libro V codificazione

Transcript

libro V codificazione
Antonio Iannarelli
La commercialità dell’impresa nell’ elaborazione del libro V del
codice civile*
1.- Prolegomeni all’indagine sulle fasi di elaborazione del libro V del codice civile
Nell’ambito dei lavori preparatori del nostro codice civile, l’elaborazione del libro V “Del
lavoro” ha presentato tratti del tutto originali e quanto mai significativi per cogliere i
complessi nessi che sono intercorsi tra l’esperienza codificatoria conclusasi nell’aprile del
1942 e la concreta situazione socio- culturale in cui essa andò a collocarsi.
L’introduzione, a partire dalla fine di dicembre del 1940, nel disegno della codificazione
civile di un nuovo libro destinato ad aggiungersi ai cinque, sino ad allora programmati e, al
tempo stesso, a divenire il V del nuovo codice civile, implicava contemporaneamente la
soluzione di due fondamentali questioni che avevano attraversato l’esperienza giuridica
italiana a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento ed in cui si rispecchiavano le problematiche
connesse all’avvento di un’economia product oriented, che è sempre presente in fase di avvio
dei processi di industrializzazione.
La prima questione riguardava l’unificazione del diritto delle obbligazioni, a fronte del
sistema binario allora vigente imperniato sulla presenza di due codici, quello civile e quello
commerciale; la seconda, di più ampia portata, si riferiva alla stessa conservazione della
distinzione tra il codice civile e quello di commercio.
Le vicende parallele che, sia pure in parte, hanno da un lato caratterizzato l’elaborazione
del libro IV sulle obbligazioni e sui contratti e dall’altro condotto all’introduzione del libro
dedicato al “ Lavoro” costituiscono la manifestazione più significativa dello sforzo di
modernizzazione della legislazione civile alla base dell’intera codificazione del 1942. Infatti,
proprio nella faticosa elaborazione di quei due libri del codice la società italiana ha
affrontato – non importa qui valutarne gli esiti - le questioni legate sia al passaggio da una
società prevalentemente agricola ad una società in via di rapida industrializzazione, come
tale fondata sul lavoro organizzato proprio della fabbrica moderna e sulla produzione di
massa, sia alle contraddizioni di fondo presenti nello sviluppo economico italiano per via
dello squilibrio storico tra nord e sud del paese.
Ed infatti, è nella prospettiva di una modernizzazione da attuarsi pur sempre attraverso un’
esperienza politica autoritaria ed antidemocratica che ben si spiegano tanto le spinte anche
ideologiche e propagandistiche volte al perseguimento dell’obiettivo, assunto come di
importanza strategica per la società italiana, rappresentato dall’aumento della produzione,
quanto la mitizzazione della civiltà del lavoro e dell’avvento dell’ homo faber con la
conseguente responsabilizzazione, a tale fine, di tutte le classi sociali produttive.
Ebbene, nell’ambito del quadro qui sinteticamente richiamato in ordine alla “via italiana”
adottata per governare la transizione verso una società industrializzata, la vicenda relativa
alle diverse fasi attraverso cui nel giro di pochi mesi si è giunti, dopo varie stesure,
all’elaborazione definitiva del libro V del nuovo codice costituisce esemplare testimonianza
del fatto che la produzione del diritto scritto si sottrae ad una semplicistica contrapposizione
tra “passioni ed interessi”1.
In limine all’analisi dei vari momenti in cui si è articolato l’elaborazione del libro V, appare
indispensabile precisare che in questa sede si intende tenere fuori l’indagine circa le concrete
circostanze in cui si è giunti alla determinazione politica di rinunciare alla stesura di una
1
* Il presente saggio è destinato agli studi in onore di Vincenzo Buonocore
Il riferimento nel testo è al lavoro di HIRSCHMAN,La passione e gli interessi, Milano 1993.
nuovo codice di commercio e di procedere all’unificazione tra codici civile e codice di
commercio2.
La presente riflessione è viceversa indirizzata ad analizzare le diverse stesure che ha
registrato il libro V, a partire dal nucleo originario destinato alla disciplina dell’impresa
presente nel progetto di codice di commercio, sino al testo definitivo licenziato nel giugno
del 1941 e poi pubblicato, dopo le ultime correzioni, il 12 luglio dello stesso anno.
A tale specifico riguardo, al fine di esplicitare preventivamente le idee guida che in parte
hanno ispirato la presente riflessione, in parte si sono andate precisando nel corso
dell’indagine, è opportuno premettere, a mo’ di avvertenza, le seguenti considerazioni
introduttive:
a) Innanzitutto, in funzione euristica, si può dire che il processo che tra l’estate del 1940
e la primavera del 1941 ha portato dall’elaborazione e predisposizione di un nuovo
progetto di codice di commercio, destinato ad affiancare il nuovo codice civile,
all’adozione del libro V “del lavoro” nel codice civile unificato, ha visto l’intervento di
tre fondamentali “forze”.
La prima è rappresentata dalla “cultura giuridica”, più esattamente, dalle diverse
scuole accademiche di provenienza dei giuristi che hanno avuto un ruolo guida nel
corso dei lavori, nonché, conseguenzialmente, dalle diverse metodologie professate. La
seconda è costituita dai concreti interessi delle categorie socio-economiche al centro del
rinnovo della legislazione e che nella vigenza del sistema corporativo erano
rappresentate in larga misura dalle sole organizzazioni sindacali allora riconosciute. La
terza è riconducibile alla sfera dell’ideologia politica in quanto tale, allora dominante,
che, sia pure attraverso una pluralità di anime e di sfumature diverse, peraltro di non
poco momento, si ispirava ai valori di fondo del regime e della cultura c.d. “
corporativa”.
Dal punto di vista della cultura giuridica, in particolare di quella commercialistica, si
può in estrema sintesi rilevare che, a partire dagli inizi del Novecento, l’affermarsi
sempre più netto dell’economia organizzata in forma di impresa aveva evidenziato
l’inadeguatezza delle soluzioni alla base del codice di commercio del 1882. Infatti,
sebbene non ignorasse del tutto il fenomeno dell’impresa, il codice di commercio del
1882 era imperniato sul sistema oggettivo fondato sugli atti di commercio, nell’ambito
dei quali appunto erano previste alcune ipotesi in cui si faceva riferimento anche alle
imprese, senza peraltro che ve ne fosse una precisa nozione giuridica; peraltro, anche
nel progetto di riforma del 1925, l’impresa risultava collocata “ancora nella decrepita
culla dell’atto di commercio”3.
Al di là della diffusa convinzione circa la necessità di rivedere l’assetto atomistico
presente nel codice di commercio del 1882, il cui art. 5 consacrava la sottrazione alla
disciplina degli atti di commercio dell’attività produttiva agricola e degli atti di
alienazione dei prodotti posti in essere dagli agricoltori, il dibattito della dottrina
commercialistica aveva visto fondamentalmente emergere una contrapposizione di
fondo in ordine alla nozione giuridica di impresa da assumere a base della nuova
codificazione commerciale, cui si collegava anche l’abbandono del sistema oggettivo, a
favore di un ritorno al sistema soggettivo che nel passato aveva fatto perno sulla
tradizionale figura dei commercianti.
2
Sul punto ci permettiamo di rinviare al nostro L’imprenditore agricolo e le origini del libro V del codice civile,
in Quaderni fiorentini, 2001,511ss; ma v. ora la più ampia e compiuta ricerca di RONDINONE, Storia inedita
della codificazione civile, Milano 2003.
3
Così MOSSA, Contributo al diritto dell’impresa ed al diritto del lavoro, in Arch. studi corporativi 1941, 63ss,
in part.77.
Una prima impostazione, originariamente promossa da Alfredo Rocco4 e poi ripresa in
maniera rigorosa da Giuseppe Ferri5, identificava l’impresa quale
moderna
manifestazione della produzione organizzata sul lavoro salariato, destinata, in quanto
tale, a rilevare come la nuova “forma” su cui ricostruire la categoria della
commercialità. Siffatta impostazione, a ben vedere, superava la distinzione tra materia
agricola e materia commerciale, originariamente alla base della distinzione tra codice
civile e codice di commercio, in quanto la “commercialità” veniva del tutto sganciata
dal contenuto dell’attività in concreto svolta e, viceversa, legata alla sola “forma”,
rappresentata dal modulo organizzativo adottato per lo svolgimento di tutte le attività
destinate al mercato.
Nell’assegnare un rilievo forte quanto unitario all’impresa, sulla base di un modello
sostanzialmente costruito a misura delle moderne strutture industriali, tale impostazione
negava, in linea di principio, rilevanza giuridica a distinzioni di carattere
dimensionale. L’idea alla base di questa costruzione era condivisa anche da un altro
autorevole per quanto isolato orientamento della dottrina commercialistica, quello
appunto espresso da Lorenzo Mossa6 che, però, si muoveva in una prospettiva
sensibilmente diversa. Per il commercialista pisano, il favor circa il ritorno al sistema
soggettivo del codice di commercio, sia pure incentrato sulla figura dell’impresa
assunta in termini di centro di imputazione e di complesso organismo sociale,
rispondeva ad una opzione culturale di fondo tesa a rafforzare i sistemi di controllo
sociale sulle moderne strutture produttive e di tutela dei consumatori, piuttosto che ad
assecondare i processi di semplice adeguamento del diritto privato alle esigenze di
sviluppo del capitalismo: di qui, la necessità tra l’altro di distinguere il diritto
applicabile nei rapporti tra le imprese da quello relativo alle relazioni tra le imprese ed
i privati.
Altra parte della dottrina7, viceversa, sulla base, prima, di una rigorosa interpretazione
di alcuni indici disciplinari presenti nel codice di commercio allora vigente e,
successivamente, anche delle singolari pressioni che erano giunte dal mondo
agricolo,proprio in occasione della presentazione dei primi progetti di riforma del
codice di commercio intervenuti negli anni venti, aveva prospettato una nozione
articolata dell’impresa. Per questo altro indirizzo, la nozione giuridica di impresa
ricavabile dal codice di commercio del 1882 non sempre evocava la presenza di una
struttura organizzata, posto che in alcuni casi risultava identificarsi con la semplice
ricorrenza di un’ attività economica esercitata professionalmente (suscettibile, come
tale, anche di legarsi all’adozione di statuti differenziati in relazione sia al diverso
concreto contenuto dell’attività esercitata, sia al variare delle dimensioni delle strutture
produttive volta a volta considerate).
