Azione - Settimanale di Migros Ticino Quattro pianoforti e una chitarra

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Azione - Settimanale di Migros Ticino Quattro pianoforti e una chitarra
Quattro pianoforti e una chitarra
Una rassegna di interessanti produzioni discografiche uscite negli ultimi mesi che
possono prestarsi anche quali idee-dono per appassionati
/ 05.12.2016
di Alessandro Zanoli
Pianisti jazz: torniamo a parlarne poiché, in un modo o nell’altro, sembrano i rappresentanti più
nobili di questo splendido genere musicale. Chissà perché, in effetti, dai pianisti jazz ci si attende
sempre un «qualcosa di più», come se per esprimere la loro bravura dovessero anche mettere sul
piatto un’abilità compositiva più completa, più articolata e autorevole rispetto agli altri colleghi
strumentisti.
Il caso ha voluto che negli ultimi mesi alcune interessanti produzioni discografiche di pianisti si
siano presentate in sequenza sul mercato. Si prestano quindi per un confronto e per una sorta di
indagine sullo stato dell’arte del pianismo jazz alle nostre latitudini. Alla domanda «in quanti modi si
può declinare la creatività jazzistica in questo inizio di terzo millennio?» gli album che vorremmo
presentare qui rispondono con diverse fisionomie e approcci, ognuno dei quali è degno di attenzione
e di ascolto accurato.
Antonio Faraò
Iniziamo dal disco del pianista italiano Antonio Faraò, Boundaries (Verve) che ci offre una nuova
conferma della capacità e del talento di questo artista. Faraò, il cui jazz è immerso in pieno nella
tradizione post hancockiana, è ormai un ticinese d’adozione, tante e tanto importanti sono le sue
collaborazioni con i migliori musicisti di casa nostra. Nel 2016 che volge al termine, va ricordata poi
una medaglia sicuramente importante che Faraò ha aggiunto quest’anno al suo palmarès, per aver
accompagnato in modo eccellente il sassofonista Benny Golson al Festival di Chiasso, lo scorso
marzo.
Boundaries, uscito all’inizio del 2016, è un disco veramente interessante e intenso, e giunge a
coronamento di una serie di album rimarchevoli quali l’eccezionale Evan, registrato con Jack
Dejohnette, Ira Coleman e Joe Lovano nel 2013 e l’ottimo Domi, tenero omaggio a suo figlio, del
2011. Nelle note di copertina di questo nuovo disco Faraò sottolinea la volontà di mettere in piedi un
progetto più libero e spontaneo, che andasse a ritrovare un certo piacere per la musicalità istintiva,
immediata. E il merito dei suoi eccellenti partner (Mauro Negri ai sassofoni, Martin Gjanakovsky al
contrabbasso e lo splendido Mauro Beggio alla batteria) è proprio di suonare questo nuovo
repertorio con naturalezza, con una ricchezza timbrica ed espressiva che ci invita a numerosi ascolti.
Il disco contiene tra le altre quattro composizioni originali, molto belle, ma l’occhio
dell’appassionato, di fronte alla lista dei titoli, corre con grande curiosità a selezionare la traccia 3,
per misurare l’ambizione di Faraò nella resa di un classico hancockiano, Maiden Voyage. Proprio
quel pezzo ci sembra il punto di snodo e di ancoraggio di tutto il disco, una sorta di «ritorno al
centro della musica» in cui Faraò, con istinto rarissimo e gran classe, può mettere in mostra tutta la
sua poetica e la sua visione del mondo jazz. Quattro stelle.
Lorenzo De Finti
Di tutt’altro genere rispetto al progetto di Faraò è un altro pregevole album che si deve al lavoro di
ricerca di Lorenzo De Finti e del suo nuovo quartetto acustico. De Finti infatti è conosciuto molto più
per i suoi progetti ad alto «coefficiente di elettrificazione», di cui ha dato eloquente dimostrazione
negli scorsi anni sia ad Estival sia al Festival di Chiasso. Il suo ultimo lavoro, We Live Here (Losen
Records), è invece acustico e, diremmo, classicissimo: frutto di un’architettura compositiva
estremamente ambiziosa a cui allude il sottotitolo del disco: «Suite for jazz quartet». Nonostante
suoni indubitabilmente come jazz (e i suoi partner anche qui sono di una levatura strumentale
splendida, a cominciare dal fido Stefano Dall’Ora al contrabbasso, al sorprendente Marco Castiglioni
alla batteria, senza scordare il poco conosciuto ma sicuramente eccezionale trombettista cubano
Gendrikson Mena), We Live Here può per molti aspetti essere ritenuto un disco di musica
contemporanea, in particolare perché i brani che lo compongono rispondono a un disegno
compositivo rigoroso. Ognuno dei pezzi infatti è preceduto da un’introduzione tematica in cui De
Finti al piano espone le note principali che determinano sia le melodie che i gruppi accordali
utilizzati poi per l’esposizione dei brani veri e propri. Un progetto affascinante, calcolatissimo e la
meraviglia suscitata dall’album sta proprio nello scoprire come questa «maglia» concettuale,
apparentemente rigida e condizionante, sia abilmente aggirata e intessuta di agilità e senso dello
swing.
