Dispense, capitolo 2

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Dispense, capitolo 2
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12/08/2016
Capitolo 2
Le idee che hanno influito nella creazione dell’UME1
Indice
2.1. Giustificazioni microeconomiche: diminuzione dei costi di transazione
2.2. Giustificazioni macroeconomiche
2.2.1.
Differenze istituzionali nel mercato del lavoro.
2.2.2.
Politiche monetarie nazionali, coerenza temporale e credibilità (il modello di Barro &
Gordon)
2.2.3.
Modello B&G per economie aperte
2.2.4.
Credibilità e costo di un’unione monetaria
2.3.
Due diverse visioni della disoccupazione
2.4. Movimenti di capitale compensatori di squilibri commerciali
2.5. Una ragione più pragmatica per cui s’è fatto l’euro
2.6.Aspetti politici del processo di unificazione europeo
2.7.Euro e ultra-liberismo
2.8.Le triadi impossibili dei cambi fissi
2.9. Le triadi inquietanti
In questo capitolo passeremo in rassegna alcuni argomenti a favore della costituzione dell’UME.
Cominceremo da alcuni argomenti microeconomici. Quelli principali sono però di natura
macroeconomica.
2.1. Giustificazioni microeconomiche: diminuzione dei costi di transazione
La motivazione più banale per giustificare la costituzione di un’UM è (a) la diminuzione dei costi di
transazione, vale a dire quei costi in cui si incorre nel cambiare la valuta nel caso di transazione con
soggetti stranieri. A tali costi può essere aggiunto (b) il rischio che si incorre di variazione dei tassi
di cambio durante una transazione. Si sottolinea infine (c) la maggiore trasparenza dei mercati
laddove i consumatori europei possono più facilmente confrontare il prezzo dei beni nei diversi
mercati. Mentre si rimanda a De Grauwe (2013: cap. 3) per un approfondimento, si può qui
ricordare che il valore economico dei risparmi sub (a) è irrilevante; da secoli dai rischi di cambio
sub (b) ci si può coprire; e infine che difficilmente i consumatori potranno in pratica avvantaggiarsi
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Per confronto, si vedano anche i capitoli 1-4 di De Grauwe (2013), in particolare il capitolo 2.
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dalla presunta maggiore trasparenza sub (c). Si tratta dunque di giustificazioni quasi inconsistenti,
che fanno pensare anche al ricorso a una certa demagogia (specie con riguardo a (c)).
In effetti Rose (2000) – l’economista dell’OCA endogena - sovrastimò gli effetti positivi
attesi dell’UM sul commercio infra-EZ dovuti a minori costi di transazione e della riduzione
dell’incertezza sul cambio. In termini di Pil europeo, si ritiene che siano stati attorno a pochi punti
percentuali.
2.2. Giustificazioni macroeconomiche
Si può ritenere che le idee che hanno incoraggiato la creazione dell’UME siano quelle di
stampo monetarista.2 Sulla base del dualismo fra settore reale e settore monetario postulato dalla
teoria neoclassica, esse sostengono che la politica monetaria non ha effetti reali (cioè su output e
occupazione) nel lungo periodo, ma solo sul livello dei prezzi, e può perciò ben essere affidata a
una banca centrale sovranazionale indipendente dai governi che abbia come scopo esclusivo la
stabilità dei prezzi. Questa teoria sostiene anche che i disavanzi di bilancio abbiano effetti di
spiazzamento sugli investimenti privati, per cui predica l’idea del pareggio dei bilanci pubblici.
Essa ritiene infine che la piena occupazione si realizzi attraverso la flessibilità dei mercati, in
particolare del mercato del lavoro. La piena occupazione è dunque un problema da risolvere a
livello nazionale attraverso opportune riforme strutturali dei mercati.
Vedremo dunque come l’idea più influente fu che data l’assenza di effetti reali della politica
monetaria almeno nel lungo periodo, paesi con una tendenza dei governi o dei sindacati a una
maggiore inflazione possono vantaggiosamente aderire a un’unione monetaria in cui una banca
centrale indipendente mantiene i prezzi stabili.
A queste idee va aggiunto anche lo scetticismo di questi economisti circa gli effetti positivi
di una svalutazione nel compensare eventuali shock asimmetrici (la lettrice si rifaccia a quanto
discusso nel capitolo 1, sezione 1.1.4).
2.2.1. Differenze istituzionali nel mercato del lavoro.
Le preferenze del sindacato fra occupazione e livello del salario reale variano fra paesi e così anche
la reazione, accomodante o meno, delle autorità di politica economica. De Grauwe (2013: 43)
presenta due grafici per rappresentare queste diverse preferenze:
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Si può osservare che il monetarismo tradizionale era favorevole alla flessibilità dei cambi, come
abbiamo visto riferendoci nel capitolo 1 alla posizione di Friedman, il padre del moderno
monetarismo.
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( w / p) A
( w / p) B
B
A
DL
DL
NA
Paese non accomodante
NB
Paese accomodante
Nel modello il sindacato massimizza la propria funzione di utilità che dipende sia da w/p che da N.
La funzione decrescente è la curva di domanda di lavoro.3 La pendenza della curva di DL riflette la
propensione delle autorità a impegnarsi in politiche economiche espansive quando il salario reale
aumenta (politiche che compensino la diminuzione dell’occupazione dovuta, secondo la teoria
dominante, all’aumento del salario reale), e questo ha implicazioni sulla scelta del sindacato fra
occupazione e salario reale. Nel paese A piccoli aumenti di w/p hanno grandi effetti su N poiché
l’impegno delle autorità è minore, sicché i sindacati sono indotti a moderazione e si collocano in A.
Nel paese B la propensione delle autorità a compensare è più grande. Il sindacato sceglie B in
quanto sfrutta la maggiore accondiscendenza del governo.
In una CU la politica monetaria sarà centralizzata per cui viene meno l’accomodamento del governo
nazionale (la funzione DL diventa più simile), e ciò renderebbe le politiche del governo
generalmente meno accomodanti. I sindacati sarebbero dunque scoraggiati a chiedere aumenti
salariali eccessivi anche nei paesi più accomodanti perché sarebbero responsabili della maggiore
disoccupazione.
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La relazione inversa fra w/p ed N può dipendere (a) dalla funzione di domanda di lavoro
neoclassica (che De Grauwe ritiene certamente valida) (b) dalla competitività esterna (se w/p
aumenta si perde competitività di prezzo). Gli economisti genuinamente keynesiani non credono in
(a), anzi, una diminuzione dei salari reali influenza negativamente i consumi. Accettano però (b).
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Con riguardo alle differenze nelle istituzioni del mercato del lavoro, una letteratura molto
popolare negli anni 1980 e 1990 ha puntato alle differenze nelle istituzioni del mercato del lavoro
per spiegare perché alcuni paesi – tipicamente le socialdemocrazie nordiche – avessero
combinazioni inflazione/disoccupazione migliori di altri – tipicamente i paesi mediterranei (v. De
Grauwe 2013. 33-35). In particolare Bruno e Sachs (1985) hanno sostenuto che a fronte di shock di
offerta, come per esempio un aumento del prezzo del petrolio, risultano avvantaggiati:
-
paesi con una struttura di contrattazione assai centralizzata (paesi socialdemocratici)
in cui i sindacati sanno che un aumento dei salari nominali condurrebbe a un aumento dei prezzi
lasciando i salari reali invariati;
-
paesi con una struttura assai decentrata (USA, UK) per cui i sindacati aziendali non
volendo sfavorire la propria impresa non avanzano richieste troppo onerose;
rispetto a
-
paesi con una struttura intermedia con molti sindacati di categoria che partecipano a
un gioco non cooperativo: ciascuno avanzerà richieste onerose nell’attesa che tanto anche gli altri lo
faranno. (Viene incentivato un comportamento sindacale free rider: se n-1 sindacati accettano la
moderazione salariale, sarà conveniente per il sindacato n-esimo di violare la norma e richiedere
forti aumenti salariali. Ma allora tutti si comporteranno così.)