4
ROCCO, Saggio di una teoria generale degli atti di commercio, in Riv. dir. comm. 1916,I, 86ss.
Si v. infatti FERRI, L'impresa nel sistema del progetto del codice di commercio, in Diritto e pratica
commerciale 1940, I, 193ss.
6
La suggestiva impostazione di Mossa, già compiutamente enucleata nel suo ampio contributo critico al
progetto di riforma del codice di commercio Saggio critico sul progetto del nuovo codice di commercio, in
Annuario di diritto comparato I, 1927 e poi sviluppata nell’altro lavoro Per il nuovo codice di commercio, in
Riv.dir. comm. 1928, I, 16ss. trovò compiuta elaborazione nella monografia L’impresa nell’ordine corporativo,
Pisa 1935.
7
Il riferimento è alla posizione di ARCANGELI, Contributi alla teoria generale degli atti di commercio, in Riv.
Dir. Comm. 1904, 23ss, il cui ruolo nel dibattito emerso agli inizi degli anni venti in sede di riforma dei
codici di commercio fu di notevole rilievo, soprattutto perché, nel suo percorso scientifico, quel finissimo
giurista affiancò all’ originaria formazione di commercialista, una progressiva attenzione per le nuove
problematiche agraristiche. Prematuramente scomparso, è a lui che si deve, tra l’altro, l’interpretazione
originale dell’art.5 del codice di commercio del 1882 su cui si è costruita la soluzione accolta successivamente
nell’art.2135 cod. civ. a proposito delle attività agricole per connessione.
5
E’ facile, ovviamente, osservare che le contrapposte impostazioni dottrinali, ora
sinteticamente riassunte, non erano certamente “neutre” dal punto di vista politico.
Infatti, al di là della posizione politicamente più complessa e, al tempo stesso, più
trasparente del prof. Mossa , le alternative dianzi segnalate superavano in ogni caso la
semplice soglia della questione accademica circa il fondamento da assegnare alla
commercialità, al fine di giustificare la presenza di un codice di commercio distinto da
quello civile e di preservare, su questa via, l’autonomia del diritto commerciale. Invero,
l’esigenza ora riassunta e di cui si faceva dichiarato paladino il prof. Alberto Asquini,
principale allievo del prof. Alfredo Rocco, l’autentico architetto giuridico del regime e
peraltro prematuramente scomparso alla metà degli anni trenta, era certamente
sopravanzata dalla questione di più ampia portata socio-economica relativa appunto al
trattamento giuridico da riservare all’attività produttiva agricola, nel caso in cui questa
fosse stata esercitata in forma di impresa e, in definitiva, relativa al diverso modello con
cui governare l’industrializzazione del settore primario dell’economia.
L’ultimo rilievo ora svolto permette di meglio mettere a fuoco la seconda forza che ha
contribuito sicuramente nell’indirizzare le scelte della codificazione, rappresentata,
appunto, dai concreti interessi economici al centro della regolamentazione. Nel nostro
caso specifico, il riferimento è al ruolo centrale assunto dalle organizzazioni sindacali
chiamate a difendere, in particolare, gli interessi delle classi agricole nei lavori della
codificazione con specifico riguardo, appunto, all’esigenza di non vedere, in primo
luogo, pregiudicata la sostanza della soluzione già alla base dell’art. 5 del codice di
commercio del 1882, a suo tempo di valore strategico in ordine alla distinzione tra la
disciplina dell’economia agricola affidata al codice civile e quella industrialecommerciale affidata al codice di commercio.
A questo proposito, del resto, non può dimenticarsi che, nel predisporre il progetto di
riforma del codice di commercio nel 1940, il prof. Asquini già aveva fatto tesoro, nel
segno della continuità, della lezione emersa negli anni venti in occasione appunto
dell’elaborazione dei progetti Vivante e D’Amelio. Infatti, in quella occasione, il lavoro
preparatorio di una commissione ministeriale era stata al centro di un acceso dibattito
che aveva visto per la prima volta scendere in campo gli interessi organizzati, sì da
indurre autorevoli esponenti della dottrina commercialistica a rivedere le proprie
soluzioni in modo da adeguarle alle esigenze del mondo economico.
Peraltro, l’attenzione per gli interessi degli agricoltori si era andata progressivamente
accrescendo nel corso dell’esperienza fascista in ragione non solo dell’obiettivo
contribuito che le classi rurali avevano fornito nell’ascesa del regime, ma anche per il
rilievo anche ideologico assegnato al “ruralismo” quale componente qualificante della
politica economica del governo. “Ruralismo”, quello fascista, che, in linea con il
carattere piccolo borghese dell’ideologia corporativa, proprio in quanto si rivelava
prezioso strumento per contenere e contrastare le aspirazioni di un capitalismo
selvaggio ed individualistico, di fatto agevolava possibili convergenze tra gli interessi
degli agrari e quella dei lavoratori in generale, in funzione se non anticapitalistica,
secondo talune componenti presenti nell’arcipelago dell’ideologia corporativa, quanto
meno di ridimensionamento delle manifestazioni più radicali. E’ sufficiente,
rammentare, a titolo esemplificativo, l’esaltazione del modello collaborativo tra capitale
e lavoro alla base della carta della mezzadria, in funzione di una sua applicazione
diffusa anche nel mondo industriale8.
Sotto questo profilo, è indubbio che l’ideologia corporativa ha rappresentato la terza
forza che ha influito certamente sulla nuova codificazione, in particolare sull’impianto
e sulla stesura del libro V del nuovo codice civile. Per quanto multiforme e confusa,
8
Sul punto si v. ZUNINO, L’ideologia del fascismo, Bologna 1985, 303ss.
non vi è dubbio che in essa hanno trovato radicamento anche l’interventismo pubblico
in economia e, in definitiva, il superamento dell’ordo liberalis a favore di un sistema
incline a coniugare (se non a funzionalizzare) le situazioni economiche e giuridiche
individuali con istanze di rango superiore, per lo più identificate con le esigenze
nazionali della produzione9. Al riguardo, il tema trasversale del “lavoro”, in quanto il
più appropriato alla rappresentazione ideologica della via intrapresa dal regime per il
governo di tutta l’economia organizzata, ben poteva costituire il concreto terreno di
interventi correttivi in occasione proprio della ridefinizione del quadro normativo
avente ad oggetto la disciplina degli interessi di fondo delle classi egemoni. Tuttavia, a
causa del carattere velleitario e confuso delle idee guida alla base del regime fascista,
le “ iniezioni di corporativismo” da immettere nel corpo del codice civile e da più parti
invocate non poterono che sortire effetti il più delle volte di sola facciata, più
precisamente di natura “simbolica”, tanto più ove fossero risultate in contrasto con gli
interessi “forti” del capitalismo industriale ed agrario. A questo riguardo, alcuni
significativi avvenimenti che avevano preceduto la ripresa dei lavori della codificazione
civile sono del tutto eloquenti. E’ sufficiente rammentare da un lato il subitaneo rigetto
che subirono le posizioni teoriche estremistiche avanzate agli inizi degli anni trenta da
Ugo Spirito10 che suonavano in senso chiaramente anticapitalistico ed eversivo rispetto
alle attese del mondo economico, dall’altro, sul versante della proprietà agraria, il
ridimensionamento delle iniziative di Serpieri in materia di bonifica integrale nel
momento in cui, in fase di attuazione della legislazione, si sarebbe dovuto avviare la
fase dei sacrifici economici e finanziari da parte dei proprietari terrieri11.
b) Nel quadro delle “forze”, ora schematicamente delineate, che hanno guidato
l’elaborazione del libro V del codice civile, è possibile peraltro “collocare” alcuni
protagonisti concreti, ossia le persone che hanno partecipato in modo significativo
all’attività codificatoria: ciò anche al fine di chiarire che tra le forze sopra indicate si è
determinato, in punto di fatto, un intreccio per certi versi inestricabile a causa dei
molteplici ruoli contestualmente ricoperti da alcune singoli soggetti.
Una prima figura, su cui dovrà tornarsi nel corso della presente indagine, è quella di
Alberto Asquini. A prescindere, in questa sede, dalla valutazione del ruolo politico in
senso stretto da lui ricoperto, per la verità del tutto secondario nella sua biografia di
studioso, può ben dirsi che, in ordine alla specifica vicenda che qui si intende esplorare,
l’allievo di Alfredo Rocco è stato l’esponente di spicco della cultura giuridica
commercialistica e, al tempo stesso, il tenace alfiere del diritto commerciale e della
9
Per questo specifico aspetto, una felice sintesi dello stato dell’arte presente agli inizi degli anni ’40 , anche dal
punto di vista della disciplina privatistica si rinviene in MAZZONI, Il principio corporativo nell’ordinamento
giuridico italiano, Padova 1940. Del resto, il “produttivismo” era già stato individuato dallo stesso Mussolini
sin dal 1919 come l’idea nel cui nome si potessero conciliare, nell’ ottica nazionalistica, gli interessi della
borghesia con quelli del proletariato: sul legame tra “ interessi della produzione” ed “interessi unitari” e,
dunque, nel senso che l’deale del corporativismo fosse da rinvenire nell’organizzazione unitaria di tutte le forze
produttive si v. CESARINI SFORZA, Il Corporativismo come esperienza giuridica, Milano 1942, 210ss.
10
Sulla “ corporazione proprietaria” al centro della relazione di Ugo Spirito al convegno di Ferrara del 1932, già
oggetto di un’ampia letteratura, v. da ultimo TEDESCHI, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico
nell’Italia del Novecento, Bari-Roma 2002, 264ss. Sul fascismo di sinistra v. LANARO, Appunti sul “ fascismo
di sinistra”: la dottrina corporativa di Ugo Spirito, AA.VV, Il regime fascista a cura di A. Acquarone e M.