Format A3
Dall’altra parte del Gottardo, e specificamente in area romanda, operano ormai da più di tre lustri i
ragazzi del trio Format A3. In realtà proprio «ragazzi» non lo sono più: ce li ricordiamo così in
occasione della loro prima comparsa sui palcoscenici ticinesi, nel 2003, in uno dei primi pionieristici
festival di Altrisuoni. Il pianista Alexis Gfeller il batterista Patrick Dufresne e il contrabbassista
Fabien Sevilla, oggi hanno i capelli bianchi oppure un po’ più radi, ma non hanno perso la voglia di
sperimentare e di divertirsi. Hanno avuto il merito (in anni non sospetti e non inflazionati dal
«triismo scandinavo») di percorrere una via musicale molto originale, rarefatta, che pagava
certamente alcuni pegni alla scuola post-jarrettiana ma con senso dello humour e della misura. Fin
dal loro secondo disco del 2001 erano stati cooptati, come detto, nella scuderia della casa
discografica ticinese Altrisuoni: e oggi, sempre sugli stessi solchi, i tre A3 tornano sul mercato con il
loro settimo disco intitolato VI E.
Ascoltato in sequenza dopo gli album di Faraò e De Finti produce un leggero senso di vertigine. Qui
le strutture compositive sono molto meno rigide e la pulsazione swingante del tutto assente o,
meglio, spesso soltanto implicita. È evidente che la vena dei tre romandi è molto più propensa a
seguire i percorsi introspettivi dell’improvvisazione e della performance istantanea. Senza cadere
mai nel caos Gfeller, Dufresne e Sevilla sembrano cercare di tenere in piedi delicati castelli di note,
perseguire una rarefazione allusiva con evidente maestria. La stessa copertina dell’album, dovuta a
Fabian Sbarro, interpreta visivamente il concetto musicale «zen» con un delicato dipinto similgiapponese.
Renato Falerni
Sempre messo in opera dalla scuderia Altrisuoni, citiamo brevemente l’album di un musicista che
opera in Ticino da tempo, Renato Falerni. Il suo disco Free Energy è sicuramente meno ambizioso
dei lavori citati in precedenza ma merita una menzione, non fosse altro perché offre un ulteriore
punto di vista sul jazz per pianoforte. I pianisti professionisti, gli animatori di pianobar e vari altri
intrattenimenti musicali hanno spesso un’anima di compositore che difficilmente viene alla luce
(«nella punta delle dita ha poco jazz» diceva De Gregori). Nelle undici tracce di questo disco Falerni
mette in mostra le sue partiture e le sue predilezioni, con esecuzioni impeccabili quanto cantabili,
che raccontano in filigrana una carriera passata a inseguire un’ambizione d’arte, magari nascosta
nelle pieghe di una pratica quotidiana, gregaria, sulla tastiera.
Sandro Schneebeli
E per chiudere questa carrellata di album pianistici, per variare il gusto e la varietà timbrica
dell’ascolto, vorremmo citare l’ultimo album del chitarrista ticinese Sandro Schneebeli. Il quale in
questo suo Solo (Neve Music) ha deciso di esplorare la dimensione della performance senza
accompagnatori. Per quanto un chitarrista moderno abbia la possibilità di ricorrere ad ausili
tecnologici di vario tipo (looper, echi e riverberi digitali e altre diavolerie elettroniche di
accompagnamento) una chitarra classica rimane pur sempre una chitarra classica e mettere in piedi
un disco in solitaria pone dei problemi quantomeno di varietà sonora.
Oltretutto l’album è composto da ben 16 tracce, in cui Schnebeeli esplora tutta una paletta di
situazioni ritmiche e armoniche con una leggerezza assolutamente sorprendente. Questione di gusti,
senz’altro, ma a noi sono molto più cari gli album realizzati con altri musicisti reali, incontri musicali
che rendono in modo più completo, più espressivo la vena musicale a cavallo tra jazz e world music
che caratterizza lo stile del chitarrista malcantonese.
Su questo Solo possiamo esplorare nel dettaglio la gamma delle sue capacità di esecutore e
Schneebeli mostra qui molto buon gusto, occorre dirlo, ma, a nostro avviso, i suoi album di gruppo
mettono meglio in luce le sue doti.