spinta iraniana è violenta, il 7 corpo d'armata
iracheno si batte con accanimento ma in due giorni la penisola è in mano ai pasdaran: 500 chilometri
quadrati di importanza strategica e psicologica fondamentale. Si combatte in un paesaggio
inesistente, un deserto piatto come una tavola senza fine, senza dune, senza un cespulio, un ramo,
un segno che distingua un punto dall'altro.
Il nulla in cui cielo e terra si confondono in un orizzonte imprecisato. Il giallo della sabbia si
trasforma in qualcosa di ancora più chiaro, il deserto di sale con la crosta dura segnata dalle
tracce dei cingoli e dei crateri di migliaia di esplosioni. Trincee, sacchetti di sabbia, camminamenti,
carri armati interrati, il fumo delle esplosioni, sotto mucchi di frasche spuntano le canne delle
mitragliatrici. Una petroliera è appoggiata sul fondo dello Shatt, una cannonata solleva spruzzi nel
fiume.
Da secoli lo Shatt è la frontiera contesa tra arabi e persiani; occupando le due sponde della penisola
di Fao e spingendosi verso il confine del Kuwait gli iraniani bloccano al nemico l'unico accesso al
Golfo. L'obiettivo dell'offensiva era più ambizioso: la fanteria iraniana avrebbe dovuto prendere
Bassora dal sud e tagliare la strada per Baghdad. Ma nel momento critico, mentre si profilava lo
spettro della disfatta, Saddam Hussein ha gettato nella mischia la Guardia, che ancora una volta
ha tamponato un'avanzata che poteva essere fatale.
In marzo l'Irak contrattacca. Silurati i comandanti che si sono fatti sorprendere, il fronte è affidato
al generale Maher Abdel Rachid. Gli iracheni bruciano le migliori risorse umane e materiali ma non
ce la fanno. 150.000 iraniani che ora difendono la piccola città portuale del sud sono molto
determinati e la notte ricevono rinforzi e munizioni attraverso lo Shatt. «Fao sarà il cimitero degli
iraniani» promette Saddam Hussein, ma i comunicati militari di Baghdad sono laconici, ed è un
brutto segno.
Si combatte corpo a corpo a pochi chilometri dalla città, mentre i cadaveri degli
uomini rana iraníani che hanno fatto saltare le difese di Fao si decompongono nelle buche d'obice
piene d 'acqua. Nei contrattacchi l'Irak perde 10.000 uomini, e sono perdite che non può
permettersi. Gli occhi allucinati dei fanti di Saddam Hussein sono la testimonianza piu vera
dell'asprezza della lotta. A Fao sventola la bandiera della Repubblica islamica. Bassora è a 60
chilometri. I «signori del petrolio» tremano. Fao è la prima grande vittoria dei «soldati folli» di
Khomeini.
Bandiere nere nelle città e nei villaggi iracheni. Enorrni camion frigoriferi pieni di cadaveri
rimontano con discrezione dal fronte verso il nord. I feriti sono trasportati di notte nelle sale
chirurgiche sono colme, i medici stravolti, il partito ha dato ordine alla gente: niente segni di lutto
sulle porte di casa. La Tv trasmette le immagini rituali del rais trionfante, di soldati dalla faccia
feroce, di popolo delirante, ma è un rovescio della medaglia forzato.
La vera faccia dell'Irak sono i taxi che riportano dal fronte le casse con i corpi dei soldati morti, è
l'atmosfera pesante, è la stanchezza della gente di fronte a una guerra che non finisce mai.
Sono pieni di polvere i dolci, i formaggi, la frutta che gli abitanti dei poveri villaggi iracheni
hanno preparato per le truppe lanciate al contrattacco. Il tè che le ragazze hanno preparato con
cura si raffredda. C'è una bandiera che sventola timidamente «Benvenuti i nostri eroi», ma i
camion carichi di soldati che percorrono rumorosamente la Baghdad-Bassora non hanno tempo
di fermarsi. La speranza ha cambiato campo. Sono lontani i tempi in cui le forze irachene
avanzavano in terra iraniana, l'epoca delle vittorie con i fiori nel fucile, dei segni di vittoria con le
dita, degli «arrivederci a Teheran». Gli spavaldi attaccanti di allora sono uomini preoccupati
che difendono la propria terra.