2.2.2. Politiche monetarie nazionali, coerenza temporale e credibilità: il modello di
Barro & Gordon (De Grauwe 2013: cap. 2, sez. 3)
Sviluppando la rivoluzione monetarista, i contributi di Kydland e Prescott (1977) e Barro e Gordon
(1983) hanno messo in luce come il settore privato modifichi i propri comportamenti sulla base
delle conseguenze attese dall’azione del settore pubblico, per cui quest’ultimo dovrà tener conto di
tale reazione nell’assumere le proprie decisioni. In particolare la reputazione che un governo
acquisisce nel perseguire certi obiettivi di politica economica (uno, in realtà, l’inflazione) è di
grande peso sulla credibilità della sua azione.
Secondo la tesi monetarista l’autonomia della politica monetaria è inutile e controproducente se
i governi sono inclini all’inflazione. I governi potrebbero naturalmente promettere un rigore antiinflazionistico. Secondo il modello di Barro & Gordon sono però poco credibili.
Consideriamo la curva di Phillips (CdP) aumentata per le aspettative di inflazione:
u  u n   ( pˆ e  pˆ ) .
Se pˆ e  pˆ  u = un
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Se pˆ  pˆ e  u < un  c’è stata sorpresa poiché il tasso di inflazione corrente è minore di
quello atteso e i lavoratori nel breve periodo soffrono di illusione monetaria..
Non vi sono tuttavia errori previsivi sistematici (o vi sono aspettative razionali AR)  in media
pˆ e  pˆ e u = un. Lungo la CdP verticale vale sempre pˆ e  pˆ .
(DG definisce un anche come NAIRU, non è preciso, se fosse NAIRU sulle ordinate avremmo
non il tasso di inflazione, ma la variazione del tasso di inflazione rispetto al periodo
precedente pˆ t  pˆ t 1 , che in corrispondenza del NAIRU è zero, ovvero inflazione costante nel
tempo).
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p̂
un
u
Abbiamo due governi: wet e hard-nosed, rispettivamente disponibili a scambiare poca
disoccupazione in cambio di una significativa riduzione dell’inflazione e, all’opposto, molta
disoccupazione in cambio di una piccola diminuzione dell’inflazione. Curve d’indifferenza più
vicine all’origine danno al governo un’utilità maggiore (poiché sia la disoccupazione che
l’inflazione sono minori)..
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p̂
p̂
HARD-NOSED
WET
u
u
pˆ e  pˆ 1
p̂
E
C
p̂1
B
B’
A
u1
un
u
Supponiamo che il governo convinca gli “agenti” (sindacati e imprese) che terrà l’inflazione
a zero in corrispondenza a un (punto A). Gli agenti ci credono. Il governo sarà a quel punto tentato
di ridurre la disoccupazione a u1 con tasso di inflazione p̂1 muovendo lungo la CdP verso una curva
di preferenza più gradita (punto B). I soggetto se ne accorgono e la CdP si sposta in alto a destra
sulla base delle nuove aspettative pˆ e  pˆ 1 (ripassare sui complementi di macro o sul libro di macro
su cui si è studiato). L’economia torna in B’. Il governo sarà allora tentato di muovere in C (per lui
ora ottimale). Da ultimo si converge in E , su una curva di indifferenza più elevata, dunque con
minore utilità per lo stesso governo (più inflazione a parità di disoccupazione rispetto al punto
iniziale A).
Si finisce lì perché
-
il governo è miope (ma i governi ragionano con tempi “elettorali”).
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-
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… e non è credibile e il settore privato lo sa (ha aspettative razionali).
Se il gioco fosse ripetuto – cioè se il governo avesse una prospettiva di lunghissimo periodo – esso
potrebbe avere la convenienza a non violare la promessa di inflazione zero (col risultato di ottenere
un con inflazione zero). Ma i governi ragionano con prospettive elettorali di breve periodo (sono
miopi) e sono tentati a una riduzione di u via inflazione.
 di qui l’idea della indipendenza della politica monetaria, dunque della BC, dai governi. In
particolare la politica monetaria potrebbe essere assegnata a una BC “straniera”, disegnata come la
BCE (cap. 5).
Due esiti a seconda del tipo di governo:
HARD-NOSED
p̂
p̂
WET
E
E
A
B
A
B
un
u
un
u
DG definisce come credibile un governo (o un assetto istituzionale di politica economica) che
sceglie p = 0 e non si cura della disoccupazione. In quel caso le curve di preferenza saranno piatte
e i governi si situeranno nel punto E.
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2.2.3. Modello B&G per economie aperte
HARD-NOSED
p̂
p̂
WET
E
G
A
un
F
u
un
u
Figura Y
Supponiamo un governo hard-nosed collocato nel punto A (fig. Y). Il paese wet è in E. Poiché
eˆ  pˆ I  pˆ G , il paese wet è costretto a un continuo deprezzamento della propria moneta (o a una
continua svalutazione nel caso di cambi fissi). Il paese dovrebbe convincere gli agenti che si
collocherà in F (senza lasciarsi tentare di andare in G), sì da avere a parità di u un tasso di inflazione
minore.
2.3.4. Credibilità e costo di un’unione monetaria
Al fine di rendere credibile la promessa di rimanere nel punto F il governo potrebbe impegnarsi a
un tasso di cambio fisso – per cui un aumento dell’inflazione sarebbe pagato con una
disoccupazione più alta e non più bassa a causa della perdita di competitività. Esso potrebbe però
violare la promessa e accomodare la maggiore inflazione con una svalutazione a sorpresa. Il
governo non sarebbe dunque credibile nella propria promessa. La fissità del tasso di cambio non è
infatti più credibile della promessa di un tasso di inflazione costante. Allora l’adozione di una
moneta “straniera” rende la fissità del cambio credibile, e con essa l’impegno a un’inflazione bassa.
Come ben espone De Grauwe (2013: 61-64)
“si supponga, per prima cosa, che l’Italia annunci di fissare il proprio tasso di cambio rispetto
al marco tedesco. Di conseguenza, anche il proprio potere d’acquisto sarà uguale a quello
tedesco, come mostra la retta orizzontale passante per A nella figura [Y]. L’Italia sembra ora
in grado di raggiungere un minore tasso di inflazione. I guadagni potenziali in termini di
benessere sono notevoli, poiché nel nuovo equilibrio l’economia è su una curva di
indifferenza più bassa. Tuttavia, il problema è stabilire se questa regola sia credibile. Si
osservi che una volta giunti nel nuovo punto di equilibrio F, le autorita italiane hanno un
incentivo a programmare una svalutazione”a sorpresa” della lira. La svalutazione a sorpresa
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provoca un aumento inatteso dell’inflazione e permette all’economia di spostarsi verso il
punto G. Tuttavia, nel tempo, gli agenti economici aggiusteranno le loro aspettative e il tasso
di inflazione di equilibrio finirà per essere lo stesso che si aveva prima di fissare il tasso di
cambio. Quindi, il semplice fatto di fissare il tasso di cambio non risolve il problema, perché
la regola del tasso di cambio fisso non è più credibile della regola del tasso di inflazione fisso.
