Negli anni - L`Ape Ronza

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Negli anni - L`Ape Ronza
Capitolo I
Odori
Negli anni settanta Montegranaro era un’altra cosa, un’altra città. Ancora a metà strada
tra il borgo rurale e la cittadina industriale, potevi respirare l’aria antica delle tradizioni e
vedere le barricate degli operai a Santa Maria. La fortuna di avere vissuto quegli anni da
fanciulli non è cosa da poco, perché ti dà dei ricordi dolci ma piuttosto precisi di un’epoca che
non tornerà più.
La città stava esplodendo urbanisticamente e demograficamente con tutti i problemi
che ciò poteva comportare. Contemporaneamente il cuore urbano, il centro storico, ancora
pulsava di vita. Non c’erano ancora i supermercati: il primo vero supermarket,
Comprameglio, sarebbe nato solo alla fine del decennio. Il negozio più grosso era quello di
Pallocchetta a San Liborio o la Cooperativa in via Di Battista.
Nelle vie vecchie c’erano ancora tutte le botteghe storiche: Checco de Furchì in via
Don Minzoni, Luzio e la sua merceria lì a fianco, salivi in via Garibaldi e incontravi la bottega
di Ciro e Mimi, la macelleria di Sauro, ancora alimentari con il negozio che prima era di
Tortulì e poi di Gianmario. Più su in via Garibaldi la merceria di Peppina de Scuccini, in via
Solferino la mitica edicola di Marietta, la cantina di Campanà, elettrodomestici e casalinghi,
udite udite, con Serafì de Vischeretto, un po’ di scale e c’era la sartoria (ora si direbbe atelier)
di Ivo lo Muto, poi il forno di Americo, Otello Vischeretto e il suo multi-negozio-barberia per
finire con gli alimentari di Nicò de Cesarina.
Odori, che ancora riesco a sentire, gli odori del baccalà, delle conserve, selle salamoie,
quell’afrore di carta stampata dentro l’edicola, e i profumi di cucinato prima di pranzo o cena
che ti avvisavano che era ora di rincasare.
E tanti bambini, ginocchia sbucciate sul selciato, vetri rotti dai palloni, improperi dei
proprietari dei vetri, canestri per giocare a basket rudimentali e rimediati. E corse attaccati
dietro il cassone dell’ape che veniva a portare le scarpe broccate a Matutì.
Si giocava per le strade in quegli anni, non c’erano i pedofili e se c’erano non ce lo
sapevamo, né noi né i nostri genitori. Non c’erano le macchine a tirarti sotto: ne passavano
due o tre al giorno e facevano un rumore tale che avevi tutto il tempo di scansarti. Ed
essendoci poche macchine avevi pure un sacco di spazio per giocare. Lo spiazzaletto sotto
l’ospedale vecchio, dove avevamo appeso un tabellone da basket fatto con quattro assacce
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fradice e un cerchio di ferro di non so quale provenienza, era sempre sgombro, al massimo
c’era la 127 color kaki di Peppe Tarabelli.
C’era ancora l’ospedale nei primi anni, e in quel posto preciso c’era l’ospizio e la
camera mortuaria, poi venne la scuola, poi i fantasmi del passato. Si giocava lì ma anche in
ogni altro spiazzo ci fosse stato a disposizione. Quello davanti casa di Peccè era piccolo ma
ottimo per giocare a pallone finche una pallonata non spaccò un vetro a Luzio che ci fece
scappare tutti a gambe levate. Mi pare la tirò Paolo Luciani: io stavo in porta e, scarsissimo
portiere, non parai per cui mi sentii terribilmente responsabile, sia per il goal subito che per il
vetro infranto.
Le scuole vennero nell’ospedale vecchio verso il ’77, solo le quarte e quinte
elementari. Credo che il primo ciclo a venirci fu il mio. Occupavamo parte del piano terra
entrando dal portone di piazzale Giacomo Leopardi. Entravi e a sinistra c’erano le classi
importate da San Liborio, mentre se andavi dritto trovavi prima l’aula del maestro Virgili, e in
fondo a sinistra quella della Segatori (con dentro anche me) e quella di Luci. Mi pare di
ricordare che i primi tempi ancora si sentiva odore di alcool e medicine, ma forse il ricordo
non è preciso.
Le primi classi, invece, le feci alle scuole rosse. Posso dire che i mie primi ricordi
precisi cominciano da lì, prima sono vaghi. L’asilo lo frequentai un giorno soltanto. Mio
fratello era appena nato ed io ero in piena crisi da primogenito abbandonato, passato da
principe a comprimario, per cui attaccai a capricci finché la mia iperprotettiva mamma non mi
si riportò a casa a metà mattinata, per condannarmi ad una fanciullezza di mattinate solitarie.
Ricordo però i giochi con Raffaellina Ramini, la nipote di Mimi, e Maria Francesca Manzetti,
con la quale il rapporto non era dei migliori tanto che le staccai litigando un folto ciuffo di
biondi capelli. Mio nonno era artigiano sotto casa, naturalmente faceva le scarpe (che altro?) e
la porta della sua bottega si apriva di fronte a quella di Francesca. Praticamente era inevitabile
che giocassimo insieme, ma non ci amavamo di sicuro.
I ricordi, come ho detto, sono vaghi. Mi torna in mente lo spazzino di quartiere. Il
nome non me lo ricordo ma lo chiamavo Mago Zurlì per la sua incredibile somiglianza,
almeno ai mie occhi, con Cino Tortorella. Facevo grandi chiacchierate con lui, e ne ricordo la
grande umanità, specie quando, nelle mie mattinate solitarie, gli chiedevo di farmi compagnia.
Cominciando ad andare a scuola a sei anni le cose migliorarono di molto. Ma per ora
mi fermo qui.
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Capitolo II
Elementari
Il primo giorno di scuola ero piuttosto spaesato. Non essendo abituato a stare in aula
per via del fatto che avevo saltato l’asilo a piè pari, mi sembrava tutto piuttosto strano Tutti
questi bambini sconosciuti, tutti vestiti uguali, di nero, qualcuno col fiocco rosso e qualcuno
col fiocco blu (mi ci volle un po’ a capire che era la distinzione tra maschi e femmine) e con
una sbarretta sulla manica destra.
Ancora gli odori tornato con i ricordi. Non c’è nulla che ti porti i ricordi alla mente
come gli odori, ma talvolta avviene il contrario: sono i ricordi che ti fanno sentire gli odori.
Ho due figli e mi capita spesso di andare a scuola, ma ora gli odori sono diversi, forse sono i
materiali, forse il mio naso maltrattato da un ventennio abbondante di fumo. Ma ricordo molto
bene quel profumo di pastelli, di colori a cera, di carta stampata, il pizzicorino sul naso della
polvere di gesso.
E ricordo benissimo l’alfabeto fatto con le figure sul lato sinistro dell’aula vista dalla
cattedra, la lavagna sul telaio, i banchi verdi, i finestroni che davano su via Cavallotti
schermati dalle veneziane turchesi. E la maestra, Lina Ciribeni Segatori, con il suo eterno
chignon, l’aria austera ma rassicurante. La amai molto la mia maestra, come credo gran parte
dei maschietti, e ne fui ricambiato. Era una donna materna e gentile, che mi ha insegnato
molto.
Le finestre su via Cavallotti scandivano il tempo e le stagioni. Le veneziane si
alzavano ed abbassavano in funzione dell’orario e della conseguente inclinazione del sole, e
d’inverno erano solitamente aperte a mostrare i tigli spogli lungo il viale. Quando la lezione
diventava pesante i tigli fungevano da distrazione, insieme alle nuvole, o alle rondini in
primavera.
La maestra Segatori era fantastica ma aveva un limite: era negata in disegno. Ragion
per cui fu stabilita un’ora o forse due per disegnare, il sabato, nel quale ci riunivamo nell’aula
della maestra Luci che era ubicata al piano seminterrato, di fronte alla palestra. Mai utilizzata
quella palestra: facevamo abbastanza moto nel pomeriggio, all’epoca la televisione era in
bianco e nero, aveva due soli canali, e l’unico programma accattivante per un bambino era la
tv dei ragazzi che durava giusto il tempo di fare merenda.
L’ora di disegno del sabato era il coronamento della settimana scolastica. Si lavorava
ma in maniera creativa. Luci era molto stimolante. E poi c’erano i colori a tempera! Potevi
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pastrocchiare un sacco coi colori a tempera. E a quell’età pastrocchiare è uno dei grandi
piaceri della vita.
Già dai primissimi giorni di scuola iniziò la mia amicizia con Serafino Chiurchiù,
un’amicizia che è durata fino all’adolescenza, quando la vita poi ci ha dispersi in diverse
direzioni, ma che è stata per quel che è durata intensissima, fraterna. Serafino viveva fuori le
mura, in via Martiri D’Ungheria e andare a trovarlo per me significava giocare in campagna,
appena sotto le case, all’aria aperta, giochi diversi e più creativi di quelli che potevo fare nel
centro storico. Si giocava per i campi o al lavatoio, che ancora è lì, ben restaurato, ma allora
ancora potevi trovarci pezzi di sapone di qualcuno che lo continuava ad usare.
E anche lì c’era un folto numero di bambini. Mauro e Endrio, Lino, Marta, Anita,
Lina, Emanuele e Gioacchino erano tutti parenti di Serafino. Roberto Plini veniva a scuola
con noi e che era chiamato dalla maestra “L’angelo con le corna” per via del suo aspetto da
biondo cherubino e del suo carattere a dir poco indomabile. Qualche volta c’era anche un tal
Gastone Gismondi che molti ora chiamano Sindaco.
Ho un aneddoto con Gastone e spero non me ne vorrà se lo racconto. Lui aveva un
gruppetto diverso dal nostro per giocare, erano un po’ più grandi e facevano giochi diversi dai
nostri. Ma capitava di condividere qualche gioco abbastanza spesso. Una di queste volte, il
gruppetto di Gastone, c’era Paolo Pallì, mi pare ci fosse anche Peppe il fratello di Roberto,
pensò bene di costruire la classica capanna che tutti i ragazzi prima o poi hanno costruito.
Anche noi piccoli partecipammo a livello di bassa manovalanza.
La capanna venne piuttosto bene, tutta lamiere, cartoni e compensati. Era inverno e
faceva piuttosto freddo, per cui qualcuno lanciò l’idea, non ricordo chi fu il genio, di mettere
una stufa all’interno della costruzione. E con che la vuoi fare la stufa di una capanna a
Montegranaro, per di più costruita sul retro di un calzaturificio? Ma con una bella latta di
mastice vuota, con che altro? Facemmo appena in tempo ad uscire dalla capanna prima che
saltasse tutto in aria, letteralmente. La latta di mastice la ritrovammo una cinquantina di metri
più in là.
A casa di Serafino erano una tribù. A parte i fratelli, che già erano un cospicuo
numero, c’erano cugini, amici dei cugini, amici dei fratelli, credo anche qualche portoghese
che veniva a mangiarsi l’impagabile pizza bianca di Angelina. E io mi sentivo uno di loro.
Una famiglia fantastica a cui voglio ancora un gran bene. Un ricordo particolare va a Mario, il
padre, una delle persone più buone che io abbia mai conosciuto.
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Capitolo III
Primavere
La mia amica-nemica era Cristiana Puggioni. Ci dividevamo il posto di primo della
classe, modestia a parte, più quello di pseudo capo, lei delle femmine, io dei maschi. E mica si
scherzava: erano botte da orbi. Qualche giorno fa l’ho incontrata e mi ha raccontato una cosa
che, evidentemente, avevo rimosso in quanto degna di vergogna. Sembra che dopo l’ennesima
lite l’avessi legata ad un tiglio del cortile delle scuole usando il tubo dell’acqua di Sante il
bidello, andandomene tranquillo e beato e lasciandola lì. Lei, che comunque non era una che
si arrendesse facilmente, tentando di liberarsi si sfracellò a terra e sanguinante fu raccolta
dalla direttrice Sacchetti. Bella figura, Lu’. Chiaramente il ricordo è stato opportunamente
cancellato dal mio hard disk. A parte i fatti sanguinosi ci disprezzavamo cordialmente, ma
nonno Peppe mi diceva sempre “chi disprezza compra” e forse non aveva tutti i torti: in realtà
ci volevamo bene, ma il modo di dimostrarlo di due ragazzetti di otto o nove anni è piuttosto
strano. Ma il fatto che, a distanza di tanti anni, siamo ancora buoni amici e, soprattutto, non ci
meniamo più (magari qualche bonario insulto) ne è la prova.
A proposito di odori, come ho nominato Sante mi è parso ancora di sentire quello
fantastico ed evocativo della sua pipa. Pensate che tempi, si fumava addirittura a scuola. Ma
quel profumo era delizioso, denso, quasi tangibile.
Quando l’inverno finiva ed arrivava finalmente la primavera si andava al mese di
maggio in parrocchia. Per me era un’altra occasione per incontrare tanti amici, i soliti e nuovi.
Qualche preghiera, un po’ di “duttrina” e poi a giocare sul terrazzo de lo pioa’, sfidando la
furia di Peppa la perpetua che poco apprezzava i nostri schiamazzi. Don Guido lo ricordo
poco, ero molto piccolo, ma il compianto Don Peppe Trastulli, lo pioa’ per eccellenza,
altrimenti detto Liquirizia perché lungo secco e nero è parte della mia vita, così come Don
Leandro. C’era anche don Umberto, che, giovanissimo,
all’epoca faceva il diaconato a
Montegranaro e per noi tutti era Umbertì. In centro si vedevano poco Don Carlo e Don
Mariano, persone che poi ho conosciuto meglio andando avanti con gli anni.
Quante partite a fazzoletto su quel terrazzo. Che sudate, che ginocchia scorticate,
quante grida e risate. In parrocchia passavo un bel po’ di tempo, a parte il mese di maggio.
Facevo anche parte dei Gen, e lì probabilmente avevo il nucleo fondamentale dei miei amici:
il sempre presente Serafino, Francesco Di Rosa, che era anche vicino di casa e parente
(parente lo è ancora), Lorenzo Brinchi Giusti, Gioacchino Pirro. Diciamo che, per gli ultimi
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anni delle elementari quella è stata la mia seconda casa. Poi la vita mi ha portato altrove, a
fare nuove esperienze.
Il bello di andare in parrocchia era anche il rito del gelato. Nonno Peppe passava, da
buon pensionato, i suoi pomeriggi al bar di Marcello de Pistarelli, un locale dove questi
attempati signori giocavano a briscola, bevevano birra e fumavano Nazionali Esportazione.
L’odore delle due cose si univa formando il classico profumo da bar per uomini. Come si fa a
non andare a trovare il nonnino e come fa il nonnino a non pagarti il gelato? Babbo mi vietava
il ghiacciolo, vai a sapere perché, e nonno faceva il suo mestiere: contravveniva alle regole.
Ed ecco il mio ghiacciolo preferito: Dalek, dalla forma spaziale, il colore improbabile di un
viola scuro e il ripieno rosso di frutti di bosco. A pensarci bene faceva anche un po’ schifo,
ma anche tanta scena. E poi vuoi mettere la trasgressione?
La piazza a quel tempo era sempre piena di gente e di vita. C’erano tre bar: Marcello,
Ilde, e Dino. Marcello era il bar del gelato come abbiamo visto, Ilde era il bar della domenica,
dove si andava con i genitori a fare colazione dopo la messa o a prendere i pasticcetti, Dino
era il bar dei primi videogiochi. Cronologicamente vedete bene che la frequentazione di Dino
è posteriore.
Da Ilde ci andavo da piccolo piccolo, quando ancora non potevo uscire da solo. Era un
posto molto elegante, con le sedie a poltroncina di metallo cromato e i tavolinetti arancioni, il
banco del bar a sinistra dell’ingresso e quello dei dolci di fronte, come a chiarire subito che lì
volevano tentarti la gola. Ilde era una signora gentile, la ricordo già canuta nel suo grembiule
bianco, coi suoi modi leggeri ed educati. D’altro canto c’era Pasquale che diceva barzellette,
battute a raffica e, soprattutto, fischiava.
Da Dino ci andavo quando ero un poì più grandicello, dopo gli incontri dei Focolarini,
a fare la partitina a Space Invaders, Donkey Kong o Pac Man, e a tentare la sorte coi Boeri.
Mai piaciuti i boeri, ma con quelli si vinceva sempre. Mai più successo nella vita.
C’era anche la pizzeria, unica in città, di Chioo (leggi chio-o, per i non montegranaresi
significa chiodo), che faceva una pizza infernale, ma non avendo termini di paragone, per noi
era buonissima. A Chioo successe Evangelista ma la qualità della pizza rimase invariata. Si
pagava con i mini-assegni, sia la pizza che il cinema al teatrino della pievania. Credo di aver
visto I dieci comandamenti qualcosa come nove volte, sempre pagando con i mini-assegni.
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Capitolo IV
Teo
Facevo collezione di francobolli. Mia mamma era ragioniera in un calzaturificio e mi
metteva da parte le buste della corrispondenza che riceveva. Così iniziai a mettere da parte i
francobolli del periodo. Evidentemente era un passatempo di moda all’epoca per cui era facile
trovare altri ragazzi collezionisti disposti allo scambio dei doppioni. Così la collezione
cresceva. Tramite conoscenze ero entrato in contatto epistolare con un signore italiano,
Renato, che aveva fatto la campagna di Russia e si era sposato in Bulgaria non tornando più in
Italia. Renato mi mandava di sua sponte e con piacere francobolli dell’Unione Sovietica, per
la qual cosa rischiava anche parecchio essendo vietato oltre cortina quel tipo di attività. Grazie
a lui ora mi ritrovo un bell’album pieno di splendidi francobolli dell’URSS che hanno anche
un discreto valore.
A Montegranaro se parlavi di filatelia non potevi prescindere da Teo l’americano, il
marito di Emilia Senzacqua. Francamente non ricordo come finii a casa di Teo, fatto sta che ci
finii. E quella fu una delle esperienze fondamentali della mia vita. Matteo, Teo per gli amici,
era un omone col pizzo canuto, polacco trapiantato negli USA, che s’era trovato appunto in
America giusto giusto per fare la Seconda Guerra Mondiale. Era imbarcato nel Pacifico come
cuoco quando il suo incrociatore era stato centrato e affondato da un siluro giapponese. Il suo
racconto proponeva il siluro che attraversava tutta la cucina della nave portando con se la sua
tibia e il suo perone, lasciandolo con un brandello di carne al posto della parte inferiore della
gamba destra. La chirurgia americana dell’epoca era evidentemente molto più avanti di
quella italiana anche contemporanea in quanto gli ricostruirono la gamba intorno ad un tubo
di metallo. Certo non correva i cento metri ma claudicante camminava per casa.
Era un uomo burbero come pochi, gigantesco, con quell’accento misto tra
anglosassone e slavo e la voce cavernosa. Diciamo che la prima impressione fu terrificante.
Poi lo conobbi e lo amai, molto, come si può amare un nonno. Teo cucinava da dio, cose
strane che io non avevo mai neanche sentito nominare. A quell’epoca, parlo della fine degli
anni ’70, sfido chiunque ad aver saputo cos’era il ketchup. A casa sua mangiai bacon and eggs
e mamma rabbrividì solo a sentire che cos’era, bistecche alla Bismarck, innumerevoli insalate
con salse che andavano dalla maionese al tabasco. Diciamo che, se oggi amo tanto stare ai
fornelli, lo devo probabilmente a lui.
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Collezionava francobolli e monete. Aveva una stanza, di fronte alla cucina, tappezzata
di scaffali dove teneva le bustine dei francobolli. Infatti non usava gli album ma li teneva
sciolti in piccole buste di carta oleata. E me ne ha regalati parecchi, che aveva doppi, ma per
me erano davvero un tesoro: francobolli del Regno d’Italia, della Germania pre-nazista con
sovrastampato il valore centuplicato durante la depressione, dei vari paesi europei prima della
guerra, degli USA e dell’America latina. Un tesoretto, se non da un punto di vista economico,
sicuramente da quello storico. Per non parlare di quello affettivo.
Con Teo iniziai ad interessarmi di calcio. Fino allora non me ne fregava niente e
quando i miei amici o i compagni di scuola si accapigliavano per il pallone la cosa mi lasciava
del tutto indifferente. Ma era il 1978 e c’erano i mondiali in Argentina. Premesso che, quando
andavo da lui ci rimanevo tutta la mattinata o tutto il pomeriggio, durante i mondiali se
giocava la Polonia (e quell’anno giocava, hai voglia se giocava) tutti zitti davanti alla TV.
All’inizio mi annoiavo e non capivo il gioco, così lui pazientemente mi spiegava le azioni e le
regole, tanto che mi appassionai. Ci siamo visti insieme tutte le partite dei mondiali della
Polonia e dell’Italia, lui seduto sulla sua poltrona di fronte alla finestra che dava sulla
piazzetta dell’erbe ed io appoggiato sul tavolo dal piano di vetro che racchiudeva banconote
di tutto il mondo.
Teo morì negli anni ottanta. La sua casa negli anni 2000. Ora c’è una piazzetta al suo
posto. Carina. Ma manca un pezzo della storia di Montegranaro e anche un pezzo della mia
storia personale. Lì nessuno appenderà a dicembre la grande slitta di Babbo Natale con tanto
di renne tutta luminosa e tanto americana.
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Capitolo V
Giochi di strada
Non avendo videogiochi in casa (c’era giusto PacMan al bar di Dino) bisognava industriarsi,
lavorare di fantasia e anche un po’ di mano. Allora i giochi diventavano creativi. Per giocare a
pallacanestro dovevi costruirtelo il canestro. Per giocare a pallone la porta erano due mattoni.