Vernassa, Bologna 1974 e più di recente, sulla scorta di una diversa categoria storiografica, PARLATO, La
sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna 2000.
11
Sulla vicenda si rinvia a BEVILACQUA e ROSSI DORIA, Le bonifiche in Italia dal’ 700 a oggi, Roma-Bari,
1984, 365ss. Sulla figura di Serpieri si v. per tutti D’ANTONE, Politica e cultura agraria: Arrigo Serpieri, in
Studi storici 1979, 609ss; ID, La modernizzazione dell’agricoltura negli anni trenta, ivi, 1981, 604ss; da ultimo
si v. MARASTI, Il Fascismo rurale Arrigo Serpieri e la bonifica integrale, Citta di Castello, 2001.
sua autonomia lungo tutto il corso dei lavori che nel volgere di pochi mesi hanno
portato al definitivo tramonto del codice di commercio e alla stesura del nuovo libro V
del codice civile unificato. Infatti, senza soluzione di continuità, egli ha prima guidato
l’elaborazione dell’ultimo progetto di codice di commercio predisposto nei primi mesi
del 1940 e poi partecipato all’elaborazione del libro V del nuovo codice civile, in
questo confortato dall’esperienza già acquisita negli anni venti in occasione della
predisposizione del progetto Vivante.
L’altra figura di sicuro spicco, che emerge tra le dramatis personae cui è spettato il
compito di orientare il processo codificatorio nella sua fase terminale, è indubbiamente
quella di Filippo Vassalli. A differenza di Asquini, può ben dirsi che anche in
occasione della elaborazione del libro V e dell’unificazione della disciplina delle
obbligazioni prima ancora di quella tra il codice civile ed il codice di commercio,
Filippo Vassalli ha rappresentato da un lato la cultura civilistica , dall’altro gli interessi
concreti della proprietà agricola, ossia proprio dell’istituto al centro dell’allora vigente
codificazione civile. Infatti, nei medesimi momenti in cui partecipava ai lavori della
codificazione quale prestigioso maestro di diritto civile, Vassalli vi contribuiva nella
veste anche di autorevolissimo consulente, unitamente ad altri accademici12, presente
nel comitato giuridico della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura,
attivamente impegnata nel processo codificatorio.
Accanto a queste due principali figure, emblematicamente rappresentative, se così si
può dire degli interessi fondamentali presenti alla base dei due codici allora vigenti,
quello civile e quello commerciale, in particolare degli interessi astrattamente
riconducibili rispettivamente al mondo agricolo ed al mondo industriale e commerciale,
va altresì collocata una più numerosa schiera di figure, certamente minori quanto a
spessore culturale e preparazione giuridica, che, sia pure con molte sfumature sulle
quali non è qui possibile intrattenersi, hanno rappresentato le anime “politico-sindacali”
del corporativismo, con specifico riferimento anche a quelle componenti “sindacali” o
vagamente “anticapitalistiche” che guardavano al processo di codificazione come un’
occasione storica per modificare gli assetti tradizionali della società italiana, quali
consacrati nei due corpi legislativi ereditati dall’Ottocento. In particolare, è in questa
schiera ampia quanto variegata che vanno collocati i contributi di Costamagna, di
Putzolu, di Anselmi, Roberti , Biagi e dello stesso Mandrioli, capo di gabinetto del
Guardasigilli Grandi, i quali, a diverso titolo, sono intervenuti nei lavori preparatori del
libro V.
Come si è già preannunciato, il presente saggio non toccherà il tema relativo alle ragioni ed
alle modalità con cui si giunse nel giro di poche settimane alla conclusione di abbandonare
l’idea di mantenere, accanto a quello civile, un altro codice, quale che fosse la sua specifica
denominazione ( di commercio, ovvero dell’economia corporativa etc.). A questo riguardo, si
rinvia non solo a quanto già rimarcato in una nostra recente indagine svolta sulla base di
poche fonti documentali, ma soprattutto all’esauriente ricerca da poco conclusasi svolta da
Rondinone.
Senza entrare nei dettagli di tali indagini e a volersi limitare ai risultati raggiunti, può qui
darsi per certo che:
1) agli inizi dell’autunno del 1940 era ormai svanita l’idea di poter affiancare al codice
civile un nuovo codice di commercio. Tuttavia, non era ancora stata definitivamente
imboccata la strada che avrebbe poi portato a rinunciare a quella idea e, dunque, condotto
all’elaborazione di un solo codice unificato. Ciò significa, fondamentalmente che l’impianto
contenuto nel progetto di codice di commercio, presentato dalla commissione Asquini agli
12
In particolare, l’ufficio studi della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, accanto a Vassalli,
comprendeva Biggini, Maroi, Costamagna, Zanobini, Russo e Roberti in qualità di presidente.
inizi dell’estate di quello stesso anno, era stato ormai abbandonato in quanto il nuovo codice,
da affiancare a quello civile, avrebbe dovuto abbracciare, nella sua prima parte, il complesso
delle attività economiche nella prospettiva propria del sistema corporativo. In questo senso,
la prima stesura del libro V unificato, approntata intorno al Natale del 1940, aveva
sostanzialmente recepito i mutamenti già apportati al progetto del (libro I del ) codice di
commercio.
2) Quanto, più specificatamente, all’elaborazione del libro V, tra il Natale del 1940 e metà
giugno del 1941 vennero predisposte complessivamente sei bozze di stampa contrassegnate
da una numerazione crescente. In particolare, alla I, già richiamata, seguirono rispettivamente
la II approntata il 31 gennaio 1941, la III licenziata il 14 marzo, la IV approntata alla fine di
aprile, la V distribuita a fine maggio, infine la VI stampata a metà giugno ossia a poco meno
di un mese dalla pubblicazione del testo definitivo avvenuta il successivo 12 luglio.
2.- Dal progetto del codice di commercio alla prima stesura del libro V
Per buona parte del 1940, i lavori della nuova codificazione avevano continuato a ruotare
intorno all’originario progetto che prevedeva nel segno della continuità la conservazione di
entrambi i codici ricevuti in eredità dall’Ottocento: ossia il codice civile ed il codice di
commercio.
Mentre per il codice civile era già intervenuta la pubblicazione dei primi due libri e si stava
procedendo all’elaborazione degli altri tre ( quello riguardante la proprietà, quello relativo
alle obbligazioni ed ai contratti, e quello sulla tutela dei diritti), per il nuovo codice di
commercio, la Commissione presieduta da Asquini aveva concluso i suoi lavori nella
primavera del 1940 ed affidato il testo del progetto all’analisi delle Commissioni legislative
secondo il collaudato iter procedimentale sino ad allora seguito ai fini della approvazione
definitiva.
Il progetto elaborato dalla Commissione Asquini nel 1940 ripartiva nella sostanza
dall’impianto presente nel progetto D’Amelio del 1926, sia pure dovendo fare i conti con il
definitivo affermarsi della impresa quale fenomeno da privilegiare nella rielaborazione della
disciplina. Il nuovo codice di commercio veniva così articolato in sei libri: al primo,
contenente le disposizioni generali circa la materia di commercio, l’azienda commerciale ed
il registro di commercio seguiva quello riguardante i soggetti collettivi (società ed
associazioni commerciali); il terzo ed il quarto libro comprendevano rispettivamente i
contratti commerciali ed i titoli di credito; il quinto e l’ultimo, a loro volta, le procedure
concorsuali e le disposizioni penali.
In ordine al libro primo, che più specificamente interessa la presente indagine, l’abbandono
della prospettiva tradizionale fondata sugli atti isolati di commercio a favore del “ concetto
professionale di impresa”13 non si tradusse nell’accettazione coerente dell’impostazione
dottrinale favorevole a coniugare la “commercialità” con l’esclusiva ricorrenza fattuale della
“forma” impresa. Sulle orme della rigorosa critica avanzata da Giuseppe Ferri al progetto
Asquini14, può infatti osservarsi che la nozione di impresa e la rilevanza assegnata alla stessa
presentavano indubbi margini di compromesso che riducevano di molto la pretesa modernità
del nuovo impianto del codice nonché la sbandierata univocità circa il ruolo assegnato
all’impresa.
13
Così lo stesso ASQUINI, Dal Codice di commercio al libro del lavoro, in CIRCOLO GIURIDICO DI MILANO,
Linee fondamentali della nuova legislazione italiana sulla famiglia, la proprietà privata, il lavoro e l’impresa,
Milano 1943, 73ss, in part.74.
14
Il riferimento è a FERRI, L'impresa nel sistema del progetto del codice di commercio cit.
In altre parole, la formulazione delle disposizioni generali non modificavano nella sostanza
gli equilibri e le distinzioni di fondo alla base del glorioso codice del 1882:
a) innanzitutto, il progetto non prendeva alcuna posizione definitoria circa la nozione di
impresa. Peraltro, il fatto stesso che l’art.1 si preoccupasse di individuare il contenuto delle
singole attività economiche da qualificare commerciali, sempre che organizzate in forma di
impresa, era già sufficiente a rimarcare l’insufficienza a tale riguardo riconosciuta alla
presenza dell’ impresa: considerazione, questa, ulteriormente avvalorata proprio dal fatto che
lo stesso art.1 escludeva la natura commerciale all’esercizio dell’agricoltura e della
pastorizia “anche se organizzate ad impresa”. In tal modo, la norma di apertura del progetto
ricalcava, con l’esplicito riferimento all’impresa, il punto di arrivo di quell’acceso dibattito
in ordine al trattamento da riservare all’attività agricola intervenuto alcuni decenni prima, per
cui, in definitiva, l’agricoltura risultava sottratta alla disciplina del codice di commercio e
soggetta solo al codice civile.