Apparentemente nulla è cambiato a Baglídad, sulle rive del Tigri. Il rais resta sempre la guida
incontrastata del paese. I suoi innumerevoli e giganteschi ritratti che decorano strade e piazze
da Bassora al Kurdistan fanno parte del paesaggio. Ma il quadro idilliaco presenta le prirne
crepe. La mancata riconquista di Fao ha colpito il prestigio del presidente. I militari recriminano
contro le ingerenze del partito, ritenuto responsabile delle sconfitte. Circolano voci inverificabili
in un regime in cui il segreto è eretto a dottrina. Si parla di esecuzioni sommarle di ufficiali,
dì sussulti di golpe repressi, l'aereo di Saddam Hussein sarebbe stato attaccato a colpi d'arma
da fuoco in un aeroporto militare, il clan dei Takriti, i fedelissimi del rais, farebbe la fronda.,
le diserzioni sarebbero in forte aumento. Hussein ha due pilastri: la Guardia e l'aviazione.
Cerca di risparmiarli come arma estrema contro i nemici esterni e interni. Intanto l'austerità
erode il livello di vita degli iracheni e la guerra è sempre meno popolare. «L'Irak comincia a
stringere la cinghia» dice un diplomatico occidentale, e la gente mormora.
Brutto segno per un regime che vuole vincere una guerra mortale.
L'Iran è più solido, il fronte interno più compatto e la capacità di mobilitazione del regime è
sempre forte. Il paese soffre però di un grave deterioramento della situazione economica.
La guerra costa 15 miliardi di dollari all'anno e il petrolio ne rende 7, con 600.000 barili al
giorno contro i 6 milioni dei tempi dello Scià. I disoccupati sono il 35 per cento della popolazione
e le prime manifestazioni di «diseredati» a Teheran vengono represse nel sangue - Khomeini ha
87 anni e la lotta di successione, feroce, è già in atto. Il grande vecchio è sempre lì, fedele alla
sua guerra santa, inestinguibile nei suoi odi. Ma cosa avverrà alla sua morte?
Nel dopo Khomeini sta forse la chiave della guerra del Golfo.
18 gennaio 1987, gli iraniani sono sotto Bassora. L'offensiva, come una mazzata, è scattata il 9.
200.000 iraniani all'attacco, 120.000 iracheni in difesa. E’ la «Kerbala 5», il colpo di grazia, dice
Teheran, per i satana di Baghdad. Bassora è il grande porto del sud, la seconda città irachena,
ha un milione di abitanti; se cade, taglia fuori l'Irak dal Golfo Persico e mette in ginocchio
Saddam Hussein. Dopo sei anni di guerra Iran e Irak si giocano tutto.
Un colpo di cannone al minuto piove su Bassora, devastata come Beirut, eternamente in prima
linea. Saddam Hussein rifiuta l'ordine di evacuazione per gli abitanti, che conoscevano la guerra
ma non il terrore. Bassora è una città fantasma, la gente è asserragliata nelle case. Migliaia di
profughi incolonnati cercano la salvezza, fuggendo a piedi, puntando a sud verso la frontiera con il
Kuwait.
Il 18 radio Teheran esulta: «I sobborghi della città sono a 500 metri dalle nostre linee». Sudori
freddi a Baghdad, in Occidente e tra i «signori del petrolio». L'eco delle cannonate fa tremare i
vetri della capitale del Kuwait. Nella notte Saddam Hussein convoca lo stato maggiore e il
consiglio della rivoluzione: frettolosi rinforzi vengono lanciati nella mischia. Sulla roulette di
Bassora Saddam Hussein si gioca la testa.
L'attacco dei pasdaran è stato violento e fulmineo. Attraversata la frontiera, scavalcato il fiume
Shatt el-Arab, i «Soldati di Dio» sono avanzati per dieci giorni in un corpo a corpo bestiale.
Con la keffgeh al collo, vestiti di verde, il ritratto di Khomeini sul petto, sono i veri padroni
della guerra. Attaccano i carri armati in motocicletta. Non hanno mai paura, non tornano indietro,
hanno sedici anni ma combattono da veterani.
I volontari islamíci contro i professionisti iracheni, la fanteria contro l'artiglieria, il coraggio dei
pasdaran contro la tecnologia di Baghdad. Mucchi di cadaveri accompagnano l'avanzata iraniana.
Le difese di Bassora sono solide e profonde: corsi d'acqua, terrapieni, cavalli di frisia e, dietro, i
cannoni iracheni. Gli iraniani le attaccano frontalmente con perdite spaventose: 20.000 morti contro
10.000 iracheni nei primi giorni di lotta. L'lran attacca a ondate, giorno e notte, consolida le
posizioni, preme nuovamente, si trova davanti al cuore delle fortificazioni di Bassora. Le saggia, poi
tenta di aggirarle conquistando la strada tra Bassora e Baghdad e tagliando le vie di rifornimento
dal Kuwaít, ma ormai la spinta si, è esaurita.
A 12 chilometri dal centro di Bassora i pasdaran prendono respiro dopo avere dato tutto.