Per giocare a nascondino, beh…bastava nascondersi.
Mio figlio ha scoperto i “carozzi” solo l’anno scorso, proponendosi di costruirne uno
ma, troppo impegnato con la sua PSP e i computer, ha abbandonato il progetto.
Con Francesco Di Rosa ne costruimmo uno stile Dick Dastardly. C’era Dino il
falegname accanto alla casa di Francesco e impietosirlo e convincerlo a collaborare non fu
difficile: Dino era ruvido come i suoi baffi e fumino come il suo sigaro ma era un pezzo
d’uomo. Con una tavola piuttosto larga realizzammo il telaio portante. L’asse posteriore era
un pezzo di legno avvitato bene al telaio, tornito sui mozzi per le ruote. Uno simile faceva da
semiasse anteriore, ma non era avvitato se non al centro con una barra filettata e due dadi, in
modo da fare da perno. Smontammo il meccanismo dello sterzo di un’automobilina a pedali e
lo attaccammo al semiasse così realizzato.
Sul lato del telaio avvitammo un altro asse di legno in maniera che, basculando, faceva
da freno a mano. Sempre in legno (e qui Dino fu determinante) costruimmo il sedile del pilota
con tanto di spalliera. Il tocco di classe fu che tappezzammo il sedile con della pelliccia
sintetica di agnellino gialla, del tipo che si usa per foderare i polacchi. Le ruote, naturalmente,
erano quattro grossi cuscinetti tirati via da chissà quale macchina per calzature.
Era progettato per scendere in due e si guidava a turno. Si partiva dalla cima di via
Palestro e la si percorreva tutta, con un rumore infernale e tutti gli abitanti che si affacciavano
e qualcuno che ci malediceva. Filava che era una bellezza. Dopo qualche discesa un
cuscinetto si allentò confermando che la fisica è una scienza esatta e ci sfracellammo sul
selciato. Finì ad acqua ossigenata e cerottoni sulle ginocchia, tutto condito da severi rimbrotti
da parte di babbo e mamma. Ne facemmo altri di carozzi, ma belli come quello mai più.
Con Ubaldo Tarabelli facevamo la gara con le bici nuove fiammanti ricevute in regalo
per la prima comunione. Era l’epoca delle bici da cross. La mia era rosso Ferrari e cromo, con
la sella lunga e il cambio a cloche che era meglio non usare se no se ne andava la catena. La
sua era azzurro metallizzato con gli ammortizzatori.
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Il garage con la porta rossa vicino all’ospedale vecchio, che ti trovi davanti scendendo
per via Solferino poi via Don Minzoni, l’aveva affittato mio padre. Non essendo la porta al
livello della strada c’erano due rampe per farci salire le ruote delle macchine. Aprivamo la
porta, poi andavamo sotto la torre dell’acquedotto. Prendevamo la rincorsa cercando di
guadagnare quanta più velocità possibile gettandoci in discesa. Vinceva chi si infilava per
primo dentro al garage facendo saltare la bici sulla rampa.
Di velocità se ne prendeva davvero molta, tanto che era necessario frenare prima di
saltare nel garage altrimenti si andava a sbattere contro il muro di fronte. Ubaldo una volta se
ne dimenticò. Lo vidi superarmi come un missile poco prima della rampa, la bicicletta salì il
dislivello, decollò e andò a schiantarsi contro il muro. Credo fermamente che esistano gli
angeli custodi perché Ubaldo non si fece nulla. La ruota anteriore della sua bicicletta però sì.
Era diventata ovale.
Montegranaro è un paese da stambecchi, tutto salite e discese, pianura davvero poca.
Così per giocare a pallacanestro bisognava adattarsi al poco spazio piano che c’era e magari
farsi anche qualche palleggio sbilenco lungo le discese. Davanti casa di Francesco Di Rosa in
via Palestro c’era un piccolissimo spiazzo dove appendevamo un canestro, ma il gioco si
svolgeva lungo la via, in discesa, o in salita, dipende dai punti di vista. Gruppo fisso io,
Francesco, Gioacchino Pirro e Lorenzo Brinchi. E chi perdeva palla la rincorreva. C’era da
correre un bel po’, poteva arrivare anche in fondo alla strettoia di via Cavallotti.
Passavamo pomeriggi interi in quel modo, con sudate da spavento. Un Giovedì Santo
giocammo diverse ore grondando sudore, andammo a cena, e poi, senza cambiarci i vestiti né
tantomeno le scarpe, andammo in chiesa per la cerimonia della lavanda dei piedi, celebrata
dal vescovo Monsignor Cleto Bellucci, che a momenti svenne.
Spero che tutto questo non lo leggano i miei figli.
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Capitolo VI
Chitarre
Amavo la radio. Fin da piccolo, passando ore nella piccola bottega artigiana dove
nonno Peppe faceva le sue scarpe insieme a Tonino Di Chiara, Ave, Marì
e Dino de
Cucchiero, ascoltavo la radio. Da John Lennon a Cat Stevens, dai Lynyrd Skynyrd ai Led
Zeppelin, dai Buffalo Springfield a Simon and Gurfunkell, ma sorbettandosi anche i vari
Claudio Villa, Orietta Berti e sanremesi vari.
Anche in seguito, quando nonno chiuse bottega per andarsene in pensione, nei
momenti di solitudine accendevo la vecchia radio valvolare (andata purtroppo persa) e mi
ascoltavo Lelio Luttazzi e la sua Hit Parade. Ho iniziato a comprare dischi piuttosto presto,
quarantacinque giri per lo più. Gli LP vennero dopo, con le paghette settimanali.
La batteria era lo strumento che sognai di suonare per primo. I miei invece sognavano
di fare di me un pianista e mi mandarono anche a scuola di musica, operazione dai risultati
scarsi in quanto, come sempre, quando costretto è la volta buona che una cosa la faccio male.
Provai a suonare i bonghi ma rischiai la defenestrazione da parte di mio padre.
Anche la chitarra mi piaceva molto e all’epoca in parrocchia fiorivano i chitarristi,
allora mi dissi: voglio imparare anch’io, e chiesi a Don Leandro, allora cappellano, se avesse
insegnato la chitarra anche a me. La risposta fu che, secondo lui, non c’ero tagliato. Mi
incazzai parecchio.
Il giorno dopo andai da Peppe de Vischeretto, che suonava il violino nel trio da
matrimoni di mio padre ma che con la chitarra faceva cose grandiose, e gli chiesi di
insegnarmi. Peppe non ne fu felicissimo ma non ebbe cuore a dirmi di no. Mi insegnò i primi
rudimenti e mi prestò anche una sua vecchia chitarra classica per esercitarmi a casa. Tenere in
mano quello strumento fu per me una sensazione unica, indescrivibile, che ancora ricordo
piuttosto vivamente. Solo che Peppe voleva fare di me un chitarrista classico, io volevo
suonare come Jimmy Page, per cui il sodalizio non durò a lungo, abbastanza però per sapere
come tenere in mano una chitarra, cosa di cui gli sarò eternamente grato. Come chitarrista
sono una mezza calzetta, ma suonare la mia chitarra è una delle cose che mi rilassano e mi
appagano di più
Avevo qualche soldino regalato da parte e una sera, guardando Gran Bazar su TVP,
programma ispirato a Portobello di Tortora e condotto da Giancarlo Guardabassi, nel corso
del quale vendevano di tutto, dal prete per il letto al motorino, telefonai all’insaputa dei miei e
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comprai la mia prima chitarra da Giocondi di San Benedetto, una magnifica Clarissa classica
che suonava come un mandolino, con tutto il rispetto per il mandolino. Tutto sommato babbo
non fu poi così contrariato nell’accompagnarmi a ritirarla in negozio: non sarei diventato il
pianista che sognava ma almeno avrei fatto un po’ di musica. Lo convinsi anche a finanziarmi
un corso di chitarra a dispense di Franco Cerri.
La Clarissa durò poco. Pagata venticinquemila lire ne valeva anche meno. Nel giro di
qualche mese le meccaniche cedettero e mi ritrovai a suonare con quattro corde soltanto. I
miei, impietositi , decisero di finanziare le mie velleità chitarristiche: telefonarono ad un loro
amico di Loreto che aveva un amico di Castelfidardo che conosceva uno che lavorava alla
ZeroSette. Un sabato pomeriggio mi portarono a comprare la mia ZeroSette jumbo folk, una
magnifica chitarra color ambra sfumato che ho suonato e torturato fino ad un paio di anni fa,
quando mi ha lasciato per collasso del ponte e conseguente distaccamento di parte della cassa
armonica. Ma ha vissuto una vita intensa.
Con Uliano Damen, Giovanni Leonardi e Ubaldo Tarabelli costituimmo il mio primo
gruppo. Ubaldo era stato fortunato perchè don Leandro l’aveva reputato idoneo a farsi
insegnare la chitarra. Bontà sua. Giovanni ed io avevamo imparato insieme con le dispense di
Cerri ed esercitandoci in coppia. Uliano non sapeva suonare nemmeno il campanello di casa,
ma aveva voglia di starci così fui io a dargli le prime nozioni. Ora è l’unico dei quattro che
ancora suona in un gruppo.
Ci riunivamo quasi ogni giorno per suonare e facevamo davvero schifo. Ma era
divertente da matti. Usavamo la batteria dell’organo elettronico di mio padre e i bonghi.
Cantavamo in un inglese maccheronico. Eravamo quattro deficienti. Ma la cosa ebbe una sua
evoluzione di cui parlerò in seguito come in seguito parlerò della mia passione per la radio.
Per ora ricordo solo di quando a Uliano si slacciò la cinta che teneva la sua chitarra
che cadde di paletta su un tasto dell’organo di mio padre spaccandolo il due. Uliano scappò
urlando “Cesare me ‘mmazza” e scomparve da casa mia per quindici giorni. Tornò a tempesta
passata.
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Capitolo VII
Le stagioni
Lo scorrere del tempo è scandito dallo scorrere delle stagioni e ogni stagione porta con
se le proprie luci e i propri colori. L’anno del fanciullo non parte a gennaio come per gli
adulti ma a settembre, con l’inizio della scuola. E’ un mese strano settembre, ancora caldo
come l’estate ma tendente al grigio, con quel sole giallo che impallidisce giorno dopo giorno,
con quelle nuvole che si rincorrono veloci in cielo quasi avessero fretta di radunarsi da
qualche parte a far piovere.
Settembre aveva l’odore dei libri nuovi, dell’astuccio nuovo, del diario nuovo, quel
profumo di pastelli e carta stampata sapientemente mescolati dal caso. E’ un odore dolce e
amaro. Come le sensazioni che avevo quando la scuola stava per iniziare, sensazioni di
tristezza per le vacanze finite e felice aspettativa di ritrovare i miei compagni e amici lasciati a
giugno.
La luce del giorno che durava meno, il fare i compiti in fretta per sfruttare le poche ore
per giocare fuori, questo era l’autunno. I primi freddi, i primi maglioni sotto il grembiule nero.
I tigli di piazzale Leopardi che perdevano le foglie, come quelli davanti le scuole rosse,
appiccicati a terra dalla notte umida e dalla pioggia.
E poi ecco la fiera di San Serafino e la caccia al giocattolo fuori stagione. A quei tempi
i giocattoli arrivavano a Natale e per il compleanno. La fiera era un’occasione in più. E anche
per questo ricordo tornano gli odori: quello dello zucchero filato e dei croccanti, quello della
porchetta e del pesce fritto.
Novembre portava il freddo più serio, la nebbia, la pioggia, i primi cappotti, magari
quello dell’anno prima che non ti andava quasi più ma lo rifaremo nuovo per Natale. L’odore
dei fiori al cimitero, quello delle candele in chiesa, quello dei primi caminetti accesi.
Un odore che in inverno si mescola con quello dei termosifoni a gasolio. Un misto di
legna e zolfo, che si faceva più acre ed intenso man mano che il freddo aumentava e le nuvole
si facevano più basse. Lo chiamavo l’odore della neve, quell’olezzo denso, palpabile,
probabilmente dovuto alla pressione atmosferica particolarmente bassa che si sentiva poco
prima della neve. Quando lo sentivo da lì a poco sarebbe nevicato, e di solito non sbagliavo.
Arrivava Natale col suo tripudio di luci colorate. Si faceva l’albero in cucina,
rigorosamente vero, quelli di plastica nemmeno sapevamo esistessero, e il presepe nella
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credenza dei piatti, odore di muschio e resina di conifera. L’esercizio creativo di fare il
presepio era stancante e appagante. Ricordo una gara della parrocchia per il presepe più bello.
Venne don Peppe, casa per casa, a valutare le varie natività, per poi assegnare un deludente ex
equo urbi et orbi con tanto di diploma.
Si andava alla messa il sabato sera, a San Serafino, e l’atmosfera era magica: le luci
basse, il freddo fuori, l’odore di candele, il rosario che precedeva la funzione recitato
sommessamente. Vedevo altri bambini, un po’ più grandi, servire la messa. Così chiesi a mia
madre se non potessi anch’io. Credo che fossi in seconda elementare. Don Peppe ne fu
entusiasta. Da quel momento mi servii qualcosa come tre o quattro messe ogni fine settimana.
Quando al catechismo per la prima Comunione conobbi Uliano, lo trascinai con me
nella missione impari di fare le ampolline e passare la borsetta della questua. Era una gara per
servire la messa, essendo richiesti al massimo quattro chierichetti. Chi arrivava prima metteva
la cotta, chi arrivava tardi al massimo partecipava alla scorpacciata di ritagli d’ostia che era
consentita a fine messa.
Qualche volta andavo a servire messa anche a SS. Filippo e Giacomo, che in realtà era
la mia parrocchia ma era frequentata solo da vecchine e don Manlio buonanima era tutt’altro
che simpatico. Ma nonna Peppa era una delle “pie donne” della chiesa e mi toccava farla
contenta, almeno ogni tanto. La chiesa era stupenda, l’atmosfera ancora più particolare, con
quelle stufone a gas che facevano da riscaldamento non essendovi i termosifoni. L’altare per
la celebrazione era fatto di un compensato leggero ed era tutt’altro che stabile. Era stato
realizzato in via provvisoria in seguito al concilio, con la rivoluzione di dire messa rivolti ai
fedeli, e il provvisorio, come troppo spesso accade, era diventato definitivo. Il chierichetto
doveva prestare particolare attenzione a non spingerlo perché rischiava di cappottarsi. Il che
avvenne una domenica d’inverno, la chiesa piuttosto piena, e il mio amico e collega
chierichetto Alceste che dondolava semicosciente sui piedi sbattendo con la pancia sul ripiano
ripetutamente. Don Manlio lo richiamò diverse volte, ma con scarsi risultati e l’ultimo colpo
di pancia rovesciò l’altare, col calice e la patena che arrivarono a metà chiesa e l’”oooooh”
generale dei fedeli.
L’inverno aveva anche altri odori: quello della carne di maiale insaccata sul tavolo da
lavoro del laboratorio di mio nonno, finchè l’abbiamo fatto in casa, e quando non lo facevamo
più da noi si andava in campagna a fare “la salata”. E poi capodanno, con l’odore di polvere
da sparo dei miseri fuochi artificiali sparati in giro, altro che le sontuose scenografie
pirotecniche che vediamo oggi. A casa mia era vietato tutto quello che si accendesse col
fiammifero, per cui il primo dell’anno e il giorno dopo si andava in giro a raccattare le
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miccette residue, i resti dei raudi e degli altri fuochi, si metteva insieme la polvere che ne
risultava e si creavano fuochetti fatti in casa, probabilmente più pericolosi di quelli che mi
erano interdetti.
Poi veniva carnevale, la festa più odiata e detestata. Non ho mai capito il motivo, ma a
me metteva tristezza e malinconia. Tuttora. Ma l’odore delle frappe di nonna ancora lo sento,
e anche un po’ il sapore. Erano l’unica nota positiva. Odiavo mascherarmi e le poche volte
che lo feci mi costò fatica e certamente non mi divertii.
Poi veniva la Quaresima che significava primavera. Il primo teporino che ti faceva
credere del fatto che l’inverno era passato, archiviato, finito, e puntualmente, quando era
davvero convinto di questo, arrivava l’ultima neve di primavera. Ma passava presto. E presto
ricominciavano i giochi in strada.
Il profumo della primavera è quello dei prati, dei fiori, ma anche delle fave, dei
carciofi. Il profumo dei gerani sul balcone. I colori che si fanno vivi, la luce più intensa, l’aria
più chiara. E le stelle, grandi e tante. Una in particolare, la vedevo quando rincasavo la sera, al
crepuscolo. Andando lungo via Garibaldi era sempre lì, sopra il tetto dell’ospedale vecchio,
una luce forte e intensa. Era la mia stella. La cercavo. Ora non più, non c’è tempo.
Il profumo della primavera è anche l’odore di sudore giocando a pallone, la puzza di
piedi quando ti toglievi le Superga. Le scorribande che ho già raccontato, con i carrozzi o con
le bici, si svolgevano prevalentemente in primavera. In primavera si andava in campagna a
giocare, con Serafino, o a casa di Luigi Catinari a caccia di serpi e falene da portare alla
maestra. Si andava a ciliegie. Si andava per case coloniche diroccate immaginando chissà
quali avventure cavalleresche.
Poi arrivava l’estate. Avevamo una casa a Civitanova e, con la fine della scuola,
partivo coi nonni e andavo “in villeggiatura”. Non che stessi male, anzi. Avevo i miei amici
anche laggiù, ma soffrivo il distacco. Ogni tanto mi facevo una settimana a casa coi miei, che
restavano a Montegranaro per lavorare, ma l’estate era forestiera, al mare. La casa aveva un
piccolo giardino con in mezzo un albicocco che faceva quantità enormi di frutta. C’erano le
lucertole da cacciare. Le lumache da collezionare. Ma soprattutto c’era la spiaggia e io
adoravo la spiaggia. Si andava al mare la mattina presto, con l’acqua che sembrava l’olio per
quanto era ferma. Era il momento di raccogliere le stelle marine e i cavallucci. E chi li ha visti
più? E quando c’erano i cavalloni, ti bagnavi solo i piedi perché di più era (giustamente)
vietato. La luce era marrone, come l’acqua, e l’odore di sale ti restava addosso anche quando
tornavi a casa. Ma era odore di mare, non di idrocarburi.
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Capitolo VIII
Macchine
Di macchine ce n’erano davvero poche. Potevo girarmi tutto il paese con la mia bici
rossa con rischi di essere investito davvero minimi. Oggi quando mio figlio esce con la sua
tremo. Il centro storico è sempre stato angusto, specie per le macchine, ma quelle del tempo
erano più piccoline di quelle odierne per cui ci giravano tranquillamente e, soprattutto,
venivano parcheggiate in ogni angolo, sia perché, appunto, piccole e quindi di poco ingombro,
sia perché tanto non passava nessuno, o quasi.
In via Garibaldi era fissa la 850 di Gianmario, mi pare fosse celeste, appoggiata
all’angolo con le scalette. Più su, davanti la fontanella, c’era l’Ape di Peppe de Vischeretto.
Nessuno ha saputo mai perché, probabilmente gli aveva fatto qualche torto e se l’era segnato,
ma il mio cane Tippi ce l’aveva con Peppe a tal punto che ne sentiva il motore dell’Ape
quando ancora stava a Porta Spina e dava di matto di brutto, tanto che noi, a casa, dicevamo:
“Ecco Peppe che ‘rvene”.
Sotto l’ospedale vecchio di solito c’era parcheggiata la 127 beige di Peppe Tarabelli.
Stava più o meno sempre lì, perché Peppe lavorava sotto casa e non la prendeva quasi mai.
Noi giocavamo prevalentemente in quello spiazzo per cui il pallone stava incastrato fisso sotto
la marmitta della 127 esattamente come dice Samuele Bersani in Che Vita.
Mi ricordo vaghissimamente anche l’ambulanza dell’ospedale, quando ancora
l’ospedale stava ancora nel centro storico. Il garage era la porta larga sotto le scalette del
ricovero dei vecchi, porta che dava nei sotterranei del palazzo. Così nel giro di pochi metri
c’era l’ambulanza, l’ospizio e la camera mortuaria: servizio completo.
Poi c’era la 500 di Ivetto Manzetti in via Palestro, posteggiata al fianco della porta di
casa, proprio di fronte a quella della bottega di Nonno Peppe. Mi era stato regalato un gatto,
piccolissimo, appena svezzato. Naturalmente lo chiamai Fufino, che altro? Questo gatto idiota
si mise a dormire sotto la ruota posteriore della 500 di Ivo che non se ne accorse, partì e lo
schiacciò. Povero nonno non fece in tempo a pulire la strada prima che me ne accorgessi:
immaginate che tragedia, avevo sei o sette anni. Ivetto non si diede pace per settimane.
La misura di quanto fossero piccole le macchine sta nel fatto che Enea Di Rosa
passava di lì tutti i giorni con la sua A112 grigio metallizzato e non c’era necessità di spostare
la 500. Ora, chi non ha mai visto via Palestro non sa che sarà larga tre metri al massimo. La
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112 di Enea la ricordo molto bene perché un giorno che era a casa sua a giocare con il figlio
Francesco, entrando nel garage mi passò su un piede, senza danni, ma dalla fifa quasi svenni.
Mitica era la Giardinetta di Alfredo Torresi (Meletta). Già allora aveva i suoi anni ma
la teneva linda e lucida come fosse nuova. Credo di non aver mai conosciuto una persona
precisa come Alfredo.