In secondo luogo, la debolezza del legame tra ricorrenza dell’impresa e commercialità
trovava ulteriore conferma nel fatto che nel caso della rivendita al minuto di merci e della
mediazione, la natura commerciale di tali attività veniva legata al semplice loro esercizio
professionale, ossia del tutto indipendentemente dalla presenza di una impresa; a sua volta,
nel caso dell’artigianato, l’esercizio professionale non si riteneva sufficiente ad assegnare
natura commerciale allo stesso.
b) A sua volta, il riferimento da un lato all’impresa nella sua oggettività, dall’altro alla
qualifica di “commerciante”, quale conseguenza soggettiva per le persone fisiche che
esercitassero un’impresa commerciale, seguiva pedissequamente il modello presente nel
codice di commercio allora vigente.
c) Quanto, poi, all’azienda, il progetto si limitava ad introdurre il richiamo al solo
vocabolo “azienda commerciale” nell’intitolazione del titolo IV del medesimo libro che
comprendeva poche disposizioni in materia di “ditta” e di “marchi di fabbrica e di
commercio”.
A dispetto delle apparenze, l’effettivo contenuto delle rispondenti determinazioni introdotte
nella prima stesura del libro V pubblicata, in bozze, dal poligrafico dello Stato nel dicembre
del 1940 non si allontanarono dall’impianto predisposto da Asquini nel suo progetto di
codice di commercio e dalla sua idea di preservare, pur nell’inevitabile commistione tra
disciplina corporativa e diritto privato in senso stretto, il nocciolo duro della commercialità ,
considerato quale dato indispensabile per la preservazione dello stesso diritto commerciale
inteso quale autonoma disciplina accademica.
Prima, però, di illustrare da vicino le disposizioni contenute nella prima bozza del libro V, è
opportuno chiarire le origini della struttura complessiva di tale nuovo libro. In effetti, non
può comprendersi l’intelaiatura di questo primo assemblaggio di materiali destinati al nuovo
libro da introdurre nel codice civile unificato, con la conseguente rinuncia alla adozione di un
secondo codice da affiancare a quello civile, se non si richiamano brevemente i passaggi che
avevano preceduto quell’ultima determinazione, a partire dall’estate del 1940.
Infatti, dall’estate del 1940, ossia poco dopo la presentazione del progetto del nuovo codice
di commercio, cominciarono ad emergere pressioni politiche avverso la riproposizione di
quel codice (alla base del progetto Asquini) e, viceversa, a favore di un codice dell’economia
corporativa destinato a non ruotare più sulla figura del commerciante, ma indirizzato a
disciplinare tutte le categorie produttive. Queste spinte, di origine essenzialmente sindacali
e certamente venate anche da indirizzi anticapitalistici, corsero parallele a quelle altre spinte,
pur sempre di origine politico-sindacale, favorevoli a rinnovare anche l’impianto del libro
delle obbligazioni e dei contratti, attraverso l’introduzione di un nuovo specifico titolo, se
non addirittura di un autonomo libro, destinato a raccogliere la disciplina sia dei contratti di
lavoro, sia di quelli associativi agrari15.
Sicché, mentre sul piano formale si avviavano le procedure per raccogliere le osservazioni
sul progetto Asquini relativo al nuovo codice di commercio, secondo l’iter sino ad allora
rispettato per i lavori della codificazione, in via del tutto riservata e con l’avallo del Ministro
Grandi, si tentò di verificare la percorribilità di quella seconda traccia che avrebbe dovuto
portare a sostituire il codice di commercio con un codice di più ampio respiro16 indirizzato a
disciplinare l’intera economia nell’ottica del corporativismo, sulla base di un’ impostazione
che era stata più volte affacciata nel corso degli anni trenta17.
La sluzione di rinunciare ad un secondo codice da affiancare a quello civile maturò nel
momento in cui emersero serie difficoltà in ordine alla fissazione dei contenuti di tale
codice, soprattutto in relazione a quelli del codice civile, con particolare riguardo tanto alla
specifica problematica dell’impresa agricola18 quanto all’individuazione di un criterio per
procedere alla distribuzione della disciplina relativa ai contratti che, in linea di principio, non
rinnegasse l’unificazione della normativa in materia cui si era inteso indirizzare
l’elaborazione del relativo libro destinato al nuovo codice civile. Tale soluzione si basò da un
lato sull’ esclusione dalla codificazione di alcuni materiali normativi all’origine destinati al
codice dell’economia corporativa e derivanti essenzialmente dalle innovazioni introdotte nel
corpo del progetto del codice di commercio, dall’altro sulla fusione, in un nuovo libro da
introdurre nel codice civile, di alcune parti previste per il codice dell’economia corporativa
con le disposizioni riguardanti appunto i contratti di lavoro ed i contratti agrari associativi
15
L’alternativa richiamata nel testo fu al centro di un interessante dibattito svoltosi innanzi alla Commissione
delle Assemblee Legislative chiamata ad esaminare il libro delle Obbligazioni ( si v. i relativi Atti, 1940,
308ss). In quella sede, la prima soluzione era stata avanzata da Costamagna ( sul punto, si v. anche la
testimonianza di PANUNZIO, Diritto, Economia e Politica ( a proposito del nuovo libro del Codice Civile sul
lavoro) pubblicato nella rivista “ Terra” nel maggio del 1941 e poi in ID, Motivi e metodi della codificazione
fascista, Milano 1943, 115 ss) ed aveva ricevuto l’avallo della Commissione e successivamente anche quello
del Ministro Grandi; la seconda, più ardita, venne prospettata da PANUNZIO il quale riprese la sua proposta nel
saggio , Verso un nuovo libro del codice civile: il lavoro, pubblicato in “ il Lavoro fascista 7 settembre 1940,
ora in ID, Motivi e metodi della codificazione fascista, cit 99ss.
16
Su questo tentativo si rinvia al nostro L’imprenditore agricolo e le origini del libro V del codice civile cit. ed
ora al più ampio e documentato lavoro di RONDINONE, op. cit.
17
Non è possibile documentare in maniera esaustiva questo indirizzo. E’ sufficiente, ai fini del presente lavoro,
rammentare che già nel 1933 il commercialista ARCANGELI, Debiti degli agricoltori , Credito agrario e
codificazione, in Riv. dir. agr. 1933, I, nel cogliere “politicamente” l’incidenza dei principi del fascismo sul
tema della codificazione fu il primo a segnalare la necessità di mirare alla “costruzione di un Codice nuovo più
vasto, il Codice della produzione e del lavoro….. non Codice dell’agricoltura o dell’industria o del lavoro
separatamente, ma della produzione e del lavoro come termini indissolubili, per l’attuazione delle idee già
segnate dalla carta del lavoro…”. L’idea di Arcangeli, morto poco tempo dopo, venne poi accolta da altra
dottrina commercialistica ( si v. SOPRANO, Codice di commercio o codice dell'economia corporativa ?, in Foro
it. 1937, IV, 131) e poi ripresa con favore dallo stesso Ministro SOLMI, L'idea fascista nel nuovo codice civile,
Roma 1940, 38 il quale, nel corso di una conferenza tenuta a Torino il 16 giugno 1939, prospettò appunto l'idea
di affiancare tanto al codice civile quanto ad un codice di commercio ridotto a pochi istituti tipici un codice
delle attività produttive e dell'economia.
18
Sul punto si rinvia al nostro L’imprenditore agricolo e le origini del libro V del codice civile cit. Una sintetica
illustrazione delle scelte di fondo alla base dell’unificazione si legge nelle lucide pagine di G.FERRI,
L’unificazione legislativa del codice civile e del codice di commercio, in Diritto e pratica commerciale 1941,
3ss,in par. 5, secondo il quale a fronte della scelta tra la realizzazione di un codice delle imprese e
l’unificazione del codice civile e del codice di commercio “ Ragioni politiche e ragioni tecnico-giuridiche
hanno determinato il prevalere della seconda soluzione: da un lato è apparsa insormontabile la difficoltà di
staccare la disciplina dell’impresa agricola dalla disciplina del fondo, contenuta nel libro del codice civile della
proprietà; d’altro lato si è rilevato che la sostanziale diversità che esiste fra imprese agricole e imprese
commerciali, industriali, bancarie, e assicurative, finiva con minare nuovamente alle basi la organicità del
sistema, dato che in definitiva si venivano a riunire in unico corpo di norme la disciplina delle imprese agricole
e quella delle imprese commerciali, che non avevano alcun carattere di omogeneità”.
ab origine previsti in quell’autonomo titolo “ del lavoro” che avrebbero dovuto trovare posto
nel libro IV sulle obbligazioni e sui contratti.
In particolare, una volta affidate a leggi speciali le disposizioni relative ai titoli di credito ed
alle procedure fallimentari e ricondotta al libro IV del codice civile l’intera disciplina
unificata in materia di obbligazioni e di contratti, il nuovo libro V finì con il comprendere
da un lato il complesso delle disposizioni destinate agli stati professionali nell’ordine
corporativo (nell’ambito delle quali erano state inquadrate quelle riguardanti l’esercizio delle
attività economiche in senso stretto sotto forma di imprese individuali e collettive), dall’altro
la disciplina dei contratti di lavoro e dei contratti agrari associativi, sin dall’origine collocata
nel codice civile, cui si aggiungeva la disciplina dettata per le società commerciali. Non è un
caso che la natura “composita” del nuovo libro V e, al tempo stesso, l’originaria utilizzazione
quale contenitore di quell’autonomo Titolo destinato al libro IV, si rinvengano proprio
nell’oscillazione iniziale riguardante la denominazione da assegnare al nuovo libro da
introdurre nel codice civile unificato: infatti, la scelta della formula “Del lavoro”, poi
confermata definitivamente, venne abbandonata nella seconda bozza a favore di quella dell’
“Impresa e del lavoro”.
Ebbene, la prima bozza del nuovo libro V “Del Lavoro”, edita alla fine del 1940,
comprendeva sei titoli. A quello di apertura, destinato agli stati professionali nell’ordine
corporativo, seguiva il II “ dell’impresa” che, accanto ad alcune disposizioni generali, si
occupava, nell’ordine, dell’impresa agricola, di quella commerciale, e dei segni distintivi
dell’azienda e della concorrenza sleale. Il titolo III “del lavoro dell’impresa” si occupava dei
contratti collettivi di lavoro e del contratto di lavoro individuale; il successivo titolo IV
riguardava l’esercizio delle professioni intellettuali; a sua volta, il titolo V comprendeva le
disposizioni in materia di diritto d’autore , di brevetto e delle invenzioni. Infine, il titolo VI
abbracciava la disciplina delle società, comprensiva dei consorzi e della società familiare, e
si chiudeva con la disciplina degli altri rapporti associativi, ossia dei rapporti di associazione
agraria ( mezzadria, colonia e soccida ).
