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IL MARGINE
ISSN 2037-4240
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno 35 (2015)
n. 3
IL MARGINE
Fabio Olivetti
3
3
MARZO 2015
Romain Rolland: un Nobel
contro la Grande Guerra
Valeria Rosini
Roberto Antolini
23
Urbanistica e libertà religiosa.
La legge “anti-moschee”
della Regione Lombardia
Francesco Ghia
Guido Ghia
33
Una volta il futuro era migliore…
Novità dalla Casa editrice Il Margine
ROMERO
santo dei poveri
Il martirio di un vescovo convertito dal popolo
Valeria Rosini
Roberto Antolini
URBANISTICA
E LIBERTÀ
RELIGIOSA
Fabio Olivetti
ROMAIN ROLLAND:
UN NOBEL
CONTRO
LA GRANDE GUERRA
Francesco Ghia
Guido Ghia
UNA VOLTA
IL FUTURO
ERA MIGLIORE…
a cura di Piergiorgio Cattani
Trentacinque anni dopo il 24 marzo 1980, quando un sicario della destra
e dei latifondisti uccise con due colpi di fucile il vescovo di San Salvador
Oscar Arnulfo Romero mentre celebrava la messa, il Vaticano ha riconosciuto che il suo martirio fu «in odio alla fede», perché annunciava con coraggio, ogni domenica, il Vangelo dei poveri e degli oppressi, ricordando i
nomi delle vittime di sequestri e omicidi, e puntando il dito contro i potenti e
i militari. Papa Francesco, oggi, lo propone ad esempio per tutto il mondo.
Teologi, filosofi, giornalisti italiani e latino-americani tracciano un ricordo a più voci – con testi in parte già pubblicati dalla rivista “Il Margine”
– di quello che, per il popolo latinoamericano, fin dalla sua morte è stato
«san Romero d’America».
€ 15,00 - www.il-margine.it - [email protected]
Il Margine 35 (2015), n. 3
Al di sopra della mischia2. È questa la genesi, avvenuta a caldo e sotto
l’incalzare degli eventi, della più coraggiosa denuncia della guerra in corso,
per qualche verso paragonabile al J’accuse di Émile Zola nel caso Dreyfus.
Romain Rolland: un Nobel
contro la Grande Guerra
Romain Rolland: l’universalista solitario
FABIO OLIVETTI
«Mentre l’uragano della guerra continua a infuriare,
sradicando le anime più salde e travolgendole nel suo turbine furioso,
io continuo il mio umile pellegrinaggio cercando di scoprire sotto le rovine
i rari cuori rimasti fedeli all’antico ideale della fraternità umana».
(Romain Rolland, Al di sopra della mischia, p. 88)
queste parole vengono scritte, sono trascorse poche settimane
Quando
dall’inizio di quella che per tutti diverrà ben presto nota come la
“Grande Guerra”. Per aggirare le difese francesi e calare su Parigi, l’esercito
tedesco ha violato la neutralità del Belgio, il cui piccolo esercito oppone agli
invasori una resistenza inattesa. Si moltiplicano le voci di efferatezze dei
tedeschi nei confronti della popolazione civile e delle città belghe (patrimonio artistico incluso) e a breve anche di quelle francesi (Reims e la sua cattedrale).
Dopo un primo momento di attonita incredulità1, lo scrittore francese
Romain Rolland decide di scrivere una lettera aperta al poeta tedesco Gerhart Hauptmann, pubblicata il 2 settembre sul “Journal de Genève”, nella
quale denuncia questi misfatti, in particolare la devastazione di Lovanio e
della sua biblioteca. Seguiranno una quindicina di altri articoli (l’ultimo
dell’agosto 1915), raccolti e pubblicati nel novembre 1915, sotto il titolo di
Romain Rolland nacque il 29 gennaio del 1866 a Clamecy, in Borgogna,
figlio secondogenito di una famiglia borghese che annovera tra gli avi diversi notai. Soffre fin da piccolo di problemi respiratori e una salute cagionevole lo accompagnerà per tutta la vita. A confortarlo nei momenti difficili saranno sempre l’amore profondo per la musica e la letteratura – di Beethoven
e di Shakespeare su tutti. La famiglia investe tutto sulla sua formazione e
lascia la provincia per consentirgli gli studi superiori nella capitale. Durante
gli anni del liceo vive una crisi religiosa che lo porterà ad abbracciare una
sorta di spinozismo: «“Tutto ciò che esiste, è in Dio”. E anch’io sono in
Dio», scriverà3. Ammesso all’École Normale di Parigi, vi ritrova il compagno di liceo Paul Claudel, conosce André Suarès e Charles Peguy.
Intanto scopre Tolstoj, il “cercatore di Dio” capace di elevarlo al di sopra
delle angustie del naturalismo francese e di spalancargli una porta
sull’universalismo dei valori umani. Tolstoj sarà al centro di un episodio decisivo nella vita di Rolland. Al giovane studente era capitato infatti di leggere la dura condanna da parte dello scrittore russo, che coinvolgeva proprio i
due idoli del giovane, Beethoven e Shakespeare, precipitandolo in un dilemma atroce: sacrificare la venerazione al grande maestro vivente o quella
ai due artisti immortali? Preso da vera angoscia spirituale, Rolland scriveva
a Tolstoj, ricevendone inaspettatamente (il 14 ottobre 1887) una lunga risposta. Il maestro gli spiegava che «la condizione di ogni vera vocazione non è
l’amore per l’arte, ma l’amore per l’umanità. Chi non ha in sé l’amore per
gli uomini non può sperare di creare un’opera d’arte valida»4. L’impressione
profonda di questo episodio (lo scrittore di fama universale si era premurato
2
1
Così scriveva nel suo diario il 3-4 agosto 1914: «Sono prostrato. Vorrei essere morto. È
orribile vivere in mezzo a questa umanità demente, e assistere, impotente, al fallimento della civilizzazione. Questa guerra europea è, da secoli a questa parte, la più grande
catastrofe della storia, la rovina delle nostre speranze più sacre nella fraternità umana» (Romain Rolland, Journal des années de guerre, 1914-1919, Albin Michel, Paris
1952, pp. 32-33).
3
Romain Rolland, Au dessus de la mêlée, Ollendorff (Paris), Attinger (Neuchâtel) 1915.
Trad.it.: Al di sopra della mischia, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1965; con presentazioni di Gunnar Ahlström, Il conferimento del Premio Nobel a Romain Rolland, pp.
5-22; e di Enzo Giudici, La vita e l’opera di Romain Rolland, pp. 25-100.
3
Romain Rolland, Voyage interieur, riportato in Rolland, Al di sopra della mischia, p. 30.
4
Riportato in Stefan Zweig, Romain Rolland. Der Mann und das Werk, Berlin 1929
(http://gutenberg.spiegel.de/buch/romain-rolland-6912/1).
4
di rispondere all’appello di uno sconosciuto studente) lo segnerà profondamente.
Al termine di un soggiorno di studi a Roma, Rolland consegue il dottorato con una tesi di laurea sulla pittura italiana del XVI secolo e una sulle origini del teatro lirico moderno e per alcuni anni si dedica all’insegnamento
universitario a Parigi. È e resterà sempre un uomo di letture, a suo agio con i
libri più che con le persone reali. Ciò non gli impedisce di prendere posizione – tra i primi – in favore dell’innocenza del capitano di origine ebraica Alfred Dreyfus nel caso politico-giudiziario che lacerò la Francia in quegli anni. Per lui era prima di tutto una questione di giustizia. A mano a mano che
il dibattito va politicizzandosi (monopolizzato da massoneria, anticlericali e
socialisti), Rolland si defila. La vicenda verrà da lui trasposta nel dramma
teatrale Les Loups (I lupi). Diviene intanto uno dei principali collaboratori
dei Cahiers de la Quinzaine di Charles Peguy. Qui pubblicherà, dal luglio
1903 all’ottobre 1912, il romanzo Jean-Christophe, che lo farà conoscere
come scrittore5.
Impossibile rendere conto qui della sua vasta produzione romanzesca,
saggistica e teatrale. Basterà dire – come indicazione della sua forma mentis
– che Rolland concepisce le sue opere per grandi cicli, come se il particolare
non fosse da solo mai sufficiente a rendere l’ampiezza della verità. Ad
esempio il ciclo delle “biografie eroiche” comprendeva monografie su Beethoven, Michelangelo, Tolstoj. Ma la sua passione principale resta il teatro.
Dopo la fine del suo matrimonio (aveva sposato la figlia di un collega
docente), Rolland trascorre alcuni anni di vita anonima in due stanzette al
centro di Parigi. Il suo nome è quasi dimenticato. Nel 1910 viene gravemente ferito da un’auto che lo investe sugli Champs-Élysées. Fosse morto allora,
sarebbe stato ricordato da qualche trafiletto sui giornali e oggi sarebbe quasi
del tutto dimenticato.
5
Lo Jean-Christophe è un’opera difficile da classificare, un romanzo-fiume in dieci libri
(l’edizione completa consisterà in 5 volumi), in cui tutti i problemi dell’epoca vengono toccati, quasi a farne un ideale bilancio. È per certi versi un romanzo di formazione, concepito però come un’opera sinfonica. Protagonista è un eroe della musica modellato per alcuni tratti su Beethoven (tedesco come lui). Ma accanto a lui
l’antagonista complementare, il francese Olivier, l’italiana Grazia, l’Ebreo, e una folla
di altre figure ognuna con i suoi tratti peculiari. Il messaggio è che di ogni nazione,
con i suoi pregi e anche con i suoi difetti, c’è bisogno per realizzare il “il sogno della
sinfonia europea”. Tuttavia nelle pagine finali incombe il triste presagio
dell’approssimarsi della guerra.