Per il resto erano tutte 500, 127, 850, A112, qualche Mini, la 128 di ‘Ngiulì Ripani,
l’ape dello sformatore alla sponda della quale ci attaccavamo in corsa vai a capire perché.
C’era una Lambretta fissa sotto la torre dell’ospedale, bianca mi pare, ma non ricordo di chi
fosse, forse Severino.
Poche macchine in realtà e tanta gente. Il contrario di oggi.
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Capitolo IX
Perdere un amico
Finite le elementari mi toccò crescere. D’un botto. Mi ritrovai dal mio universo
conosciuto, nel quale avevo tutti i miei amici, nel quale ero considerato e amato, in una nuova
dimensione, del tutto nuova e, per molti aspetti, terrificante. Per le scuole medie, i miei
avevano pensato di mandarmi a studiare a Macerata dai Salesiani. Come semi-convittore.
Che significa semi-convittore? Significa che si partiva da Montegranaro alla mattina
alle sette e si tornava a Montegranaro la sera alle sei e mezzo. Immaginate cosa possa
significare per un ragazzino, anzi, un bambino, perché quello ero, ad undici anni salire su un
autobus malandato la mattina presto, in mezzo ad estranei molto più grandi di lui, e tornare a
casa la sera, passando la giornata in un ambiente completamente nuovo e totalmente diverso
da quello al quale era abituato. Aggiungete che tutto questo comportava il taglio di tutti o
quasi i contatti coi miei coetanei e i miei ormai ex compagni di scuola.
L’autobus, o meglio, la corriera di Cardinali era un residuato bellico blu con gli
sportelli ad apertura a braccio automatico (cioè si aprivano con la maniglia) pieno stipato di
ragazzi dai quindici anni in su. Chi saliva dopo, come me, si faceva immancabilmente tutto il
tragitto fino a Macerata in piedi, se fortunato su tutti e due i piedi, in qualche caso, nei giorni
di particolare affollamento, su un piede solo. Mi sentivo piccolo piccolo in mezzo a quelli che
per me erano quasi adulti, ero smarrito e spaventato. Per fortuna con me c’era un vecchio
amico che conoscevo da quando andavo a giocare a casa di Serafino e che faceva parte dei
Gen anche lui, Emanuele Pirro. Era più grande di me, iniziava anche lui ad andare a scuola a
Macerata quell’anno perché si era iscritto al primo anno di ragioneria. Nonostante la
differenza di età avevamo un ottimo rapporto e fu lui ad aiutarmi a superare i primi giorni di
quella nuova vita che, per me, erano davvero traumatici.
Emanuele era un ragazzo sveglio, dallo sguardo intelligente e vivace, sempre pronto al
sorriso e allo scherzo ma mai sguagliato o volgare. Aveva un’eleganza naturale e una
gentilezza che non potevi non apprezzare. La sua amicizia mi fu preziosa: mi faceva sentire
protetto e mi aiutò a farmi accettare dagli altri ragazzi della corriera. Concordò, addirittura,
con l’autista Dome’, un matto scatenato che guidava esattamente come un matto scatenato,
una fermata apposita per noi, davanti alla fabbrica di Botticelli, in modo che al mattino
avevamo quei due o tre minuti in più. Lui abitava lungo le mura e poteva raggiungere la
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fermata in un baleno. Io dal centro storico altrettanto. Con noi salivano anche Franco Quintajè
e Giampietro Melchiorri, che era il suo amico per la pelle, quasi un fratello.
Era una giornata calda di maggio, esattamente il 2 maggio 1980. Quella mattina
Emanuele non c’era a prendere la corriera. Non sapevo che quel giorno avrei vissuto il primo
grande trauma della mia vita. Emanuele aveva fatto tardi e aveva perso la corriera. Aveva
svegliato il padre, Eleuterio, che aveva preso la sua 131 arancio in fretta per cercare di
raggiungere la corriera a Monte San Giusto. Accadde che la macchina lo tradì, e lungo la
strada tra Montegranaro e Monte San Giusto non volle fare una curva e finì di sotto. Persi un
amico e provai un dolore che mai avevo provato prima ma che, purtroppo, avrei dovuto
provare altre volte. E’ difficile definire cosa sentii: rabbia, confusione, incredulità e tante altre
sensazioni mescolate. Il momento più duro non fu quando appresi di quanto accaduto, non fu
il funerale e lo strazio di chi gli aveva voluto bene. Il momento più brutto fu quando la
mattina tornai a prendere la corriera. C’ero solo io.
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Capitolo X
Cardinali
L’esperienza della corriera di Cardinali l’hanno fatta in molti a Montegranaro, sia che
andassero a Fermo sia che andassero a Macerata. Quelli di Fermo erano trattati un po’ meglio,
sia perché Cardinali era appunto di Fermo sia perché, comunque, più numerosi. I primi anni,
parlo di quando facevo le medie, addirittura partiva un solo mezzo da Montegranaro per
Macerata, poi col tempo sono aumentati fino alla maturità quando, se non sbaglio (non
ricordo bene perché in quinto me ne sono andato a scuola in macchina dopo la sospirata
patente) ce n’erano quattro.
Ne passavano comunque tre, di cui una sola destinata a noi. Una veniva da Casette
D’Ete e nemmeno fermava e un’altra veniva direttamente da Fermo, girava a Santa Maria e
andava a caricare a Monte San Giusto. Di solito quella delle Casette era l’ ”American
Express”, una bella gran turismo primi tipi, bianca e blu, coi sedili larghi e comodi. Quella
che andava a San Giusto era solitamente la cosiddetta “Mundial”, un’altra gran turismo tutta
blu a cui qualcuno aveva attaccato dietro, accanto alla scritta IVECO, un adesivo dei mondiali
di Argentina con scritto appunto MUNDIAL. A noi di solito toccava la supposta: un residuato
bellico con gli sportelli a mano, i sedili strappati e semidivelti, i finestrini bloccati, e una
puzza mista di scarichi del motore e nafta usata per lavare i corridoi che ti ammazzava, specie
alle sette del mattino.
Come ho già detto la corriera era solitamente stipata. I più grandi, quelli del quinto e
qualche privilegiato, stavano seduti dietro. In mezzo c’era un bel misto e davanti i secchioni
che salivano prima. In piedi tutti gli altri, me compreso, piccolo e ultimo arrivato. E in piedi
poteva significare farsi tutti il tragitto su un piede solo, o sopra la borsa dei libri. Quando
passava Enzo il bigliettaio, che tutto era meno che smilzo, si rischiava la vita sul serio.
Enzo era un omone di Macerata, pelato, scorbutico quanto basta per farlo risultare più
simpatico del dovuto quando faceva il simpatico. Non era una cattiva persona, ma se gli
andavi sulle scatole ti poteva rendere la vita davvero difficile. Bontà sua io gli stavo
simpatico. Aveva una 850 Fiat bianca a metano con i bombolotti del gas montati sul tetto
tanto che, essendo risaputamente bolscevico e stalinista, dicevamo che aveva i missili balistici
russi piazzati sul tetto in barba alla Nato. Lo vedevamo arrivare ai giardini Diaz poco prima
della partenza della corriera per portarci a casa e piazzare il suo bolide sempre nello stesso
posto e sempre in divieto di sosta ma senza beccare mai una multa che sia una. Qualsiasi
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tempo ci fosse indossava sempre il suo grembiule color nocciola con la scritta “Autolinee
Cardinali” sul taschino lato cuore e la pinza punzonatrice dei biglietti che faceva capolino
dalla tasca inferiore. Con la stessa pinza più volte minacciava la punzonatura dell’orecchio a
chi non si affrettava a mostrare l’abbonamento o a saldare la rata mensile. Enzo è stata una
presenza costante nella mia adolescenza. Cambiavano gli autisti: Domè, Rolando, e poi una
lunga serie di fugaci apparizioni, ma Enzo rimase sempre lì a fare biglietti e abbonamenti e a
tirare le orecchie ai facinorosi. L’ho visto invecchiare nei sette anni che ho trascorso salendo e
scendendo dalla corriera. Ora sarei molto felice di averne notizie.
La supposta era solo una dei vari catorci sui quali andavamo a scuola. Una volta a
Monte San Giusto, mentre passavamo all’altezza del rifornimento Agip lo sportello
posteriore, che era appunto uno sportello con la maniglia di apertura, si aprì da solo: la
corriera era stracolma e credo solo per effetto del vuoto d’aria tipo scatoletta del tonno
nessuno cadde di sotto. Lo sportello andò a sbattere contro un palo della luce e si ammaccò
seriamente. Enzo provò a richiuderlo ma non ci fu verso. Dovemmo aspettare l’arrivo di un
mezzo sostitutivo da Fermo. Da quel giorno la supposta fu pensionata e arrivò una splendida
Setra lunga lunga, che aveva il pregio di essere più capiente come posti a sedere e il difetto di
avere i sedili posteriori smontati: ci si sedeva direttamente sopra il vano motore, tanto che,
quando il motore un giorno prese a fumare e a surriscaldarsi a Trodica, chi ci stava seduto
sopra giurò di essersi scottato le terga. Andammo a scuola in autostop, la mia prima
esperienza con pollice alzato, in compagnia di Massimo Cacchiarelli.
Cotto il motore della Setra finalmente ci assegnarono la Mundial, con somma gioia sia
perché era davvero comoda sia perché l’avevamo scippata ai Sangiustesi. Cocente fu la
delusione nel vedere che a San Giusto ne avevano data una ancor più bella e nuova. Nel
frattempo avevo risolto il mio problema posto a sedere perché il mio compagno di scuola
Marco Pizzuti saliva davanti casa sua, esattamente la prima fermata a Montegranaro, e aveva
preso l’abitudine di tenermi il posto, col benestare dei più grandi che concessero
magnanimamente il privilegio altrimenti vietato alle burbe. In terza media vennero Uliano
Damen e Alessandro Marini a fare il primo, ma di questo parleremo più in là.
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Capitolo XI
Ritiri
Il fatto di avere frequentato le scuole medie a Macerata anziché a Montegranaro ha
comportato una serie di conseguenze sulla mia vita sociale che, sono convinto, hanno
influenzato in maniera determinante la costruzione del mio pessimo carattere.
Prima bisogna considerare il distacco dalle radici, siano esse la famiglia, che iniziai a
vedere meno, siano gli amici, che rimasero in contatto tra loro e sempre meno con me per via
della mancanza di condivisione di quel momento fondamentale nella vita di un fanciullo che è
la scuola.
Aggiungiamo che nuovi amici li feci ma al di fuori del luogo in cui vivevo, il che
comportò un lungo periodo di tristi fine settimana semi-solitari. A peggiorare il tutto dai
Salesiani non c’erano le ragazze. Le prime persone di genere femminile non insegnanti
entrarono nell’Istituto proprio nel 1979, l’anno in cui entrai anch’io, ma per fare il classico.
Erano tre soltanto e parecchio (per quell’età) più grandi di me. Da guardare, quindi, col
cannocchiale.
Un preadolescente che cresce lontano dalle ragazze è privato di un elemento di
confronto e di crescita basilare. Se ne accorsero anche i Salesiani che introdussero le ragazze
alle medie, ma molti anni dopo che io diedi l’esame di terza, quindi a danni fatti.
L’esperienza fu, comunque, formativa, di quelle che ti fanno crescere di botto. Certo
persi una parte di fanciullezza a beneficio di una adolescenza precoce. Si passò, in soldoni,
dalle macchinette alle manovelle da sera a mattina.
Anche il partire presto da casa era piuttosto duro, specie d’inverno. La corriera
passava alle sette e si arrivava a Macerata alle sette e tre quarti, scaricati davanti allo
Sferisterio. Da lì ai Salesiani era una discreta sgambata, e la facevo solitamente col mio nuovo
compagno di scuola Marco Pizzuti. Con me c’erano anche altri compaesani: Graziano Del
Gatto, Paolo Meriggi, Fabrizio Cernetti, Pierluigi Di Domenico e il mitico Andrea Di Battista,
“lo fornaretto”.
Ricordo perfettamente il primo giorno di scuola, quella volta accompagnato dai
genitori che mi consegnarono in aula al professore di lettere, uno degli uomini che,
probabilmente, mi hanno insegnato di più in tutta la mia vita, sia per quanto concerne la mia
cultura che per il mio essere persona: don Carlo De Bortoli.
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Don Carlo era un prete anziano ma in ottima forma, alto, magro come un chiodo, teso
come la bacchetta di nervo che usava ogni tanto quando ci passava in rassegna le unghie delle
mani. Vecchio stile, indossava sempre una tonaca nera lisa ma pulita che lo faceva sembrare
ancora più magro. Nel complesso la figura era temibile, anche per lo sguardo che non tradiva
la minima indulgenza. Nel conoscerlo meglio poi si capiva quale grande umanità fosse celata
nel suo essere così burbero, ma la prima impressione fu di terrore puro.
L’ispezione delle mani e delle scarpe era un rituale quasi quotidiano. Don Carlo
pretendeva che si venisse a scuola in perfetto ordine e non tollerava le unghie lunghe e le
scarpe sporche. Ancora oggi non riesco a tenere le unghie più lunghe di una settimana. Ma per
le scarpe ebbi a protestare.
Mi armai di coraggio e feci presente che, noi che venivamo da fuori eravamo in giro
tra le intemperie già da un paio d’ore quando venivamo sottoposti ad ispezione, e non
potevamo andare certo in giro con lucido e spazzola. Convenne che non avevo torto, ma mi
incenerì con lo sguardo. Credo fu allora, però, che mi guadagnai la sua stima. La bacchetta di
nervo però, bianca ed elastica, ogni tanto andava assaggiata da qualcuno con le unghie
sporche.
Intanto i miei ex compagni di scuola delle elementari prendevano altre strade e io
perdevo totalmente o quasi il contatto con loro. In particolare lo persi con mio amico fraterno
Serafino. Eravamo entrambi nei focolarini ed io, sempre per il mio caratteraccio di cui sopra,
litigai con don Leandro, il prete che guidava il gruppo. Devo dire che non avevo affatto torto a
litigarci, lo continuo a pensare, ma certo un po’ più di elasticità non avrebbe guastato. Dato
però che, dopo oltre trent’anni, non sono granché migliorato in fatto di elasticità, mi permetto
un po’ di indulgenza col me stesso di allora. Fatto sta che uscii dal gruppo e Serafino rimase,
perdendo così con lui l’ultimo elemento di contatto.
I mie nuovi amici e compagni di scuola erano di Macerata e con i pochi compaesani
non riuscimmo a instaurare un legame tale da uscire insieme anche fuori scuola. Da qui passai
quasi un anno di domeniche solitarie, tipo “Buona Domenica” di Venditti , guarda caso
proprio di quel periodo.
La salvezza arrivò in seconda media, quando iniziai il catechismo per la cresima, per
me occasione di incontrare nuovi ragazzi del mio paese che, altrimenti, non avrei avuto modo
di conoscere, e di rincontrare qualche vecchio compagno delle elementari. All’inizio ebbi
qualche difficoltà a farmi accettare perché i gruppetti di fanciulli già esistevano e io recitavo il
ruolo di “quello di fuori” anche se di fuori non ero. Devo però, per fortuna, dire che non mi ci
volle molto per integrarmi. Conobbi personaggi come Mauro Foresi, Teodori, Andrea
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Gasparroni, coi quali condivisi momenti davvero divertenti, il cui apice fu il ritiro spirituale
dei tre giorni a Frontignano.
Tralasciando il catechismo full immersion che facevamo di giorno, la “movida”
cominciava in camerata alla sera. In camera con me c’erano Mauro Foresi Lo Casò, Franco
Quintajè, Ubaldo Tarabelli, Teodori (non mi ricordo il nome, se qualcuno mi aiuta…) e altri
due che proprio mi sfuggono. In quella accanto c’erano Marco Pizzuti, Andrea Di Battista lo
Fornà e forse Paolo Meriggi (metto un punto interrogativo). Marco s’era portato da casa un
impianto stereo da discoteca, Andrea aveva provveduto all’impianto luci: due coppie di torri
da tre faretti colorati cadauna con sensore microfonico che comandava l’intermittenza.
Al primo accenno di festino, alle prime quattro note di YMCA arrivò don Manlio “lo
priore” come una furia e sequestrò tutta la discoteca. La nostra vendetta fu una minzione
collettiva dalla finestra. Il giorno dopo c’era un’inspiegabile lastra di ghiaccio giallo nel
cortile della Domus Laetitiae.
La sera dopo tentammo una sortita nell’ala delle femmine. Camminammo nottetempo
nell’oscurità dei corridoi della Domus guidati da Mauro lo Casò che asseriva di conoscere la
strada ma non aveva la minima idea di dove ci stava portando, finché scorgemmo dietro un
angolo una luce invitante: ci siamo! Era don Manlio, in camicia da notte, pila e scopa. Ci
rincorse per i corridoi, guadagnammo un netto vantaggio lungo le scale per via della camicia
da notte che non lo agevolava nella corsa, e ci infilammo di corsa in camera e a letto certi di
non essere stati individuati grazie all’oscurità. Ma don Manlio aveva un fiuto da segugio e
spalancò la porta della nostra camerata senza esitazioni, si fiondò sul primo letto, quello di
Franco Quintajè e gli afferrò le orecchie sotto le coperte, insensibile alle grida di dolore e
orrore del povero Franco che urlava. “Ahhhhhhh le recchieeeeeeeeeeee!!!!!”.
Poi, passato letto letto a darci di manico di scopa, se ne andò sbattendo la porta.
Seguirono cinque minuti di silenzio. Qualcuno accese la luce, uscimmo da sotto le coperte,
guardammo Franco e le sue orecchie quasi blu per il trattamento subito e scoppiammo a ridere
per un buon quarto d’ora. Ma nessuno propose una seconda spedizione a caccia di femmine.
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Capitolo XII
Mare
I miei avevano una casetta con giardino a Civitanova Marche e d’estate si andava a villeggiare
lì, appena finita la scuola, coi nonni. Della mia fanciullezza ho ricordi stupendi di quella casa
e delle vacanze al mare coi nonni. Nonno Peppe specialmente era il nonno per eccellenza:
complice, sempre presente, protettivo, disposto a tutto per farmi contento. Come potevo non
adorarlo? Nell’estate del 1981, però, cominciai a diventare insofferente. Mi annoiavo, mi
mancavano gli amici di Montegranaro, mi serviva un po’ più di libertà.
Quell’anno avevano preso l’ombrellone per la stagione da Gianfranco, bagnino storico
del lungomare sud di Civitanova, due fratelli che avevo conosciuto facendo il chierichetto:
Giovanni e Piero Leonardi. Venivano giù da Montegranaro tutti i giorni con la Lancia Fulvia
marrone del padre, Armando il mediatore. Con loro portavano un altro ragazzo che poi
rincontrai al catechismo della Cresima: Andrea Gasparroni. Andrea viveva in un vecchio
palazzo nobiliare in via Castelfidardo, proprio accanto a casa di Giovanni e Piero, e tutte le
mattine si trovava puntuale per partire. Giovanni era più grande di me di tre anni. Piero e
Andrea erano miei coetanei.
Coi nonni andavamo al mare da Mariano, che ora si chiama Mirò, lo stabilimento
balneare accanto a Gianfranco. Fu quindi facile incontrarsi sul bagnasciuga e approfondire la
conoscenza. Due giorni ed era come se fossimo amici da sempre. Erano gli anni dei primi
bollori sessuali. Facile intuire che l’argomento di conversazione più ovvio e frequente erano
le ragazze. E al mare ce n’erano. E, incredibile, erano veramente poco vestite.
Un giorno ci giunse notizia, non ricordo da chi, che era stato avvistato un topless
(naturalmente si intendeva razza in topless) dalle parti dello stabilimento “Contessa”, al di là
del porto, uno dei primi del lungomare nord. Decidemmo di andare. Facemmo tutto il tragitto
fino al molo sul bagnasciuga. Genialmente non portammo con noi ciabatte o altre calzature e
arrivammo ad attraversare il molo e i cantieri navali scalzi. Immaginate che piacere l’asfalto
rovente a piedi nudi. Agognavamo di nuovo la spiaggia ma sembrava non arrivare mai. Ma
arrivò, e con essa la cocente, nel vero senso del termine, delusione: nessun topless: ci avevano
preso per il naso. Tornare indietro fu un’impresa titanica. Avemmo le vesciche ai piedi per
giorni.
Le mattinate trascorse con i miei nuovi amici erano meravigliose ma, di conseguenza,
i pomeriggi da solo diventavano quasi insopportabilmente noiosi. Mi dispiacque molto per i
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miei nonni, specie per nonno Peppe che ne fu estremamente amareggiato anche se capì, ma
chiesi ai miei di poter stare con loro a Montegranaro. Acconsentirono.
Così iniziai ad alzarmi presto al mattino per andare al mare a venti metri
dall’ombrellone dei nonni con i miei amici, per poi tornare a casa all’una con un caldo
infernale nella Fulvia di Armando. Tutto questo per poi poter uscire con loro anche di
pomeriggio. Follie di adolescenti, ma comprensibili.