Ci sono però altre manovre che potenzialmente possono risolvere il problema italiano
dell’elevata inflazione. Si immagini che l’Italia decida di abolire la propria valuta e di adottare
la valuta tedesca. Se fosse possibile rendere credibili queste manovre, se cioè i cittadini
italiani fossero convinti che, una volta adottato il marco come moneta nazionale le autorità
italiane non rinnegherebbero mai questa decisione, allora l’Italia potrebbe raggiungere la
stessa inflazione di equilibrio della Germania. Nella figura [Y] la retta orizzontale che
congiunge il tasso di inflazione tedesco di equilibrio con la retta verticale di Phillips relativa
all’Italia definisce un equilibrio credibile per quest’ultima.
Il punto F è il nuovo punto di inflazione di equilibrio dell’Italia. Dato che l’Italia non ha più
una politica monetaria indipendente, le sue autorità monetarie (con preferenze di tipo wet) non
esistono più, e quindi non possono svalutare la lira. Nel lavoro di Giavazzi e Pagano [1985] si
sostiene che l’Italia “prende a prestito” credibilità dalla Germania, perché il suo governo, per
quanto riguarda le manovre monetarie, ha le mani strettamente legate [anche Giavazzi e
Giovannini 1989].
Questo risultato è certamente molto forte e porta a concludere che l’Italia può trarre un
notevole guadagno dalla costituzione di un’unione monetaria con la Germania. Inoltre ciò non
comporta alcuna perdita di benessere per la Germania. Quindi un’unione monetaria può
produrre soltanto dei vantaggi.
Questa analisi è molto diffusa specialmente nei paesi latini, dove la sfiducia verso le proprie
autorità è profondamente radicata.
… Dalla precedente analisi si conclude che i problemi di credibilità sono importanti nella
valutazione dei costi di un’unione monetaria.
• In primo luogo, la facoltà di svalutare la moneta corrente per le autorità nazionali è una lama
a doppio taglio. Sapere che può essere usata in futuro complica considerevolmente le politiche
macroeconomiche.
• In secondo luogo, la letteratura sulla coerenza temporale ci offre anche alcune importanti
lezioni sul costo dell’unione monetaria: un deprezzamento non può essere usato per
correggere qualsiasi perturbazione che si verifichi nell’economia.
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Un deprezzamento non è, come nell’analisi di Mundell, uno strumento flessibile che può
essere usato frequentemente: infatti, una volta che si è ricorso a tale strumento, esso influenza
la possibilità di un suo impiego futuro perché provoca forti aspettative. È quindi uno
strumento rischioso, che può danneggiare chi lo impiega. Ogni volta che i politici utilizzano
questo strumento devono confrontare i vantaggi presenti con i costi futuri, cioè con il fatto che
in futuro sarà più difficile utilizzare efficacemente questo strumento.
Tutto ciò ha spinto alcuni economisti ad affermare che lo strumento del tasso di cambio non
dovrebbe essere affatto utilizzato e che i paesi trarrebbero dei vantaggi abbandonando
irrevocabilmente il ricorso a tale strumento.”
Riassumendo:
 Giavazzi&Pagano/Giavazzi&Giovannini  l’Italia prende a prestito credibilità  ci si lega le
mani.
- Anche un currency-board o il gold standard possono essere insufficienti perché violabili.
- La banca centrale deve essere quella di un paese hard-nosed o rifarsi al suo modello.
2.3. Due diverse visioni della disoccupazione (importante)
Questo capitolo è importante perché illustra la tesi che il tentativo di paesi wet di espandere
l’occupazione attraverso una svalutazione della propria moneta, che ha effetti inflazionistici, è
inutile nel lungo periodo in quanto la curva di Phillips è verticale. Governi dalla reputazione wet
che volessero impegnarsi a evitare questo tipo di politiche non sarebbero tuttavia credibili. Essi
potrebbero dunque utilmente procedere a un’unificazione monetaria con un paese virtuoso: data
l’inefficacia della politica monetaria a ridurre il tasso di disoccupazione nel lungo periodo - e
neppure nel breve periodo se vi sono aspettative razionali - tanto vale allora a ciascun paese
attestarsi sul tasso di inflazione del paese più virtuoso adottandone le istituzioni monetarie.
Questa è una critica alla teoria delle AVO che era invece scettica delle UM per la perdita
della flessibilità del cambio. I teorici delle Avo ragionavano tuttavia con una curva di Phillips
decrescente e differente fra i diversi paesi, per cui due paesi – per esempio Italia e Germania - con
diverse curve di Phillips potevano dover sopportare tassi di inflazione diversi a parità di tasso di
disoccupazione. La svalutazione della moneta era uno strumento con cui il paese con la
combinazione
inflazione/disoccupazione
peggiore
(l’Italia)
poteva
difendere
la
propria
competitività nei confronti del paese più virtuoso (la Germania). Dietro l’idea della curva di Phillips
decrescente c’era anche l’idea che la disoccupazione fosse un fatto largamente involontario e che la
maggiore inflazione quando la disoccupazione si riduce non fosse dovuto alla necessità di illudere
disoccupati volontari che essi stiano guadagnando salari reali più elevati, ma al semplice
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mutamento dei rapporti di forza contrattuali a favore dei lavoratori. A parità di tasso di
disoccupazione, il livello di conflitto poteva poi essere diverso fra paesi in seguito a complesse
differente storiche, politiche e istituzionali.
Una volta affermata invece l’idea che la disoccupazione si possa ridurre al di sotto del suo
livello naturale solo illudendo i disoccupati volontari attraverso sorprese inflazionistiche – illusione
che può avvenire solo nel breve periodo e neppure nel breve periodo se vi sono aspettative razionali
-, una volta affermata dunque l’idea della curva di Phillips verticale, non ha più senso per il paese
wet di mantenere un tasso di inflazione più elevato del paese virtuoso. Non essendovi nulla da
guadagnare a avere tassi di inflazione differenti Italia e Germania possono formare un’UM senza
alcun costo in termini di disoccupazione dato che la politica monetaria indipendente non influenza il
tasso di disoccupazione di lungo periodo. Per l’Italia affidarsi a inflazione-svalutazione è
irrazionale, la politica monetaria non ha effetti reali di lungo periodo. Si può dunque
tranquillamente rinunciare alla sovranità monetaria.
Dunque un paese può scegliere nel breve periodo la combinazione desiderata inflazione cum
svalutazione in maniera tale da ottenere u < un. Ma nel lungo periodo si ritorna a u = un con
un’inflazione più elevata che all’inizio (anche per la necessità di svalutare il che comporta un
prezzo più elevato delle importazioni). La successiva disinflazione è costosa perché si devono
ridurre le aspettative inflazionistiche accrescendo la disoccupazione (u < un)  si veda Blanchard
 costo della disinflazione). Legarsi le mani a un paese dalla bassa inflazione stipulando una
unione monetaria con esso riduce i costi della disinflazione abbattendo le aspettative
inflazionistiche (Giavazzi & Pagano).
 con la UM i costi della disinflazione si abbattono (possono diventare addirittura zero) per
l’impegno irrevocabile al tasso di inflazione del paese più virtuoso  si compra credibilità dal
paese virtuoso (Giavazzi e Pagano)  ci si lega le mani (Giovannini). E’ possibile che questi autori
ritengano che nel lungo periodo le istituzioni del paese wet assomiglino sempre più a quelle del
paese hard-nosed sicché un del paese wet diventa stabilmente più basso.
In ogni caso, in un’UM, come si vede dalla figura qui sotto, in presenza di differenti
andamenti della produttività, il tasso di variazione dei salari monetari deve anche essere differente,
pur a parità di tasso di inflazione.
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ŵG
q̂G
pG
un
uG
ŵI
q̂ I
pI
un
In termini delle equazioni già viste sopra:
pI  wˆ I  qˆ I
pˆ G  wˆ G  qˆG
eˆ  pˆ I  pˆ G
Con la moneta unica eˆ  0 , per cui wˆ I  qˆ I  wˆ G  qˆG .