5
Il successo, come detto, arriva finalmente con Jean-Christope, il grande
romanzo europeista. Ora che può mantenersi con i proventi sebbene modesti
della sua attività letteraria, Rolland lascia l’insegnamento, che non lo ha mai
veramente entusiasmato. Nel 1913 gli viene conferito il Grand Prix de la
Littérature dell’Académie Française. Appena prima della guerra è dunque
un autore affermato, quantunque non di primo piano. Di certo è il rappresentante maturo di una generazione europea colta per la quale lo spirito umano
e i suoi prodotti (arte, musica, letteratura, scienze ecc.), anche se nati e cresciuti in specifici contesti nazionali, non hanno nulla a che vedere con gli
angusti confini degli Stati. A questa convinzione Rolland non verrà mai meno. L’amico scrittore austriaco Stefan Zweig ce ne restituisce l’impressione
ricevutane dopo il primo incontro, nel 1913.
«In lui io sentii … una superiorità umana ed etica, un’intima libertà senza orgoglio, libertà spontanea e naturale di un’anima forte. Sin dal primo sguardo riconobbi in lui, e il tempo mi dette poi ragione, l’uomo che nel momento decisivo
sarebbe divenuto la coscienza dell’Europa»6.
Allo scoppio della guerra Rolland si trova in Svizzera, paese che non lascerà per tutto il corso della guerra (avendo all’epoca 48 anni non sarebbe
comunque stato arruolato nell’esercito francese). Qui si assumerà tutt’altro
tipo di combattimento, quello contro la guerra stessa, attraverso due modalità: il volontariato nell’Agenzia Internazionale dei Prigionieri di guerra (dipendente dalla Croce Rossa Internazionale) e l’attività di scrittore a servizio
delle coscienze.
Il 9 novembre 1916 (con un anno di ritardo, a causa degli eventi bellici)
gli viene attribuito il premio Nobel per la letteratura del 1915: «In omaggio
al grande idealismo dei suoi scritti e alla simpatia e alla verità con la quale
egli dipinse differenti tipi umani»7, recita la motivazione ufficiale, invero un
po’ dimessa, a causa delle circostanze storiche. Il premio verrà da Rolland
devoluto alla Croce Rossa e a opere di beneficienza francesi. Nella sua lettera di ringraziamento all’Accademia Svedese, egli riconosce il debito nei
confronti del proprio Paese:
6
7
Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994, p. 165.
Riportato da Gunnar Ahlström, Il conferimento del Premio Nobel a Romain Rolland, in
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 22.
6
«è a esso che devo la parte migliore del mio idealismo e l’indistruttibile fede nella umanità fraterna. Io non sono che il troppo debole interprete e servitore fedele
dello spirito della ragione, della tolleranza e della pietà, che è l’eredità di Montaigne, di Voltaire e dei filosofi del XVIII secolo»8.
Nella conclusione della lettera lo sguardo di Rolland è rivolto al futuro,
alla nuova Europa che dovrà venire a dispetto della tragedia del presente.
Dal suo rifugio svizzero Rolland diviene l’alfiere di quanti ritenevano insensato proseguire la guerra fino al conseguimento di una vittoria totale da
parte di uno degli schieramenti. Svolge – mentre quasi tutti recidevano rapporti e alzavano muri – un’infaticabile attività di contatti con quanti appartenevano al novero delle nazioni nemiche (Germania, Austria). Cerca incessantemente di stringere dei legami, di influire sull’opinione pubblica, di dare
voce a chi non ne ha a causa delle censure governative (delle quali è peraltro
lui stesso spesso vittima). Pacifisti e obiettori di coscienza si riconoscono in
lui, gli scrivono e gli fanno visita. Ai tanti obiettori di coscienza che gli scrivono per avere consigli su come comportarsi, Rolland suggerisce di seguire
la propria coscienza. Non c’è un’unica fedeltà per tutti; ognuno deve esserlo
in primo luogo a se stesso. L’importante è non tradire la propria fede per seguire quella di un altro, la propria strada per una estranea. Rolland non condanna nemmeno chi, in buona fede, abbraccia le armi per servire la Patria,
come Péguy. La vera tragedia è che le masse vengono trascinate a servire
idee loro estranee (razza, nazione ecc.)9. Lenin avrebbe addirittura voluto
portarlo con sé in Russia nel 1917, cosa che Rolland rifiutò per poter continuare ad essere al di sopra delle parti. Dai nazionalisti francesi, che lo considerano un traditore, gli arrivarono invece attacchi pieni di dileggio e
d’odio feroce. A un certo punto lo stesso “Journal de Genève” cessa di accogliere gli articoli di Rolland.
Dopo la guerra, l’impegno intellettuale di Rolland continua in Francia.
Su l’“Humanité”, in un articolo pubblicato il 23 giugno 1919, il trattato di
Versailles è da lui definito una «triste pace», «un intermezzo derisorio tra
due massacri di popoli». Si attiva per la stesura di un manifesto, la Dichiarazione d’indipendenza dello spirito (redatta nel marzo 1919 e pubblicata
8
9
Riportata da Gunnar Ahlström in Romain Rolland, Al di sopra della mischia, p. 21.
Zweig osserva giustamente: che cosa sarebbe accaduto se ognuno (ogni cittadino, ogni
contadino, ogni artista) avesse realmente consultato la propria coscienza, prima di
gettarsi a capofitto nella mischia, e si fosse chiesto se quella era la sua guerra? (Cfr.
Stefan Zweig, Romain Rolland)
7
sull’“Humanité” del 26 giugno), firmato tra gli altri da Croce, Tagore, Hesse, Russell, Zweig. In essa si invitano gli intellettuali a fare da guide
all’umanità, a «servire liberamente la libera verità, che non conosce alcuna
frontiera esterna, alcun pregiudizio di popoli, alcun diritto particolare di una
singola classe»; esiste solo «il popolo di tutti gli esseri umani, che sono nostri fratelli»10.
Nel dopoguerra nuove sue opere hanno un discreto successo. Rolland resta paradossalmente un solitario, restìo a farsi inquadrare in qualsivoglia
ideologia, popolo, nazione, classe. Di qui il fascino che esercitava su molti,
ma anche la sua difficoltà nel farsi ascoltare e l’irritazione che provocava in
chi avrebbe voluto arruolarlo dalla sua parte11. Dal 1921 è di nuovo in Svizzera, a Villeneuve, dove soggiornerà fino al 1937. Il suo interesse si volge
ora all’Oriente. È tra i primi a far conoscere in Occidente la figura di Gandhi, con la biografia Mahatma Gandhi (1923); inoltre gli si deve
l’espressione “sentimento oceanico” (cioè di immersione nel Tutto), che egli
fa risalire all’esperienza hinduista. Ne discuterà con Freud nel 1923. Seguiranno La Vie de Ramakrishna (1930), La Vie de Vivekananda et l’Evangile
universel.
L’Oriente non gli fa peraltro dimenticare l’Occidente: con un gruppo di
amici è promotore della rivista “Europe”. Con tutto il suo idealismo, Rolland rimane uno scrittore ‘impegnato’, e proprio in questo suo engagement
emergono le contraddizioni tra il suo universalismo di principio, sostenuto
dall’afflato di sintesi e di armonizzazione delle ragioni e delle buone intenzioni di tutti, e le contingenze storiche, che lo spingono a prese di posizione
determinate12. Questo spiega le reazioni contrastanti che egli di volta in vol-
10
Stefan Zweig, Romain Rolland.
«Con il proletariato, tutte le volte che rispetterà la verità e l’umanità. Contro il proletariato, tutte le volte che violerà la verità e l’umanità. Nessuna classe privilegiata – né
in alto, né in basso – davanti ai valori umani» (risposta a A. Dumas, nell’“Humanité”
del 12 marzo1922 (riportata in Romain Rolland, Al di sopra della mischia, p. 42)
12
Mi sembra lucido e condivisibile, a riguardo, il giudizio di Enzo Giudici (Presentazione, in Romain Rolland, Al di sopra della mischia, pp. 56-57): «Quest’uomo dal
carattere chiuso, anche se apparentemente espansivo, questo individualista
infiammato dall’amore per l’Umanità, questo sognatore che vuole effettivamente
riformare il mondo …, si è perciò stesso trasformato inevitabilmente in uno scrittore
engagé, cadendo in tutte le interferenze fra l’assoluto e il relativo, l’universale e il
particolare, la dottrina e la storia. … Estraneo alla politica, vi si è trovato immerso
senza volerlo; partigiano di un giudizio meditato e riflessivo, ha dovuto invece
11
8
ta suscita. Si avvicina al comunismo della Terza internazionale (senza peraltro essere mai iscritto al Partito). Nel 1935 si reca a Mosca su invito di Gorkij. Qui incontra Stalin. In questo periodo ritrova nuovamente la popolarità
in Francia, quella comunista. Dopo la vittoria del “Fronte popolare” (la coalizione delle sinistre) alle elezioni del 1936, a Parigi si sfila addirittura in
suo onore (ma lui non si presenta, perciò la sfilata avviene davanti al suo
ritratto). I processi farsa e le purghe staliniane lo turbano molto, ma di questi
turbamenti si confida solo in privato con pochi intimi. Nel 1937 Rolland si
stabilisce a Vézelay (a 23 km da Clamecy). Nel 1938 denuncia gli accordi di
Monaco che consegnano i Sudeti e poi l’intera Cecoslovacchia a Hitler.
Quando Stalin invade la Polonia ritira la sua adesione all’“Associazione degli amici dell’Unione Sovietica”.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale esprime per lettera al presidente francese Daladier la propria fedeltà alla Francia e al mondo democratico minacciato, poi si ritira completamente a vita privata. Trascorrerà gli
ultimi anni dedicandosi alla pubblicazione delle sue ultime opere: il dramma
rivoluzionario Robespierre (1943) le memorie (Viaggio interiore, 1942), il
completamento dell’imponente studio su Beethoven (1944) e il volume su
Péguy (postumo, 1945). Nell’ultimo periodo si riavvicina al cattolicesimo
(rilegge e annota i Vangeli), anche grazie alle conversazioni con Claudel.
Farà in tempo a vedere la Francia nuovamente invasa dalle truppe tedesche
– questa volta quelle naziste. Il suo silenzio è totale e il suo nemico ora è la
malattia. Muore il 30 dicembre 1944 a Vézelay. Viene seppellito, con funerali religiosi, a Clamecy, poi trasferito al vicino cimitero di Brèves secondo
una volontà da lui espressa.