Quell’anno conobbi una ragazza, Antonella. Veniva da Fermo ma aveva parenti a
Civitanova. Il modo in cui la conobbi potrebbe essere utilizzato da Woodie Allen in un film:
facevamo a gara di tuffi con la rincorsa. Eravamo molto giudiziosi: facevamo quel gioco solo
se c’era spazio a sufficienza in acqua e sul bagnasciuga. E quel giorno sembrava che il tratto
di spiaggia che intendevamo usare fosse deserto. Sembrava…
Mi tuffai con una lunga rincorsa, feci una bella parabola aerea, mi inserii in acqua
perfettamente di testa e…cozzai. Ma cozzai molto. Una botta paurosa. Mi sembra ancora di
sentire il botto. Avevo preso in pieno un’altra testa. Quella, appunto, di Antonella. Non so
come mi ritrovai steso sulla battigia semisvenuto e, quando mi ripresi un po’ al mio fianco
c’era questa ragazza che si teneva una mano sulla fronte e si lamentava. Le chiesi scusa, lei mi
disse stronzo, e da lì diventammo amici. Forse un po’ di più che amici, ma forse era solo la
mia immaginazione. Io la consideravo la mia ragazza, ma lei non lo sapeva. Fatto sta che il
resto dell’estate lo passai quasi tutto con lei, con buona pace dei miei nuovi amici. E,
naturalmente, alla fine delle vacanze, fine anche dei giochi. Non l’ho più rivista.
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Capitolo XIII
La Cricca
Non so dire se Uliano sia stato il mio migliore amico. “Migliore amico” è un concetto
astratto per me, utopico e, in quanto tale, credo di non averlo mai incontrato nella mia vita. Il
concetto stesso di amicizia è molto vago e difficile da definire. Spesso definiamo amici le
persone con cui condividiamo sentimenti ed emozioni, parti di vita. Uliano è la persona,
eccetto mia moglie, con cui ho condiviso più parti di vita e con grande intensità. Questo
probabilmente fa di lui un amico. Uno molto importante per me, anche se poi la vita, come
spessissimo accade, ti allontana.
Uliano è stato per me la sponda perfetta, e credo di essere stato lo stesso per lui.
Quando avevo un’idea la dicevo a lui e Uliano ribatteva: “facciamolo”. Quando lui aveva
un’idea me la diceva e io ribattevo: “facciamolo”. Questo non significava un rapporto
incondizionato, anzi. Sono sempre stato molto critico con lui e lui con me. Siamo
estremamente diversi, lo siamo sempre stati, basti pensare che, politicamente, siamo
esattamente ai due opposti. Ma la creatività e la voglia di fare, unita alla condivisione di molti
interessi, ha fatto di noi due persone che per un lungo tratto di quel percorso che è la vita, il
tratto chiamato adolescenza, si sono completate e costruite a vicenda.
Uliano lo conobbi al catechismo per la prima comunione, nonostante sia più grande di
me di un anno: all’epoca non erano così rigidi come ora. Diciamo che capimmo fin da subito
o quasi che i nostri caratteri si incontravano. Diventammo amici fin da allora, anche se a
quell’età se non si va a scuola insieme o non si è vicini di casa è piuttosto difficile coltivare
un’amicizia. Non ci frequentavamo moltissimo ma quando c’era l’occasione ci piaceva la
reciproca compagnia. Lo incontravo spesso alla messa del sabato sera, e spesso la servivamo
insieme. Ricordo che entrambi ricevemmo una specie di encomio per i chierichetti voluto dal
compianto don Peppe “Liquirizia”, che all’istituzione del chierichetto credeva moltissimo.
L’occasione di consolidare l’amicizia venne anni dopo, quando, io in terza media e lui
in primo superiore, venne a frequentare il liceo linguistico dai salesiani. Fu una bella sorpresa
ritrovarmelo in corriera quella mattina del 1981. Credo la sera stessa venne a casa mia e
cominciammo a suonare insieme. A onor del vero io suonavo e lui imparava. Ma ci mise
molto poco a superare il maestro e questo la dice tutta sulle capacità del maestro non come
insegnate ma come musicista, ferma restando la sua di capacità.
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Ne ho già parlato qualche capitolo fa: in breve a casa mia si costituì un gruppetto di
aspiranti musicisti, gruppetto che col tempo variò fino alla formazione finale dei Blizzard,
primo gruppo rock della storia di Montegranaro. Ma allora si suonava Bennato e Bob Dylan,
perché erano facili. La prima canzone che Uliano imparò fu “Facciamo un compromesso” di
Bennato. Si suonava cercando di seguire il disco, e quando il disco non c’era, telefonavamo a
Radio Domani di Porchia o a Radio Veregra per chiedere la canzone che ci interessava, per
poi registrarla e fare una specie di karaoke con la chitarra.
Si creò un bel gruppetto in corriera: c’erano i nuovi del primo come Uliano, tra cui
anche Alessandro Marini, Paolo Cotichini, Paolo Gismondi e qualcuno dei più grandi che ci
prese a ben volere come Andrea Brizzola e Loredano “Purgì” Zengarini. Ci sedevamo sui
posti dietro con i più grandi e per me era un bel passo avanti dai tempi dei primi giorni di
prima media quando si stava in piedi su un piede solo.
Altro passo avanti fu quello di uscire con maggiore libertà. Addirittura i miei
acconsentirono a lasciarmi uscire il venerdì sera, quando al cinema La Perla davano un ciclo
di film dell’orrore di cui eravamo ghiottissimi. La cricca dell’orrore era composta da me,
Uliano, Alessandro Marini e Paolo Cotichini.
Quando andammo a vedere L’esorcista non sapevamo che Paolo era sensibile (per
usare un eufemismo) alla vista del sangue. Rimase impassibile per tutto il film, anche nelle
scene più dure, finche non portarono la ragazzina a fare le analisi. Paolo intuì
immediatamente dove la scena rischiava di andare a parare e si alzò con noncuranza per
simulare una necessità fisiologica e andare in bagno, ma a metà percorso accadde sullo
schermo l’irreparabile: dall’ago usato per le analisi della protagonista partì un fiotto di
sangue. Paolo non aveva ancora raggiunto il bagno, era ancora a metà dell’ultima fila, e
probabilmente non era riuscito a distogliere gli occhi dallo schermo. Sentimmo un gran
rumore, di qualcosa che fragorosamente cadeva in terra. Ci voltammo tutti e vedemmo
spuntare dalla spalliera di una sedia dell’ultima fila prima una mano, poi un’altra, poi la faccia
di Paolo con gli occhiali messi di traverso, e udimmo il nostro amico dire, col suo accento per
noi strano (parlava un italiano perfetto): “niente niente non è successo niente”.
Durante “Le notti di Salem” avevo Paolo a sinistra, Uliano a destra e Alessandro
Marini alla destra di Uliano. C’è una scena in cui David Soul dà la caccia al vampiro per tutta
casa e il vampiro è nascosto ovviamente dietro la porta. Allungai un braccio dietro le spalle di
Uliano e mi appostai con la mano pronta a ghermire la spalla di Alessandro. Quando il
vampiro sortì all’improvviso detti una stretta alla spalla e Allessandro saltò letteralmente in
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aria, tanto alto che il sedile fece in tempo a richiudersi e lui ricadde per terra incastrandosi tra
le poltroncine. Non so se, ancora oggi, mi abbia perdonato per questo.
Ci vedemmo tutti i film di Dario Argento, da Suspiria a Inferno, da Quattro mosche di
velluto grigio a Profondo Rosso; Amityville Horror, Shining, Zombie, Non entrate in quella
casa, Non aprite quella porta e tutta le serie degli avvisi disattesi. All’uscita dal cinema, verso
la mezzanotte, accompagnavamo Paolo a casa, tanto abitava a venti metri dal cinema, poi
Alessandro fino a porta Marina (sarebbe arrivato in via Veregrense a piedi da solo con una
fifa blu addosso. Io e Uliano eravamo di solito gli ultimi a salutarsi, già proiettati al domani, il
sabato, giorno di prove.
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Capitolo XIV
Metallo pesante
Quando iniziai ad andare a scuola a Macerata mia mamma mi vestiva come un perfetto
scolaretto: pantaloni di flanella dritti a zampa di elefante color cachi, maglioncini a V e
maglia a dolcevita, mocassini. Per me era piuttosto normale ma quando il mio nuovo
compagno di scuola e amico Marco Pizzuti iniziò a prendermi in giro per il mio
abbigliamento cominciai a riflettere sul mio modo di vestire.
Marco portava esclusivamente jeans Levi’s e me lo faceva notare. I Levi’s di allora
erano diversi dai jeans comuni: ben stretti, taglio particolare, un tessuto che più scoloriva più
diventava “togo”. Vestito com’ero iniziai a invidiarlo e mi rodeva anche essere preso per i
fondelli in continuazione. Dovetti subire per un po’ finchè un giorno, con un’impennata
d’orgoglio che mi meravigliò, mi imposi a mia madre dicendo: “O mi compri i jeans o non
vado più a scuola!”. Scandalo. I jeans erano da hippy, da sbandati, si parte dai jeans e si
finisce a drogarsi sul marciapiede. Però la mia buona mamma decise di mettermi alla prova:
mi portò da Otello, unico spacciatore di abbigliamento giovane a Montegranaro e mi comprò
il mio primo paio di jeans. Non Levi’s, perché non volevo imitare Marco, anzi, volevo fargli
vedere che potevo essere togo come e più di lui senza Levi’s. Comprai Wrangler, grande
novità per l’epoca, un pantalone fasciatissimo, attillatissimo da cima a fondo, con un tessuto
che, scolorendo, diventava tutto rigato. Marco Pizzuti smise di prendermi in giro.
Mamma dopo un po’ capì che, nonostante i jeans, ero ancora il bravo ragazzo di
prima: andavo bene a scuola, non dicevo parolacce (almeno non in sua presenza), e si
supponeva che non facessi uso di sostanze stupefacenti. Per cui, un giorno, tornato da scuola,
trovai un suo regalino preso al mercato: una cinta di cuoio nero con la fibbia di bronzo che
rappresentava un’aquila. “Ti piace?” chiese. “Cazzo se mi piace” risposi. Credo fosse la prima
volta che dissi cazzo in casa. Mamma non lo sentì, o finse di non sentirlo.
Quando andai a scuola Gabriele Eleuteri, che vedeva con un leggero sospetto la mia
modernizzazione nell’abbigliamento, mi disse che stavo facendo una punkata dietro l’altra.
Marco Pizzuti non parlava più. Durante l’interrogazione di inglese la prof notò la strana fibbia
che indossavo e mi chiese indicando i pantaloni: “Craia, cos’hai lì?”. Senza malizia risposi:
“Un uccello.”. E lei: “Curioso, posso toccarlo?” e toccò. La fibbia, sia chiaro. Ma la classe
esplose. Eravamo in terza media e gli ormoni giravano impazziti. Sembra che la storia ancora
giri per i corridoi dei salesiani. Ma fu tutto senza malizia, ed io, ingenuo, capii l’eventuale e
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certamente inconsapevole doppio senso solo quando tornai al posto, tra i miei compagni che
mi davano di gomito.
Quello era l’anno in cui Uliano venne a scuola a Macerata. Vestiva più o meno come
me due anni prima, col capello corto e la faccia da bravo figliolo. Io avevo la mia aquila, i
miei Wrangler autoadesivi e il capello piuttosto lungo per lo standard. Uliano ascoltava
Genesis e Rolling Stones, io ero pazzo per i Beatles (allora sapevo tutto o quasi su di loro),
Dire Straits e Police. Così iniziò la gara a chi trovava il disco più togo. Mi prestò Abacab. Gli
prestai Making Movies. Mi prestò Tatoo You. Gli prestai Zeniatta Mondatta. Dei Beatles non
ne volle sapere. Allora pensai: “Lo frego io” e comprai il mio primo disco degli AC/DC, For
Those About to Rock e glie lo prestai. “Togo!” disse.
Dopo qualche giorno venne a scuola con un disco tutto colorato, con disegnata in
copertina una specie di zombie davanti a un condominio di notte. Era il mitico Killer di Iron
Maiden. Naturalmente me lo prestò e fu l’illuminazione. “Qui dobbiamo fare qualcosa!” e lo
facemmo.
Già da un po’, come ho già raccontato, ci trovavamo a suonare a casa mia. Ma
decidemmo che la nostra nuova direzione sarebbe stata l’Heavy Metal. Una sera di tardo
autunno decidemmo di fare un gruppo e lo chiamammo Hammersmith come il quartiere di
Londra. Comprai la mia prima chitarra elettrica, praticamente una specie di mandolino con la
leva del vibrato. Un cesso. Ci mettemmo a buttar giù canzoni pseudo hard rock. La prima la
chiamammo come noi com’è logico che fosse. Poi ne facemmo un altro. Con l’inglese non
avevamo un buon rapporto per cui proponemmo a Tiburzi, un compagno di scuola secchione
di Uliano, fanatico di Led Zeppelin e Deep Purple, di scriverci i testi. Così avemmo in breve
due pezzi: Hammersmith e Kill The Night. Grazie a Dio non ricordo né musica né parole.
Avemmo la faccia tosta di registrarle su una cassetta TDK C10. Sui due lati, come
fosse un quarantacinque giri. E ci avanzò anche dello spazio. Avevamo deciso che la nostra
missione fosse quella di combattere il dilagare della disco music. Tra la nostra ampia
strumentazione c’era una tastierina Casio giunta per regalo a mio fratello per la Prima
Comunione che, oltre ad essere una calcolatrice portatile decisamente ingombrante, suonava
anche. La Casio aveva la batteria elettronica incorporata e uno dei suoi ritmi era identico a
quello usato da Trio nella sua orribile DADADA, così ne facemmo una parodia dialettale e la
registrammo nel nostro “demo tape”.
Io cantavo e suonavo la mia chitarra-mandolino elettrica che faceva sdlen sdlen,
attaccata all’amplificatore dell’organo di mio padre, Uliano usava la mia vecchia chitarra
classica, che era rimasta con cinque corde, come fosse un basso e faceva i cori. La batteria era
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quella elettronica dell’organo. Disegnammo la copertina della cassetta in bianco e nero,
dentro scrivemmo i titoli delle canzoni e i nomi dei membri della band: il mio, il suo e quello
di un fantomatico John qualcosa che avrebbe dovuto essere il batterista virtuale. La vergogna
non era di casa tra noi e, entusiasti, il giorno dopo, armati di registratore portatile, ci
portammo la cassetta in corriera per farla sentire agli amici. Tra il malcelato disgusto generale
si levò una voce che, con accento vagamente romagnolo, disse: “Ma è fortissimo!” Era Mauro
Cappelletti. “Posso suonare con voi?”. “Ma tu non sai suonare niente”, perché noi, invece,
eravamo musicisti provetti. “Imparerò”. E lo fece. Gli facemmo comprare la batteria, quella
vera, anche perché era l’unico del nostro giro che potesse permettersela. Stavano nascendo i
Blizzard.
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Capitolo XV
50 Special
Per la mia promozione agli esami in terza media desideravo tantissimo la Vespa. Ma
sapevo altrettanto bene che non l’avrei mai avuta, vista l’iperprotettività dei miei. Provai a
chiederlo timidamente e mi bastò lo sguardo di mio padre per capire che era una battaglia che
non valeva la pena combattere.
Capitò però che, proprio nel periodo antecedente i miei esami, ci venisse a trovare un
cugino di mio padre, zio Bruno, col quale babbo aveva passato la giovinezza nel classico
periodo da scavezzacollo che precede l’età adulta. E si misero a raccontare episodi anche poco
edificanti dei loro giorni felici in cui, guarda caso, protagonisti erano i loro mezzi di
locomozione: la Lambretta per zio Bruno e la Vespa per mio padre. Lo zio raccontò di gite a
caccia di fanciulle, corse su strade sterrate, cadute, riparazioni, prove da meccanico e
quant’altro avesse come oggetto le loro motorizzazioni. Io ascoltai, mi divertii, ma non ebbi
cuore di usare l’argomento per portare l’acqua al mio mulino.
Passò il tempo e anche gli esami. Fui promosso col massimo dei voti. Nonno Peppe mi
regalò un televisore per la mia cameretta così che potessi vedermi i mondiali (era il 1982). Era
in bianco e nero ma aveva il telecomando. Babbo nemmeno mi disse bravo. Dopo pochi
giorni, invece, mi disse: “Vieni con me”. Chiesi dove e lui: “Andiamo da Mario”. “Mario
chi?” chiedi io con un brivido alla schiena sperando che si riferisse a Mario Nicoziani,
officina Piaggio e affini. Confermò. A momenti svenni.
Mario voleva appiopparmi il Ciao. A me il Ciao faceva vomitare, ma per la serie
piuttosto che niente è meglio piuttosto, o piuttosto che la bicicletta è meglio il Ciao, stavo
decidendo di accontentarmi. Al che babbo, probabilmente memore dei ricordi rinverditi dallo
zio Bruno, chiese: “Ma una Vespa quanto costa?”. Mi si piegarono le ginocchia. La mia 50
Special era bianca, con le fox nere, il bauletto nero, e il portapacchi posteriore con porta ruota.
Non avevo la minima idea di come si guidasse una Vespa, specialmente di come si
mettessero le marce. Babbo mi fece esercitare in garage, in quindici metri quadri: prima e
lascia la frizione finchè non impari a non farla spegnere o impennare. Non ci volle molto. Da
lì passammo all’esercizio su strada, ma davanti la palestra, ora pomposamente chiamata
Palazzetto dello Sport, dove non passavano macchine. Andai anche meglio avendo uno spazio
di manovra maggiore. Al che babbo mi disse: “Stacci con la testa, fatti un giro e poi portala a
casa”.
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Andai dietro le mura, sperando di incontrare qualche amico per fare un po’ lo
spaccone con la Vespa nuova. E trovai Pierluigi Di Domenico, anche lui con la Vespa nuova,
rossa la sua. Anche lui in fase di tirocinio. Dopo i reciproci complimenti per i mezzi nuovi
facemmo un giro insieme e ci fermammo dove adesso c’è la curva della circonvallazione,
sotto Collina Verde. La circonvallazione ancora non c’era o, meglio, la stavano facendo allora
ed era una spianata poco piana e piena di buche coperta parzialmente di ghiaia e terra, e non ci
passavano macchine. Ci mettemmo a far rombare i motori: sai che rombo? Due motori 50 cc
senza modifica e con la marmitta originale. Fatto sta che lui rombava lavorando di
acceleratore con la marcia in folle, io, genio, con la prima inserita. Capitò che mi scivolasse la
mano che teneva la frizione con la manopola dell’acceleratore a tutto. Chi ha avuto una 50
Special sa che l’acceleratore non ha la molla di ritorno. La Vespa mi disarcionò e se ne andò
per conto suo arrampicandosi sul greppo di via Zoli coricata su un fianco. Io le correvo dietro
e Pierluigi si sbellicava. Quando riuscii a fermarla vidi che lo sportelletto della presa d’aria
della ventola era tutto scorticato. Panico estremo nell’immaginarmi a dirlo a babbo. Così,
inconsapevole don Abbondio, accelerai il passo e andai incontro ai bravi. Andai a cercare mio
padre, lo trovai nel suo orto, e gli raccontai senza giri di parole quanto accaduto, aspettandomi
la peggiore delle punizioni. Babbo, invece, mi disse: “Sai quante volte andrà per terra quella
Vespa prima che impari? Stavolta c’è andata da sola e ti è andata bene”. Parole sante. Lo
sportelletto della ventola sparì.
Scoprii presto che la Vespa, col suo motoretto di serie, era un mezzo estremamente
inadeguato per Montegranaro e le sue salite da stambecchi. I soliti amici mi informarono che,
senza modifica, ero destinato a viaggiare metà del tempo a spinta. Lo dissi a mio padre che mi
rispose che, se non mi andava bene potevo andare a piedi. Un giorno però decise di farci un
giro, e quando tornò mi disse: “Mettiti da parte i soldi e, quando ce li hai tutti, facci mettere la
modifica minima per camminare. Ci misi tutto l’inverno ma racimolai la cifra giusta per la
primavera dopo. Misi una 90, marmitta Proma e lasciai il carburatore 14/12 di serie. Non era
velocissima ma in salita era imbattibile.
Era una Vespa modesta per l’epoca. Ricordo miei più o meno coetanei che andavano
in giro con Vespe che parevano più aerei: impianto stereo, cupolino parabrezza da corsa,
modanature e, soprattutto, modifiche da Gran Premio. Ogni tanto qualcuno assaggiava
l’asfalto, anche in malo modo. Io mi accontentavo della mia Vespetta bianca che mi portava al
mare a Civitanova o a trovare quella che poi sarebbe diventata mia moglie a Potenza Picena.
Allora si poteva fare, le strade erano molto meno frequentate di adesso. Lo facessero i miei
figli ora morirei di paura.
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Montegranaro pullulava di Vespe ma c’erano anche altri mezzi a due ruote: il Gringo,
classico tubone nero con le scritte oro, ce l’aveva Paolo Gismondi. Uliano aveva un Mini Chic
celeste metallizzato. Giovanni aveva un Benelli tre marce di prima della guerra. C’era
Adriano Lelli con la 125 Primavera del fratello, Eros Luberti con la sua splendida PX 125
bianca. Poi c’erano i Ciao, i Bravo, i Garelli, i Peugeot. Ma la regina era la Vespa, 50 per i più
e 125 o 150 per i più grandi che potevano, Mito dei miti era la 125 ET3.
Un giorno eravamo al mare da Gianfranco, io e Giovanni. Ci vennero a trovare
Adriano e Eros, che dietro portava Roberto, un altro amico. Passammo la mattinata in
spiaggia e al ritorno io e Giovanni tornammo in macchina con Armando, il padre di Giovanni.