Se si analizza più da vicino il contenuto della disciplina, non è difficile cogliere l’artificiosità
del tentativo di far coesistere le norme contenute nel titolo I, relative appunto agli “stati
professionali” nell’ordine corporativo e talune delle disposizioni generali in materia di
impresa di cui al titolo II, con il successivo impianto normativo, di contenuto esclusivamente
privatistico, ereditato dal codice di commercio che da un lato faceva perno sull’impresa
assunta in senso oggettivo, dall’altro assegnava al profilo dimensionale una funzione
scriminante rispetto alle attività meramente professionali ( si pensi al coltivatore diretto,
all’artigiano, al piccolo commerciante).
In particolare, le norme del titolo I riprendevano, talora in maniera pedissequa, indicazioni
già presenti nella carta del lavoro ed in ogni caso risultavano assemblate in maniera del tutto
approssimativa, a conferma dell’ossequio meramente ideologico che in tal modo si intendeva
apportare al regime19. A loro volta, le disposizioni generali contenute nel titolo II
19
Sullo specifico punto, si v. i rilievi che CESARINI SFORZA, Il corporativismo come esperienza giuridica,
Milano 1942, 269ss, in part. 276 e 279ss, in part. 292 avanzò nel commentare a caldo, prima, i contenuti del
libro V e, poi, la complessiva trama della nuova codificazione civile. E’ interessante notare che in entrambe le
occasioni al filosofo non sfuggì il fatto che nel testo definitivo del libro V fosse scomparso il titolo destinato
alla disciplina degli stati professionali. Egli riteneva ininfluente il fatto che fosse venuto meno quel dato
formale in quanto nella sostanza l’intera disciplina accolta in quel libro risultava comunque riferita “ alle
professioni, cioè alle varie attività economiche professionali e non puramente private…. In altri termini, la
disciplina del lavoro produttivo è disciplina di professioni, siano industriali o commerciali o agricole, si tratti di
<<piccoli imprenditori>> o di lavoratori autonomi o di lavoratori intellettuali ” (ID, op. cit. 276). Ed
aggiungeva: “ nessuna meraviglia che il rinnovato Codice civile, ossia il Codice del nuovo diritto <<civile>>
abbia assorbito il diritto commerciale. Il commercio come attività economica esercitata professionalmente, si
allinea, nel sistema del Libro del lavoro, con le altre professioni, pur tenendo conto delle differenze strutturali
che saltano agli occhi ove si confronti l’impresa industriale-commerciale con quella agricola” (ID,op. cit.,277).
“Dell’Impresa” comprendevano la responsabilità dell’imprenditore nei confronti dello Stato,
i suoi obblighi in ordine alla tutela dei suoi “collaboratori”, allo svolgimento della
concorrenza , al rispetto degli accordi collettivi, nonché l’obbligo di contrattare in caso di
monopolio. Quanto all’impresa in senso stretto e all’azienda, analogamente a quanto previsto
per il progetto del codice di commercio, la prima bozza del libro V non conteneva alcuna
definizione di ordine generale.
Nel complesso, pur nel mutamento del linguaggio, le soluzioni adottate non modificavano
l’assetto originariamente presente nel progetto del codice di commercio: come dire, dunque,
che, a dispetto dell’unificazione dei due codici, veniva confermato il sistema binario
preesistente20. Più precisamente, il capo II introduceva alcune disposizioni destinate
all’impresa agricola. Ma a ben vedere, esse non alteravano le opzioni legislative accolte
alcuni mesi prima, a loro volta in linea con quanto condiviso dalla prevalente dottrina.
Infatti, le previsioni contenute nella I bozza non andavano oltre la tautologica formula per la
quale l’impresa agricola doveva identificarsi con quella che esercita “ attività agricola,
forestale, armentizia sul fondo proprio o altrui”, e le puntualizzazioni secondo le quali da
un lato andava qualificato come commerciante l’imprenditore agricolo che avesse
organizzato un’impresa autonoma per la trasformazione o l’alienazione dei prodotti del
fondo, dall’altro non dovesse viceversa considerarsi imprenditore agricolo il coltivatore
diretto.
A proposito, poi, dell’impresa commerciale, da identificarsi con quella avente ad oggetto
“un’attività commerciale, industriale, bancaria assicurativa o ausiliaria di queste”, il progetto
escludeva la qualità di commerciante all’artigiano ovvero al piccolo commerciante. In tal
modo, veniva ribadita l’originaria opzione di Asquini che mirava sia a legare la ricorrenza
dell’impresa ad una struttura dimensionalmente distante dalle posizioni professionali
marginali ( in ossequio, sul punto, alle posizioni teoriche del suo maestro) sia, al tempo
stesso, ad assegnare alla forma impresa un rilievo “neutro” ovvero “debole”, posto che la
ricorrenza della “forma” impresa conduceva ad esiti disciplinari differenti secondo che si
trattasse di impresa agricola ovvero di impresa commerciale.
In altre parole, sebbene l’accento fosse apparentemente spostato sull’impresa, era ancora la
qualifica di “commerciante”, cui si collegava, oltre all’applicazione della disciplina
fallimentare anche l’iscrizione al registro delle imprese, a costituire il nocciolo duro della
commercialità. In tal modo, l’ idea guida alla base dello storico codice di commercio finiva
con il sopravvivere alla sua scomparsa; anzi, risultava paradossalmente rafforzata alla luce
della posizione, per certi versi di mera facciata, riservata all’ impresa agricola.
Questo giudizio, a ben vedere, coincide con l’interpretazione autentica circa gli obiettivi
perseguiti in quel progetto fornita dallo stesso Asquini, a dispetto della “svolta” di cui
quello stesso giurista ebbe a parlare in pubblico nel presentare l’unificazione tra codice civile
L’opinione di Cesarini Sforza è da condividersi, ma solo alla luce di una lettura retrospettiva del testo finale
rispetto alle prime bozze preparatorie del libro V. Infatti, nella prima , come anche nella seconda bozza, il titolo
introduttivo destinato agli “status professionali” risultava del tutto sganciato rispetto al successivo sviluppo
dell’articolato: questo, infatti, disattendendo ciò che ci sarebbe dovuto attendere su quella premessa introduttiva,
riprendeva il linguaggio del codice di commercio,in particolare sostituiva l’ “atto di commercio” con “l’attività
in forma di impresa” e, al tempo stesso, nel dare rilievo implicito al profilo dimensionale sotteso al concetto di
impresa, conteneva in maniera evidente proprio la rilevanza da assegnare al dato rappresentato dall’esercizio
professionale ( si pensi appunto alle figure del coltivatore diretto, del’artigiano, del piccolo commerciante). Sul
punto v. infra nel testo.
20
A buon diritto, con riferimento alla bozza II “ Dell’impresa e del lavoro” (sul punto del tutto conforme alla
prima), G. FERRI, L’unificazione legislativa del codice civile e del codice di commercio cit, 6 rimarcò che in
ordine al tema dell’impresa, in particolare alla presenza di una disciplina differenziata tra imprese commerciali
ed imprese agricole, si dovesse parlare di un’ unificazione soltanto formale, con la conseguente possibilità di
continuare a configurare il diritto commerciale come diritto speciale; viceversa, che a proposito della disciplina
dei rapporti contrattuali si dovesse parlare di unificazione sostanziale.
e codice di commercio21. Infatti, in una missiva indirizzata a Lorenzo Mossa del 27 gennaio
1941, egli chiariva appunto che “la riforma unificatrice [dei codici] non livellerà affatto la
disciplina dell’impresa commerciale e dell’impresa agricola, ma, pur affermando alcuni
principi comuni di diritto pubblico, rispetterà pienamente sul piano del diritto privato quello
statuto speciale dell’impresa commerciale e dei rapporti che ad essa si ricollegano, che
costituiscono il retaggio insopprimibile del diritto commerciale” 22 . In altre parole, come
ebbe a rimarcare Francesco Messineo, nel giudicare la II bozza del libro V( la quale, come si
evidenzierà tra poco, era perfettamente conforme alla prima in ordine al trattamento riservato
alla tradizionale distinzione tra materia agricola e materia commerciale) “il fatto di evitare, o
di impiegare con parsimonia la parola < commercio> o la dicitura < il diritto commerciale>”
in nessun modo poteva alterare la sostanza delle cose ossia che “ In definitiva, il nuovo
progetto tanto poco ha potuto disfarsi dei concetti di commercio e di attività commerciale,
che – giustamente – ha utilizzato il testo degli articoli …i quali figuravano nella parte
preliminare del progetto di codice di commercio ora abbandonato”23.
Tutto ciò, a ben vedere, permette di comprendere anche le riserve che emersero nei confronti
dell’ impostazione alla base sia della bozza I sia della bozza II, non dissimile, come si vedrà,
dal progetto predisposto nei dicembre del 1940: riserve in cui ragioni ideologico politiche si
saldavano con quelle di ordine giuridico. In particolare, dal punto di vista ideologico-politico,
il richiamo alla concezione fascista per la quale “ ogni italiano è produttore e non vi alcuna
ragione sostanziale che militi a favore di una particolare distinzione, pretendente uno speciale
codice, tra le categorie produttrici commerciali e le altre” fu sufficiente per far ritenere poco
soddisfacente “ l’inserimento sic et sempliciter delle varie norme sugli stati professionali” in
un impianto che di fatto continuava ad aderire ai concetti liberali dell’economia24. Questa
riserva di ordine politico si saldava con la riflessione più strettamente giuridica la quale già
da tempo aveva rimarcato che il richiamo all’elemento “impresa” era pur sempre riduttivo a
fronte di una area fenomenica più ampia nella quale aveva viceversa rilevanza la
“professionalità”: “nel diritto economico corporativo poi, prima della impresa, viene in
rilievo il lavoro professionale autonomo, che interessa anch’esso l’attività economica
preordinata alla produzione, v’è l’artigiano, il venditore ambulante, vi sono gli ausiliari di
commercio autonomi, i piccolo agricoltori e figure simili, in cui si delineano le forme più
semplici di attività economiche, ma che non si possono lasciare fuori della nuova disciplina
senza dividere in due un territorio dominato da unicità di sistema e di principi”25.