Al di sopra della mischia
Dopo questo profilo biografico, utile per comprendere la ricchezza e la
complessità della persona, si può tornare a narrare quanto avvenne all’inizio
del primo conflitto mondiale. Alla vigilia della Grande Guerra Rolland era
da poco divenuto un autore affermato. Con la pubblicazione degli articoli
che andranno a comporre Al di sopra della mischia, questa notorietà veniva
da lui completamente messa in gioco. Come già accennato, gli arrivano aspri
esprimerne subito uno. La celebrità è stata per lui una prigione assai più grave della
solitudine».
9
attacchi dalla patria, dove verrà considerato senza mezzi termini un traditore
(«quest’anno, il premio Nobel non sarà di duecentomila franchi, ma di trenta
denari, visto che è Romain Rolland ad averli», arrivò a scrivere sferzante un
suo detrattore)13. Mentre i soldati francesi versavano il loro sangue sulla
Marna, Rolland, al riparo in uno Stato neutrale, dispensava elogi alla cultura
tedesca!
Per comprendere tanta ostilità dobbiamo ricordare il clima dell’epoca:
una vera febbre bellicista si era diffusa, soprattutto tra i ceti medio-alti, i più
sensibili alle tematiche nazional-patriottiche. Tra i più entusiasti bellicisti
troviamo in molti casi dei veri insospettabili: intellettuali (giornalisti, scrittori, professori di scuole superiori e università, artisti), che si gettano nella mischia armati di parole infuocate (ma in qualche caso anche di fucile, arruolandosi nei rispettivi eserciti). Proprio coloro dai quali ci si sarebbero attesi
ponderatezza e capacità di giudizio si lasciarono andare all’animosità, prestandosi a fornire slogan, poesie o addirittura articolate giustificazioni della
guerra. Da parte di storici, letterati, scienziati, giuristi, medici e persino teologi ne derivò un profluvio di produzione volta a sostenere le ragioni del
proprio Paese in guerra. Il tema ricorrente era la difesa della “civiltà” (sempre identificata con quella della propria nazione e razza) contro la barbarie
del nemico. Tutte le parti coinvolte cercarono da subito di rovesciare le responsabilità sul nemico ciascuna dichiarando che si stava solo difendendo e
che lottava per la propria sopravvivenza.
Le pagine rollandiane, al contrario, sono pervase da una tenace volontà
di sintetizzare e di armonizzare gli opposti. Non nascono dall’odio di parte,
ma dalla sofferenza del vedere infranta l’unità della civiltà umana. In esse la
volontà di ristabilire la giustizia non è mai congiunta con quella di annientare il nemico. La preoccupazione di Rolland fu instancabilmente quella di
mettere in luce ciò che univa i contendenti – la loro appartenenza alla comune civiltà umana, la comune sofferenza –, di scoprire i segni di fraternità che
non cessavano di presentarsi tra i soldati e i civili delle parti in lotta. Per
raggiungere il suo scopo, Rolland non rinunciò a nessun argomento, appellandosi di volta in volta alla carità cristiana, all’internazionalismo socialista,
alla ragione dei Lumi.
Il dramma che Rolland visse, allo scoppio della guerra, fu anche personale. Come molti altri intellettuali e artisti della sua epoca, aveva vissuto da
europeo, immerso in una fitta rete di contatti, scambi, amicizie che si esten13
Riportato da Gunnar Ahlström in Romain Rolland, Al di sopra della mischia, p. 16.
10
deva al di sopra e al di là dei confini nazionali. Doveva ora essere tutto sacrificato in nome della patria in guerra? In molti lo fecero, rifiutando in
blocco tutto ciò che proveniva dal nemico (lingua, storia, cultura) e rinnegando persino le amicizie di un tempo. Lo stesso Stefan Zweig – che gli sarà
poi vicino e solidale – nel messaggio Agli amici in terra straniera14 prendeva le distanze dagli amici oltreconfine. La risposta di Rolland, per lettera,
non si fece attendere: «Io sono più fedele di Lei alla nostra Europa, caro Stefan Zweig, e non rinnego nessuno dei miei nemici»15. Fu per questa disposizione di spirito che Rolland poté divenire la «coscienza morale d’Europa»16.
Ne nacquero le pagine di Al di sopra della mischia, scritte sotto
l’incalzare degli eventi e sulla base delle impressioni a caldo dell’autore.
Queste pagine dovevano tenere conto della censura, per sperare di essere
pubblicate anche in Francia, dove comunque faticarono a essere diffuse. Per
questo a volte sono più caute di quanto ci aspetteremmo. Come osserva Enzo Giudici, esse vanno integrate con quelle del Journal des années de guerre, che le completano e le avviano «verso un universalismo più vero e più
tolstojano»17.
La raccolta inizia con una Lettera aperta al poeta tedesco Gerhart Hauptmann. Contiene una dura denuncia delle responsabilità della Germania e
dell’imperialismo prussiano che l’ha condotta a una guerra di aggressione
presentandola come inevitabile.
nipoti di Goethe o di Attila?»19. Il matrimonio tra la grande cultura tedesca,
la “vera” Germania di Beethoven, Leibniz, Goethe, e il militarismo prussiano è impossibile. Quando poi apprende che i tedeschi hanno bombardato la
cattedrale di Reims, Rolland in un nuovo articolo (Pro Aris, Per l’Arca) denuncia il crimine, insistendo sulla necessità di preservare il patrimonio della
civiltà umana («l’Arca Santa dell’arte e del pensiero dei secoli»20). Già in
questo secondo articolo va segnalata inoltre la comparsa di un tema che diverrà sempre più centrale: quello della responsabilità dei «rappresentanti
dello spirito», ossia gli intellettuali, che abdicando ai loro compiti specifici
di cercatori della verità si sono trasformati in «allucinate guide».
«Di certo anche gli intellettuali sono colpevoli. Infatti, se possono essersi fatte
ingannare le persone semplici che in ogni paese accettano docilmente le notizie
date loro in pasto dai giornali e dai capi, la stessa cosa non è perdonabile a chi
per professione cerca la verità in mezzo all’errore»21.
Ma è nell’articolo che poi darà il titolo alla raccolta, Al di sopra della
mischia22, che Rolland allarga il campo dalle responsabilità della Germania
(pur preponderanti) a quelle di tutti.
«I capi di Stato, lo so, i criminali fautori delle guerre, non osano assumersene la
responsabilità: ognuno di essi si sforza di gettarne il peso sull’avversario. E i popoli si lasciano condurre, docili, e si rassegnano dicendo che tutto ciò è la volontà di una forza superiore a quella degli uomini. … Gli uomini hanno inventato il
destino per attribuirgli le calamità dell’universo che avrebbero avuto il dovere di
governare. Niente fatalità! La fatalità è ciò che vogliamo; e ancora più spesso è
ciò che non sappiamo abbastanza volere. In questo momento ciascuno reciti il
«Io non ritengo, come fate voi, che la guerra sia una fatalità … La guerra è il
frutto della debolezza e della stupidità dei popoli. Si può soltanto compiangerli,
non serbar loro rancore»18.
La Germania rimane per Rolland un Paese di grande cultura, cui il mondo è debitore, ma i tedeschi devono venire in chiaro con se stessi: «Siete i
14
Stefan Zweig, An die Freunde in Fremdland, testo parzialmente riportato in Nikolaus
Unger, Remembering Identity in Die Welt von Gestern. Stefan Zweig, Austrian German Identity Construction and the First World War, in “Focus on German Studies”,
12 (2005), pp. 95-116.
15
Stefan Zweig, Briefe 1914-1919, riportato in Unger, Remembering Identity, p. 109.
16
Zweig, Il mondo di ieri, p. 213.
17
Giudici, La vita e l’opera di Romain Rolland, in Rolland, Al di sopra della mischia, p.
83.
18
Romain Rolland, Al di sopra della mischia, p. 112.
11
19
«Io non sono uno di quei francesi che definiscono barbara la Germania: conosco la
grandezza intellettuale e morale della vostra potente razza, so tutto ciò di cui sono debitore ai pensatori della vecchia Germania» (Rolland, Al di sopra della mischia, p.
111). Poco sotto, Rolland può citare il «nostro Goethe», perché, per lui, il tedesco
Goethe appartiene in realtà a tutta l’umanità.
20
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 115.
21
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 117. Tra gli intellettuali che si distinsero per entusiasmo guerrafondaio vi era Thomas Mann, che poneva al di sopra di tutto il diritto
della superiore Kultur germanica di affermarsi contro la civiltà (un progresso
senz’anima) occidentale. Ma in generale veramente pochi seppero sottrarsi: tra questi
possiamo menzionare Hermann Hesse, Karl Kraus, Arthur Schnitzler, Albert Einstein.
22
Pubblicato nel “Journal de Genéve” il 15 settembre 1914.
12
mea culpa! L’élite intellettuale, la Chiese, i partiti operai… nessuno ha voluto la
guerra… E sia! Ma che cosa hanno fatto per impedirla? Che fanno per attenuarla? Alimentano l’incendio. Ciascuno porta il proprio fascio di legna»23.
In particolare hanno mostrato tutta la loro debolezza il socialismo e il
cristianesimo, le due «potenze morali» sovranazionali che per loro essenza
avrebbero dovuto sottrarsi alle fanfare del nazionalismo bellicista, mentre se
ne sono fatte irretire nel timore di essere giudicate scarsamente patriottiche.
I socialisti (salvo poche eccezioni) si sono affrettati a sotterrare i loro princìpi internazionalisti, a votare i crediti di guerra e a costituire governi di unità nazionale con coloro che avevano deciso la guerra24. Sì, perché per tutti
(aggrediti e aggressori) quella era una guerra difensiva. Con amara ironia,
commentando la morte in guerra del deputato socialdemocratico tedesco
Ludwig Frank (che fino a prima di arruolarsi volontario era il principale fautore della riconciliazione franco-tedesca), Rolland osserva che: «uomini del
genere, che non hanno il coraggio di morire per la loro fede, hanno ben
quello di morire per la fede degli altri»25. Ma che dire dei cristiani e dei loro
capi, i rappresentanti del «Principe della pace»? Corrono – vescovi, preti,
religiosi in testa – a dimostrare amore per la patria e a incitare i fedeli al sacrificio della vita per la vittoria della patria. Rolland si guarda bene dal disprezzare queste manifestazioni. La patria merita di essere amata e difesa.