Si continua a morire ma l'Iran non riesce a sferrare il colpo decisivo. Bassora assediata resiste,
Khomeini non sfonda. E’ una mezza vittoria, un incompiuto. Il 21 la stanchezza umana e dei
materiali, le enormi erdite, le difficoltà di rifornimento bloccano l'avanzata. uno spettacolo di
desolazione, carcasse di blindati calcinati, resti di cadaveri, per solo sfondo sonoro il rumore
sordo dell'artiglieria che spara su Bassora. Cadaveri riversi a terra tra rivoli di sangue o carbonizzati
dentro i carri armati. Per chilometri un imbroglio di dune, di cattive piste devastate da crateri
d'obice; una terra piatta, con uno sfondo di orizzonte brumoso, niente alberi, niente vegetazione,
niente case, niente di niente solo uno scenario in cui la terra si mischia all'acqua.
Le forze di Teheran sono installate sulla. riva occidentale del Lago dei Pesci ' un bacino artificiale
a 10 chilometri dalla città. Sono avanzate di 12 chilometri dallo Shatt el-Arab. Sono ad altrettanti
da Bassora. Hanno conquistato 100 chilometri quadrati. Hanno perso dall'inizio dell'offensiva
90.000 uomini tra morti e feriti contro 40.000 iracheni. Il 22 lo stato maggiore iraniano
dichiara: «Vogliamo distruggere l'esercito iracheno, non prendere Bassora». E segno che
l'offensiva si è arenata. La massa d'urto non ha stroncato la tecnologia irachena. Bassora, che ha
fermato Khomeini, entra nella leggenda.
Il 31 gennaio l'Irak riconquista un'area di 35 chilometri quadrati presso il Lago dei Pesci.
Radio, televisione e giornali annunciano la vittoria irachena: musiche, danze e fotografie di militari
in atteggiamento eroico. Saddam Hussein ricompare alla Tv: «Abbiamo annientato le forze
nemiche».
Parole grosse. La situazione è di stallo. «Kerbala 5» si conclude con una solida testa di ponte
iraniana in territorio iracheno.
Da quel 22 settembre 1980 sono passati sette anni. Il ciottolo che gli americani chiamarono
«guerra di Topolino» si è trasformato in valanga. Nel Golfo, diventato un autentico Far West
con le petroliere al posto delle diligenze e l'America a fare da sceriffo, sono successe tante cose.
Due paesi si sono dissanguati, compromettendo il loro sviluppo umano ed economico fino al
Duemila. L'onda lunga della rivoluzione islamica sfiora ì fragili castelli dei «signori del petrolio».
Il mondo ha imparato a vivere con la crisi e l'importanza petrolifera del Golfo è scesa di cento punti.
La «guerra dimenticata» è fatta di gallette, borracce, sabbia, polvere, acqua salmastra, zanzare
e poche speranze di tornare indietro. Sulle tombe i giovani delle foto portano il vestito del
matrimonio.
Khomeini è diventato l'eroe del terzo stato planetario, con l'Irangate ha fatto quasi saltare un
presidente americano.
In sette anni l'Iran ha avuto un milione e mezzo di niorti e feriti, un record dal 1945. «Un milione
di morti sono un po' troppi» disse un giorno Bazargan a Khomeini «unicamente per cambiare
un governo.» Parole coraggiose, ma le più sincere le ha dette Kissinger: «L'unico aspetto negativo
di questa guerra è che può perdere uno solo dei due». Come sincero è il dolore dell'America per
la morte dei 37 marinai della fregata Stark trasformata (per errore?) in una bara dagli Exocet
iracheni. Il 20 maggio 1987, all'aeroporto di Manama, nel Bahrein, le salme ricevono l'ultimo saluto.
Al passaggio del feretro del padre, il piccolo john Kiger lo saluta portandosi la mano al cuore.
C’e’ la ricorderemo l'estate 1987 nel Golfo.
Mai sono accadute in pochi giorni tante cose e così gravi: il massacro della Mecca, che ha messo
Iran e Arabia Saudita in stato di guerra; la caccia iraniana alle petroliere del Kuwait che battono
bandiera americana; la Francia che rompe con Teheran e avanza nello stretto di Ormuz con il
colpo in canna; le mine mortali della guerriglia navale iraniana che infestano le rotte del petrolio;
le folle eccitate di Teheran nel nome di Allah, un milione di uomini che sfila urlando nelle vie
della città; lampi di guerra nel Golfo e tante navi da far salire il livello del mare.
…
Tratto da un capitolo del libro : Le guerre degli anni ottanta – Marco Innocenti
Prova solo a non tornare in questo sito entro 20 giorni e …