3.- La seconda bozza del libro V : osservazioni della dottrina e suggerimenti degli interessi
“forti”
La prima bozza del libro V predisposta rapidamente nel dicembre del 1940 aveva avuto, a
ben vedere, l’esclusiva funzione, tutta interna ai responsabili di vertice, di avviare il
, 21 Il riferimento è al saggio di ASQUINI, Una svolta storica del diritto commerciale, in Riv. dir. comm.1940,
I,509ss.
22
La lettera di Asquini si legge in MOSSA, Corto epistolario per i codici fascisti, Livorno 1946. Per un analogo
giudizio si v. altresì il commento “a caldo” avanzato da FERRI, L’unificazione legislativa del codice civile e del
codice di commercio in Dir e pratica comm. 1941, 3ss.
23
Si v. MESSINEO, “Libro dell’impresa” e materia di commercio, in Banca e borsa e titoli di credito, 1940,181
e ss, in part.188 e 184. Sebbene pubblicato nell’ultimo numero della rivista nell’anno 1940, il contributo di
Messineo, come si può ricavare dalla numerazione degli articoli del progetto richiamati nel suo lavoro, si
riferiscono alla bozza II del libro V approntata il 31 gennaio 1941.
24
Per questa critica, si v. PETRONE, Della codificazione “civile” in genere e del libro dell’ “impresa e del
lavoro” in specie, in Il diritto fascista n.1-2 novembre-febbraio 1941,1ss, in part.6.
25
Così SOPRANO, Codice di commercio o codice dell’economia corporativa?, in Foro it. 1937,IV.132ss, il
quale si faceva anche portavoce della realtà economica dell’artigianato di sicura preminenza nella società
italiana dell’epoca ed in cui il momento “personalistico” e “familiare” dell’organizzazione produttiva
presentava un rilievo spiccato.
processo di definitiva sistemazione sia del materiale destinato alla codificazione, sia di quello
destinato in precedenza al codice da affiancare a quello civile e poi dirottato verso leggi
speciali.
Una volta verificata la percorribilità della soluzione accolta ed avviata la sua formalizzazione
definitiva nelle decisioni governative nel gennaio del nuovo anno, il 31 gennaio 1941 veniva
alla luce la seconda bozza del libro V denominato questa volta, come si è già detto,
“Dell’impresa e del lavoro”. A ben vedere, rispetto alla prima, la seconda bozza registrava
essenzialmente una diversa sistemazione del materiale normativo, senza particolari
variazioni di ordine contenutistico, ed appariva confezionata proprio in vista di una sua
diffusione in una selezionata cerchia di esperti e addetti ai lavori e tra i soggetti collettivi
rappresentativi degli interessi economici coinvolti.
In particolare, mentre il titolo I riproduceva fedelmente nei contenuti quanto già presente
nella stesura del dicembre 1940, il titolo II ospitava le norme relative all’esercizio delle
professioni intellettuali che nella prima bozza erano collocate nel titolo IV. Il successivo
titolo III “Dell’impresa” riprendeva, a sua volta, quanto già contenuto al riguardo nel titolo II
della prima bozza. L’unica significativa novità era costituita dall’introduzione, per la prima
volta, nel capo IV di una definizione dell’azienda.
Le innovazioni più significative riguardarono la distribuzione degli altri rimanenti titoli.
Infatti, al titolo IV relativo al lavoro nell’impresa seguiva quello riguardante i rapporti di
associazione agraria che, in tal modo, risultavano sganciati topograficamente dai titoli relativi
alle società: titoli, questi ultimi collocati in chiusura del libro.
Ciò che è importante rimarcare è che fu proprio questa seconda bozza ad essere il punto di
riferimento di osservazioni e di proposte emendative che tra il mese di febbraio e il mese di
marzo confluirono al ministero di Grazia e Giustizia e che contribuirono in misura
determinante ad orientare nei contenuti la futura bozza IV, ossia quella licenziata alla fine del
mese di aprile.
In particolare, sulla scorta dei riferimenti alla numerazione degli articoli del progetto, è
possibile constatare che fu proprio la bozza II del libro V ad essere al centro, tra l’altro, delle
osservazioni di Francesco Messineo26, di quelle Francesco Santoro Passarelli27 e di Maroi, di
Bolla nonché delle proposte innovative di Soprano e dei contributi inviati sia dalla
Confederazione fascista degli Agricoltori , sia dalla Confederazione fascista dei lavoratori
dell’ Agricoltura.
Tra i contributi “accademici” avanzati a commento della bozza II, solo Messineo si limitò a
considerazioni di ordine generale circa la premessa alla base del libro V, costituta appunto
dall’unificazione del codice civile e del codice di commercio. Mentre Asquini aveva ritenuto
opportuno “cavalcare” la svolta dell’unificazione, nonostante avesse alcuni mesi prima
presieduto la commissione che aveva elaborato il progetto di un nuovo codice di commercio,
Messineo, con le sue osservazioni, non ebbe esitazioni a criticare apertamente la scelta
effettuata. Anzi, si preoccupò essenzialmente di mettere a nudo il pregiudizio politicoideologico che era andato emergendo nel corso del 1940 e per effetto del quale “attività
commerciale” e “commercio” erano apparsi come concetti economici e giuridici da bandire:
ossia quel pregiudizio che certamente aveva alimentato le spinte verso la scomparsa di un
codice di commercio. Nel cogliere lucidamente uno dei temi della polemica politica e della
strumentalizzazione ideologica dei lavori della codificazione, per cui la “produzione” veniva
caricata di valenze positive e, viceversa, l’attività commerciale era oggetto di un giudizio di
disvalore, Messineo tenne a chiarire da un lato che l’attività commerciale intesa quale
attività di intermediazione è pur sempre produttiva e non certo parassitaria, dall’altro che era
inaccettabile sostenere che i principi corporativi si proponessero l’abolizione del profitto. Di
26
MESSINEO, “Libro dell’impresa” e materia di commercio cit.
Il contributo di SANTORO PASSARELLI, predisposto su richiesta del Ministro, con il titolo A proposito
dell’impresa nel codice civile, venne pubblicato in Riv. dir. comm. 1941, I, 140ss.
27
qui, a suo dire, la debolezza delle motivazioni addotte per giustificare il sacrificio del codice
di commercio e, viceversa, la sua proposta di rilanciare l’idea di dar vita ad un codice della
produzione e degli scambi, destinato a disciplinare la moderna economia organizzata in cui
collocare impresa commerciale e impresa agricola con l’ eventuale possibilità di adottare
soluzioni ad hoc per i casi di insolvenza di quest’ultima.
A differenza di Messineo, in lucidissime quanto sintetiche pagine Santoro Passarelli,
focalizzò la sua attenzione su alcuni profili tecnici di fondo a base del progetto de libro V.
In primo luogo sottolineò che la nozione di impresa adottata dal progetto del libro
“Dell’impresa e del lavoro” assegnava rilevanza al criterio dimensionale dell’attività, ma nel
contempo presentava pur sempre margini di ambiguità, con specifico riferimento proprio alla
necessità o meno della destinazione allo scambio dei beni prodotti dall’impresa. A suo dire,
si era di fronte ad una questione importante per l’attività agricola e per quella commerciale
che imponeva l’opportunità sia di fissare la nozione di impresa in modo da farla coincidere
con l’organizzazione dei fattori della produzione sempre che destinata allo scambio” , sia di
“ subordinare esplicitamente l’assunzione della qualità di commerciante al requisito della
professionalità” che, a suo parere, non risultava connaturato al concetto di impresa presente
nel progetto.
In secondo luogo, sulla scia dell’osservazione critica che già Giuseppe Ferri aveva mosso alle
scelte adottate dallo stesso Asquini in sede di elaborazione del progetto del codice di
commercio, Santoro Passarelli rimarcò che, in ogni caso, l’impresa non rappresentava in
modo coerente il criterio ordinatore dell’intero libro, vuoi perché il contratto individuale di
lavoro poteva ricorrere anche in assenza di un’impresa nella quale, peraltro, sarebbero
rimaste non inquadrabili le professionali intellettuali; vuoi perché alcuni contratti di impresa
restavano fuori da quel libro in quanto disciplinati nel libro delle obbligazioni ( ad es. l’affitto
di fondo rustico).
Pur non toccando l’impianto “corporativo” che Asquini aveva consapevolmente “confinato”
nelle disposizioni contenute nel titolo I e nelle norme generali sull’impresa, come tali
volutamente non coordinate con la normativa privatistica in senso stretto collocata
successivamente, le osservazioni di Santoro Passarelli mettevano a nudo le ambiguità
teoriche di fondo del progetto Asquini. Di conseguenza, veniva prospettata la necessità che il
progetto accogliesse una nozione chiara di impresa, ossia proprio del dato che era stato
sbandierato come il criterio ordinatore del nuovo libro, e nell’affrontare tale questione non si
eludesse, a proposito dell’attribuzione della qualifica di commerciante, il tema relativo al
rapporto tra l’impresa e la professionalità dell’attività.
Di maggior rilievo, in considerazione proprio degli sviluppi successivi dell’elaborazione del
libro V, furono le proposte alternative contenute nell’articolato che il 3 febbraio del 194128
inviato al Ministero da parte del prof. Soprano, autorevole commercialista, oltre che
componente del comitato di revisione proprio del libro V, il quale aveva già fornito
importanti suggerimenti a proposito dell’ultimo progetto del codice di commercio29. Questo
studioso da tempo si era pronunciato a favore di una maggiore aderenza del diritto privato
dell' economia ai principi corporativi e, in tempi non sospetti, aveva suggerito l’abbandono
dell’impianto tradizionale alla base del codice di commercio, a vantaggio di un codice
dell’economia corporativa30.