Ma c’è qualcosa che non va.
«No, l’amore della mia patria non esige che io nutra odio e uccida le anime pie e
fedeli che amano le altre patrie, esige che io le onori e cerchi d’unirmi a loro per
il bene comune»26.
sé il prossimo? Io so bene, povere anime, che molti di voi offrono il loro sangue
piuttosto che versare quello degli altri… Ma quanta debolezza, in fondo! Confessate dunque che, mentre non tremate di fronte alle pallottole e agli shrapnels,
tremate di fronte all’opinione pubblica sottomessa a un idolo sanguinoso e posto
più in alto del tabernacolo di Gesù: il geloso orgoglio di razza! Cristiani dei
giorni nostri, non sareste stati capaci di rifiutare i sacrifici agli dei della Roma
imperiale»27.
E Pio X, il «Giove del Vaticano» che aveva trovato accenti tonanti contro inoffensivi sacerdoti che si erano lasciati tentare «dalla nobile chimera
del modernismo», era invece rimasto silenzioso contro i capi delle nazioni
che mandavano al macello i loro popoli. Pseudo-giustificazioni per giustificare l’ingiustificabile.
«Non esisteva alcuna ragione per giungere a una guerra fra i popoli occidentali:
fratelli di Francia, fratelli d’Inghilterra, fratelli di Germania, a dispetto di quanto
ripete una stampa avvelenata da chi ha interesse ad alimentare i rancori, noi non
ci odiamo. Io vi conosco, e conosco noi: i nostri popoli chiedevano soltanto la
pace e la libertà»28.
Eppure la mischia è davvero in atto e ogni popolo si sente ed è effettivamente minacciato. Chi li ha scagliati gli uni contro gli altri? E tra gli imperialismi, quello delle “tre aquile rapaci” (la tedesca, l’austriaca e la russa),
il più pericoloso e il primo da abbattere è quello del Reich guglielmino. Lo
zarismo russo segue a ruota. Ma ogni popolo deve fare i conti con una qualche sua forma di imperialismo (che sia militare, finanziario, feudale, repubblicano, socialista, intellettuale).
Per consolarsi di tradire gli ordini del loro Maestro, i cristiani invocano
la virtù del sacrificio, che la guerra esalterebbe. Ma – obietta Rolland – non
ci sono ben altri modi per esercitarla?
«Il nemico peggiore non è al di là delle frontiere, ma all’interno di ogni nazione,
e nessuna di esse ha il coraggio di combatterlo. È un mostro che si chiama imperialismo, è la volontà d’orgoglio e di dominio che vuole assorbire o sottomettere
o abbattere tutto, che non tollera alcuna libera grandezza all’infuori della propria»29.
«La dedizione di un popolo non può servire a niente di meglio che alla rovina
degli altri popoli? E non è possibile sacrificarsi, o cristiani, senza sacrificare con
Si vede qui che Rolland non rinuncia a distinguere tra i diversi tipi di responsabilità e il loro peso. Non c’è equiparazione delle cause in gioco; c’è
23
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 130.
Così i socialisti francesi, i socialdemocratici tedeschi, quelli austriaci, i laburisti inglesi.
Uniche eccezioni i partiti socialisti in Italia, Russia e Serbia.
25
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 130.
26
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 131.
24
13
27
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 132.
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 132.
29
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 133.
28
14
una gerarchia dei valori da difendere e dei pericoli da contrastare. La ricca
sinfonia dei popoli, data dalla specificità di ciascuno, i prodotti della cultura
(di tutte le culture) vanno preservati; l’imperialismo, ma anche il nazionalismo e il razzismo, che lo accompagnano, vanno combattuti, perché impediscono a ciascuno di «coltivare il proprio giardino». È evidente che per Rolland essere “al di sopra della mischia” non significa rifugiarsi in una imparzialità appiattente. Significa trovare in sé la forza di non lasciarsi coinvolgere in dinamiche deliranti, che in un breve tempo possono spazzar via ideali
di umanità, fratellanza, giustizia che sembravano consolidati nelle coscienze
e nelle prassi.
«Sento l’esigenza di capire le ragioni del mio avversario: credo ch’egli sia una
persona appassionata e sincera come me. Perché non fare uno sforzo per comprenderci? Ciò non eviterà che ci si combatta, ma forse soffocherà l’odio, che è
mio nemico più dei miei nemici»30.
«Il nostro prossimo, il nemico»
Mentre, da un lato, la dura denuncia del militarismo e dell’imperialismo
tedesco non verrà mai meno, dall’altro l’accento si sposterà sempre più sulle
sofferenze di tutte le parti in causa e sul cosa fare per lenirle. Col passare dei
mesi – scrive Rolland nell’Introduzione alla raccolta – «i sentimenti si sono
evoluti dallo sdegno alla pietà»31. Rolland comprende con chiarezza che una
volta scatenata la guerra non può più essere fermata. Si può però operare per
renderla meno aspra, per lenire qualche sofferenza. Il lavoro non manca: ci
sono i prigionieri di guerra, che si trovano in terra nemica, lontani dalle proprio paese e dalle proprie famiglie, senza possibilità di ricevere o far pervenire notizie. Per questo venne attivata l’“Agenzia internazionale dei prigionieri di guerra”, cui Rolland, assieme ad altri volontari, presta il proprio contributo. Si tratta di far arrivare pacchi ai prigionieri e notizie alle loro famiglie. Rolland, assieme ad altri volontari, si mette a disposizione per rispondere a migliaia di familiari che chiedono notizie sui loro cari.
La guerra ha poi prodotto il dramma nuovo dei prigionieri civili,
anch’essi deportati (le vittime più innocenti della mischia) e bisognosi di
assistenza. Al di là degli effetti pratici minimi di quest’opera, è il suo signi30
31
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 138.
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 109.
15
ficato che preme a Rolland. Tutte le nazioni hanno soldati caduti in prigionia
e a volte il nemico si prende cura di loro come può, date le contingenze belliche. Questo va fatto sapere, al fine di «mostrare ciò che rimane di umano
nel più accanito nemico»32. Il senso di umanità, dove può manifestarsi, non
cessa di unire i contendenti. Come pure la sofferenza comune: «sono, gli uni
e gli altri, soltanto povere greggi d’esseri umani, uguali di fronte al dolore»33. Di qui l’ardita equiparazione rollandiana: «Il nostro prossimo, il nemico»34, che doveva suonare come una bestemmia agli orecchi degli infervorati della guerra, per chi vedeva nel nemico solo il “disumano” per eccellenza.
«Chi abbatterà gli idoli?»
L’umanità del nemico è nascosta da idoli ideologici che reclamano sangue. Hanno sempre accompagnato la storia umana, perché sono gli uomini
stessi a crearli. Alcuni sono vecchi: quelli delle religioni, delle patrie, della
libertà giacobina; altri sono nuovi, come quelli della razza o della Kultur.
Ma loro la genesi è sempre la stessa.
«La caratteristica comune al culto degli idoli è l’adattamento di un ideale ai cattivi istinti umani. L’uomo coltiva i vizi da cui trae vantaggi; ma ha il bisogno di
legittimarli; non vuole sacrificarli: deve idealizzarli. Per questa ragione il problema che non ha mai cessato di tormentarlo, nel corso dei secoli, è stato quello
di conciliare un ideale con la propria mediocrità. E ci è sempre riuscito»35.
Per la folla l’incongruenza logica che ne scaturisce non è un problema.
Ma per gli intellettuali sì.
«Eccoli allora al lavoro, per dare coerenza a qualsiasi impasto di ideale e passionale. Mostruosi capolavori. Date a un intellettuale un ideale qualsiasi e una qualsiasi cattiva passione, e troverà sempre il modo per farli andare d’accordo: per
bruciare, uccidere e saccheggiare sono stati invocati l’amore verso Dio e l’amore
verso gli uomini»36.
32
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 149.
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 154.
34
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 188.
35
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 165 (con lievi modifiche).
36
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 165-166 (con lievi modifiche).
33
16
Attraverso dei veri e propri giochi di prestigio gli intellettuali confezionano dunque delle pseudo-giustificazioni della guerra. Ecco allora legittimata la guerra della Kultur tedesca contro la decadente civilisation francese e
inglese. Per non parlare dei russi, definiti “barbari” tout court.
Una delle manifestazioni più imbarazzanti di questo clima fu l’Appello
al mondo della cultura! (Aufruf an die Kulturwelt!) del 4 ottobre 1914, firmato da 93 professori tedeschi (scienziati, storici, sociologi, filosofi, teologi), tra cui alcuni illustrissimi (come Ulrich Wilamowitz, Friedrich Meinecke, Werner Sombart, Max Planck). Consisteva in una serie di puerili «Non è
vero che…» (che la Germania ha causato la guerra, che ha violato, che ha
infierito ecc.); vi si proclamava, in modo ingenuo, che la Germania non aveva voluto la guerra e che stava semplicemente lottando per difendere la propria Kultur minacciata. Si respingeva l’accusa secondo cui l’esercito tedesco
avrebbe compiuto misfatti in Belgio e Francia. Soprattutto si ribadiva che
«l’esercito tedesco e il popolo tedesco sono una cosa sola». Diversi firmatari, successivamente, ne presero le distanze, affermando di non aver saputo
chiaramente che cosa firmavano e di aver dato il loro consenso solo spinti
dai nomi prestigiosi di altri firmatari37.
D’altra parte, per Rolland, neanche gli intellettuali francesi sono stati
all’altezza del loro compito, anche se i loro idoli sono tutto sommato meno
pericolosi.
«Non mi piace il loro abusare dell’idolo della razza, o della civiltà o della latinità. Non amo nessun idolo, nemmeno quello dell’umanità. ... Ma bisogna ricono37
Il 16 ottobre 1914 appariva in Germania un altro manifesto, firmato da quattromila docenti delle Hochschulen tedesche (il cosiddetto “Manifesto dei quattromila”).