Gli altri, naturalmente, coi loro mezzi. In mezzo alla curva detta “de lo zoppetto”, che sta a
metà strada tra Casette D’Ete e Montegranaro, la Vespa di Eros scivolò, e lui e Roberto
volarono per qualche decina di metri. Non si fecero nulla di serio ma Eros finì all’ospedale
perché, essendo senza maglietta, aveva lasciato quasi tutta la pelle della schiena sull’asfalto.
Quando lo andai a trovare all’ospedale se ne stava a pancia in giù, dolorante, pieno di pomate
lenitive. Mi raccontò l’incidente, descrivendo la caduta più o meno così: “Non lo so come ho
fatto, so che a un certo punto volavo. Ho visto il cielo, le nuvole che giravano sopra di me. Ha
fatto un male cane, ma sapessi se ha gustato!”
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Capitolo XVI
Radio Veregra
La musica è sempre stata la mia passione. Ora, con l’età matura, forse un po’ meno.
Certo non è la mia ragione di vita ma è certamente un ausilio basilare per vivere meglio. Per
lavoro viaggio molto e in macchina la mia autoradio è sempre accesa. Uso la musica per
rilassarmi, per caricarmi o solo per divertirmi. Suono la mia chitarra per piacere e come anti
stress.
Da ragazzo, invece, la musica era una ragione di vita, specie durante l’adolescenza.
Sono cresciuto con l’orecchio attaccato alla radio. Mio nonno, da buon montegranarese doc,
faceva le scarpe, sotto casa, come si usava allora. Piccola bottega artigiana come tante nel
cuore del centro storico, dislocata sui due piani del seminterrato di quella che adesso è casa
mia. Lì c’erano entrambi i miei nonni, c’era Tonino Di Chiara che tagliava le tomaie, Ave che
puliva le scarpe, Dino de Cucchiero e Marì de Cucchiero.
E c’era una vecchia radio a valvole, di quelle di legno, grossa quasi come un
televisore, infilata dentro una nicchia scavata nel muro maestro. Lì sentivo i Beatles, John
Lennon, gli Stones, tutta la musica degli anni 60 e 70. E sentivo il mitico Lelio Luttazzi e la
sua Hit Parade (ricordate la sigla? Lelio Luttazzi presenta: HIIIIIT PARADEEEEEEE, e
partiva il carosello da circo).
La radio mi è entrata nel sangue fin da piccolo, come veicolo per ascoltare musica ma
anche come mezzo di comunicazione, per me forse più importante della televisione anche
perché, all’epoca, lo era realmente.
Una sera del 1982 ero seduto su una panchina dietro le mura con Uliano e Giovanni.
Vidi passare Mauro Raparo che, all’epoca, era una specie di art director della radio cittadina,
Radio Veregra 1. Mi venne un flash e senza nemmeno pensarci dissi agli altri due: ma perché
non facciamo un programma di musica heavy metal alla radio? Giovanni disse che ero matto.
Uliano naturalmente si alzò in piedi e disse: “Andiamo a chiedergli se ce lo fa fare”.
Andammo da Mauro e lui ci disse che si poteva fare, ma prima dovevamo fare la gavetta. Ci
doveva provare, e se avesse ritenuto che fossimo stati idonei, ci avrebbe fatto fare qualche
mese di allenamento perché “non si può mica andare in onda così, senza esperienza”. E certo,
Radio Rai in confronto era piena di dilettanti.
La sera dopo entrammo a Radio Veregra da via Enzo Bassi (sotto piazza). La radio era
collocata nel seminterrato dello stabile, parte del municipio, che ospitava in piazza la sede
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della Democrazia Cristiana, ma si entrava dalla via di sotto. C’era un corridoio stretto sul
quale si aprivano due porte a sinistra e una di fronte. La prima porta dava in una stanzetta,
l’unica dotata di finestra, che fungeva da salottino (ino ino, con una sola poltrona) e da
ufficetto con una scrivania di metallo. Ricordo che quella sera alla scrivania era seduto Olivo
“Patacchì” Granatelli che imprecava al telefono non so con chi. La porta di fronte dava allo
studio di trasmissione e Mauro mise subito in chiaro che, prima di entrare lì dentro, “troppe
pagnotte dovevamo magnà”.
Ci fece invece entrare nella seconda porta a sinistra, che si apriva in una stanza senza
finestre piena di strumenti come piatti, piastre, amplificatori, revox, finali di potenza, casse,
un sacco di fili che pendevano da ogni dove. Quello era lo studio 2, usato per registrare le
pubblicità e alcuni programmi che non potevano andare in diretta e come magazzino. Mauro
ci spiegò brevemente come funzionava la strumentazione e il mixer, e io mi misi subito in
console dimostrando una certa propensione per l’uso del mixer e dei piatti. Uliano non
manifestò mai interesse per la regia per cui sembrò naturale che quella toccasse a me.
Giovanni se ne stava lì zitto, poco interessato e un po’ intimorito dai microfoni. Disse subito
che lui non avrebbe parlato. Lo promuovemmo ad assistente di studio. Passò il primo anno a
Radio Veregra a passarci i dischi da mettere dopo averli opportunamente puliti con lo straccio
antistatico. L’anno dopo si prese una trasmissione tutta sua.
Iniziammo a provare e dimostrammo subito che la qualità non era poi male. Mauro
decise di farci saltare a piè pari la gavetta e ci mandò in onda il martedì successivo. Senza
aver “magnato” alcuna pagnotta.
Avevamo qualche giorno per prepararci, trovare un nome al programma, registrare la
sigla. Decidemmo di chiamarlo “For those about to rock”, come il disco degli AC/DC, un
titolo che ci voleva metà del tempo della trasmissione solo per dirlo. La sigla era naturalmente
il brano omonimo. Preparammo la scaletta, densa di Iron Maiden, Saxon, Raven, Black
Sabbath , Deep Purple e Led Zeppelin. Spargemmo la voce tra i vari amici e conoscenti e
avemmo la quasi certezza che almeno una ventina di persone ci avrebbe ascoltato.
Così il martedì successivo, era settembre, si aprirono per noi le porte dello studio 1,
quello della diretta. Era una stanzetta di tre metri per tre. La porta a due ante si apriva
nell’angolo destro e ti trovavi di fronte un piccolo tavolo con appoggiati sopra due microfoni
con la loro piantana. A sinistra si ergeva uno scaffale di metallo che separava la regia dal resto
della stanza. Era come un muro di strumenti costituito dal revox, un vecchio Philips con la
carcassa in finto legno che fu presto sostituito da un più moderno Akai cromato, la pila delle
due piastre per cassette, e i due piatti Lenco, uno a destra e uno a sinistra. In mezzo a tutto
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questo, che formava una specie di ferro di cavallo, il re dello studio, il mixer. Le pareti a
destra e di fronte alla porta erano occupate dagli scaffali dei dischi, disposti in ordine
alfabetico e divisi tra italiani e stranieri. Alla destra del regista un piccolo banco con sopra i
due telefoni per la diretta, l’88329 di colore verde e l’88507 azzurro. In mezzo il “traslatore”,
invenzione di Mauro Raparo: una scatola di scarpe ripiena di gomma-piuma con due fori sui
quali appoggiare la cornetta del telefono. Ai fori corrispondeva un microfono per la parte
della cornetta che va all’orecchio e un altoparlante preso da una cuffia per quella che va alla
bocca. Il tutto collegato al mixer serviva per mandare in onda le telefonate.
Mauro era decisamente un genio: gli impianti della radio erano opera sua e anche gran
parte delle soluzioni “tecnologiche”. I budget erano meno che bassi e ci si arrangiava, ed era
un bell’arrangiarsi dato che normalmente tutto funzionava bene. L’unico problema era che se
malauguratamente qualcosa si fosse guastato l’unico in grado di ripararlo era appunto Mauro
perché un altro non ci avrebbe capito nulla.
Mi sedetti alla regia, Uliano alla mia sinistra e alla sua sinistra Giovanni con la pila dei
33 giri portati da casa. La cassettina BASF C 12 contenente la sigla era pronta in piastra 1 e
partì puntualmente alle 19,00 di quel martedì di settembre del 1982. Mauro Cappelletti ci
telefonò dopo cinque minuti per farci i complimenti, dimostrando che non era affatto di parte.
Sapevamo però che c’era un folto pubblico ad ascoltarci: i nostri compagni di scuola. Carlo
Prosperi mi prese in giro per una settimana dopo la prima puntata di For Those About to
Rock, ma rimase un fedele ascoltatore fino alla fine.
Mentre Uliano era un metallaro puro a me piacevano anche molti altri generi e chiesi
ed ottenni un’altra ora di trasmissione, il venerdì sempre alle sette di sera. Chiamai il
programma The Road come la canzone di Danny O' Keefe cantata da Jackson Browne, titolo
che diventò in breve Hot Dog perché suonava meglio. Ogni venerdì lanciavo il “disco Hot
Dog”, una nuova proposta che poi veniva ripetuta in altri programmi per una settimana.
Quando ridipingemmo le pareti della radio di celeste e rosa ci venne in mente di
chiamare tutta la programmazione giovanile “Rosa Station”. Rosa Station comprendeva tutti i
programmi pomeridiani ed era una specie di contenitore. A trasmettere eravamo in tanti: c’era
Cesare Grasselli, Massimo “Casepe”, Massimo “Zago”, Gino “Il Cioppino”, Mario Mobbili,
Romano Mazzante, Franco Viozzi, Marcello Marzetti che metteva cinque dischi su dieci dei
Pooh, Olivo Patacchì, Ettore “Lo Tipografo”che metteva il liscio, Valentino Polimanti, Nicola
Vacca che faceva anche i notiziari.
Ognuno di noi aveva i suoi stacchetti e le sue sigle registrate su musicassetta. Anche
Zago aveva le sue. Massimo non amava particolarmente essere chiamato Zago. A sua insaputa
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prendemmo una delle sue cassette con gli stacchi del suo programma e la sostituimmo con
una registrata da noi, realizzata rallentando la voce in modo di farla abbassare di tono e con
l’effetto eco finale. Lo stacchetto che registrammo diceva con voce baritonale (la mia):
“Deejay Zago-go-go-go-go”. Massimo, ignaro, lo mandò in onda. Uso un eufemismo e dico
che ne fu piuttosto contrariato. Non ha mai scoperto chi gli fece lo scherzo. Beh, ora l’ha
scoperto, per cui se lo incontrerò prossimamente cambierò strada.
Olivo faceva il programma di dediche in diretta all’una dopo pranzo. Capitò che
dimenticasse aperto il microfono mentre discuteva con non so chi e gli uscì di bocca un
bestemmione, che andò in diretta. Telefonò don Peppe Lo Pioà per protestare.
Gli anni della radio sono stati fantastici, spensierati, pieni di voglia di fare e di
divertimento. Ci impegnavamo un po’ tutto per mandare avanti la baracca, facevamo i turni
per mantenere le trasmissioni sempre attive. La domenica mandavamo a turno in onda la
partita di calcio e quella della Sutor. Asoltavamo i grandi network che iniziavano proprio
allora, come Rete 105 o Radio Deejay, per prendere spunto ed imparare dai grandi, come
Gianni Riso o Federico The Flying Dutchman. La radio era anche il luogo di ritrovo, per farsi
due chiacchiere con gli amici, fare notte fonda ascoltando musica, improvvisando una
trasmissione.
Oggi non si può fare più la radio alla garibaldina come a quei tempi. Sicuramente oggi
i ragazzi che fanno la radio per hobby come facevamo noi allora sono più bravi e preparati di
quanto non fossimo noi, ma dubito che si divertano come ci siamo divertiti noi.
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Capitolo XVII
Estate
Le estati a Montegranaro erano calde e appiccicose negli anni ’80. Viale Gramsci come lo
conosciamo oggi era stato appena realizzato ed era vivibile solo dopo le sei del pomeriggio.
Non c’erano alberi se non i vecchi tigli al centro della carreggiata, e se mettevi piede nei
giardini alle due del pomeriggio invidiavi i tuareg. Al mattino invece si poteva stare, magari
davanti a Tropical o a Stacchiola. Sempre che non si andasse al mare.
Ho già raccontato di quando andavo al mare con Giovanni Leonardi, Piero Leonardi,
Andrea Gasparroni in macchina con Armando Leonardi, padre di Giovanni e Piero, con la
mitica Fulvia marrone cui Armando spegneva il motore quando si andava in discesa. E
passava per Casette D’Ete anche dopo che fu realizzata la superstrada, perché “era più
fresco”. Ed era vero. Via Fratte era molto ombrosa, e lo stop all’incrocio con la statale, dove
adesso c’è lo svincolo dell’Auchan, era circondato da una volta vegetazione, tanto che,
quando andavo al mare in vespa mi fermavo lì qualche minuto prima di proseguire proprio per
rinfrescarmi. Ricordo l’estate dell’83, una delle più calde della storia: andavo in vespa in
canottiera e l’aria contro era calda come quella di un asciugacapelli. Una volta, tornando dal
mare, una vespa-insetto mi si infilò nella canotta mentre guidavo e mi ronzava sul petto
intrappolata dalla stoffa. La schiacciai ma prima di esalare l’ultimo respiro la bastarda mi
punse vicino ad un capezzolo. Rischiai di cadere, mi fermai sotto la quercia che stava in
prossimità dell’attuale incrocio della mezzina con la strada per Casette cercando di farmi
passare il dolore. Passò Roberto Raparo con la sua ET3 marrone e mi disse che mi era venuta
una tetta da sballo.
Ad un certo punto Armando si stufò di portarci al mare tutte le mattine, per cui
cominciammo a provvedere diversamente, o con mezzi propri o rimanendo in paese. Molte
mattinate le passavo alla radio, dove normalmente andava il revox con la musica registrata.
Toglievo il revox e improvvisavo una trasmissione. Immaginate come eravamo programmati.
Nello studio si stava ben freschi, era praticamente sotto terra, e al mattino mi piaceva prendere
un paio di giornali e imbastirci quattro chiacchiere al microfono mescolate con la musica del
momento.
Il pomeriggio lo trascorrevo al Campo dei Tigli. Il campo era più o meno come è
adesso, ma i giardini intorno erano completamente diversi. C’era due giardini di conifere
separati da una strada che saliva da via Umbria, recintati con una rete verde e lastricati con
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una ghiaia bianca fine fine. Il giardino di lato alla chiesa di San Serafino era quello delle
famiglie, con i giochi per i bambini, l’altro, di fronte al campo di pallacanestro era quello
delle coppiette e delle pomiciate. Il campo vero e proprio era sempre pieno di ragazzi che
giocavano a pallacanestro o che ammazzavano il tempo seduti sulle gradinate al fresco,
fumando di nascosto e chiacchierando. Lo spiazzo sopra il campo era adibito a parcheggio per
vespe e motorini in modo che, arrivando, già sapevi chi avresti trovato al campo dando uno
sguardo ai mezzi parcheggiati. Si stava lì fino alle sei e poi si andava in massa dietro le mura.
Il Campo dei Tigli era territorio quasi riservato ai maschi, per trovare qualche ragazza toccava
andare in via Gramsci. Immaginate che spettacolo potevamo essere, dopo un pomeriggio
passato a giocare a pallacanestro e senza nemmeno lavarsi la faccia.
All’epoca io vestivo alla metallara, jeans aderentissimi, American Eagle verde rana,
cinta borchiata portata a spiovere di lato e cinta di cuoio nero con, per fibbia, la famosa aquila
di bronzo, maglietta rigorosamente senza maniche o camicia alla coreana aperta sul petto,
capelli piuttosto lunghi. Eravamo io, Uliano, Mauro Cappelletti e Giovanni, un giorno,
passando sotto il giardinetto dei pomicioni. Da sopra sentimmo un ragazzo gridare:
“Metallari! Metallari di merdaaaaa!!!”. Erano un gruppo di ragazzi misto tra pseudo punk e
amanti del reggae, tutti amanti dell’erba. Da sempre prendo fuoco facilmente, forse ora un po’
meno con l’età. Vidi rosso e entrai nella recinzione del giardino seguito dai miei compagni
che cercavano di fermarmi: gli altri erano decisamente di più e la mia compagnia non era
certo la più adatta a menar le mani. Iniziò una lite verbale, e verbale rimase, per fortuna.
Intervenne Gasparò, che era amico di entrambi i contendenti, e mise pace, momentanea. Ma il
mio antagonista diretto, di cui ometto il nome sia perché non è il caso sia perché proprio non
me lo ricordo, me le promise: “tanto ti ribecco”. Mi ribeccò qualche sera dopo alla sala giochi
di Tarcì, proprio dove ora c’è la gelateria. Io giocavo a flipper e con me c’era Giovanni.
Questo mi si avvicina e mi dice che voleva sistemare i conti. Io mi giro, vedo che con lui
c’erano almeno altri dieci ragazzi e gli rispondo che se mi vuole pestare che faccia pure, ma
che uno che si presenta a regolare i conti con la scorta è un vigliacco. Lui mi invita ad andare
fuori, che ce la vediamo solo io e lui. Io gli rispondo che se poi le prende chi mi garantisce
che i suoi mi lasceranno stare? E questo: “allora sai come facciamo? Portati la tua banda la
settimana prossima al campo dei tigli e chi si fa male va all’ospedale.”. “Ok”.
La mia banda? E chi ce l’aveva una banda? Il giorno dopo lo dissi a Uliano che,
coraggiosamente propose di non uscire più di casa per tutta l’estate. Poi gli venne l’idea:
chiamiamo Paolo Silla. Paolo era un suo compagno di scuola di Civitanova. Era piccoletto ma
menava da far paura. E aveva una “cricca” di picchiatori duri. Telefonammo a Paolo che non
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se lo fece dire due volte. Sarebbe venuto all’appuntamento col “nemico” ben attrezzato e
pronto a dar battaglia. Eravamo a posto, quindi. Solo che la cosa era sbagliata, e lo sapevamo
tutti. Era uscita dai binari. Andava rimessa a posto. Incontrai Gasparò al Campo dei Tigli e gli
raccontai tutto. Mi disse di non preoccuparmi, che avrebbe sistemato tutto. Un’ora dopo il
“capo” dell’altra banda era seduto con me sulle gradinate. Ci guardammo in cagnesco
all’inizio, ma Andrea continuava a fare da mediatore e fece un buon lavoro. Non che
diventammo amici ma ci evitammo per tutto il resto della nostra giovinezza. Forse avevamo
visto “I guerrieri della notte” troppo presto.
Dietro le mura alle sei del pomeriggio c’era tutta la gioventù montegranarese, dai
quattordici ai venti anni. C’era la gara ad accaparrarsi le panchine e quando le comitive erano
numerose ci si sedeva qualcuno sulla spalliera e qualcuno sul sedile, in modo da starci almeno
in sei. Ogni panchina una comitiva, ma ci si conosceva tutti. Arrivava quello figo che
raccontava le sue ultime avventure amorose, o quello simpatico che attaccava a barzellette. Si
parlava di ragazze, di musica, di sport. Ogni tanto passava qualche ragazza un po’ più grande
in minigonna e improvvisamente calava il silenzio. Ogni tanto passava qualche vigile a farci
scendere dalle spalliere delle panchine o a fare la predica a qualcuno visto ad andare in due
con la Vespa o a passare col rosso al semaforo. Alle otto viale Gramsci tornava deserto come
alle due del pomeriggio, per poi tornare a riempirsi dopo cena, con l’isola pedonale e quasi
tutto il paese a spasso dietro le mura. Ora ci sono macchine parcheggiate dappertutto e poca
gente, allora c’era un sacco di gente, poche macchine e qualche motorino. Ma dietro le mura
era una festa tutte le sere d’estate.
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Capitolo XVIII
Amori
I bambini si innamorano sempre della maestra. Ma è un amore filiale, che nulla ha a che
vedere con quello adulto o adolescenziale. I bambini poi si innamorano delle compagne di
scuola, della più carina, la più simpatica, a volte anche della più antipatica. Nei miei ricordi di
bambino, alle elementari, credo di non avere tracce di questi amori, tranne quello ovvio per la
maestra. Ovvero, ne ho traccia, il mio cuoricino da bimbetto ha certamente battuto per
qualcuno, ma crescendo questi sentimenti acerbi si sono riassorbiti, sono spariti,
probabilmente sostituiti dai brufoli dell’adolescenza.
Alle medie, l’età in cui i sentimenti per l’altro sesso iniziano a prendere corpo e
sembianza di maturità perché accompagnati dal desiderio sessuale che prima non c’era, ero
recluso dai Salesiani, tutti maschi, e l’unica cosa che mi ha salvato, come diceva il maestro
Fornaciari, è stata “una sana e consapevole libidine” rivolta alle poche insegnanti femmine
che avevo. Impossibilitato a scuola, ambiente naturale per queste cose, ad esercitare ed
affinare l’arte, sublime per un adolescente, di coltivare i rapporti col genere femminile,
dovetti recuperare in seguito, prendendo ripetizioni da chi aveva avuto più esperienza di me.
In quegli anni si usava la fantasia, e l’edicola. Si faceva la conta per chi doveva
entrare dal giornalaio a comprare i fumetti erotici tipo “Il Tromba”, “Nando” o qualcuno
della serie “Oltretomba”. Quelli con le fotografie richiedevano ancora più coraggio. Colui cui
la sorte era stata avversa entrava nell’edicola che a Macerata all’epoca era proprio di fronte
alla fermata delle corriere della Caserma Filippo Corridoni, all’angolo tra Piaggia della Torre
e via Trieste, e con la faccia paonazza alterava la voce per sembrare più grande e arraffava il
giornalino, che poi ci passavamo a turno. Prime esperienze sessuali. Chi non l’ha mai fatto
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alzi la mano. L’estate della terza media ebbi la mia prima “cotta” propriamente detta, al mare,
ne ho parlato pagine fa, ma non era amore, assolutamente.