28
Il dattiloscritto con correzioni di pugno dello stesso Soprano si trova in ACS Ministero di Grazia e Giustizia
Gabinetto busta 30.
29
Infatti, SOPRANO, Rilievi sul Progetto Ministeriale del Codice di Commercio del 1940, in Diritto e
giurisprudenza 1941, 131ss.
30
Si veda infatti SOPRANO, Codice di commercio o codice dell’economia corporativa?, cit.
Ebbene, senza analizzare partitamente tutte le proposte avanzate da Soprano, le quali
meriterebbero una riflessione autonoma31, è sufficiente qui rimarcare, come si può ricavare
dalle correzioni a mano apportate dallo stesso autore al suo dattiloscritto, che il
commercialista partenopeo intese abbandonare il riferimento al dato oggettivo rappresentato
dal termine “impresa” e preferì sostituirlo sistematicamente con quello di “imprenditore”32.
In tal modo, si dava certamente coerenza “corporativa” all'impianto del progetto, che appunto
si apriva con il riferimento agli status professionali, senza peraltro abbandonare del tutto le
scelte alla base del progetto Asquini33. Al tempo stesso, l’articolato presentato da Soprano: a)
introduceva, presentandola quale pilastro di tutto il libro", una prima definizione generale di
imprenditore, secondo la quale " E' imprenditore chiunque eserciti professionalmente ai fini
della produzione o degli scambi una attività che ecceda l'ambito del mestiere o del lavoro
personale o familiare" b) proponeva l’applicazione del registro o matricola a tutti gli
imprenditori compresi quelli agricoli; c) suggeriva lo spostamento della disciplina dei
contratti agrari associativi nell’ambito del capo destinato agli imprenditori agricoli, in quanto
ipotesi fondate sulla presenza di imprenditori associati.
La nozione di imprenditore suggerita da Soprano è indubbiamente importante se confrontata
sia con il testo della bozza del libro V sottoposta al suo vaglio, sia con la stesura finale poi
transitata nel codice del 1942. Infatti, la preferenza accordata da Soprano al profilo
soggettivo (imprenditore in luogo di impresa) in sede di definizione generale del fenomeno
rappresentava indubbiamente una soluzione coerente con il titolo I della II bozza avente ad
oggetto gli status professionali; al tempo stesso,però, rispondeva pur sempre ad un approccio
professorale, in particolare di un cultore del diritto commerciale. Infatti, la nozione generale
di imprenditore proposta da Soprano non alterava la scelta accolta da Asquini il quale aveva
escluso dall'area della professionalità imprenditoriale le figure marginali, ossia quelle
ruotanti rispettivamente sul solo mestiere ovvero sul lavoro personale e familiare
dell’operatore economico.
Se dalle riflessioni “ accademiche”, si sposta l’attenzione sui suggerimenti provenienti dai
soggetti economici forti, rappresentativi degli interessi concreti al centro della disciplina, il
primo più significativo contributo su cui soffermarsi è quello avanzato dal comitato giuridico
della confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, nel quale erano presenti tra gli
altri Vassalli e Maroi.
In un ampio contributo pubblicato ai primi di marzo del 1941, quella confederazione
prospettò un progetto alternativo sulla base dell’impianto contenuto nella bozza II del libro
V34. Ai fini che qui interessano, è importante sottolineare che la Confederazione prospettò
innanzitutto una diversa impostazione dell’intero libro che partiva proprio dalla contestazione
circa il titolo adottato nella bozza II. A parere di quella confederazione, il binomio “impresa
31
Per una prima più analitica ricognizione si rinvia al nostro L’imprenditore agricolo e le origini del libro V del
codice civile cit. Nella parte dell’articolato dettato per il titolo I del progetto, Soprano aveva lucidamente
presente la ricaduta del sistema corporativo sul diritto dell’economia. A parte la formula ivi prevista “ Iniziativa
privata ed intervento statale” , la proposta dava sistemazione alle diverse forme di intervento dello Stato
nell’economia anche sotto forma di concessioni monopolistiche ovvero di gestioni dirette affidate anche ad enti
parastatali.
32
Le correzioni a mano apportate al dattiloscritto da parte dello stesso Soprano e relative proprio alla
sostituzione del termine impresa con quello di imprenditore stanno a dimostrare la consapevolezza della scelta
maturata nel corso della riflessione sul progetto.
33
Infatti, il puntare sul profilo soggettivo non implicava per Soprano l’irrilevanza del profilo dimensionale
legato alla professionalità. La nozione generale di imprenditore da lui proposta lasciava fuori gli operatori che
non andavano oltre la soglia del mestiere ( si pensi all’artigiano) ovvero del lavoro personale e familiare (
proprio del coltivatore diretto): ossia proprio quelle medesime figure al centro anche della riflessione di
Santoro Passarelli.
34
Le osservazioni avanzate da quella struttura sindacale furono pubblicate : si v. infatti, CONFEDERAZIONE
FASCISTA DEL LAVORATORI DELL’AGRICOLTURA, Osservazioni e proposte sul progetto del Libro Del lavoro,
Roma 1941.
e lavoro” presente nel titolo del libro non solo appariva “ residuo di una concezione
commercialistica tendente a mantenere l’autonomia del «diritto commerciale›› col vecchio
significato speculativo di «un diritto del mercato››, anziché di un diritto della produzione”,
ma esprimeva “ una dissonanza concettuale poiché l’elemento morale dell’impresa non può
essere altro che il lavoro nella sua manifestazione di attività organizzativa” 35 , da tenere
distinta, ma con pari dignità, dall’attività esecutiva.
Sull’onda di un’ evidente polemica che coinvolgeva da un lato i commercialisti36, orientati
al puntare sul paradigma del mercato, dall’altro i civilisti (si pensi a Vassalli già
autorevolmente coinvolto nell’ elaborazione del libro sulla proprietà) e gli agraristi (reduci
dai primi convegni nazionali sulla disciplina: si pensi allo stesso Maroi37 ) vicini alla
Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura ed ispirati al paradigma della
produzione, il comitato giuridico di quella struttura sindacale suggerì non solo che il libro
venisse titolato “Del lavoro”, ma che fosse la nozione ampia di lavoro, sottratta alla
“suggestione proletaria” e viceversa orientata a favore del concetto di “attività professionale”
a dover costituire il principio ordinatore dell’intero libro38.
Su tale premessa, non solo la distinzione fondamentale risultava essere quella tra l’attività
autonoma e l’attività subordinata, ma la stessa nozione di impresa perdeva la centralità
assegnatale dal progetto Asquini, in quanto ridotta ad “un modo di essere dell’attività
professionale autonoma, qualificato dalla circostanza che essa si svolge con la collaborazione
di altre attività professionali a sé subordinate39”: di qui, la preferenza accordata per una
definizione generale di imprenditore come “ colui che organizza ed esercita una attività
professionale in collaborazione permanente con attività subordinate……qualunque sia il
numero dei lavoratori dipendenti e qualunque sia il grado della rispettiva collaborazione” e
la precisazione per la quale “ la qualità di imprenditore non è esclusa dalla circostanza che
egli partecipi personalmente al compimento del lavoro di esecuzione nell’attività di cui è
titolare”40.
Nel progetto della Confederazione fascista dei lavoratori agricoli, l’assunzione di una
nozione lata di lavoro risultava correlata ad una altrettanto lata nozione di imprenditore la
quale, oltre a sostituire il riferimento all’impresa in senso oggettivo, conosceva una marcata
35
CONFEDERAZIONE FASCISTA DEL LAVORATORI DELL’AGRICOLTURA, Osservazioni e proposte sul progetto del
Libro Del lavoro cit. 7.
36
In primo luogo, era certamente Asquini, in quanto strenuo difensore della commercialità, ad essere al centro
delle polemiche. A riguardo, è utile confrontare le formule più diplomatiche presenti nel documento elaborato
dalla Confederazione fascista dei laboratori dell’agricoltura con le più esplicite allusioni che si leggono in
ROBERTI, Il lavoro nel nuovo codice civile, in Terra e lavoro, n.4 dell’aprile 1941. In questo articolo, infatti, il
presidente del Comitato giuridico di quella Confederazione ribadiva con molta più rudezza e chiarezza le
posizioni di quel sindacato chiaramente polemiche nei confronti “dei commercialisti della cattedra, della
dottrina e della professione”. Ed è difficile non scorgere ancora, a conferma dell’asprezza del confronto con
Asquini, quanto ebbe a scrivere ancora lo stesso Roberti ( in Il libro del lavoro del nuovo codice civile, in La
terra 1941, 194ss) all’indomani della pubblicazione del libro V nel rimarcare il ruolo positivo svolto nel
processo codificatorio dai soggetti collettivi rappresentativi degli interessi: “gli uomini di scienza, i dottrinari
che non vedono la realtà se non in funzione delle loro teorie alle quali spesso sono attaccati con la disperata
tenacia del naufrago hanno dovuto spesso riconoscere che la visione che di un dato problema avevano gli
uomini forniti non solo di studi, ma di una diretta esperienza era più esatta, più….integrale e più rispondente
alle esigenze di una riforma legislativa di così ampio respiro…..”.
37
Ed, infatti, già ne febbraio del 1941, Maroi, membro del comitato giuridico di quella Confederazione, aveva
inviato alcune osservazioni in merito al progetto contenuto nella bozza II ( si v. infatti, MAROI, Impresa ed
azienda. Forme contrattuali della gestione aziendale, Roma 1941 citato dallo stesso MAROI Nozione di
imprenditore agricolo nel nuovo codice civile, in Riv. dir. civ., 1942, I, 4: osservazioni, appunto, favorevoli a
puntare sul binomio imprenditore azienda, presente anche nella proposta suggerita dalla Confederazione fascista
dei lavoratori agricoli.
38
CONFEDERAZIONE FASCISTA DEL LAVORATORI DELL’AGRICOLTURA, op. cit. 8.
39
CONFEDERAZIONE FASCISTA DEL LAVORATORI DELL’AGRICOLTURA, op.loc.cit.