Dall’estero le risposte non si fecero attendere e in breve si scatenò una guerra (parallela all’altra) di manifesti e contro-manifesti – cui non erano estranee le agenzie di
propaganda dei vari Paesi – combattuta dagli accademici tedeschi contro l’Inghilterra;
da accademici e scrittori inglesi contro il militarismo e l’imperialismo tedeschi; normalisti francesi (con Bergson in prima linea, per il quale «la lotta contro la Germania
è la lotta stessa della civiltà contro la barbarie») contro accademici tedeschi. A questi
si affiancavano i Manifesti dei paesi neutrali (Olanda, Spagna, Svezia). Sulla questione cfr. Bernhard vom Brocke, La guerra degli intellettuali tedeschi, in Gli intellettuali e la Grande guerra, a cura di Vincenzo Calì, Gustavo Corni, Giuseppe Ferrandi, il
Mulino, Bologna 2000, pp. 373-409. Si vedano anche, all’interno dello stesso volume, i contributi di Wolfgang J. Mommsen, Intellettuali, scrittori, artisti e la Prima
guerra mondiale, 1890-1915, pp. 41-58; Claus Amann, Il tradimento degli intellettuali: il caso austriaco, pp. 351-371.
17
scere che né da una parte né dall’altra gli intellettuali hanno fatto molto onore
all’intelligenza: nessuno l’ha saputa difendere dal soffio della violenza e della
follia»38.
Rolland rileva una debolezza colpevole di fondo dell’intellettuale, consistente, a un tempo, nella sua distanza dalla realtà e dalla volontà di intervenirvi.
«L’intellettuale vive troppo nel regno delle ombre, nel regno delle idee. Le idee
non hanno un’esistenza autonoma, esistono per le esperienze e per le speranze
che possono dar loro un significato. Le idee sono sintesi, ipotesi, cornici in cui
inquadrare ciò che fu o sarà, formule comode e necessarie, di cui non si può fare
a meno per vivere e per agire. Ma il male è che si giunge a farne delle opprimenti
realtà; e nessuno vi contribuisce più dell’intellettuale, che per deformazione professionale, è sempre tentato di subordinare ad esse le cose reali. Se poi sopraggiunge una passione collettiva che lo acceca del tutto, essa si insinua nell’idea
che può meglio servirla e le trasfonde il proprio sangue, mentre l’intellettuale la
magnifica. Allora nell’uomo non sussiste nient’altro che il fantasma del suo spirito, in cui si sono uniti il delirio del cuore e quello del pensiero. Per questa ragione, nell’attuale crisi, gli intellettuali non solo sono stati coinvolti più degli altri nel contagio bellico, ma hanno contribuito in modo prodigioso a propagarlo»39.
La denuncia di quella che nel 1927 il saggista francese Julien Benda
chiamerà «la trahison des clercs» (ossia il tradimento degli intellettuali che
«si mettono a fare il giuoco delle passioni politiche»40) è qui chiaramente
anticipata. Addomesticati dalla propaganda e arruolati dai rispettivi governi,
gli intellettuali sono stati decisamente al di sotto del loro ruolo e della loro
responsabilità asservendo la cultura agli opposti nazionalismi guerrafondai.
Si chiede Rolland:
«Chi abbatterà gli idoli? Chi aprirà gli occhi ai loro fanatici settari? Chi farà loro
capire che nessuna divinità del loro spirito, sia essa religiosa o laica, ha il diritto
di venir imposta ad altri uomini, e di umiliarli, anche se può sembrare la migliore?»41.
38
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 170.
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 171.
40
Julien Benda, Il tradimento dei chierici, Einaudi, Torino 1976.
41
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 172.
39
18
Il fatto che l’opinione pubblica abbia acquistato un potere immenso – lo
provano gli sforzi fatti da tutti i governi per influenzarla a proprio vantaggio
contro il nemico – costituisce una formidabile possibilità per gli intellettuali
di tutti i Paesi: «anche nel corso di una guerra, è un delitto per un’élite compromettere l’integrità del proprio pensiero»42. Sono soprattutto le vecchie
generazioni di intellettuali a partecipare con passione alla guerra («si potrebbe dire che questa è la loro guerra»): professori, poeti, letterati, artisti,
scienziati in genere già affermati.
Per sentire qualcosa di diverso – almeno uno sforzo di imparzialità – bisogna guardare ai giovani letterati, alle piccole minoranze dei «giusti» attenti alla verità, in mezzo «al contagio morale». Rolland cerca di raccogliere
queste voci, ovunque si levino, e di divulgarle. Suo intento è di dare voce
anche a chi – tra tutte le parti in lotta – è dalla parte della ragione, del diritto
e della libertà della pace. Che è come dire: dell’umanità.
Per l’Europa di domani
Lo sguardo di Rolland è costantemente rivolto verso il futuro, allo ristabilimento dei rapporti, alla ricostituzione di quella repubblica degli spiriti
che era andata infranta, ma di cui sente di dover preservare anche i più piccoli semi. «Voi pensate alla vittoria. Io penso alla pace che la seguirà»43.
Nella Lettera a Frederik van Eeden Rolland chiarisce il suo intento di ricostruire l’unità europea per ridare all’Europa il suo vero ruolo nel contesto
della storia umana.
«È bene unirsi fra anime libere che si difendono contro le passioni del nazionalismo scatenato. Nell’abominevole mischia in cui i popoli s’avventano gli uni contro gli altri dilaniando la nostra Europa, salviamo almeno la bandiera e facciamo
blocco intorno ad essa. Bisogna ricostruire un’opinione pubblica europea: è il
compito più urgente. Fra migliaia d’uomini che sanno essere soltanto tedeschi,
austriaci, francesi, russi, inglesi, ecc., sforziamoci d’essere uomini che, al di là
degli interessi egoistici delle effimere nazioni, non perdono di vista quelli
dell’intera civiltà umana (che ogni razza identifica criminalmente con la propria,
per distruggere quella degli altri)»44.
L’intento costante di Rolland è quello di preservare le possibilità di una
costruzione, durante la presente guerra, delle condizioni della pace futura.
Perché il tempo del rinsavimento verrà e allora bisognerà pur ricostruire i
rapporti tra le nazioni europee.
«Io soffro per i milioni di vittime innocenti, oggi sacrificate sui campi di battaglia. Ma non ho alcuna inquietudine per l’unità della società europea. L’unità è
certa: la guerra di oggi è il suo battesimo di sangue»45.
Nella Lettera a quelli che mi accusano, Rolland si fa interprete di quelle
che egli ritiene essere le idee e la causa della «vera Francia», che sono poi i
valori morali che coincidono con la causa della «vera Germania» e in definitiva dell’umanità. Rolland si rifiuta categoricamente di odiare un intero popolo e di volerne la distruzione. Il diritto dei francesi a difendersi non è mai
messo è in questione, ma neanche la loro guerra deve prefiggersi
l’annientamento del nemico: «combattiamo non contro ma per i nostri nemici, e liberando il mondo liberiamo anche loro»46. Ma per preparare la pace
durante la guerra, bisogna che questa sia condotta senza odio. «Difendiamoci dall’odio»47 è l’avvertimento che ritorna costantemente in Rolland come
monito agli altri ma anche come bussola del proprio orientamento interiore.
Anche riferendosi ai suoi nemici personali, Rolland sente di dover dire:
«possono odiarmi, ma non riusciranno mai a insegnarmi a odiare, non ho
niente da spartire con loro, il mio compito è di dire ciò che credo giusto e
umano»48. L’odio è da temere più degli stessi nemici, ed è distruttivo sia per
chi lo subisce sia per chi ne è posseduto. L’odio coltivato dagli intellettuali,
poi, ha questo di specifico, rispetto a quello della gente semplice: che dura
più a lungo e avvelena il tempo a venire.
Scopo della presente guerra, anche per le nazioni aggredite, come la
Francia, non dovrà essere la distruzione del nemico, né la vendetta, ma riparare i delitti commessi, ripristinando la legge. A tal fine Rolland auspica
un’Alta Corte morale per giudicare i crimini commessi durante la guerra da
tutte le parti in campo. In questo vede un ruolo determinante da parte dei
Paesi che sono rimasti neutrali nel presente conflitto. Quando questa guerra
sarà terminata bisognerà inoltre ricordarsi delle «piccole nazionalità oppres45
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 195.
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 163.
47
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 163.
48
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 109.
42
46
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 135.
43
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 163.
44
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 184.
19
20
se» (Polonia, Schleswig, Alsazia-Lorena, nazioni baltiche, Armeni, popolo
ebraico):
«c’è una legge umana, eterna e universale, che tutti dobbiamo servire e difendere: quella del diritto dei popoli all’autodeterminazione»49.
Patrimonio dell’umanità
Al di sopra della mischia si conclude con un ricordo commosso e ammirato di Jean Jaurès, il leader socialista francese assassinato da un nazionalista francese la sera del 31 luglio 1914, al caffè Croissant a Parigi. Aveva tenuto un intervento contro la guerra all’Assemblea e si apprestava a scrivere
un articolo che sarebbe dovuto apparire l’indomani50. Nel ritratto che Rolland ne fa, mettendone in luce la capacità di sintesi e armonizzazione, la
mente capace di abbracciare gli opposti, egli sembra descrivere un po’ se
stesso e le proprie attitudini.
«Di tutte le qualità di quest’uomo, la più essenziale, fu quella di essere essenzialmente un uomo: non l’uomo di una professione, di una classe, di un partito,
di un’idea, ma un uomo completo, armonioso e libero. … Il suo spirito cercava
di abbracciare tutto, non per comprimere ma per armonizzare. Aveva soprattutto
il genio di vedere “l’umano” in ogni cosa. Il suo potere di simpatia universale rifiutava sia la negazione gretta che l’affermazione fanatica: l’intolleranza gli faceva orrore»51.