Ne consegue che se qˆG  qˆ I , dovrà essere wˆ I  wˆ G .
La studentessa verifichi di aver compreso molto bene i grafici che seguono:
uI
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dp/p
un
u
w/p
Nn
N
Visione neoclassica: la disoccupazione naturale corrisponde all’equilibrio del mercato del lavoro
(no disoccupazione involontaria)
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dp/p
u
un
ukeynesiana
AD
C+I+G+E
45°
AS
Y
Visione Keynesiana: la disoccupazione keynesiana corrisponde all’equilibrio del mercato dei beni
(in ukeynesiana c’è disoccupazione involontaria). Il taso naturale è semplicemente quallo in cui i
sindacati sono sufficientemente deboli per cui inflazione è nulla (e la discoccupazione involontaria
ancora più elevata)
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2.4. Movimenti di capitale compensatori di squilibri commerciali
Un’altra tesi molto importante a sostegno dei vantaggi di un’UM riguarda i movimenti di capitale.
Essa sostiene che eventuali disavanzi commerciali nei paesi periferici impegnati in un processo di
inseguimento dei paesi più avanzati possano essere compensati da flussi di capitale favoriti
dall’unificazione monetaria che fa scomparire il rischio di cambio. Con cambi flessibili tale rischio
riguarda sia il debitore se esso ha contratto un debito denominato in valuta estera, che il creditore se
il debito è denominato nella valuta del paese debitore. Nel caso di una svalutazione della moneta
periferica, nel primo caso il debitore vedrà accrescere il valore in moneta nazionale del proprio
debito; nel secondo caso il creditore vedrà diminuire il valore nella propria divisa del credito
accordato. Tali rischi scompaiono con un’unificazione monetaria. Dunque un’UM favorirebbe i
flussi di capitali dai paesi avanzati verso quelli periferici consentendo a questi una crescita più
rapida come argomentato da Blanchard e Giavazzi). L’argomento è approfondito nel BOX.
Commercio estero e movimenti di capitale nella teoria neoclassica dell’economia
internazionale e la sua critica
Molti studenti avranno sostenuto il corso di economia internazionale. Ai nostri scopi è qui
sufficiente ricordare che per la teoria neoclassica, a parità di condizioni tecniche di produzione,
ciascun paese tenderà a specializzarsi nella produzione di quelle merci che utilizzano relativamente
più del fattore (o fattori) relativamente più abbondante in quel paese. Per esempio se per produrre
formaggio si utilizza relativamente più lavoro rispetto alla terra mentre per produrre carne si
impiega relativamente più terra rispetto al lavoro, e la terra è relativamente più abbondante in
Francia a confronto della Germania, ecco che la Francia si specializzerà nella produzione di carne e
la Germania in quella di formaggio. La ragione è intuitiva: se la terra è più abbondante
relativamente al lavoro in Francia rispetto alla Germania, il prezzo di affitto della terra (o rendita)
sarà relativamente più conveniente in Francia che in Germania, sicché nel primo paese sarà più
conveniente la produzione di carne che fa un uso relativamente maggiore di terra rispetto al lavoro.
Simmetricamente, l’abbondanza relativa di lavoro in Germania farà sì che i salari in questo paese
siano relativamente più bassi rispetto alla Germania, e la produzione di formaggio più conveniente
dato il suo relativo maggior uso di lavoro rispetto alla terra.
Nell’esempio abbiamo utilizzato i due fattori della produzione più facilmente “misurabili”: il
lavoro in ore-lavoro, la terra in ettari. Avremmo tuttavia potuto fare un esempio col fattore
“capitale”. In questo caso avremmo, ad esempio, concluso che se la Germania è un paese in cui il
capitale è abbondante (rispetto a terra e lavoro) esso tenderà a specializzarsi in produzioni ad
elevata intensità di capitale.
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[La teoria neoclassica presenta delle incongruenze analitiche al riguardo. Si veda per una
spiegazione introduttiva http://nakedkeynesianism.blogspot.it/2011/10/more-on-free-trade.html.]
Per gli economisti neoclassici un’alternativa al commercio internazionale risiede nel
movimento dei fattori. In altri termini è la medesima cosa per un paese relativamente ricco di
capitale esportare beni ad alta intensità di capitale, oppure esportare capitale verso i paesi che ne
sono relativamente meno dotati. L’idea degli economisti neoclassici è dunque che i paesi del “nord”
del mondo, i cui reddito pro capite è più elevato e dunque risparmiano molto, tenderanno a
esportare capitale verso i paesi del “sud”, in cui il reddito pro capite è più basso e che dunque hanno
una minore disponibilità di risparmi. Si noti che il nord presta al contempo capitale finanziario e
capitale reale: le famiglie del nord prestano, via sistema finanziario, parte del proprio reddito al sud
(aspetto finanziario); gli imprenditori del sud impiegano questo risparmio per acquistare
attrezzature dal nord. Sappiamo dalle nostre nozioni di bilancia del pagamenti che ciò che stiamo
osservando è un disavanzo di parte corrente (l’importazione netta di beni capitali), che è la parte
reale, coperta da un avanzo nei movimenti di capitale, che è la parte finanziaria. Nel lungo periodo,
così prosegue questo ragionamento, la maggiore accumulazione di capitale consentita dall’afflusso
di capitale estero consentirà a questi paesi di esportare di più. Nel lungo periodo la situazione dovrà
dunque ribaltarsi: i paesi del sud diverranno esportatori netti con partite correnti in avanzo, potendo
così restituire i debiti contratti nel passato coi paesi del nord.
Peccato che in genere le cose non siano quasi mai andate così: in genere i flussi di capitale
dal nord sono andati a finanziare consumi e non investimenti nei paesi del sud. Questi si sono così
indebitati in maniera crescente sino, in molti casi, alla bancarotta. Un esempio recente sono gli
squilibri europei studiati più avanti in questo corso. Da un punto più teorico, rifacendosi alla lezione
di Keynes, non ci sorprende che a presunti risparmi del nord non abbiano generalmente seguito
investimenti nel sud, non essendovi alcuna relazione causale fra risparmi e investimenti.
Per saperne di più:
Il ruolo positivo dei movimenti di capitale nell’UME è stata sostenuto, per esempio, da
Blanchard e Giavazzi (2002).
2.5. Una ragione più pragmatica per cui s’è fatto l’euro (solo lettura)
Al di là dell’indubbia influenza delle idee monetariste, una ragione più pratica per cui
Francia, Italia e i paesi della periferia europea hanno trascinato la Germania nell’avventura della
moneta unica è da ricercarsi nell’esperienza dello SME. Durante quegli anni la Germania quale
paese egemone del sistema si limitava a fissare i tassi di interesse badando solo alle proprie
esigenze interne. Onde evitare svalutazioni o rivalutazioni delle proprie monete, in violazione
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dell’accordo di cambio, gli altri paesi erano costretti ad adeguare la loro politica monetaria a quella
tedesca. Per questa ragione si ritenne che con una piena unificazione monetaria tutti i paesi
avrebbero avuto voce in capitolo sulla politica monetaria. Seguiamo il ragionamento di Fernando
Vianello:
“Nel determinare l’adesione allo SME da parte degli altri paesi, e poi nel farne accettare i
costi, ebbe probabilmente un ruolo la preoccupazione che un’elevata instabilità dei cambi
ostacolasse il processo di creazione di un mercato unico europeo (e mettesse in discussione la
sopravvivenza della Politica agricola comunitaria). Un importante aiuto venne, inoltre, da due
fattori: l’inaspettata fase di apprezzamento del dollaro, che coprì tutta la prima metà degli anni
’80, e i riallineamenti delle parità centrali – ossia le modifiche dei tassi di cambio posti al
centro delle bande di oscillazione delle monete – che ebbero luogo, con maggiore o minore
frequenza, fino al 1987 e che comportarono un considerevole apprezzamento del marco nei
confronti delle altre monete. Nonostante tali riallineamenti, i differenziali di inflazione fecero
sì che il marco si deprezzasse in termini reali nei confronti delle altre monete europee, e
questo, combinandosi con un intenso processo di ristrutturazione, consentì all’industria
manifatturiera tedesca di riguadagnare quote di mercato perfino in settori, come il tessile e
abbigliamento, che si ritenevano destinati a essere abbandonati. L’apprezzamento del dollaro,
unendosi alla poderosa ripresa americana, sosteneva tuttavia le esportazioni europee, rendendo
tollerabile per Italia e Francia l’accumularsi di pesanti saldi passivi nei confronti della
Germania. (A determinare tali saldi passivi contribuiva, insieme con il deprezzamento reale
del marco, la debole crescita della domanda interna tedesca: tornerò su questo fra breve.)