Al liceo finalmente le ragazze in classe. Parlarci le prime volte era un’impresa. Il mio
caro amico Nicola Stellini, molto più sfacciato di me nonostante gli anni dai preti, mi fece da
precettore, il che spiega molte cose circa i miei scarsi successi. Ed è in quegli anni che ricordo
il mio vero primo amore. Si chiamava Silvia e faceva il secondo mentre io il primo, ma aveva
la mia età perché aveva fatto la primina. La conobbi un pomeriggio che c’erano i colloqui tra
scuola e genitori. Mamma era in fila davanti a qualche aula e io con Daniele Cappa, Nicola
Stellì e un altro che non ricordo giocavamo a biliardino nel grande corridoio d’entrata dei
Salesiani. Il biliardino a fianco era occupato da quattro ragazze del linguistico, tutte molto
carine, spiritose e, certamente, più brillanti di noi. Il caso, o la loro sfacciataggine, fece volare
una pallina del loro biliardino nel nostro. Fatto, si attaccò discorso. Silvia era carina da matti,
capelli lunghi castano scuro, le gote leggermente rosate, e due occhietti dolci e vispi allo
stesso tempo. Credo fu lei a farsi avanti, forse solo per simpatia, ma io interpretai la cosa
come un interesse più profondo. Non ero abituato con le ragazze, e una che ti parla, in quei
casi, la interpreti come una che ti fa il filo. Da lì nacque un’amicizia affettuosa che non
diventò mai niente di più. Credo che alla fine ci fosse davvero un sentimento reciproco, ma
litigammo prima di approfondire. Ad una festa danzante a casa di un comune amico lei mi
vide ballare con una compagna di scuola, credo si ingelosì. Quando le chiesi di ballare mi
rispose brusca che non ci pensava nemmeno. Litigammo in fretta e senza troppa cattiveria, ma
credo che ci facemmo comunque male a vicenda. Non ci parlammo più.
Pochi mesi dopo conobbi una ragazza di Montegranaro che pure frequentava il
linguistico dai Salesiani. Ci parlai qualche volta in corriera e niente di più. Un sabato
pomeriggio Roberto Castagna, amico carissimo e compagno di scuola, mi invitò al suo
compleanno a Monte San Giusto. C’eravamo quasi tutti quelli della mia classe e, alla fine
della festa, Stellì e Marco Mazzoni vennero con me a Montegranaro con l’autostop.
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Passammo un po’ di tempo insieme e poi andammo al Bar dello Sport, ora Green Bar, perché
prendessero la corriera per Macerata. Mentre aspettavamo passa D. con una sua amica. Quella
sera era davvero carinissima, tutta vestita di bianco coi capelli lunghi sciolti sulle spalle. La
salutai. Stellì mi disse: “Urca, ma chi è?”. Gli risposi: “Sta bono, roba mia”. E, forse soltanto
per dimostrargli che avevo imparato qualcosa, la abbordai, salutai velocemente gli amici e mi
incamminai con lei verso il centro. Una sbirciatina dietro mi consentì di soddisfare il mio ego
vedendo le bocche aperte dei miei amici che avevo appena lasciato.
Pochi giorni dopo partimmo per la gita scolastica a Parigi. Lei era su un’altra corriera
per cui il corteggiamento non mi era affatto agevole, ma tentai lo stesso e lei mi diede segnali
positivi. Pensai che ci fossero delle grosse possibilità e i miei immancabili amici consiglieri
mi gasavano che più non si può, neanche fossi Rocky alla terza ripresa. La sera in cui
arrivammo a Parigi, dopo esserci sistemati in albergo, ci riunimmo tutti in un giardinetto lì
vicino. Lei se ne stava con le sue amiche seduta su una panchina a parlottare con un paio di
ragazzi francesi che, tanto per dimostrare che non sono capaci soltanto di mangiar rane,
attaccavano bottone con le nostre prede. Stranamente non ne fui geloso, ma le chiesi se voleva
fare due passi con me. Mi rispose “magari dopo”. A quel punto divenni geloso, e anche
piuttosto incazzato. Me ne andai sbuffando, seguito da un nuvolo di amici, quelli stessi che
tifavano per me alla terza ripresa. Feci tre giri dell’isolato finchè riuscirono a calmarmi. Lei
evidentemente lo notò.
Più tardi, eravamo agli Champs Elysees, me ne stavo appartato con alcuni amici a
fumare. Arrivò un’ambasciatrice. Dice: “Sai…non voleva farti arrabbiare…le dispiace
molto…poi…detto tra noi…tu le piaci…fatti avanti…blablabla”. Feci il sostenuto tutta la
sera. Il giorno dopo, eravamo a Montmartre, le chiesi di metterci insieme. Da lì al primo bacio
dovetti attendere la strada di ritorno. Ce lo demmo a Bologna.
Il rapporto fu burrascoso. Suo padre non voleva che avesse un ragazzo, non la faceva
uscire, e mi arrivarono per vie traverse minacce piuttosto esplicite di gambe spezzate e teste
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spaccate. E quando incrociavo per strada la R5 della madre avevo come l'impressione che
deviasse leggermentre verso me. Un po’ inquietante. Ma non desistetti, eroe romantico di altri
tempi. Poi litigammo non so per cosa a metà estate. Conobbi S. al mare e mi misi con lei.
Aveva un anno più di me e un’amica della stessa età. Le abbordammo insieme io, Eros
Luberti e Giovanni Leonardi. Per far colpo le dissi che avevo diciotto anni e la patente, ma la
macchina me l’aveva sequestrata mio padre per punizione. Funzionò. S. era altissima, quasi
quanto me e aveva un corpicino da favola. Era di Macerata e così cominciai ad andare nella
città dei miei studi anche d’estate. Si andava spesso insieme con Eros che, nel frattempo, s’era
messo con l’amica di S.. La storia durò un mese circa, e per un mese non parlammo mai
molto. Si andava ai giardini della “mezza luna”, ci si sdraiava sull’erba sotto i pini...e lì non si
parlava mai granchè.
Una volta andai a Macerata da solo con la mia Vespa, naturalmente all’insaputa dei
miei. Al ritorno mi colse un temporale spaventoso. La Vespa e la strada bagnata sono una
combinazione micidiale, tanto che caddi rovinosamente ad uno stop, fortunatamente senza
conseguenze né per me né per la mia fedele cavalcatura. Tentai di proseguire ma non c’era
modo, e non accennava a smettere, tanto che si fece quasi l’ora di cena. Ero fuori Macerata, in
campagna, mi feci coraggio e decisi di chiedere soccorso a casa. All’epoca non esistevano i
cellulari. Mi fermai ad una casa lungo la strada e chiesi gentilmente di usare il telefono.
Babbo giunse in quindici minuti con la sua vecchia Polo Volkswagen, come una furia caricò
la vespa nel portabagagli e me sul sedile anteriore. Non disse una parola per tutto il viaggio.
Scaricò la Vespa in garage, la inchiavò e mise in tasca la chiave. “Questa la riprendi quando
lo dico io” disse. Non osai protestare. I giorni seguenti andai a Macerata in corriera. Mi
pesava la menzogna circa la mia età. Così decisi di essere sincero. Le raccontai tutto. Dire che
ci rimase male è un eufemismo. Ma per rompere aspettò il giorno dopo. Ma ruppe, piangendo,
chiedendomi di comprenderla, ruppe. Onestamente per me fu una specie di liberazione:
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passare tutto il tempo sdraiato sotto un pino non era tutto quello che volevo da un rapporto.
Volevo anche quello, ma non solo.
Qualche giorno dopo rividi D., riparlammo, ci chiarimmo e tornammo insieme. Ci
rimanemmo fino a dicembre. Ma la storia si trascinava male e avevo la netta impressione che
stesse con me solo per poter dire di avere un ragazzo. Non sentivo affetto, complicità,
nemmeno amicizia. Ogni volta era sempre più fredda. Mi eclissai, non le telefonai più, non la
cercai più. Lei fece altrettanto. Non ci siamo lasciati: ci siamo spenti.
Franca la conobbi a Parigi, in gita. Andava a scuola con D. e divenimmo amici subito.
Ragazza tosta, di carattere e anche molto bella. Avrei potuto perdere la testa per lei subito ma
ero preso con la faccenda di D. La persi in seguito. Poco prima di Natale la invitai ad una
festa al Tartaruga di Macerata. Stiamo insieme da allora, senza pause, senza interruzioni,
come diceva Battisti senza “un minuto di non-amore”. L’ho amata da subito e l’ho amata ogni
giorno di più. Non potrei amare una donna meno intelligente e meno forte di me, ed è per
questo che la adoro.
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Capitolo XIX
The Blizzard
Un giorno di prima estate vendetti la mia chitarra-mandolino comprata al “Centro
della Musica”, negozio ormai scomparso all’angolo di Corso Cairoli di fronte allo Sferisterio
a Macerata e pagata, mi pare, centoventimila lire. La chiamavo mandolino non perché gli
assomigliasse esteticamente, anzi, era una cover di Stratocaster, ma perché faceva sdlen
sdlen, suono piuttosto disdicevole se vuoi fare heavy metal.
Andammo in corriera a
Civitanova io e Uliano con la chitarra a tracollo che ci guardavano tutti manco fossimo i
Beatles. All’epoca una chitarra elettrica, per quanto mandolino, non la vedevi se non in
televisione. Anche questo contribuì al fatto che ci chiamassero “gli inglesi”.
Salimmo sulla vecchia SAM blu tutti eccitati perché convinti di andare a comprare
una Strato vera. Avevo due soldini da parte, lesinati dai soldi per la colazione che mia nonna
mi passava prima di andare a scuola, ed ero intenzionato a comprarci una chitarra come si
deve. L’intenzione, quindi, era di andare da Tutto Musica, negozio che invece ancora esiste,
permutare la “mando” e portarci a casa una Fender o una Gibson Les Paul usata.
E da Tutto Musica c’era ogni ben di Dio di chitarre usate, ma tutte a prezzi
decisamente troppo alti per le mie finanze. Il tipo del negozio, invece, fece storie sulla
valutazione del mio gioiellino sdlen sdlen, disse che non sapeva valutarlo ed io mi guardai
bene dal dirgli quanto l’avevo pagato. Genio del commercio di quattordici anni, gli proposi di
tenerla in conto vendita e, una volta venduta, avremmo fatto la permuta. Tornammo a casa
piuttosto delusi: ora non avevamo più nemmeno una chitarra. Due giorni dopo il venditore di
chitarre mi telefonò e mi diede notizia di aver venduto la mia chitarrina. Chiamai Uliano e, la
mattina successiva, di buon’ora, ripartimmo per Civitanova, stavolta in autostop.
Il tipo del negozio aveva venduto la mia “mando” per centocinquantamila lire.
Venticinquemila lire in più di quello che l’avevo pagata nuova. O era un mago lui o era
allocco quello che l’aveva comprata. Il problema, però, era che io, con la permuta e i miei
risparmiucci, avevo duecentocinquantamila lire, con le quali, tra i vari strumenti a
disposizione, non avrei potuto comprare nemmeno una custodia. Nuovo colpo di genio,
proposi: “una Custom non ce l’hai?”. Sapevo che non c’era, l’avevo ben visto. Naturalmente
disse no, ma me la poteva procurare a breve. Dissi che andava bene, aspettavo una sua
chiamata appena ne trovava una. Mi diede le mie centocinquantamila lire e non mi vide più.
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Andammo diretti da Civitanova a Macerata, da Pieroni, altro negozio scomparso che
stava vicino al Palazzo degli Studi e aveva l’esclusiva Eko per la zona. Mi portai a casa una
bellissima Eko bordeaux con i pick up Di Marzio. Non era una Strato né una Les Paul ma
suonava bella dura e, soprattutto, non faceva sdlen sdlen.
Qualche giorno dopo Uliano ruppe il porcellino e andammo da Principi, sempre a
Macerata, a comprare un bel basso imitazione Fender per lui. A quel punto mancava la
batteria. Arrivò alla fine di agosto. Mauro Cappelletti, che aveva fatto le vacanze dai nonni a
Rimini, s’era fatto regalare per il compleanno una bella batteria a sei tom e un corso
accelerato per suonarla, e tornò a casa tamburomunito e in grado di suonare.
A settembre registrammo il nostro demo-tape e il nostro primo pezzo decente, un
rock’n roll leggero basato su una scala di la maggiore che chiamammo Good Woman, il cui
testo scrivemmo in un inglese piuttosto approssimativo. Avevamo finalmente la batteria, il
basso e la chitarra, la voce ero io e per fortuna lo sono rimasto per poco, lasciando ben
volentieri l’incombenza ad Uliano che era decisamente più portato. Ma per registrare una
demo era necessario un mixer ed un po’ di microfoni. Il mixer lo fornì Loredano Pulcì
Zengarini, che aveva velleità di disk jokey. Il microfono, incredibile ma vero, ce lo prestò
Don Carlo che, dalla chiesa di San Liborio da poco costruita, sentiva la nostra musica e si
preoccupava per le povere orecchie di Mariannina, la mamma di Mauro che ci ospitava e la
cui soffitta avevamo trasformato in sala prove.
Con un solo microfono e Pulcì come tecnico del suono (pareva Alan Parson)
registrammo il nastro che non venne niente male. Lo passammo spudoratamente anche in
radio. Gli amici apprezzarono o, almeno, fecero finta di apprezzare. Decidemmo anche di
cambiare nome: da Hammersmith passammo a Blizzard, perché eravamo tempestosi e freddi,
proprio così.
Iniziammo a metter su un po’ di repertorio, nostro e altrui, ma Uliano manifestò ben
presto l’intenzione di suonare la chitarra anche perché, onestamente, come solista io facevo
piuttosto pena mentre lui aveva un’inclinazione naturale. Così comprò la sua Aria Pro II e
appioppò il basso al nostro comune amico Roberto Nasini, che non ne aveva mai visto uno ma
che, in brevissimo tempo, riuscì a suonarlo egregiamente.
Il gruppo funzionava bene: io, modestamente, come chitarra ritmica non ero affatto
male e riuscivo facilmente a trovare gli accordi principali dei pezzi metal di cui volevamo fare
le cover, Uliano riusciva a trovare gli assoli con facilità, e insieme, zigzagando sulla tastiera,
riuscivamo a comporre pezzi nostri anche passabili.
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Nel frattempo Mariannina s’era arresa ai decibel e ci aveva cacciato dalla soffitta. Non
potemmo biasimarla, la casa tremava mentre suonavamo. Uliano aveva una vecchia casa di
campagna in fondo a via Fonte Pomarola. Era disabitata da anni ma ancora messa bene. Ci
trasferimmo lì. La leggenda narra che da lì, essendo in fondo alla scarpata, la nostra musica, o
il nostro rumore, arrivasse fin dentro il paese. Mia nonna confermava, circa il rumore.
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Capitolo XX
Televisioni
La televisione per noi c’era poco, molto meno di quanto sia presente oggi nella vita dei
nostri figli o nipoti. I ragazzini di oggi hanno gli occhi fissi su uno schermo, che sia la tv, il
pc, la psp, il ds, la wi. Noi gli occhi le avevamo fissi sul pallone, i soldatini, il meccano, il
piccolo chimico, il piccolo falegname. La televisione si accendeva intorno alle cinque del
pomeriggio con la “Tv dei ragazzi”, durava il tempo della merenda o poco più, e poi si
tornava ai giochi.
Ma è anche vero che la nostra, parlo della generazione dei nati tra il ’62 e il ’72, è
stata la prima a fare i conti col tubo catodico, con la televisione espressamente creata per i
bambini, la prima a mangiare pane e olio guardando Saturnino Farandola. La prima ad avere
ricordi televisivi a colori, l’ultima ad averli in bianco e nero.
Il Dirigibile, con Mal e Maria Giovanna “Azzurrina” Elmi. Ricordate? Mangiavo
pane e salame con loro, aspettando Furia, Rin Tin Tin, Lassie. Mielosi cortometraggi in
bianco e nero che ci hanno formato questo carattere così facile al lacrimone (parlo per me).
Nonno Peppe era davvero un culture del pane e olio. Panino de Strozzo, quello lungo, non
quello all’olio. Bruscatina in graticola o in padella, leggero bagno d’acqua, e olio d’oliva, sale
e rosmarino. La mia merenda favorita. E intanto guardavo “Avventura” prototipo di Quark
con per sigla She Came In Through The Bathroom Window di Joe Cocker . Uno dei miei primi
approcci col rock.
La sera c’era la tv dei grandi che era ben poco interessante, con quei telegiornali pieni
di morti ammazzati, stragi sui treni in galleria, guerre lontane e l’incubo dei missili.
Portobello faceva sorridere, ma era già a colori. Ricordo il sabato sera del varietà di Macario,
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di Raimondo Tarzan e Sandra Jane, le Canzonissime sono lontanissime. Più vicini i
Fantastico, le Domenica In di Corrado, i Rischiatutto.
Ma per ragazzi non c’era molto. La banda dei cinque, Il mistero dei templari, Il tesoro
del castello senza nome, Ufo e il comandante Straker, preludio a Spazio 1999. E sceneggiati
da adulti ma intriganti per i ragazzi come Belfagor, Ritratto di donna velata, La baronessa di
Carini fino al mitico Sandokan. Ma chi non ha avuto l’esistenza segnata dal Pinocchio di
Comencini?
L’evoluzione tv portò il benedetto Happy Days e ci credevamo tutti Fonzie ben
sapendo di essere Ricky. E insieme ad Happy Days c’era il contorno di Happy Circus, con la
compianta bellissima Stefania Rotolo e l’ Aria di casa mia di Sammy Barbot. Arrivarono i
robot giapponesi con Goldrake, Mazinga e Jeeg robot d’acciaio con annessa storiella del
bimbo lanciatosi dal decimo piano e mamma arrestata per non aver lanciato in tempo i
componenti. Ne seguirono a miriadi: Riù (un milione di anni fà o forse due), Falco il
superbolide, Gundam, Capitan Harlock. Vennero la stramaledetta Candy Candy e il suo gattoprocione e Anna dai capelli rossi. Chi non ha visto Heidi almeno due volte nella vita alzi la
mano.
Vennero le telenovelas brasiliane. Ricordo che, facevo le medie, tornavo a casa alle
quattordici e pranzavo solo, con mamma e nonna incollate alla tv davanti a La schiava Isaura,
Dancing Days, Ciranda de Pedra. Roba da suicidio. Ma poi c’era anche Popcorn di Augusto
Martelli. Poi venne Deejay Television, fonte infinita di informazione musicale e sia lode a
Linus e a Cecchetto. Disco Ring alla domenica. E chissà quante ne dimentico, fino ad arrivare
all’età in cui potevi guardare la tele anche a tarda sera e c’era la La Mecca dell’adolescente:
Colpo Grosso.
Tanti ricordi televisivi in fin dei conti. Ma cosa sono in confronto all’oggi? Mio figlio
vede più roba in una settimana di quanta ne ho vista io in tutta la mia giovinezza.
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Capitolo XXI
Ernestì
Montegranaro è sempre stata una piccola città ma non s’è mai fatta mancare nulla,
nemmeno il servizio noleggio auto con conducente che, da noi, si chiamava semplicemente
Ernestì, sia il servizio che il conducente. Oggi non ce ne sarebbe più bisogno, oggi abbiamo
più macchine che patenti, ma già vent’anni fa c’era un sacco di gente senza patente e senza
macchina e, dovendo spostarsi, l’unico mezzo era la corriera della Sam o Ernestì, che costava
di più ma ti portava davanti alla porta della tua destinazione.
Aveva un Maggiolino celeste metallizzato che sembrava appena uscito dalla fabbrica,
tutto lucido, senza un graffio, con gli interni che profumavano di pelle e di buono. Lui era un
ometto piccolo e sorridente, dai modi a dir poco gentili, con un’educazione di altri tempi. Era
affabile ma mai invadente, sapeva intrattenerti ma sapeva anche stare in silenzio e rispettare la
tua solitudine quando, spesso, fungeva da auto medica. E nel ricordo che sto trascrivendo
Ernestì fu la mia auto medica.
Facevo il primo liceo scientifico e, un martedì di maggio, durante l’ora di ginnastica,
si giocava a pallacanestro nel campetto basso dei Salesiani, quello sotto l’oratorio, a fianco
del campo sportivo verde. Presi palla in difesa e, pur non avendo la vocazione dell’ala
(giocavo più da pivot), partii in contropiede. Circa all’altezza della metà campo Enrico
Cherchi venne ad intercettarmi, lo schivai, presi un suo piede, decollai, ruzzolai fin sotto il
canestro. Mi alzai con un dolore bestiale al braccio destro. Il buon Paolino De Luca, mio
insegnante di educazione fisica, intuì che non si trattava di una semplice contusione e mi
mandò di corsa in infermeria.
Ora bisognerebbe aprire una parentesi sulla figura dell’infermiere dei Salesiani di
Macerata. Era un laico che era stato per anni in missione, un po’ in Africa, un po’ in Asia.