Ciò che semmai separa il poeta-scrittore Rolland dal filosofo-politico
Jaurès è precisamente la capacità politica di calarsi nella contingenza storica
e di incidere negli eventi (precisamente ciò che a Rolland in precedenza era
apparso «opportunismo politico»52). Entrambi intellettuali “impegnati”,
l’uno nonostante tutto prevalentemente artista-idealista, l’altro politico a tutto tondo, nel senso più nobile del termine.
Possiamo finalmente chiederci: siamo di fronte a uno sconfitto della storia? A un Don Chisciotte contemporaneo? Per certi versi sembrerebbe di sì.
Il bilancio di cinque anni di guerra lo conosciamo: quasi nove milioni di
morti, a cui si devono aggiungere i milioni di invalidi e di traumatizzati nella psiche. Le migliaia di sacrari, ossari, monumenti grandi e piccoli ai caduti
noti e ignoti che punteggiano i nostri paesi stanno ancora a testimoniarlo. E
che dire della riconciliazione e della nuova Europa? Inascoltato durante e
dopo la Grande Guerra, Rolland morirà nel silenzio, dopo aver visto lo scatenamento di una guerra ancora più devastante e la Francia nuovamente occupata. Una voce inascoltata, dunque.
Eppure, a rileggerlo oggi, lo sentiamo vicino: nel suo cercare sempre ciò
che unisce gli esseri umani; nel suo lenire gli effetti distruttivi della guerra;
nel suo lavorare per la pace futura; nel suo difendersi dall’odio. Il messaggio
di Rolland era rivolto a tutti, e ancora oggi non cessa di esserlo per quanti,
pazientemente e faticosamente, cercano l’“umano” al di sopra delle parti. A
distanza di cent’anni la voce solitaria di Rolland continua a risuonare come
una delle più nobili tra quante si levarono allora a protestare contro
l’insensato massacro. A suo tempo isolato perché parlava per tutti, oggi Rolland è di tutti, patrimonio dell’umanità.
IL MARGINE
49
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 187.
50
Nel 1894 Jaurès si era schierato dalla parte di Dreyfus quando ancora i socialisti lo
ritenevano una faccenda interna alla borghesia. Non così per Jaurès: per lui era una
questione attinente l’umanità tout court e i suoi diritti, al di là di ogni appartenenza di
classe. Egli aveva inoltre compreso la pericolosità dell’antisemitismo. Fondatore della
rivista “L’Humanité”, vi scrisse, dal 1904 fino alla morte, migliaia di articoli,
battendosi per svariate cause umanitarie, anche le più neglette (dall’abolizione della
pena di morte alle condizioni dei carcerati). Aveva anche denunciato le persecuzioni
degli Armeni in Turchia. Il suo impegno per la pace era andato intensificandosi a
mano a mano che i venti di guerra si approssimavano e ciò decretò in definitiva la sua
morte alla vigilia della guerra.
51
Rolland, Al di sopra della mischia, p. 220.
21
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52
Così in una lettera alla madre dell’1 agosto 1914 riportata in Journal des années de
guerre, p. 32.
22
Il Margine 35 (2015), n. 3
tutti gli enti locali, ai loro livelli di competenze, pongono in essere nel loro
territorio.
Non sempre questo succede. Alberto Fossati, docente di Diritto pubblico
presso l’Università cattolica del Sacro Cuore, ha sostenuto nella sua audizione consultiva del 15 gennaio 2015 presso la Quinta commissione legislativa del Consiglio regionale lombardo che
Urbanistica e libertà religiosa
La legge “anti-moschee”
della Regione Lombardia
VALERIA ROSINI1 e ROBERTO ANTOLINI
«nell’ordinamento lombardo le norme vigenti e quelle nuove in esame che disciplinano l’attività pianificatoria in materia di luoghi e strutture per il culto sembrano prestarsi ad un’applicazione in concreto lesiva del principio di libertà e di
uguaglianza, poiché esse stesse evidenziano un contenuto di dubbia costituzionalità. Innanzitutto emerge la diversa considerazione e tutela che distingue la confessione cattolica dalle altre»2.
L
a libertà religiosa in Italia è garantita dalla Costituzione. L’art. 8 assicura: «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla
legge», rafforzato dall’art. 19 che dice: «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». La forma anche pubblica
della pratica religiosa risulta tutelata dalla Costituzione già da questo articolo, ma il tutto va ulteriormente inquadrato nell’ipotesi di tutela attiva che
tutto lo Stato (con le sue articolazioni, evidentemente) è tenuto a garantire
alla libertà religiosa, così come deriva dall’art. 3, il quale ricordando come
«tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» aggiunge che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». È evidente che l’appartenenza a una religione
non può rappresentare per nessun abitante della Repubblica una diminuzione
di diritti e che tutte le articolazioni dello Stato devono cooperare per garantire l’effettiva libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini di qualunque religione davanti alle leggi. Questi sono principi generali che non possono non
trovare applicazione conseguente nelle leggi e nei regolamenti che anche
1
Coordinatrice milanese dell’UAAR (Unione degli Atei Agnostici e Razionalisti) e
nell’esecutivo della Consulta Milanese per la Laicità delle Istituzioni.
23
Il professore si riferisce qui alla Legge urbanistica della Regione Lombardia, la n. 12 dell’11 marzo 2005, intitolata Legge per il governo del territorio, che tratta degli edifici di culto nell’art. 52 per quanto riguarda
l’utilizzo a scopi religiosi di edifici già esistenti (rimasto invariato) e negli
articoli 70-73 per la realizzazione di nuovi edifici di culto; articoli che sono
stati poi modificati da una votazione del Consiglio regionale lombardo del
27 gennaio 2015 (contro il parere delle opposizioni di centro-sinistra, ma
con l’appoggio anche del Ncd), fino ad approvare quella che i giornali hanno definito la “legge anti-moschee”3, facendo uso letterale delle affermazioni fatte dalla destra nel corso del dibattito consiliare.
Un inasprimento burocratico-urbanistico della normativa per la concessione di spazi per l’edilizia religiosa destinato, nell’immediato, a mettere in
difficoltà il sindaco di Milano Pisapia, che ha avviato un bando per
l’attribuzione di tre aree comunali individuate come destinate a ospitare luoghi di culto, tra cui possibili moschee, ma che ha in generale legittimato una
generale islamofobia che sembra possa diventare una ispirazione culturale
permanente e programmatica della destra italiana.
2
Alberto Fossati, Esame e considerazioni sul testo emendato del PDL 195 di iniziativa
consiliare: Modifiche alla LR 12/2005, principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi, testo presentato per l’audizione del 15 gennaio 2015 presso la
Quinta Commissione Legislativa del Consiglio regionale lombardo.
3
“La Repubblica” e “Il Corriere della Sera” del 28 gennaio 2015.
24
Ma vediamo che cosa dice nello specifico questa legge urbanistica lombarda del 2005, modificata appunto in gennaio per quanto riguarda le modalità previste per l’apertura di nuovi luoghi di culto.
“Travisamenti” urbanistici e referendum
L’art. 52, quello sui “Mutamenti di destinazione d’uso” (rimasto immutato) ha un capo 3bis dai possibili usi distorti, che recita:
consiglieri regionali di maggioranza (appartenenti a Lega, Fratelli d’Italia,
Pensionati e Listino Maroni presidente), per riscrivere, complicandole, le
normative sui luoghi di culto. La vera bomba della proposta era che
l’apertura di nuovi luoghi di culto non cattolici avrebbe potuto essere autorizzata solo «previa approvazione da parte della popolazione del comune
interessato espressa mediante referendum». Questa prima forma della proposta di legge è stata criticata dal parere del Servizio assistenza legislativa e
legale della Regione Lombardia-Ufficio legislativo, che ha dovuto spiegare
come
«Il principio fondamentale della libertà religiosa sancito dall’art. 19 della Costituzione deve essere garantito con riferimento a ‘tutti’ – quindi anche alle minoranze – e comprende il diritto di professare liberamente la propria fede, in forma
individuale o associata, e anche di esercitare il culto in privato o in pubblico, con
l’unico limite del buon costume. Essa deve perciò essere assicurata anche se non
vi è il gradimento della ‘maggioranza’ della popolazione, la quale non può, con il
proprio volere, comprimere le libertà fondamentali dell’individuo sancite dalla
Costituzione … Ulteriore profilo di criticità è rappresentato dalla circostanza che
il referendum è previsto esclusivamente con riferimento alle ‘altre’ confessioni
religiose di cui al comma 2 dell’art.70, con evidente disparità di trattamento di
queste rispetto alla Chiesa cattolica»5.
«i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire».
A suo tempo il Consiglio di Stato (IV, 27 ottobre 2011, n. 5778) aveva
assicurato che l’articolo «per la sua collocazione e la sua ratio è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione suscettibili, per l’afflusso
di persone … [ad avere] riflessi di rilevante impatto urbanistico». Ma Fossati in un convegno del 20134 ha ricordato al riguardo:
«il punto di composizione tra l’interesse alla tutela della libertà religiosa ed il
corretto ed equilibrato governo del territorio deve essere trovato in concreto nelle
scelte di pianificazione urbanistica operate dai comuni. La tutela e promozione
dell’esercizio della libertà religiosa come bene comune della e per la società presuppone non solo leggi ragionevoli, ma anche, e soprattutto, un’attuazione del
potere amministrativo imparziale non viziata da intenzioni che nulla hanno a che
fare con il corretto uso del territorio e l’equilibrata distribuzione delle destinazioni d’uso. Spesso vi sono decisioni amministrative che travisano il contenuto
della norma legislativa e che la piegano per perseguire finalità politiche incompatibili con i valori costituzionali».
Ciò nonostante, il referendum non è scomparso dal testo di legge poi effettivamente approvato nel gennaio 2015 dal Consiglio regionale, dove il
comma 4 della nuova versione dell’art. 72 recita:
«nel corso del procedimento per la predisposizione del piano [comunale per le
attrezzature religiose] … vengono acquisiti i pareri di organizzazioni, comitati di
cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza
pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali. Resta ferma la facoltà per i
comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni statutarie e
dell’ordinamento statale».