Successivamente un altro elemento acquistò peso, fino a divenire dominante, nel
determinare l’atteggiamento dei paesi diversi dalla Germania. L’aggancio delle loro monete al
marco fu infatti visto da questi paesi come lo strumento principe della politica antiinflazionistica in cui essi erano impegnati. La giustificazione tradizionale di una simile linea
di condotta risiede nella funzione disciplinare del cambio, ossia nell’ostacolo che ne deriva
alla concessione di generosi aumenti salariali (di cui la concorrenza estera ostacola il
trasferimento nei prezzi) e nella pressione cui le imprese sono sottoposte affinché riducano i
costi attraverso ristrutturazioni e razionalizzazioni. A questa giustificazione se ne affiancava
ora un’altra, basata sulla seguente idea: che l’impegno anti-inflazionistico di un governo
genera, qualora sia giudicato credibile, aspettative che favoriscono la disinflazione; e che un
modo molto efficace per rendere credibile tale impegno consiste nella parallela, solenne
assunzione dell’impegno a mantenere stabile il cambio con la moneta di un paese a bassa
inflazione; poiché questo secondo impegno – che impone, in prospettiva, l’azzeramento, e
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addirittura un temporaneo cambiamento di segno, del differenziale di inflazione fra i due paesi
– non può essere disatteso senza sopportare un elevato costo politico.
L'interpretazione dello SME che fa leva sulle sue proprietà anti-inflazionistiche (teorizzate in
uno dei due modi appena detti) guadagnò progressivamente terreno nel corso degli anni '80,
fornendo la base a una profonda modificazione del modus operandi dello SME: a partire dal
1987 non si ebbero ulteriori riallineamenti, e lo SME funzionò fino al 1992 come un sistema
di cambi propriamente fissi. Si era frattanto chiusa, nel 1985, la fase di apprezzamento del
dollaro [accordi del Plaza], e a essa era subentrata una fase di deprezzamento. I disavanzi
degli altri paesi europei nei confronti della Germania non potevano pertanto essere compensati
da avanzi nei confronti degli Stati Uniti (e del resto del mondo) com’era avvenuto nella prima
metà degli anni ’80. Restava, come unica strada, il ricorso a politiche di contenimento della
domanda interna.
Prendeva forma così il “modello di bassa crescita” europeo. La crescita del paese centrale, la
Germania, è trainata dalle esportazioni (tranne nel periodo immediatamente successivo alla
riunificazione del paese). L’orientamento restrittivo della politica monetaria e fiscale,
sommandosi alla concorrenzialità garantita dalla bassa inflazione tedesca in presenza di
stabilità dei cambi, consente alla Germania di accumulare saldi attivi nei confronti degli altri
paesi europei. L’onere del riequilibrio ricade integralmente su questi ultimi, che vi
provvedono tramite politiche di contenimento della domanda (rifiutandosi il paese in avanzo
di provvedervi attraverso proprie politiche espansive). Questo carattere asimmetrico del
meccanismo di aggiustamento venne più volte denunciato dal governo francese. E anche il
governo italiano si associò, almeno in un’occasione, all’accusa, rivolta alla Germania, di
“sottrarre potenziale di crescita agli altri paesi” (Amato, 1988, p. 95).
Ad aggravare ulteriormente la situazione provvedeva frattanto la liberalizzazione dei
movimenti di capitali, già completata dalla Germania alla fine degli anni ’70 e
progressivamente estesa agli altri paesi nel decennio successivo. Per avere cambi fissi (e di
fatto non più soggetti a modificazioni) all’interno dell’Europa e libertà di movimento dei
capitali (all’interno e all’esterno di essa) bisognava … [si veda sotto la prima delle triadi
inquietanti] sacrificare l’autonomia delle politiche monetarie nazionali. Ed è quel che si fece.
L’aggancio delle altre monete al marco poté essere mantenuto (per non più di un paio d’anni),
ma solo al prezzo di politiche monetarie fortemente restrittive.
Secondo la teoria economica dominante, i cui orientamenti nel corso del tempo erano
profondamente mutati, la rinuncia all’autonomia della politica monetaria era un sacrificio da
compiere senza rimpianti. Una politica monetaria espansiva, si riteneva ora, avrebbe avuto
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l’unico risultato di innalzare stabilmente il tasso di inflazione senza alcun beneficio, o con un
beneficio soltanto temporaneo, per l’occupazione. A un’autonomia capace di portare soltanto
a un risultato così disastroso si poteva tranquillamente, e anzi si doveva, rinunciare.
Imponendo tale rinuncia a governi sempre tentati di guadagnare consensi con nefaste politiche
espansive, la liberalizzazione dei movimenti di capitali svolgeva dunque un ruolo benefico.
Di ben altra consapevolezza dei costi della difesa del cambio in assenza di controlli sui
movimenti di capitali diedero prova gli estensori di un rapporto predisposto per la
Commissione europea nel 1986-87, i quali giunsero a chiedersi se, in concomitanza con la
liberalizzazione dei movimenti di capitali, non convenisse passare ai cambi flessibili. La
conclusione negativa, ci informa T. Padoa-Schioppa (1987, p. 87a), fu raggiunta con fatica.
Non volendosi tornare ai cambi flessibili, per i pericoli che ciò avrebbe comportato per
l’integrazione economica europea, né rinunciare alla liberalizzazione dei movimenti di
capitali, restava aperta un’unica possibilità: procedere all’unificazione monetaria. Gli
elevatissimi costi sociali sopportati dalla Francia per mantenere stabile il cambio con il marco
– e il fatto che la speculazione, nonostante ciò, non desse tregua al franco – fecero del governo
francese il principale paladino di questa soluzione. Nel garantire l’adesione a essa della
Germania può aver giocato, nell’immediato, il desiderio di ottenere il consenso della Francia
all’annessione delle regioni orientali già appartenenti alla Repubblica Democratica Tedesca,
nonché al prospettato allargamento a Est della costruzione europea. Ma, a un livello più
profondo, non si può non considerare che nella nuova situazione l’unificazione monetaria
rappresentava l’unico modo per salvaguardare efficacemente l’esigenza di fare dell’Europa
un’area di stabilità valutaria. E non va neppure dimenticato che confrontata con il marco (che
aveva rappresentato fino ad allora il centro del sistema, e cui gli svolgimenti politici in corso
nell’Europa centro-orientale sembravano promettere un ruolo ancora maggiore) la moneta
unica europea presentava il vantaggio di basare la propria aspirazione a sfidare la supremazia
del dollaro su un più ampio retroterra economico.”