Piuttosto anziano si era ritirato a Macerata e ripagava il vitto e l’alloggio svolgendo funzione
di paramendico pur non avendone qualifiche e competenze. Era un uomo molto alto e molto
magro, anzi, era davvero secco. Aveva uno strano tic alla bocca per il quale sembrava stesse
sempre succhiando qualcosa come una mentina mentre non aveva in bocca nulla se non la sua
lingua. Le sue competenze mediche sono facili da riassumere con un episodio per il quale, per
un mio mal di testa, mi spalmò la fronte con della Vegetallumina. Nel caso del mio braccio lo
guardò, sentenziò: “non è rotto” e mi aprì e chiuse il gomito ripetutamente facendomi urlare
dal dolore (e io difficilmente urlo, anzi, mi lamento per il dolore).
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Alla fine della quinta ora tornai a casa in corriera col braccio penzoloni che mi doleva
da morire. Appena rincasato mamma, sempre un paio di misure oltre l’essere apprensiva,
decise per il pronto soccorso che, all’epoca, a Montegranaro ancora c’era. Il problema era che
babbo era fuori per lavoro per qualche giorno e mamma non ha mai avuto né patente né
tantomeno la minima capacità alla guida di qualsiasi mezzo semovente. Quindi… pronto
intervento Ernestì.
Arrivò davanti casa dopo dieci minuti con la sua Volkswagen, mi aprì lo sportello
come fossi un principino e mi fece accomodare dietro. Al pronto soccorso c’era una
dottoressa di cui non ricordo il nome, ma in portineria ci dissero che eravamo stati fortunati
perché era una brava. Mi guardò il braccio destro e sentenziò: “non è rotto” e mi aprì e chiuse
il gomito ripetutamente esattamente con il buon infermiere salesiano. Ero sul punto di tirarle
un sinistro quando smise. Poi prese una garza e mi legò la mano contro il collo dicendo che,
con un paio di giorni di trazione di quel tipo sarei andato a posto. A posto uno zufolo, faceva
un male blu.
Uscimmo dal pronto soccorso e mamma era perplessa e un po’ disorientata. Era la
classica situazione in cui avrebbe dato chissà cosa per avere il marito a fianco ma a quel
tempo non c’erano nemmeno i cellulari. Ci pensò Ernestì. “O Fra’, io lo porterio a Fermo”
disse pacatamente, come un padre amorevole.
E mi portò a Fermo, in ortopedia, dove mi ingessarono per la frattura composta del
gomito. Trenta giorni di gesso e di ferri da maglia per grattarsi. Non salii più sul maggiolino
azzurro di Ernestì da allora, ma me ne resta stampato indelebilmente in mente il ricordo, come
il sospetto che il braccio in realtà me l’abbia rotto l’infermiere dei Salesiani.
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Capitolo XXII
Liceo
Il passaggio dalle medie al liceo per me fu, probabilmente, meno doloroso rispetto a
molti coetanei. Rimanendo dai Salesiani non dovetti cambiare ambiente e molti dei miei
compagni di scuola delle medie li ritrovai in classe al liceo: Enrico Cherchi, mio grande e
fraterno amico, Andrea Intermesoli, Vincenzo Damiani, Gabriele Eleuteri, Daniele Cappa,
Stefano Lupi, e poi quelli dell’altra sezione delle medie, la B, Mauro Quarchioni, Marco
Mazzoni, Lorenzo Zaffrani, Nicola Stellini, Luca Germozzi. Eravamo già amici da tre anni
per cui fu molto facile integrarsi. Questo non rese altrettanto facile la cosa agli altri che
dovettero combattere con un gruppo preesistente e farsi accettare. Quasi tutti ci riuscirono.
Eravamo trentasette in primo e arrivammo in quinto in ventinove, con qualche
aggiunta. Perdemmo per strada, quindi, molti compagni, e in qualche caso la perdita fu
dolorosa. Daniele Cappa, per esempio, era probabilmente il mio migliore amico sin dalle
medie, e quando lasciò il liceo alla fine del primo perdemmo i contatti. Sono anni che non ne
ho notizie.
E’ faticoso scrivere del periodo del liceo e del tempo trascorso con la mia classe
perché significa parlare del periodo probabilmente più bello e interessante della mia
giovinezza. Ho incontrato gente fantastica, ho allacciato amicizie che, nonostante i tanti anni
passati e la distanza che mi separa da alcuni di loro, sono ancora vive e pulsanti. Rimane
difficile racchiudere in un capitolo tutto quello che quel periodo ha rappresentato per me, per
cui ne parlerò utilizzando dei sotto-capitoli, ognuno per una persona che mi è rimasta nel
cuore. Comincio con
Carlo Prosperi
Carlo non era il primo della classe. Il primo della classe era Laura Molini, splendida
studentessa, magnifica combinazione di metodo e intelligenza. Carlo, invece, era il genio
della classe, uno che studiava pochissimo ed otteneva il massimo, inarrivabile in qualsiasi
campo e materia eppure mai antipatico, sempre disponibile all’aiuto e allo scherzo, sempre
infilato in qualsiasi guaio volevamo combinare. Era talmente bravo, diligente ed affidabile
(evidentemente i professori lo conoscevano in tantino meno di noi compagni di scuola) che a
lui era stata affidato il compito di suonare la campanella che segnava la fine e l’inizio di ogni
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ora di lezione, ragion per cui Carlo, ogni fine ora, si alzava, usciva e andava nel corridoio
centrale con la chiave dell’interruttore della campanella elettrica in mano. E noi, che magari
eravamo moribondi per il tedio di una lezione di Goretta (prof di italiano) o terrorizzati dal
rischio interrogazione di Don Mario (matematica), avevamo sempre l’occhio puntato su di lui
perché il suo alzarsi significava la fine dell’incubo.
Sono stato suo compagno di scuola per due anni, in terzo e in quarto. Formavamo un
quartetto formidabile: davanti Cherchi e Quarchioni e dietro io e Carlo. Fu il periodo del
famigerato “diario di Cherchi”. Non so chi avesse iniziato, fatto sta che utilizzavamo il diario
di Enrico per scrivere le battute più demenziali che ci venivano in testa e poi passarcelo. A
parte il fatto che ci sbellicavamo dal ridere per battute che spesse volte avrebbero fatto ridere
solo noi, il diario di Cherchi era diventato una specie di Bibbia delle demenzialità, famoso in
tutta la scuola, distribuito con estrema parsimonia e custodito come una reliquia. E’ purtroppo
andato perduto. Eravamo talmente idioti che ci salutavamo dicendoci a vicenda
“dementeeee”. L’idillio fu interrotto quando i professori decisero di porre fine al rumorio
infinito proveniente dalla terza e quarta fila di banchi della fila alla sinistra della cattedra.
Finii i miei giorni liceali al fianco di Giuliano Ferranti.
Per i compiti in classe in generale venivamo spostati nell’aula studio, un’ aula
grandissimo dove i semiconvittori e i convittori studiavano e facevano i compiti nel
pomeriggio. Ce n’erano due: una al nostro piano e una al piano di sopra. Per il compito in
classe di latino eravamo soliti usare l’aula del nostro piano. Questa aveva l’ingresso principale
sul corridoio centrale, dalla parte delle medie, ma aveva anche una porticina che si apriva sul
corridoio delle aule dove c’era anche la nostra. Quella porta era chiusa a chiave. Quella porta
fece sì che, dal terzo in poi smisi di studiare latino. Ecco il sistema: Carlo era velocissimo nel
fare le versioni, con mezz’ora al massimo traduceva Seneca e Plinio il Vecchio, Cesare
nemmeno lo vedeva. La seconda mezz’ora la occupava a copiare la brutta copia su un altro
foglietto. Poi veniva il tempo di andare a suonare la campanella. Il banco vicino alla porticina
che dava sul corridoio delle aule del liceo era mio, fisso, guai a chi lo toccava pena la morte.
Carlo usciva, sgusciava velocemente nel corridoio del liceo ed infilava il foglietto con la copia
della versione sotto la porta. Poi andava tranquillo a suonare la campanella. Io facevo cadere
la classica penna, raccoglievo il foglietto, copiavo avendo cura di aggiungere qualche errore
di proposito altrimenti il buon Don Nicolini avrebbe potuto mangiare la foglia, distruggevo il
foglio di Carlo e consegnavo la mia versione da otto. Spesso la passavo anche agli altri,
trascrivendola prima e modificandola ulteriormente (non si sa mai).
Una volta Paolo
Tramannoni passò il mio foglietto, dopo averlo copiato, a Roberto Bruni. Almeno tentò…ma
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lanciò il foglio appallottolato talmente in alto che andò a sbattere col soffitto e ricadde
creando un subbuglio totale. Fortuna volle che Nicolini notò il trambusto ma non il foglio.
Paolo Tramannoni non ebbe più la mia versione.
Carlo era un ragazzo calmo e tranquillo prima di avere me per compagno di banco.
Ascoltava rock progressivo e adorava i Dire Straits. Il suo abbigliamento era quanto di più
formale si possa immaginare per uno studente. Dopo quindici giorni che eravamo compagni
di banco iniziò a vestirsi con borchie e catene, ascoltava solo heavy metal e mi regalò l’ultimo
disco dei Dire Straits che aveva comprato, Brothers in arms, tanto non gli interessava più:
avevo creato un mostro.
Mauro Quarchioni
Eravamo i due musicisti della classe. Lui tastierista e io chitarrista. Ci conoscevamo fin dalla
prima media ma l’amicizia si approfondì molto al liceo, specialmente in secondo, quando
fummo compagni di banco per l’intero anno, e si consolidò poi nel già citato quartetto dei
dementi.
Mauro non rideva mai, ma aveva fisso un mezzo sorriso sornione stampato in faccia.
La sua battuta pronta, caustica, velenosa te la sparava lì senza batter ciglio, che rimanevi
basito prima ancora di scoppiare a ridere. Su tutti i suoi libri aveva cancellato la parola
“sommario” e aveva riscritto sopra “sommauro”, per la precisione.
Finchè siamo stati compagni di banco avevamo davanti Maria Carla Pelagagge e
Monica Mecozzi e con loro fummo due autentici aguzzini, il che, però, aveva come risvolto
positivo che metà dei compiti a casa ce la facevano loro. “Allora, io faccio matematica, tu
latino, inglese lo fa Mecozzi e Pelagagge ci fa il riassunto di storia”, questo era il
funzionamento, senza chiedere, però, alle due poverette se fossero d’accordo o meno. Chiedo
ora scusa ufficialmente ad entrambe.
Ci confrontavamo spesso sulla musica, lui amante dei Deep Purple ed io più incline
agli Zeppelin. Aveva un gruppo che suonava prevalentemente Deep Purple, costituito dai
cugini Stizza e da un formidabile batterista come Giorgio Cicchitelli. Spesso facevamo delle
“sfide” tra gruppi: chiamavamo un po’ di amici e chiedevamo loro di giudicare una
performance congiunta. La cosa era molto agonistica tanto che, durante una di queste sfide,
Giorgio mise tanta foga nel suonare che quasi si staccò un dito picchiando con la bacchetta
contro il bordo del rullante e schizzando sangue tutto intorno – effetto Ozzy Osburne.
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Quando presi la patente, in quinto, proposi a lui, Giuliano Ferranti e Mario Cognigni
di andare a scuola in macchina insieme, dividendo le spese. A conti fatti ci costava meno
dell’abbonamento alla corriera ed eravamo più liberi con gli orari. Così da ottobre fino alla
maturità tutte le mattine passavo prima a prendere Mario, che abitava appena fuori Monte San
Giusto verso Montegranaro, poi toccava a Giuliano poco più in là e infine Mauro davanti la
tabaccheria del padre in piazza a Monte San Giusto. Credo che quello sia stato uno dei periodi
più divertenti della mia vita, non perché facessimo chissà che, ma perché si rideva ogni
singolo secondo.
Un giorno che pioveva Mauro propose la sua scorciatoia: da Villa Fermani c’era,
secondo lui, una strada bianca che arrivava fino a sotto Corridonia la quale ci avrebbe
permesso di risparmiare un sacco di tempo. Peccato che, con la pioggia abbondante, la strada
non era più bianca ma marrone del fango franatole sopra e, nella parte pianeggiante, un
torrentello aveva straripato. Oramai in ballo dovemmo ballare, facendo arrancare la macchina
sul fango, imprecando e maledicendo il momento in cui gli avevamo dato retta. L mia povera
Golf GLD bianca ne uscì malconcia e con venti centimetri di fango attaccati sotto la scocca.
Una volta raggiunto l’asfalto malmenammo in tre il povero Mauro.
Una mattina arrivammo a scuola presto e trovammo, forse per la prima volta, posto per
la macchina in viale Don Bosco anziché sotto. Feci per parcheggiare, mi inserii nello spazio
del parcheggio e iniziai a manovrare per mettere dritta la macchina, facendo retromarcia. Ma
Mauro pensò bene di scendere e aprì lo sportello proprio mentre retrocedevo andando ad
impuntare l’angolo superiore della portiera contro uno dei tigli di viale Don Bosco, facendo
fare alla lamiera un bell’angolo di quarantacinque gradi. Presa d’aria supplementare per
l’abitacolo per tutto l’inverno. Non lo uccisi perché ero troppo allibito.
Con lui inventammo la gag della sigla di Superquark. Don Marucci, professore di
scienze, ci portava spesso in aula di chimica per mostrarci le sue registrazioni di Superquark.
Il professore spegneva le luci e faceva partire il nastro. Appena partita l’Aria sulla quarta
corda di Bach che ne era la sigla io e lui, e poi tutta la classe in coro, iniziavamo a
mugugnarla a bocca chiusa e ognuno con le proprie varianti, producendo un suono
mefistofelico e mandando il povero Don Marucci su tutte le furie. Altra gag da Superquark
era opera di Germozzi che aveva trovato un telecomando identico a quello del televisore
dell’aula di scienze. Nel bel mezzo del documentario sui leoni lui schiacciava il tasto AV e
compariva Raffaella Carrà che contava i fagioli.
Mitico fu quanto don Marucci provò
l’esperimento della reazione dell’acqua a contatto con un metallo alcalino. Prese una
vaschetta di vetro trasparente colma d’acqua ed un pezzo di potassio. Ne taglio una scheggia
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piuttosto grande, probabilmente troppo grande, e la gettò nell’acqua. L’esplosione fu
notevolissima. La vaschetta si disintegrò e l’acqua schizzò in faccia a tutta la prima fila. La
cosa più bella furono i capelli dritti del professore e la sua aria smarrita.
Con Mauro non abbiamo mai perso contatto. E’ il mio testimone di nozze e gli voglio
un gran bene.
Enrico Cherchi
Era il 1979 quando conobbi Enrico. Fu il mio primo compagno di banco alle medie. Eravamo
entrambi in fondo alla classe per via dell’altezza: quelli più alti vanno quasi sempre a finire in
fondo. Ma lui in prima media era un bel palmo più basso di me. In quinto scientifico era un
bel palmo più alto.
Enrico aveva un forte accento romano quando lo conobbi. Il padre era sardo ma
lavorava come direttore di albergo e aveva girato molto. Per un lungo periodo aveva vissuto a
Roma per poi tornare nelle Marche, ad Appignano, paese di origine della mamma.
Il carattere bonario, sempre pronto allo scherzo, sempre disponibile, faceva di Enrico
un punto fermo tra i compagni di scuola. La nostra lunga frequentazione ci dava la possibilità
di capirci al volo, spesso anche senza parlare. Da lì nacque la nostra complicità che toccò
l’apice nel periodo demenziale e nel suo famoso diario. Le battute venivano fuori a iosa, roba
da scriverci puntate di Zelig. Ma a furia di fare i cretini quell’anno, il quarto, ce la vedemmo
abbastanza brutta per ottenere la promozione a giugno, tanto che facemmo il voto alla
Madonna di andare a Loreto a piedi se fossimo riusciti a scampare la bocciatura a settembre.
La scampammo e ci toccò la scarpinata.
Decidemmo di partire da Valle Cascia di Montecassiano. Il padre di Enrico all’epoca
dirigeva un famoso hotel del luogo così, i primi di settembre, prima che la scuola
ricominciasse, andai per una settimana da lui, per ottemperare all’impegno con la Madonna e
fare una settimana di baldoria. E fu baldoria davvero, soprattutto culinaria. Saccheggiamo la
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cucina dell’hotel ripetutamente tutte le notti. Ingrassai di un paio di chili, io che da
adolescente potevo mangiare un elefante senza conseguenze.
Poi venne il giorno stabilito per il voto. La sveglia puntata alle sei del mattino tuonò
nella camera che dividevamo e ci scagliò fuori dai letti nonostante avessimo mangiato e
bevuto fino a poco prima. Partimmo da Valle Cascia che era un bel freschino ma la giornata
prometteva fuoco e fiamme e così fu. Passammo collina collina in direzione Recanati.
Tagliammo curve per campi. Saccheggiammo un paio di vigne cammin facendo, anche se
l’uva era tutt’altro che matura. Arrivammo a Loreto che erano più o meno le due. Appena
arrivati lungo la strada fuori le mura, quella che arriva fin sotto la statua di Papa Giovanni, il
nostro olfatto fu attratto da un odore di lasagne che non si poteva ignorare. Entrammo nella
trattoria che emanava l’effluvio e pasteggiamo per un’ora abbondante. Dopodichè Enrico
prese il telefono a gettoni all’ingresso e chiamò Andrea, il fratello. Il pellegrinaggio era finito,
poteva venirci a prendere. La Santa Casa non la vedemmo nemmeno da lontano. La sera
stessa, per pareggiare il conto, andammo a vedere La Chiave di Tinto Brass fingendoci
maggiorenni.
Ricordi sparsi di scuola
Augusto Ciampechini ha attraversato, nel periodo del liceo, quasi tutti gli stili e le mode
dell’epoca, dallo yuppie al paninaro, ma credo che in fondo sia sempre stato un dandy.
Impeccabile comunque nel vestire e sempre dai modi pacati ed eleganti. Per questo stonò e
fece storia il calcio in culo che rifilò a don Giovanni Carnevale. Proprio quel Carnevale che
vuole collocare Acquisgrana a San Claudio. Il mitico Carnevale che tutti abbiamo amato.
Quel giorno eravamo a discorrere come facevamo ogni mattina prima della campanella della
prima ora davanti al portone della scuola, lungo viale Don Bosco. Augusto dava le spalle al
portone e, quatto quatto, ecco don Carnevale avvicinarsi che sembrava la Pantera Rosa. Lo
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vedemmo tutti meno che Augusto. Stentammo a trattenere le risate quando capimmo – perché
ce lo fece capire – che aveva l’intenzione di fargli un “collino”, uno schiaffo bonario sul collo
da dietro. Solo che il buon prete non modulò bene la forza e gli stampò una pacca sul collo
sonora e, immagino, dolorosa. La reazione di Augusto fu immediata quanto istintiva. Mentre
Carnevale si allontanava il nostro ruotò su se stesso, calibrò la gamba destra e sferrò un
calcione al volo prendendo il professore in pieno e staccandolo un venti centimetri buoni da
terra. Il silenzio calò sul viale. Volevamo ridere ma…un professore s’era appena preso un
calcio in culo da uno studente. Cosa sarebbe accaduto? Accadde che don Carnavale si
guadagnò ancora più affetto da noi studenti abbracciando Augusto e dicendo con la sua voce
nasale: “giusto, giusto, me la sono cercata”.
Giuliano Ferranti era il mio compagno di banco in quinto. Giuliano Ferranti aveva una
mamma premurosa che ogni mattina preparava splendidi panini per il figlio. I panini della
mamma di Giuliano Ferranti erano STREPITOSI. Dal giorno in cui si ritrovò me come
compagno di banco Giuliano Ferranti smise di mangiare i panini che la mamma gli preparava.
Puntualmente ogni mattina gli rubavo il panino, lo dividevo in parti uguali e lo distribuivo a
Carlo, Enrico, Mauro, Vincenzo Damiani, Alberto Branciari e Mario Cognigni. Il povero
Giuliano doveva accontentarsi di comprare la terrificante pizza rossa del bar della scuola.
Finchè un giorno si nascose il panino nelle mutande. Non potendo far nulla durante la lezione,
al cambio dell’ora, in quel momento di sospensione di ogni forma di disciplina che passa tra
l’uscita dell’insegnate dell’ora prima e l’arrivo di quello dell’ora dopo, io, Enrico, Mauro e
Mario sollevammo il povero Giuliano prendendolo due per le gambe e due per le braccia.
Mentre lui si divincolava e noi cercavamo di prendergli il panino estraendolo dai pantaloni
arrivò don Marucci per la lezione di Geografia Astronomica. Nello stesso istante tutti e
quattro lasciammo la presa. Giuliano precipitò nel vuoto, cadde rovinosamente e
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rumorosamente, tanto rumorosamente che don Marucci lo mandò fuori dalla porta. Almeno
quel giorno riuscì a mangiare il suo panino, o quel che ne rimaneva, in santa pace.
Alberto Branciari scriveva i suoi sogni su un quadernetto. Tutte le mattine veniva a scuola
molto prima dell’inizio delle lezioni e, approfittando della solitudine e del silenzio di quei
momenti, trascriveva i suoi sogni della notte precedente prima che svanissero del tutto con la
luce del giorno. Nessuno lesse mai quel quaderno, nemmeno Vincenzo Damiani, suo
compagno di banco, che pure ci provò ma senza riuscirci.
Potrei proseguire con piccoli aneddoti all’infinito ma diventerebbero tediosi. Non me ne
vogliano i miei amici della scuola che non ho citato: ho solo cercato dei momenti divertenti.
E’ tempo di tornare a Montegranaro.