Insomma la norma può essere usata, con la scusa dell’urbanistica, per
impedire a gruppi mussulmani di riunirsi a pregare.
Le preoccupazioni del professore possono ben interpretare lo spirito della nuova proposta presentata nel settembre 2014 da un nutrito numero di
5
4
La libertà religiosa nella società multiculturale e nello Stato laico, convegno tenuto a
Milano il 22 marzo 2013, a Palazzo Sormani, organizzato dal Centro Culturale
Protestante e dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia.
25
Regione Lombardia, Servizio assistenza legislativa e legale, Ufficio legislativo, Parere
in merito alla legittimità del PDL 195 recante modifiche alla LR 11 marzo 2005,
N.12, in tema di realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi, 20 ottobre 2014.
26
La legificazione delle differenze fra chiese
La forzatura maggiore dello spirito, e della lettera, della Costituzione –
quella richiamata dall’intervento di Fossati – risulta dall’aver ribadito e aggravato la legificazione della differenza fra confessioni religiose nell’art. 70.
La legge già indicava, tramite il primo comma dell’art. 70, l’intenzione di
concorrere a promuovere fra Regione e comuni la «realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi da effettuarsi da parte di
enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica»
(e tramite l’art.73 prevede di destinare allo scopo «in ciascun comune almeno l’8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria»). Ma la nuova versione ora approvata peggiora l’effetto di questa disposizione aggiungendo un comma 2 multiplo (con bis, ter, e quater) che dispone di applicare le disposizioni previste anche agli enti delle altre confessioni
religiose con le quali lo Stato ha già approvato un’intesa, e – aggiunto
all’ultimo momento per evitare un rischio di incostituzionalità paventato
dalla minoranza – anche a quelle che presentano i requisiti di «presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito del comune» ed i cui «relativi statuti esprimono il carattere religioso delle loro finalità istituzionali», ma previa la stipulazione di
una convenzione con il comune interessato, che possa venir revocata in caso
di «accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione». In più, «per consentire ai comuni la corretta applicazione delle disposizioni di cui al presente capo, viene istituita e nominata con provvedimento di Giunta regionale, che stabilisce anche composizione e modalità di
funzionamento, una consulta regionale per il rilascio di parere preventivo e
obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti», cioè i comuni vengono svuotati
del potere relativo, assunto direttamente in proprio dalla Giunta regionale.
Commenta in modo conciliante Fossati nel suo intervento consultivo:
«La norma vuol forse sottolineare la particolarità storica, spirituale e la consistenza della Chiesa cattolica nel nostro Paese, che giustifica un diverso trattamento giuridico. Ma questo ragionamento è fuorviante, giacché in gioco non è la
questione della rilevanza della confessione cattolica rispetto alle altre, bensì la
concreta ed effettiva possibilità di garantire la libertà religiosa. Né può dirsi tutelato questo fine dalla previsione del secondo comma dell’art.70 che trasforma
l’obbligo di provvedere nei confronti della Chiesa Cattolica in una mera facoltà e
per di più a loro richiesta quando si tratta delle altre confessioni».
27
A nulla è servito al fine dell’approvazione del testo definitivo neanche il
passo della consulenza dell’Ufficio legislativo regionale che aveva specificato, sulla base di varie sentenze del TAR Lombardia6, che la richiesta di
convenzione con il comune «costituisce quindi solo un prerequisito necessario per realizzare opere con contributi e provvidenze pubblici, non per essere
presi in considerazione come realtà sociale ai fini della programmazione dei
servizi religiosi, perché altrimenti ogni comune potrebbe scegliere in modo
discrezionale di promuovere o avversare una qualche confessione religiosa
rispetto alle altre» (e la stessa cosa può dirsi, evidentemente, anche per la
Giunta regionale). Il parere dell’Ufficio legislativo regionale era arrivato a
consigliare una completa riscrittura di tutto l’art. 70, ammonendo che «una
nuova approvazione della disposizione, con i medesimi elementi di criticità
legati in particolare alla previsione della previa apposita convenzione, potrebbe quindi dare luogo ad una verifica della sua legittimità costituzionale».
Un fuoco di fila di norme scoraggianti
Ma questo non è ancora tutto. Nella nuova versione dell’art. 72 infatti è
previsto un fuoco di fila di norme tese evidentemente a scoraggiare
l’apertura di qualunque nuovo luogo di culto, o di attrezzature religiose, dato
che non vengono risparmiate – queste – neanche alle chiese cattoliche.
È previsto infatti che, senza l’approvazione da parte del comune interessato dell’apposito Piano delle attrezzature religiose, «non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa»; che il piano sia comunque sottoposto alle medesime procedure di approvazione dei PGT (piani urbanistici),
compresa la complicata VAS, la Valutazione Ambientale Strategica (cosa
che fa dire a Fossati: «il fenomeno religioso è dunque affrontato come questione di ordine pubblico e la VAS viene impropriamente utilizzata a questo
fine»); che sia prevista la presenza di strade di collegamento adeguatamente
dimensionate e di opere di urbanizzazione primarie con onere a carico dei
richiedenti, con distanze minime «tra le aree e gli edifici da destinare alle
diverse confessioni religiose» definite dalla Giunta Regionale, con «uno
spazio da destinare a parcheggio pubblico in misura non inferiore al 200 per
6
TAR Lombardia, sez. Milano 2485/2013; sez. Brescia 3522/2010, punto 14 ; sez.
Brescia 1176/2013, punto 17.
28
cento della superficie lorda di pavimento dell’edificio da destinare a luogo
di culto» (in pratica, commenta Fossati, si richiedono gli stessi parcheggi
prescritti per un centro commerciale), con la realizzazione a carico dei richiedenti di un impianto di videosorveglianza collegato con gli uffici di polizia, con la realizzazione di adeguati servizi igienici («quanto ai servizi
igienici» – commenta Fossati – «sarà interessante comprendere come e dove
prevederli, ad esempio in una nuova chiesa, o all’interno di una chiesa già
esistente»), e, dulcis in fundo, rispettando «la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo» (ammesso che si possa enucleare un carattere davvero distintivo, commenta ancora Fossati).
per mettere in discussione la laicità dello Stato e la sua natura democratica e
pluralista. Il progetto inquietante di un razzismo istituzionale può ricordare –
pur nelle enormi differenze specifiche, ovviamente – quello che ha portato
nella Germania fra le due guerre alla creazione di un nemico pubblico indicato direttamente dalle stesse istituzioni nella popolazione di origine ebraica, contro il quale coalizzare totalitariamente le paure dei cittadini scatenate
dalla crisi economica d’allora e dal ridimensionamento del Paese dovuto alla
sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Il parallelismo storico, come si vede,
ci può stare. L’impressione è che la destra tenti il proprio rilancio in una lotta per l’egemonia basata sui meccanismi di un nuovo razzismo istituzionale
a base, per il momento, islamofoba.
L’islamofobia come ispirazione legislativa
Moschee e terrorismo
Sull’ispirazione di queste norme è stato chiarificatore oltre ogni possibile
dubbio il dibattito in Consiglio regionale lombardo il giorno
dell’approvazione, avvenuto il 27 gennaio (Giorno della Memoria, iniziato
con la testimonianza in Consiglio di una sopravvissuta ad AuschwitzBirkenau). La maggioranza di destra che regge la Regione con la giunta Maroni ha teorizzato apertamente il ruolo di «avanguardia» della Lombardia
nel voler forzare con le norme approvate il dettato costituzionale, dato che –
secondo loro – il governo nazionale non si farebbe carico della difesa dei
lombardi (dal sindaco di Milano Pisapia!), e la Costituzione sarebbe «superata» – secondo l’espressione del fratello d’Italia De Corato – nelle norme
che equiparano tutte le religioni. L’assessora Beccalossi (Fratelli d’Italia) ha
addirittura richiamato un «principio di reciprocità» contro gli integralisti
islamici nigeriani di Boko Haram che bruciano chiese, mentre il leghista
Romeo ha sostenuto esplicitamente: «affermiamo che oggi sanciamo che le
religioni non sono tutte uguali. Per la Costituzione, la Corte ecc. vedremo,
intanto sanciamo che ogni moschea è una bandierina per conquistare il territorio»; ribadendo poi ufficialmente la Lega, nella dichiarazione di voto, che
se «non ci protegge Roma, ci proteggeremo da soli».
Non può dunque rimanere alcun dubbio sull’ispirazione specificamente
anti-islamica dei giochi politici che hanno preso corpo nella regione più sviluppata d’Italia, retta da una capitale metropolitana come Milano, intorno a
norme costituzionali che sostanziano la libertà religiosa, usando la disciplina
urbanistica come grimaldello più disponibile a una legislazione regionale
Milano, consiglio comunale del 18 dicembre 20147. Al dibattito
sull’ordine del giorno sui luoghi di culto interviene il leghista Alessandro
Morelli ed esplicita con tutta la chiarezza necessaria la sostanza
dell’islamofobia leghista. Morelli estrae il libercolo di un imam della moschea di Segrate e legge passi sulla condizione della donna, che ovviamente
– per usare un linguaggio che alla Lega non dispiacerebbe… – fanno girare
gli zebedei a tutti i presenti. Ne tira la conclusione che c’è fra “noi” e “loro”
una differenza di cultura, e conclude:
29
«questi sono i personaggi con cui voi state ragionando di fare moschee in questa
città, solo dei pazzi ragionerebbero con questi personaggi, perché questi sono coloro i quali voi portate col tappeto rosso dentro la casa dei milanesi, eppure evidentemente volete fare questa scelta».
Affermazione filologicamente scorretta, perché non è con l’imam citato
che il Comune di Milano sta ragionando. Il Comune ha invece stilato un albo di associazioni interlocutrici dell’ente pubblico a cui aprire il bando per
l’attribuzione di tre aree comunali individuate urbanisticamente come destinate ad ospitare luoghi di culto, sulle quali potrebbe sorgere qualche moschea. Ma certamente, dal punto di vista retorico, l’uscita del leghista è efficace perché i passaggi letti non sono gradevoli per le signore (verrebbe solo
7
http://milano.videoassemblea.it/indexIE.html#1418926153339.