(da Fernando Vianello (2005) su SME e moneta unica
http://www.fernandovianello.unimore.it/site/home/una-selezione-di-scritti.html)
2.10.
Aspetti politici del processo di unificazione europeo
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Sugli aspetti politici del processo di integrazione europeo risulta utile questo paper di Enrico
Spolaore, “What Is European Integration Really About? A Political Guide for Economists”,
http://sites.tufts.edu/enricospolaore/files/2012/08/Euro-June-2013.pdf4
Spolaore mette in luce come l’adozione della moneta unica possa aver seguito il “metodo Monnet”
– dal nome del politico belga considerato uno dei padri iniziatori del processo di unificazione
europeo. Secondo tale metodo, l’unificazione progressiva di aspetti della vita economica degli Stati
europei avrebbe dovuto fare da battistrada all’unificazione politica. Forse con la moneta unica si è
fatto un salto più lungo della gamba.
Ne citiamo alcuni passi (ma sarebbe bene leggerlo tutto):
“In 1943 a group led by Altiero Spinelli founded the European Federalist Movement. In 1946,
Winston Churchill argued for the creation of “the United States of Europe” (which in his view
did not include Britain.
…the founding document of European integration is the Schuman declaration of May 9, 1950,
named after France’s foreign minister Robert Schuman and inspired by Jean Monnet, a
businessman and civil servant who played a crucial role in starting European institutions in the
following years.
…The Schumann declaration led in 1951 to the European Coal and Steel Community (ECSC)
among six countries.1 The ECSC was then used as the institutional template for two proposed
communities: the European Defense Community and the European Political Community,
which included the formation of a common army, a common budget, and common institutions
with significant legislative and executive powers. It would have basically amounted to a
European federation (Moravcsik 1998; Rector 2009). A treaty was signed among the six
countries in 1952 but failed to obtain ratification in the French parliament, and never took
effect. In 1955 several politicians, including Jean Monnet, created an “Action Committee for
the United States of Europe.” But, again, no United States of Europe actually formed.
The fundamental reasons behind these failures to form a federation have bedeviled the
supporters of a United States of Europe, then and since.
Costi e benefici integrazione
…The formation of a European federation across heterogeneous populations, which share
diverse social and economic structures, languages, cultures and identities, would come with
several benefits but also with high costs. The trade-off between such costs and benefits is
4
Spolaore, ora negli SU, come Daniel Gros, Mario Draghi e tanti altri è un laureato della facoltà di
Economia de La Sapienza.
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central to the political feasibility and stability of institutional integration among those
populations (Alesina and Spolaore 1997, 2003).
Potential benefits from full political unification include economies of scale in the provision of
federal public goods, such as defense and security, and the ability to internalize positive and
negative externalities over a large area. A European federation with its own budget and
redistribution policies could also provide insurance against asymmetric shocks that only affect
some of its regions, whether natural, like an earthquake, or man-made, like the bursting of a
housing bubble. These benefits from fiscal federalism are often stressed when comparing
Europe to the United States (for example, Sala-i-Martin and Sachs 1992; Krugman 2012), and
are now at the forefront of the debate about the European sovereign debt crisis (Lane 2012).
However, political unification comes with significant costs when various groups speak
different languages, share different cultural norms and identities, and have different
preferences for public policies and institutions that cannot be decentralized at the sub-federal
level
Il problema tedesco
… a continuing issue in the history and politics of European integration: the extent to which
European supranational institutions can be interpreted as tools to constrain German power in
the interest of its neighbors, especially France. This theme has come to the forefront again
with the creation of the euro. A popular view is that giving up its currency was the price that
Germany had to pay to overcome France’s opposition to German reunification (Garrett, 1993;
Marsh 2011), a deal summarized by the witticism quoted by Garton Ash (2012, p. 6): “[T]he
whole of Deutschland for Kohl, half the deutsche mark for Mitterrand.” Literally taken, as a
quid pro quo, this interpretation is not held by most scholars (Sadeh and Verdun 2009). It is
questionable that a French threat to veto the reunification of Germany could be credible.
Moreover, key decisions about the single currency had already been taken before the fall of
the Berlin Wall in 1989, and German politicians and interest groups (like exporters) had other
strong reasons to favor a monetary union (Moravcsik 1998; Frieden 2002).
Intergovernamentalismo o funzionalismo? Il metodo di Monnet
…The Treaty of Rome of 1957 establishing the European common market no longer referred
to steps “toward a federation,” but included the vaguer objective of laying the “foundations of
an ever-closer union among the peoples of Europe.”5 The signatories’ main stated goal was
“to ensure the economic and social progress of their countries by common action to eliminate
the barriers which divide Europe,” while claiming that this would strengthen peace and
security. To foster those goals, European states created two sets of institutions: supranational
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institutions such as the European Commission, Parliament, and Court of Justice, and
intergovernmental institutions, such as the Council of Ministers and, later, the European
Council, formed by the heads of state or government of the member states.
…The history of European integration reflects this tension between the role of supranational
institutions and the power of national governments. The conflict is also mirrored by the two
most influential political theories about European integration: functionalism and
intergovernmentalism. This terminology is rather confusing for the uninitiated. In a nutshell,
the theories are distinguished by how they answer the question: who is in charge of European
integration?
Intergovernmentalists believe that national governments are in charge, and that supranational
institutions are tools of the national states, which use them to pursue their own goals.
Moravcsik (1993, 1998), an influential proponent of this theory, believes that national
governments have built European institutions in order to pursue the economic interests of their
domestic constituencies.
…Functionalists believe that European integration is not primarily driven by national
governments and their voters, but mostly pushed by elites and interest groups that transcend
national boundaries. They stress the role of supranational entrepreneurs and civil servants like
Jean Monnet in the 1950s and Jacques Delors in the 1980s and 1990s.
…The theory of functionalism was directly inspired by Jean Monnet’s strategy to delegate
specific functions to supranational institutions in relatively narrow areas, mostly technical and
economic, with the expectation that it would lead to more institutional integration in other
areas over time. Functionalists believe that moving only some policy functions to the
supranational level, while leaving other functions at the national level, creates pressure for
more integration through positive and negative mechanisms. A positive mechanism would
work through learning: as politicians and interest groups observe the benefits of integrating a
few functions, they will want more. This idea is implicit in the Schumann declaration, stating
“Europe will not be made all at once, or according to a single plan. It will be built through
concrete achievements.”
…A darker mechanism through which partial integration could lead to more integration is,
paradoxically, by generating problems and crises.
…Functionalism was the dominant theory of European integration in the 1950s and 1960s,
then came to seem less plausible
Funzionalismo ed Euro
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In 1992 the members of the European Community signed a Treaty on European Union at
Maastricht, which reorganized European institutions and designed an Economic and Monetary
Union (EMU), establishing the institutional foundations for the euro.
…An important functionalist argument was based on the “inconsistent quartet:” the mutual
incompatibility of free trade, mobility of capital, fixed exchange rates, and independence of
national monetary policies (Padoa-Schioppa 2004). Assuming that fixed exchange rates were
essential for Europe’s single market, then moving from commercial integration to
liberalization of capital movements had to lead to the loss of national monetary autonomy.8 In
fact, Padoa-Schioppa (2004, p. 14), one of the architects of the economic and monetary union
and key member of the Delors Committee, explained the path to the euro in terms that
explicitly echoed the chain-reaction metaphor
…Not only was the path to the euro explained in functionalist terms from a technical
perspective, but was also viewed, in Schumann and Monnet’s tradition, as “a further step—
and as a prerequisite for yet other steps—in the political unification of Europe” (PadoaSchioppa 2004, p. 6). Wim Duisenberg, the first President of the European Central Bank, said
(as quoted in Van Overtveldt 2011, p. 63): “EMU is, and was always meant to be a stepping
stone on the way to a united Europe.” German Chancellor Helmut Kohl famously said in 1991
(as quoted in Marsh 2011, p. 301): "It is absurd to expect in the long run that you can maintain
economic and monetary union without political union."