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Capitolo XXIII
Intanto i Blizzard
Ricevemmo la prima scrittura sotto carnevale, che faceva un freddo becco. Una
ragazza di Sant’Elpidio a Mare che veniva in corriera con noi, Federica, compiva gli anni e
dava una festicciola per i suoi amici. Così ci chiese di suonare alla festa. La proposta ci lascò
perplessi perché l’heavy metal con una festa di compleanno di una ragazzina c’entra davvero
poco ma lei insistette e alla fine accettammo. Eravamo in fibrillazione perché il repertorio era
scarsino e l’idea di suonare davanti ad un pubblico ci spaventava e caricava allo stesso tempo.
In quindici giorni provammo quotidianamente per affinarci e mettemmo su due o tre pezzi
nuovi (ricordo che preparammo anche una versione riveduta e “scorretta” di Better than you
better by me dei Judas Priest che in seguito depennammo dal repertorio).
Alla festa portammo i nostri amplificatori, gli strumenti, e un piccolo mixer con le
casse che Mauro s’era fatto comprare per Natale e ci faceva da impianto voce. Il cantante ora,
grazie a Dio, era Uliano. C’erano una cinquantina di ragazzine che si aspettavano i Duran
Duran e quando sentirono le chitarre distorte dissimularono a fatica la delusione. Ma alla fine
andò bene, forse per la cortesia del pubblico. Toni, un amico di Federica che amava il rock,
avrebbe compiuto gli anni anche a lui dopo qualche mese e ci scritturò sul posto. Sant’Elpidio
ci amava! Si si! Come no.
Alla festa di Toni, in un garage bello grosso, non c’erano ragazzine ma un bel mucchio
di omaccioni che volevano ballare. A metà del primo pezzo il garage si svuotò. Restò soltanto
un ragazzo riccioluto appoggiato ad una colonna che si sorbì tutto il concerto. Alla fine si
presentò: era Daniele Basili, quello che sarebbe diventato la voce dei Blizzard e il batterista di
riserva (il Phil Collins de noandri). Daniele ci fece i complimenti – bontà sua – e si propose
come cantante. Uliano non se lo fece dire due volte. Il sabato successivo era con noi a cantare
nella casa di campagna.
Decidemmo di fare noi una festa. A scuola eravamo nel pieno periodo demenziale che
ho già raccontato e uno dei nostri modi di dire era “ma come?” detto con stupore di fronte a
qualsiasi accadimento della vita. Questo modo di dire, diventato poi “macome” aveva preso
piede anche al di fuori della cerchia scolastica. Per cui decidemmo di fare il “Macome Party”.
Invitammo tutta la scuola e tutta Montegranaro. Ne vennero parecchi. La location era la casa
di campagna in cui provavamo. All’interno si mangiava e ballava e all’esterno (era la fine di
maggio) si poteva passeggiare sul prato. Avevamo adibito il terrazzino all’ingresso a palco e
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facemmo un concertino anche lì. Questo andò meglio degli altri e ci diede maggiore fiducia.
Fu anche il debutto di Daniele al microfono e fu molto apprezzato.
Arrivarono le vacanze estive e Mauro Cappelletti se ne andò in Inghilterra per la
classica vacanza-studio con la scuola. Mentre lui era viva ci arrivò, tramite amici del posto, la
proposta di andare a suonare alla Festa dell’Unità di Tolentino. A PAGAMENTO! Ma
eravamo senza batterista. Daniele si offrì di sostituire Mauro. Uliano a malincuore si rese
disponibile a rimettersi a cantare. Telefonammo in Inghilterra per sentire il parere del titolare
del “rullante” e Mauro, da persona squisita quale è sempre stato, acconsentì con entusiasmo,
solo dispiaciuto di non poter essere dei nostri per il primo vero esordio.
Andammo a Tolentino con la Renault 5 di Daniele che fece due viaggi: uno per gli
strumenti e uno per gli strumentisti. Dire che eravamo galvanizzati è poco. Avremmo dovuto
suonare alle dieci di sera e alle dieci del mattino eravamo già lì a “montare il palco”.
Dovevano suonare due gruppi: noi e un gruppo new wave. Per cui gli organizzatori divisero il
palco in due e noi prendemmo il lato di sinistra. Visto che eravamo lì di buon mattino gli
organizzatori ci fecero montare anche l’impianto voce e le luci. Il gruppo new wave arrivò la
sera alle sette, trovò tutto pronto e ci guardò pure in cagnesco. Il concerto andò molto bene e
il pubblico rispose in maniera entusiasmante. Diciamo che fu un successo. Rischiai di
uccidere Roberto Nasini che, smontando gli strumenti alla fine, lasciò cadere un’asta dei piatti
sulla mia chitarra ammaccandola leggermente, ma questa è un’altra storia. Ci pagarono pure e
quello fu un momento commovente: trecentocinquantamilalire!!!! E noi che eravamo disposti
a pagare di tasca per suonare.
Da lì partì una specie di tour che andò avanti fino a settembre. Nel frattempo Mauro
era tornato e s’era ripreso lo sgabello e Daniele il microfono. Suonammo a feste e raduni e
passammo un’estate da rockstar. Con qualche incidente. A Villa Fermani c’era un raduno e
l’impiantistica era fornita da un gruppo olandese che faceva metal come noi. Provammo di
pomeriggio e tutto andava alla perfezione. La sera, quando toccò a noi, i nostri amici orange
pensarono bene di farci fare una magra e staccarono le spie. Suonammo senza sentire quello
che suonavamo e facemmo un disastro totale. Qualcuno ci fischiò pure. Pazienza.
Arrivò l’inverno e finì la stagione dei concerti. Continuavamo a provare nella casa di
campagna finchè un giorno che aveva piovuto per tutta la settimana entrammo in sala prove e
trovammo gli strumenti che galleggiavano su trenta centimetri d’acqua. Con le vibrazioni
della musica – evidentemente suonavamo davvero a basso volume – s’era spostato il tetto e
veniva giù acqua in quantità. Dovemmo sloggiare. Mariannina, la mamma di Mauro, santa
donna, ci riaccolse in casa acquistando una quantità industriale di tappi per le orecchie.
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Continuammo a provare nel garage di Mauro. L’anno dopo riprendemmo i concerti per feste
dell’Unità e raduni rock. Chiudemmo la stagione alla Festa dell’Unità di Montegranaro e
sfatammo il detto “nemo profeta in patria” perché andò piuttosto bene. Mangiammo
dell’ottimo e galvanizzante stoccafisso cotto a puntino da Renzo e suonammo davvero bene.
Il giorno prima, andando in Vespa, avevo fatto un ruzzolone strusciando il ginocchio destro
sull’asfalto, bruciando i jeans e un bel po’ di ciccia tanto che sembrava di vedere l’osso sotto.
Un male boia. Ma avevo il concerto il giorno dopo per cui feci finta di niente coi miei che
volevano portarmi al pronto soccorso, mi medicai alla bell’e meglio e il giorno dopo andai
regolarmente sul palco con la gamba destra che mi malediceva e il ginocchio bloccato dalla
fasciatura. Suonai normalmente ma senza muovere un passo e questo nell’heavy metal non va
bene. Infatti tra il pubblico c’era Eliseo Mozzicafreddo, mitico chitarrista degli Xenon, uno
dei primissimi gruppi hard rock nelle Marche, che ci fece i complimenti ma rimbrottò perché
disse: “non sei male ma sei statico”. Con lui c’era anche Massimo di Biagio, bassista degli
Xenon, che ci prese a ben volere, venne spesso a sentirci provare e ci insegnò anche alcuni
interessanti giri armonici.
A ottobre organizzammo un raduno al teatro di Sant’Elpidio a Mare, con i Bumble
Bee, mitico gruppo rockabilly di Filottrano, tutti ultra quarantenni con pancetta e camice a
scacchi che suonavano da Dio, i Fata Morgana di Porto Sant’Elpidio che facevano rock
leggero e reggae e un gruppo punk di cui ho rimosso il nome per quanto erano stronzi. Quasi
riempimmo il teatro e fu una grande soddisfazione.
D’inverno provammo e basta ma volevamo fare qualcosa di forte a Montegranaro.
Così a maggio decidemmo di organizzare un raduno dietro le mura. Chiedemmo i permessi al
comune che ci diede solo quelli: corrente e tutto il resto ce la dovemmo pagare da noi. Uliano
ancora ricorda quanto m’incazzai col sindaco e che invettiva feci contro di lui all’apertura del
concerto. Allora il sindaco era Gianni Basso, guarda guarda. Non sapevamo dove prendere il
palco così ci facemmo prestare un’impalcatura da un’impresa edile. Il palco venne troppo
alto, molto dondolante e con sbarre di ferro che fuoriuscivano da ogni dove. Ma andava bene
così. Invitammo I Bumble Bee, i Fata Morgana e il gruppo di Mauro Quarchioni. Il GTM ci
prestò le luci e l’impianto voce fu fornito gratis dal Gruppo Fantasia, complesso folk e liscio
che però non disdegnava un po’ di chitarre distorte ogni tanto se a suonarle erano altri. Il
raduno andò benissimo. Ci presentammo tutti vestiti glam, truccati e pieni di brillantini. La
vergogna non ci apparteneva evidentemente.
Fu l’ultima volta che suonai coi Blizzard. Quell’estate non prendemmo impegni.
Mauro partì con la famiglia e stette fuori un bel po’. Ci chiamarono per la Festa dell’Unità di
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Montegranaro ma non avevamo mai provato per tutta l’estate. Io dissi che non sarei andato a
fare figuracce a casa mia. Gli altri decisero di andare lo stesso anche senza di me. Fu la
rottura. Senza litigi e senza traumi ma i Blizzard finirono lì. Fu abbastanza triste, la fine di
un’epoca e di una fase della vita, anche perché coincise coi miei diciotto anni, con la patente e
con molti altri cambiamenti nella mia vita. Stava iniziando la fase due, quella che qui non
racconterò.
67
Capitolo XXIV
Intanto Radio Veregra
Ci spostammo al piano di sopra nel 1985. Fu un lavoro duro e faticoso ma ne valse la
pena perché di sopra, a parte i soffitti piuttosto bassi, l’ambiente era un’altra cosa. Se non
altro c’erano le finestre. Avevamo due studi separati per la regia e la trasmissione divisi da un
vetro il che faceva tanto tanto professionale. I soci proprietari della radio avevano anche fatto
incetta di strumentazione da un’altra emittente che aveva chiuso i battenti, per cui ci
ritrovammo in studio un mixer gigantesco e fantastico, con tanti effetti e automatismi che
prima ce li sognavamo. I piatti Lenco furono sostituiti da due Tecnics al quarzo, e lì ci
perdemmo, molto meglio i vecchi Lenco a cinghia. Piastre e revox nuovi e uno splendido
microfono Senaizer che faceva una voce chiara e limpida che neanche Gianni Riso.
Ora l’ingresso era lungo le scalette sotto l’arco di piazza e non più in via Enzo Bassi.
Dopo le prime capocciate capimmo subito che bisognava entrare chini. Appena entrati c’era
un accogliente salottino con la scrivania e la bacheca annunci e comunicazioni. Di sotto
rimasero lo studio di registrazione – esattamente dov’era, il bagno e una saletta per le riunioni
dove una volta c’era lo studio di trasmissione.
La programmazione cresceva e c’era molta più gente a trasmettere. Nuove leve come
Claudio Torresi, Loredano Pulcì Zengarini, il trio Cristiano Paccapelo, Marco Tiranti e
Gianluca Corsetti, Tiziano Zengarini. Rossano Pavoni. I programmi prendevano sempre più
un taglio “professionale” o, almeno, miglioravano qualitativamente. La vecchia guardia,
Massimo Strappa, Massimo Grasselli, Gino Cintioli, Franco Viozzi, Valentino Polimanti e “lo
patrò” MM Marcello Marzetti costituivano l’ossatura. Le nuove leve ci facevano guardare al
futuro con ottimismo. Claudio conduceva un quotidiano di musica a richiesta che faceva
arroventare i telefoni, Tiziano prendeva giorno dopo giorno una tale professionalità che
pareva quasi sprecato con noi, il trio proponeva un programma talmente all’avanguardia in
termini di humor che, genialmente, lo soppressero. Rossano faceva un bel programma di
cinema e musica. Il mio Hot Dog andava alla grande ed era ormai un’istituzione come il
Super 80 di Zago e il Made in Italy di Gino e Casepe. Marcello faceva il pre-notturno e
qualche volta ne facevo alcuni anche io. Poi c’erano gli appuntamenti classici: il dedicone di
Natale: tutto il giorno di Natale in diretta con tutti i conduttori a turno davanti al microfono. Il
mio turno fisso per anni fu l’ultimo, quello dalle 21 alle 24, insieme a Giovanni Leonardi.
Con Franco Viozzi, invece, facevamo il “Disco dell’anno”, un quizzone di una puntata
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soltanto, in genere la prima domenica dopo capodanno, dalle otto alle tredici. Domande
piuttosto idiote per avere il diritto di votare e estrazione finale di premi insulsi tramite
collegamento via ponte radio con un’emittente lontana, spesso era una di Pavia. Ricordo un
anno che vinse la Lambada e ricevemmo un migliaio di telefonate. Roba da chiodi. Leggenda.
Capitò anche che venissero a suonare alla Sala Francescani tre mostri sacri del jazz: Franco
Cerri, l’uomo in ammollo di Bio Presto ma anche splendido chitarrista, Enrico Intra, mago del
piano e il magnifico contrabbassista Marco Vaggi. Andammo ad intervistarli io e Giovanni e
fu un’esperienza unica. Solo mi faceva specie vedere Cerri asciutto. Pagherei per avere ancora
una copia di quell’intervista. Sempre con Giovanni facemmo uno special sui Beatles a Natale
che durò tre puntate: la prima fino al 1965, la seconda fino al ’70 e poi la terza sulle carriere
soliste. Fu un lavoro meticoloso di raccolta testi e interviste ma fu premiato da grandi ascolti e
tanti complimenti di ascoltatori entusiasti.
C’erano i veglioni di carnevale, di solito al
palazzetto ma un anno fu fatto al teatro La Perla, per l’occasione sgombro di sedie. Era un
mondo diverso, pensare oggi di fare tutto questo per puro volontariato, senza che nessuno
prendesse una lira o addirittura con gente che ci investiva di tasca propria senza ricavarne
nulla è quasi impossibile. Eppure lo si faceva, Si mandavano in diretta le partite del
Montegranaro Calcio e delle Sutor ogni domenica. Si mandavano in diretta i consigli
comunali. Avevamo anche il nostro giornalista iscritto all’albo: Eugenio Ercoli. Insomma,
un’organizzazione piuttosto precisa e tutto a titolo gratuito, tutto per divertirsi e fare qualcosa
per Montegranaro. Sembra che quello spirito si sia perso. Oggi, almeno la radio così fatta, è
soltanto un ricordo.
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Capitolo XXV
Eighteen and life
Arrivarono i fatidici diciottanni, quelli che ogni adolescente sogna e quando arrivano
non cambia nulla se non il fatto che diventi un numero sulla patente e sul certificato elettorale.
Arrivarono che quasi non me ne accorsi se non per il fatto che era ora di prendere la patente,
la tanto sospirata patente, la fine delle tribolazioni con la Vespa e le corriere. Fino allora
andavo a trovare la ragazza in Vespa d’estate e in corriera d’inverno.
La patente significava la fine degli orari, fine delle attese del pullman sotto la pioggia,
fine degli stop per strada perché la maledetta candela si era sporcata e toccava tirarla giù e
pulirla con la carta vetrata. Ma soprattutto significava la libertà di muoversi e di andare.
Dove? Tirando le somme mi ha fatto andare più di quanto desiderassi. Ma questa è un’altra
storia.
La patente da noi si prendeva da Tonino. Corsi di teoria la sera alle sette all’autoscuola
dietro la Total di Cernetti. Armando cabaretteacher. Era un ex pilota di turismo, aveva fatto
diversi campionati tutti alla guida dell’Alfa Sud e ora insegnava a noi il rispetto del codice
della strada. Scherzi della vita. Tonino Paparello, il titolare, si occupava delle guide con la
Uno diesel, mentre Armando usava una Ritmo. I locali erano angusti e un po’ unti dalla
vicinanza col rifornimento.
Entravi e trovavi un corridoietto stretto stretto dove la gente aspettava contro il muro il
proprio turno di essere serviti da Stefania, la segretaria factotum, che alloggiava nel suo
stanzino e imprecava e fumava e imprecava contro i clienti noiosi. Di fronte all’ingresso si
apriva la porta dell’aula di teoria: bella grossa, tre file doppie di banchi da scuola un po’
troppo bassi, pareti tappezzate di pannelli con dipinti segnali e incroci, due finestre che
davano sul lavatoio di via Martiri D’Ungheria, la cattedra sopra la quale sedeva Armando.
Le lezioni seguivano un copione: dieci minuti di amenità varie dell’istruttore – che
comunque era un abile narratore di barzellette – e poi teoria per mezz’ora. Al termine test. Poi
c’era il libro dei quiz da fare a casa (mai fatti) e le lezioni di pratica di pomeriggio.
Era estate piena quando frequentavo la scuola guida e faceva un caldo boia. Dentro
quelle macchinette alle tre del pomeriggio si scoppiava ma l’aria condizionata “popolare” era
lì da venire per cui era tutto nella norma. Presi la patente a settembre, poco prima della scuola.
Avevo fatto anche delle guide con mio padre perché, al contrario di molti miei coetanei e
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giustamente, babbo mi aveva sempre impedito di toccare la macchina prima del foglio rosa e
dovevo recuperare.
Diedi l’esame di teoria senza aver fatto mai un quiz a casa e lo superai brillantemente.
Quello di pratica me lo salvò Tonino con la pedaliera sul suo lato nel mentre distraeva
l’ingegnere con il giornale. A guidare imparai nei mesi successivi con buona pace della
povera Polo argento di mio padre.
Cominciai ad andare a Potenza Picena il sabato pomeriggio dopo la scuola. Ci mettevo
quasi un’ora all’inizio. Andare a Civitanova o Macerata era un’impresa. Ma per Natale
guidavo in maniera passabile. Tanto che, come ho già raccontato, iniziai ad andare a scuola in
macchina anziché con la corriera. I nonni mi regalarono una vecchia Golf diesel molto usata
ma in buono stato e quella fu la svolta.
Prendere la patente significò il cambiamento totale della mia vita. Mi sganciai
totalmente dalla mia vecchia cerchia di amici e presi ad andare fuori. Avevo la ragazza
altrove, amici sparsi per tutte le Marche e anche oltre e una gran voglia di andare via da
Montegranaro. Stetti via. Per qualche anno a Montegranaro non mi videro più. Era la fase due.
E la fine di questa parte della mia vita.
Abito ancora nel centro storico della mia città, un posto che amo e che vorrei
proteggere dall’incuria, la trascuratezza, l’oblio e la pressa pochezza di tanti che l’hanno
abbandonato a se stesso nel corso degli anni. I profumi sono cambiati, la gente è cambiata, i
plughi della mia infanzia sono degradati, sporchi, privi delle più elementari cure. Ma
passeggiando per le mie strade ancora posso sentire con i sensi della memoria i profumi di
allora, e vedere i colori, e sentire le voci della gente e dei bambini che corrono per i vicoli
attaccati all’apetta degli sformatori, le sgridate dalle finestre delle mamme. Posso vedere
ancora l’apetta gialla di Peppe de Vischeretto e la giardinetta di Alfredo de Meletta. Se chiudo
gli occhi al posto della caldaia del municipio vedo Nicò de Cesarina che affetta il prosciutto e
sento anche l’odore di baccalà e di parmigiano mischiati insieme. Vedo Marietta che sistema i
giornali, e Campanà che scarica le bombole del gas. C’è ancora Ivo il calzolaio a darci di
martello e lesina, c’è Luzio che aggiusta i filati in vetrina. Con la mente vedo tutto questo.
Con gli occhi vedo il degrado e la sporcizia. L’unica cosa che è ancora lì è quella stella della
sera, sopra l’ospedale vecchio, ammiccante subito dopo il tramonto. Quella stella mi conforta.
Se lei è ancora lì forse facciamo ancora in tempo a rimettere a posto le cose. Le lancette
dell’orologio non possono andare indietro. Ma il rispetto per la nostra memoria può essere
recuperato.
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Indice dei capitoli
o Capitolo I – Odori
pag. 2
o Capitolo II – Elementari
pag. 4
o Capitolo III – Primavere
pag. 6
o Capitolo IV – Teo
pag. 8
o Capitolo V – Giochi di Strada
pag. 10
o Capitolo VI – Chitarre
pag. 12
o Capitolo VII – Le Stagioni
pag. 14
o Capitolo VIII – Macchine
pag. 17
o Capitolo IX – Perdere un amico
pag. 19
o Capitolo X – Cardinali
pag. 21
o Capitolo XI – Ritiri
pag. 23
o Capitolo XII – Mare
pag. 26
o Capitolo XIII – La Cricca
pag. 28
o Capitolo XIV – Metallo pesante
pag. 31
o Capitolo XV – 50 Special
pag. 34
o Capitolo XVI – Radio Veregra
pag. 37
o Capitolo XVII – Estate
pag. 41
o Capitolo XVIII – Amori
pag. 44
o Capitolo XIX – The Blizzard
pag. 49
o Capitolo XX – Televisioni
pag. 52
o Capitolo XXI – Ernestì
pag. 54
o Capitolo XXII – Liceo
pag. 56
o Capitolo XXIII – Intanto i Blizzard
pag. 64
o Capitolo XXIV – Intanto Radio Veregra
pag. 68
o Capitolo XXV – Eighteen and life
pag. 70
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