30
da ricordare anche quanti passi della Bibbia potrebbero essere letti efficacemente con la stessa intenzione).
La sostanza però, al di là della retorica ad effetto, è semplice e insipiente: la paura del diverso. In epoca di globalizzazione, con gli stranieri immigrati che sono ormai – secondo il Rapporto annuale 2013 dell’Osservatorio
regionale per l’integrazione e la multietnicità – un quinto dei milanesi, ed
una articolata comunità mussulmana di 100.000 persone, che vanno dal
venditore ambulante alla professoressa del Politecnico, il leghista vorrebbe
semplicemente chiudere gli occhi: non vedere, non sentire, ma urlare molto
contro. Senza affrontare i problemi.
Sicuramente, come i recenti fatti di Parigi ricordano, dentro il mondo
mussulmano europeo cresce anche qualche terrorista. Marginale e autodistruttivo, ma probabilmente (non sono un esperto) non estraneo a qualche
radice culturale islamica, alimentata però – non dimentichiamolo – da reti
cresciute in occasione delle guerre che l’Occidente, in particolare gli USA
(ma con seguito anche italiano), ha recentemente scatenato contro paesi
mussulmani: al-Qaeda si è formata in Afghanistan, anche con l’aiuto americano, per combattere contro l’invasione sovietica, e si è successivamente
rivolta contro gli invasori occidentali. Ma anche per queste particolari questioni di sicurezza, siamo proprio certi che la cosa migliore sia non vedere,
non sentire, ma urlare molto contro tutti i mussulmani?
Sul suo blog ospitato dal quotidiano trentino “L’Adige”8, Vincenzo Passerini ha scritto, riferendosi all’assalto al Charlie Hebdo:
Utile soprattutto il ricordo di nostri recenti “anni di piombo”. Ricordiamoci della lezione di Rossana Rossanda su quanto quella insensatezza stesse
inscritta nell’album di famiglia della sinistra, e in fondo – tramite la resistenza – di tutta la democrazia italiana. Ci sono voluti anni di sangue anche
da noi per riconoscere la malattia che emanava dalla demenza senile
dell’album di famiglia, e per farci i conti (ma la strage del 12 dicembre 1969
in Piazza Fontana a Milano non ha ancora, per la giustizia italiana, dei responsabili). Analogo percorso dovrà fare probabilmente la cultura mussulmana europea: riconoscere al proprio interno le cellule cancerose e le loro
radici. Meglio per tutti – per la democrazia – che possano farlo alla luce del
sole, in moschee tranquillamente accettate, integrate nella vita cittadina, invece che in spazi clandestinizzati come vorrebbero i leghisti, e non solo. Sarebbe il miglior antidoto possibile alla tentazione di simpatie integraliste.
Concedendo una intervista al quotidiano “Il Manifesto” del 16 febbraio9,
lo storico israeliano Ilan Pappé ha espresso una speranza:
«Spero che in Occidente la gente non cada in un trucco tanto meschino: non si
tratta affatto di uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira giovani musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più oppressi e marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione culturale e religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si assistesse ad una trasformazione democratica, se si impedisse a ideologie
razziste e pratiche capitaliste di determinare l’esistenza della gente, gruppi come
l’Isis non troverebbero spazio. L’Isis non ha terreno fertile dove la gente si sente
integrata, dove è uguale a livello sociale e economico».
«La strage di Parigi ci chiede di non tacere. Anche noi occidentali abbiamo un
passato di ferocie in nome della religione. O in nome dell’ateismo di stato. O in
nome della rivoluzione laica per la libertà. O in nome della libertà di mercato
(quante stragi di schiavi, di minatori...). O del «popolo» (la stagione del terrorismo e delle stragi è troppo recente perché noi italiani possiamo ergerci a giudici
presuntuosi di altri popoli). Roghi, ghigliottine, lager, gulag, torture, bombe, tritolo, mitra, P38. Non dobbiamo tacere, ma gridare forte che non si uccidono le
persone per spegnere le loro idee o per imporre le nostre. La violenza in nome
della religione o della politica va cancellata una volta per sempre. Soprattutto in
queste ore incoraggiamo l’islam non violento a diventare più forte, non indeboliamolo. Non sarebbe giusto e non gioverebbe a nessuno».
8
http://www.ladige.it/blogs/civitas-humana/2015/01/08/non-si-possiede-dio-non-sipossiede-verit.
31
9
http://ilmanifesto.info/se-si-risolve-la-questione-palestinese-il-medio-oriente-cambierafaccia/.
32
Il Margine 35 (2015), n. 3
Una volta il futuro era migliore…
FRANCESCO GHIA e GUIDO GHIA
L’
aforisma «una volta il futuro era migliore», che dà il titolo a questa
nota, non è nostro ma proviene da un grande uomo di teatro, Karl Valentin, maestro di Bertolt Brecht. È un motto di spirito, che suscita ilarità per
la sua struttura evidentemente paradossale. Ma dà molto a pensare.
Da tempo i nostri contemporanei hanno fatto esperienza della fine
dell’epoca delle utopie. Quale che fosse il sentimento, di consenso o di disdoro, che, negli anni sessantottini, si volesse associare agli slanci giovanili
orientati romanticamente verso un futuro da costruire in modo migliore, è
indubbio che tali slanci proiettavano, sulla percezione del mondo a venire, la
luce e la speranza, pur sempre incerte, ma comunque vive, di una primavera.
E ora? Gli analisti della società, sociologi e psicologi, ci descrivono il tempo
toccatoci in sorte di vivere come sempre più segnato dalla sensazione del
rischio, dell’incertezza, della precarietà, della paura. In una parola: della crisi. Sembra avverarsi la profezia di Max Weber sugli uomini e le donne delle
società meccanizzate: «specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore».
Per poterci definire specialisti in un determinato ambito, l’inventiva non è
più necessaria, per poter soddisfare la sfera del desiderio il cuore è un muscolo inutile. Troppo preoccupati del successo nel presente, angosciati dalle
notizie che i telegiornali ci fanno piombare in casa, sembriamo afflitti da un
perenne strabismo convergente e non riusciamo più a fissare lo sguardo oltre
l’orizzonte. Il presente ci sembra già troppo gravoso per poterci concedere
anche il lusso di pensare al futuro…
Nondimeno, se ci fermiamo a riflettere per un istante sull’aforisma di
Valentin, ci avvediamo subito di come il futuro di una volta altro non è, in
fondo, che l’oggi, ossia il nostro presente… È dunque dell’oggi che
quell’aforisma ci parla, non di un passato avvolto miticamente e magicamente dalle nebbie come lo Zauberberg di Thomas Mann.
Un sardonico Sǿren Kierkegaard rimproverava al grande Hegel di aver
costruito per noi un bel castello e di averci poi costretto ad andare a vivere
nel fienile. Spesso, quando guardiamo all’oggi con gli occhi del disincanto,
33
siamo tentati di dare ragione al filosofo danese e di volgere l’accusa da Hegel alle generazioni che ci hanno preceduto. Ma il passatismo, il rimpianto
per ciò che poteva essere e non è stato sortiscono spesso il medesimo effetto
del divertissement pascaliano: distolgono dal pensare ciò che effettivamente
conta. E ci si perde allora nel ricordo nostalgico, nell’imprecazione contro i
tempi e i costumi così dissoluti (storia vecchia: già i latini amavano intercalare a ogni recriminazione sul presente il loro o tempora o mores)… Tuttavia, osservando l’ansia spasmodica e nevrotizzata di tanti nostri contemporanei nel voler accumulare un souvenir di qualunque evento vissuto, come
non dare ragione a Walter Benjamin che definiva questo bisogno del ricordo
come l’analogo del culto medievale per le reliquie? Un sovraccarico di reliquie di un passato trasognato può portare alla mancanza di riconoscimento
dell’essenziale, come nella novella di Borges Funes, o della memoria in cui
il protagonista Ireneo Funes percepisce e ricorda tutto senza alcun filtro.
Una quantità mostruosa di dettagli singoli si affastella nella sua mente e gli
impedisce di individuare un medesimo oggetto come uguale a se stesso, pur
nella multiformità dell’inevitabile divenire. Funes, al pari spesso di molti
nostri contemporanei, è privo di memoria selettiva. La sua memoria prodigiosa e sovrumana lo congestiona, portandolo a morte, come un bulimico
del ricordo.
Si può citare al riguardo un’antica storia cinese raccontata con molta finezza da Ernst Bloch. Alcuni giovani letterati si riunivano due volte l’anno
nella vecchia Nanchino. Lo scopo del loro incontro consisteva nel consumare un pasto di sole tre olive. La preparazione del pasto era però assai singolare: le olive venivano farcite, una a una, in un tordo, che a sua volta veniva
farcito in una quaglia, questa in un’anatra, questa in un’oca, questa in un
tacchino, questo in un maialino da latte, questo in un montone, questo in un
vitello e questo, infine, in un bue. Il tutto veniva fatto lungamente girare e
arrostire, a fuoco lento, su uno spiedo. Poi si gettavano via il bue, il vitello,
il montone, il maialino, il tacchino, l’oca, l’anatra, la quaglia e il tordo, si
estraeva l’oliva e questa, insieme con le altre due, preparate alla stessa maniera, veniva portata alla mensa. Durante il pasto, di norma avveniva che
uno dei commensali, dopo aver delibato molto lentamente la sua oliva, sentenziasse: «Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che il tacchino in questa
oliva non fosse affatto giovane». E tutti, anziché deplorare lo scempio di
tanto cibo gettato via, lodavano invece stupiti e ammirati la straordinaria finezza di quel palato che aveva saputo cogliere un aspetto inopinatamente
trascurato dai più…
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editore della rivista:
A SS OC IA ZI O NE
OSC A R
R O ME R O
Fondata nel 1980 e già
presieduta da Agostino
Bitteleri, Vincenzo Passerini, Silvano Zucal, Paolo
Ghezzi, Paolo Faes, Alberto Conci.
Presidente: Piergiorgio
Cattani. Vicepresidente:
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I L MA R G IN E
Mensile
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