From the perspective of Monnet’s method, such an “absurd” economic and monetary union
without political union should create pressures for still more integration. The euro area lacked
many institutions historically associated with a successful monetary union: for example, a
central bank that could really act as market maker and lender of last resort, a banking union,
and a fiscal union. But this incompleteness could be rationalized as a natural and unavoidable
feature of partial integration in the functionalist tradition. Even though present political
constraints prevented the immediate implementation of a more comprehensive design, the
launching of an “incomplete” monetary union would set the steps for further integration in due
course, as predicted by functionalist theories. For example, people would learn with time
about the large benefits from economic and monetary union and ask for more integration in
other areas. Also, supporters of the euro embraced two arguments mirroring the long-standing
functionalist view that preferences and behavior endogenously converge following integration.
One argument was that regions become economically more homogeneous after they share a
common currency (Frankel and Rose 1998). Secondly, the economic and monetary union was
supposed to provide discipline to governments, including those that used to pursue erratic
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policies. As a result, all member states would eventually converge to common values and
policies emphasizing macroeconomic stability. Supranational institutions could provide the
necessary sanctions if national governments deviated from agreed rules of stability. Nobailout rules would also be enforced. If, in spite of these positive effects and precautions,
future crises were to occur, they could be resolved with more institutional integration.
…In general, the central problem with the chain-reaction method is the unwarranted
expectation that gradual integration, which has been successful in low-heterogeneity-costs
areas, can continue unabated when moving to areas with much higher heterogeneity costs.
This problem stems from the lack of a realistic assessment of the increasing costs and
constraints imposed by heterogeneity of preferences. Successful integration is more likely to
take off in areas such as commercial integration, where heterogeneity costs are relatively low,
and partly offset by the benefits from diversity. As integration proceeds to other areas, after
low-hanging fruits are picked, heterogeneity costs continue to increase along a convex curve.”
2.7. Euro e ultra-liberismo
Poiché a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia, gli economisti più radicali ritengono che
dietro la moneta unica europea vi sia un disegno volto a smantellare le “istituzioni keynesiane”
create negli anni della cosiddetta “epoca d’oro” del capitalismo (1950-1979) caratterizzati dalla
piena occupazione, estensione dei diritti dei lavoratori, estensione dello Stato Sociale. In merito si
legga Cesaratto (2013) (lettura obbligatoria)
Cesaratto S. (2013), Quel pasticciaccio brutto dell’euro, Rivista di politiche sociali,,
http://www.deps.unisi.it/it/ricerca/pubblicazioni-deps/quaderni-deps/anno-2013/682-quelpasticciaccio-brutto-delleuro
2.8.
Le triadi impossibili dei cambi fissi
In un regime di cambi fissi la banca centrale di una piccola economia aperta - o paese follower
come per esempio l’Italia ai tempi del sistema monetario europeo- si impegna a mantenere la
”parità ufficiale” del cambio col paese leader attraverso gli intervento di acquisto o vendita della
divisa estera sul mercato valutario. Il criterio a cui si ispirano tali interventi è quello di stabilizzare il
tasso di cambio nominale tramite il soddisfacimento continuativo dell’eccesso di domanda di valuta
(che può essere di valuta domestica o di valuta estera); tale eccesso di domanda è determinato dal
saldo delle partite correnti (PC).
Se questo si trova in avanzo, si riscontra un eccesso della domanda di valuta nazionale
sull’offerta; la BC deve intervenire sul mercato valutario per evitare che il tasso di cambio nominale
si apprezzi, vendendo valuta nazionale e acquistando in maniera compensativa valuta estera. In
questo caso, l’offerta di moneta nazionale aumenta e la BC accumula riserve ufficiali. Se la BC
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vuole evitare un eccesso di creazione di moneta via canale estero, perché timorosa di creare un
eccesso di domanda interno, dovrà vendere titoli e sterilizzare la moneta creata. I paesi in surplus
commerciale e che accumulano riserve non le tengono in genere oziose, ma le “riprestano” ai paesi
in disavanzo finanziando il loro squilibrio di PC. Il caso di scuola è fra Cina e USA.
Il contrario vale se il saldo estero si trova in disavanzo; in questa circostanza il
mantenimento dell’accordo di cambio comporta una riduzione dell’offerta di moneta e una
decumulazione delle riserve ufficiali. Se un paese ha un disavanzo persistente delle PC, le RU
possono esaurirsi nella difesa del cambio. Solo un ingresso di capitali può impedire una
svalutazione della moneta e la BC dovrà fissare il tasso dell’interesse in maniera da generare un
flusso di capitali che, finanziando il saldo negativo delle PC, stabilizzi il cambio.
Il vantaggio del regime di cambi fissi è nell’impedire le svalutazioni competitive che alla
fine nuocciono al commercio internazionale. Tuttavia tale regime vincola assai l’autonomia della
politica economica di un paese
Per questo si dice che coi cambi fissi un paese “perde la politica monetaria”. Prendiamo un
piccolo paese in tendenziale equilibrio di PC. Esso dovrà mantenere un tasso di interesse non
inferiore a quello degli altri paesi, in particolari a quelli delle grandi economie, e se questi
accrescessero il loro, di conserva il paese in oggetto dovrà accrescere il proprio (pena la fuoriuscita
di capitali e il deprezzamento della valuta). Alti tassi di interesse possono andare a detrimento
dell’obiettivo del sostegno della domanda interna e dell’occupazione. Per contro, se il piccolo paese
volesse fissare tassi più alti di quelli internazionali vedrebbe affluire capitali indesiderati che
farebbero apprezzare la sua valuta in maniera indesiderata (l’apprezzamento potrebbe determinare
uno squilibrio commerciale e la necessità di politiche restrittive a detrimento dell’occupazione).
In un regime di cambi fissi un paese in disavanzo di PC non potrà fare affidamento sulla
svalutazione della propria moneta per aggiustare la bilancia commerciale. Esso sarà dunque
costretto o (a) adottare misure restrittive atte a riequilibrare la bilancia commerciale, ovvero (b) ad
attirare capitali attraverso elevati tassi di interesse.
Essendo un paese a rischio di svalutazione, esso potrà anche facilmente assistere a “fughe di
capitali”. Se v’è un’attesa di deprezzamento della moneta nazionale, sarà infatti conveniente per un
possessore di capitali detenuti in valuta nazionale cambiare questi capitali in valuta estera, azione
che a sua volta accelera la svalutazione, e ricomprare a più buon prezzo la moneta nazionale una
volta che la svalutazione abbia avuto luogo. Il tasso di interesse deve dunque essere tale da
compensare il rischio di perdita (o di mancato guadagno) che si incorre nel mantenere i propri
capitali in valuta nazionale. Sostenere disavanzi della bilancia commerciale attraverso ingresso di
capitali è tuttavia pericoloso in quanto: (a) il perdurare del cambio non competitivo può determinare
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deindustrializzazione, dunque perdita definitiva di capacità produttiva in particolare nel settore
manifatturiero ed esportatore; (b) la crescita progressiva del debito estero sui cui si pagano, per
giunta, tassi di interesse elevati. Casi di scuola sono l’Italia nello SME, soprattutto nel periodo
1987-1992, l’Argentina degli anni 1990 nel currency board (si svolga da soli una piccola ricerca su
Wikipedia), ma in fondo, anche, la situazione che è maturata nell’Unione monetaria europea (UME)
essendo una unificazione monetaria un caso estremo di cambi fissi.
Una maniera per evitare, almeno parzialmente, la perdita di autonomia nella politica
monetaria è nel controllo dei movimenti di capitale. In questo caso i movimenti di capitale sia in
uscita che in ingresso sono soggetti a un regime di autorizzazioni. In tal modo un paese può
decidere il livello del tasso di interesse più consono senza veder fuggire (se fissa i troppo basso) o
affluire (se fissa i troppo alto) capitali. Il problema, si dice, è che i controlli di capitale sono difficili.
Per esempio, una impresa che volesse esportare clandestinamente capitali sotto-fatturerebbe le
proprie vendite all’estero oppure sovrafatturerebbe i propri acquisti.
In sintesi gli economisti parlano di triade impossibile: cambi fissi, autonomia della politica
monetaria (liberta di fissare i) e libertà dei movimenti di capitale: solo due dei tre corni sono
compatibili.
Tassi di cambio fissi
Gold standard
Sme, Ume
Bretton Woods
Mobilità
dei capitali
Politica
Tassi di cambio flessibili
monetaria indipendente
2.9. Le triadi inquietanti
Oltre alla classica triade presentata in un precedente box, sono almeno altre 3 le triadi
impossibili.
1.
Classica macroeconomica: tassi di cambio fissi, libertà movimento dei capitali,
politica monetaria autonoma. Questa triade abbiamo già esaminato.
28
2.
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Settore finanziario: tassi di cambio fissi, libertà movimento dei capitali, stabilità
finanziaria. Questa triade esamineremo in verità nel prossimo capitolo in cui vedremo che sistemi di
cambio fissi generano flussi di capitale fra paesi alla lunga finanziariamente destabilizzanti.
3.
Relazioni internazionali: tassi di cambio fissi, libertà movimento dei capitali,
indipendenza politica nazionale. La perdita della sovranità monetaria riduce lo spazio di manovra
indipendente dei singoli Stati.
4.
Politica: tassi di cambio fissi, libertà movimento dei capitali, democrazia (Rodrik
2007). Questa è la triade più inquietante. Le politiche restrittive che possono seguire sistemi di
cambio fissi possono condurre a proteste popolari e dunque alla necessità di restrizioni
democratiche per sedare tali proteste.
Un paper di due eminenti economisti americani, Bordo e James, che trae le implicazioni di
queste triadi per l’UME, tracciando le similarità fra quest’ultima e il gold standard, è riassunto in
questo articolo dell’Economist (A trio of trilemmas - The gold standard holds worrying lessons for
the single currency, July 6th 2013, http://www.economist.com/news/finance-andeconomics/21580452-gold-standard-holds-worrying-lessons-single-currency-trio).
“European leaders have enjoyed a period of respite from financial turmoil since last
summer. But the euro remains vulnerable. Portuguese bond yields soared this week as the ruling
coalition fractured. Ireland’s economy has contracted for three quarters in a row. A proper banking
union is a long way off. The euro’s fragility is underlined by a new study by Michael Bordo of
Rutgers University and Harold James of Princeton University. The two economic historians look at
the flaws in another supposedly impregnable international monetary regime, the gold standard, and
find reasons to fret about the single currency.
The parallels between the euro and the gold standard are not exact. The single currency is a
monetary union with the European Central Bank (ECB) at its apex; the gold standard had no such
institution. The euro floats against other currencies such as the dollar, and the ECB is obliged to
maintain price stability rather than convertibility into gold. But for the 17 states that now share the
single currency, it represents a new gold standard in that their exchange rates with each other are
fixed.
That observation is not new, but the authors’ analysis of the tensions that eventually
scuppered the gold standard is fresh. Those tensions, they argue, emerged from a trio of
“trilemmas”, each a set of three choices of which any two options together are feasible but not all
three. One of the three trilemmas is familiar to economists: the “impossible trinity” of fixed rates,
free movement of capital and an independent monetary policy. This means that when currencies are
locked and capital can flow freely, countries surrender their ability to conduct their own monetary
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policy. But Messrs Bordo and James reckon that countries in regimes like the euro and the gold
standard may not just be sacrificing their ability to set interest rates; they may also be forsaking
financial stability and even undermining democracy.
1) Start with monetary independence. By throwing away the key of exchange rates,
countries must alter their relative domestic prices and wages when they become misaligned. In its
heyday before the first world war the gold standard worked well. It generated pressures on both
surplus and deficit countries when they respectively gained or lost competitiveness. States with
surpluses acquired gold, pushing up the money supply, raising prices and making them less
competitive. States with deficits lost gold, which caused the money supply to shrink, pushing prices
down and sharpening their edge against rivals.
Unfortunately the euro resembles the flawed interwar version of the gold standard rather
than the classical pre-war model. After the gold standard was restored in the 1920s, central banks in
surplus states like France (which had rejoined it at an undervalued exchange rate) sterilised the
monetary effects of gold inflows so that prices did not rise. That put all the pressure to adjust on
countries like Britain, which rejoined the gold standard in 1925 at an overvalued rate. A similarly
harsh deflationary process is now under way in peripheral euro-zone countries like Greece. Their
adjustment would be much less draconian if the core states were prepared to tolerate considerably
higher inflation than the euro-zone average. But Germany fiercely resists this.
2) The second of the authors’ trilemmas is the incompatibility of fixed exchange rates and
capital mobility with financial stability. When countries joined the gold standard, it bestowed a seal
of approval that prompted a big influx of foreign money. That pumped up credit, driving an
expansion of domestic banks that often ended in grief. Under the gold standard a strong state could
support wobbly banks and investors; in pre-war Russia, for example, the central bank was called the
“Red Cross of the bourse”. But a weak state could easily forfeit investors’ confidence, as happened
to Argentina in its 1890 debt-and-banking crisis. That same story has been repeated in the brief
history of the euro. Money cascaded into peripheral Europe, causing banking booms and housing
bubbles. In the bust that followed, the task of recapitalising banks has caused both the Irish and
Spanish states to buckle.
3) The third trilemma is the most worrying: the potential incompatibility of fixed exchange
rates and free movement of capital with democracy. Germany was able to rejoin the gold standard
after the first world war thanks to the confidence-boosting Dawes Plan in 1924 dealing with
reparation payments. But the harsh fiscal medicine administered during the Depression in its effort
to stay on gold contributed to the rise of the Nazis. Britain left gold in 1931, presaging the end of
the gold standard, because the austerity it required had become unbearable.
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Demos and the demos
The potential for a similar backlash against the economic and fiscal requirements of
Europe’s monetary union is clear. Although southern Europeans still want to keep the euro, not
least because the cost of exit is harsher than that of leaving the gold standard, disenchantment
grows. Italian voters said basta to austerity in February; Portugal’s government is fraying in the
face of public hostility to tax rises and spending cuts. Northern Europeans are also unhappy.
Popular opposition to paying for euro-zone rescues constrains Angela Merkel, the German
chancellor, from spelling out the sacrifices voters must make to sustain the euro.
None of this means an explosion is imminent. Political pressures can simmer for a long time
before they boil over. The euro-zone recession has to end at some point. Progress towards
institutional reform may accelerate after the German election in September. But if the long-term
viability of the single currency is secured, the Europeans will be bucking history.”
* “The European Crisis in the Context of the History of Previous Financial Crises”, NBER
Working Paper 19112, June 2013, http://www.nber.org/papers/w19112.pdf.
2.9.
Letture obbligatorie (chieste all’esame)
Cesaratto Stateless curency pp. (su ragioni euro )