40
Le espressioni sono contenute nell’art.10 del progetto avanzato dalla Confederazione.
dissociazione dalla nozione di commercialità e da ogni rilievo dimensionale. Ed, invero, a
detta del comitato giuridico di quella Confederazione, la formula “impresa commerciale”, in
quanto destinata ad abbracciare tutti i tipi di attività professionale, industria commercio
credito, riproduceva “ un concetto assolutamente inorganico ed aberrante dal quadro del
diritto positivo”41. Di qui la proposta di articolare la disciplina dettata per le attività
professionali in modo da distinguere tra quelle professionali intellettuali, quelle autonome
soggette a registrazione42, quelle professionali agricole, con la conseguente scomparsa di
ogni riferimento al termine “commerciale” .
In ordine, poi, all’attività professionale agricola, destinataria di una disciplina specifica
contenuta nel capo III, comprensivo anche della normativa relativa ai contratti agrari
associativi ed alla piccola affittanza a coltivatore diretto, la “ritrosia” nei confronti del
termine impresa, già sacrificato a vantaggio della definizione generale di imprenditore sopra
richiamata, risultava ulteriormente rafforzata, posto che da un lato la sezione I del capo III
era intitolata all’azienda agricola, dall’altro, l’art. 64, con cui tale sezione si apriva,
prevedeva appunto che “ E’ azienda agraria quella che ha per oggetto la organizzazione
produttiva di un fondo proprio o altrui diretta alla coltivazione del suolo, alla silvicoltura, allo
allevamento del bestiame od alle altre attività connesse”43. Per tale via, dunque, il dato
fondiario, sia pure collocato nell’ambito di una struttura organizzata, ossia l’azienda agraria,
su cui aveva puntato anche l’agrarista Bolla44 vicino a Vassalli, si vedeva riconosciuto una
peculiare “centralità”, tanto più rafforzata per via della formale rinuncia all’impiego del
termine impresa.
In conclusione, in aderenza alle linee ideologiche e programmatiche presenti nella carta del
lavoro, la Confederazione dei lavoratori agricoli contrastò decisamente il disegno di Asquini,
nella parte in cui la bozza del libro dell’ “Impresa e del lavoro” continuava a riflettere
l’impianto sistematico del vecchio codice di commercio, incentrato sull’impresa
commerciale, e dunque risultava incline a riconoscere un rilievo minore alle attività diverse
da quella commerciale: impianto che, in tal modo, risultava slegato rispetto alla cornice
corporativa in cui era stato semplicemente calato.
La pari dignità che, viceversa, il progetto della Confederazione dei lavoratori agricoli
assegnava alle diverse attività professionali, salvaguardando in ogni caso la specificità
dell’attività professionale agricola, mirava a privare di ogni valenza qualificatoria la “forma”
impresa, ivi compreso il rilievo dimensionale che a questa si legava. In questa ottica si
comprende altresì la proposta di modificare l’impianto del libro V, in particolare di destinare
il titolo I non più alla disciplina degli status professionali, bensì al sistema delle fonti del
diritto del lavoro, una volta identificato quest’ultimo con “qualunque attività, autonoma e
41
CONFEDERAZIONE FASCISTA DEL LAVORATORI DELL’AGRICOLTURA, op. cit. 15
Con la chiara avvertenza, al riguardo, ( si v. ROBERTI, op,. cit. 20) che il registro da introdurre non andava in
alcun caso confuso con il registro dei commercianti.
43
Il successivo art. 65 a sua volta precisava che “ l’attività di trasformazione e di vendita dei prodotti agricoli
conserva il carattere di attività professionale agricola fino a che resta attività complementare ed accessoria
dell’attività agricola” : in tal modo, come si può ricavare dale motivazioni addotte ( si v. CONFEDERAZIONE
FASCISTA DEL LAVORATORI DELL’AGRICOLTURA, op. cit 22) la Confederazione dei lavoratori agricoli faceva
propria la tesi sostenuta in dottrina da Maroi ( presente nel suo comitato giuridico) in polemica con Arcangeli: si
v. MAROI, Le attività collaterali della produzione agraria e il criterio dell’accesssorietà, in Scritti giuridici in
memoria di Ageo Arcangeli, Padova 1938 ed ora in MAROI, Scritti giuridici, Milano 1956, vol. II, 387ss. Sulla
definizione dell’impresa agricola prospettata dalla Confederazione fascista dei lavoratori, v. infra la nt.46
42
44
Infatti lo scritto che Bolla inviò a Grandi nel febbraio del 1941(Osservazioni al titolo III e al titolo V del libro
“dell’Impresa e del lavoro”) in ACS Ministero di Grazia e Giustizia Gabinetto busta n.30) e che certamente era
noto a Vassalli, appare in singolare linea con le proposte avanzate dalla Confederazione fascista dei lavoratori
dell’agricoltura. Per una più dettagliata disamina della posizione di Bolla, si rinvia al nostro L’imprenditore
agricolo e le origini del libro V del Codice Civile, cit.
subordinata, diretta alla produzione e allo scambio dei beni e alla prestazione dei servizi” (
art. 1 del progetto).
Nell’avanzare le sue proposte in ordine al progetto del libro V, l’obiettivo strategico
perseguito dalla Confederazione dei lavoratori agricoli fu, di fatto, quello di garantire un
adeguato equilibrio tra gli interessi delle classi proprietarie e dei ceti professionali, ossia del
nocciolo storico della borghesia italiana, rispetto a quelli degli industriali e dei commercianti
in senso stretto. Per quanto riguarda l’attività agricola, la preoccupazione di fondo fu non
solo quella di mantenere inalterato nella sostanza il regime differenziato sino ad allora
garantito dalla distinzione tra codice civile e codice di commercio, ma sopratutto di
denervare per il futuro la forza intrusiva della “commercialità”, ponendo l’accento
essenzialmente sul “momento della produzione” 45 a scapito di quello del mercato, proprio in
quanto il momento della produzione, per via della specificità di quella agricola, era in grado
di fornire una giustificazione non facilmente superabile alla presenza di regimi disciplinari
differenziati con particolare favore per il settore primario dell’economia.
Le considerazioni da ultimo svolte permettono di meglio comprendere le diverse proposte
ed osservazioni avanzate, sempre sulla bozza II del libro V, da parte di altro soggetto
rappresentativo di interessi collettivi. Si intende far riferimento alla Confederazione fascista
degli agricoltori che, a differenza dell’altra confederazione sopra menzionata, rappresentava
fondamentalmente gli interessi del ceto imprenditoriale agricolo indubbiamente più dinamico
e pragmatico, come tale meno sensibile alle questioni ideologiche o di sistema.
Questa Confederazione si guardò bene dal giudicare la coerenza “ corporativa” del progetto,
ma si limitò a prospettare osservazioni e suggerimenti che non intesero in alcun modo
alterare l’impianto dell’articolato predisposto da Asquini. In particolare, mentre in
riferimento al titolo I relativo agli stati professionali tale confederazione si limitò a rilevare
la necessità di dar conto delle fonti della disciplina, quale premessa necessaria alla
trattazione di quelli, in ordine al titolo III destinato appunto all’impresa, essa non avanzò
alcuna riserva in merito all’avvenuta utilizzo della nozione oggettiva di impresa. Anzi, a ben
vedere, la necessità di rispettare quella scelta venne ribadita anche a proposito del settore
agricolo, “ Perché se è vero che in agricoltura ha un rilievo tutto speciale ed essenziale
l’elemento oggettivo e materiale, rappresentato dalla terra, tuttavia la gestione di questa si
realizza in ogni caso attraverso l’impresa. E’ pur sempre l’imprenditore – anche
l’imprenditore agricolo – che rendendo vivi ed operanti gli elementi della produzione,
realizza quell’organizzazione di essi, che dà luogo all’impresa. Sicché anche in agricoltura
restano figure distinte l’azienda e l’impresa, quella significando il complesso oggettivo dei
beni e dei rapporti che costituiscono l’elemento materiale dell’impresa, questa esprimendo
invece l’aspetto vivo e dinamico del fenomeno produttivo che, nell’organizzazione di quegli
elementi, si realizza per l’opera dell’imprenditore”.
E’ in questa ottica che la Confederazione degli agricoltori ritenne opportuno: a) precisare
meglio l’oggetto dell’impresa agricola ( prevista nell’art.23 del progetto Asquini, bozza II) e
suggerì la formula seguente, poi ripresa nel testo codificato, secondo la quale “ E’ impresa
agricola quella che ha per oggetto, l’esercizio di un’attività diretta alla coltivazione del suolo,
alla silvicoltura, allo allevamento del bestiame, e delle attività connesse”46; b) spostare la
45
Del resto, a partire dalla “battaglia del grano”, nella propaganda e negli interventi del regime, anche a costo di
sacrifici economico-sociali delle classi più deboli, il tema della “ produzione”, non solo agricola, era stata
individuato come strategico per lo sviluppo della società italiana. Non è un caso che, anche sul piano giuridico,
quello offerto dalla “produzione” dovesse rappresentare un punto di vista in grado di configurare in termini
omogenei le problematiche del mondo agricolo e del mondo industriale: eloquente, al riguardo, ma come punto
di arrivo di una riflessione corale maturata nel corso degli anni trenta, il saggio di MAZZONI, Aspetti e tendenze
del nuovo diritto della produzione, in Riv. dir. lav 1940, I, 3ss.
46
Come è agevole osservare, eccezion fatta per la successiva “soggettivizzazione”, la definizione di impresa
agricola proposta dalla confederazione degli agricoltori destinata a coincidere con quella poi accolta nella
stesura definitiva, in buona parte rispecchiava quella prospettata, nel medesimo momento, dalla confederazione
disposizione contenuta nell’art. 25, in un art.23 bis, con la seguente formulazione: “ Le
attività di trasformazione e di alienazione dei prodotti agricoli sono agrarie quando rientrano
nell’esercizio normale dell’industria agricola anche se gestite in forma autonoma”47.
4.- La terza bozza del libro V: l’apoteosi dell’ideologia corporativa
Mentre venivano raccolte le osservazioni e le proposte da più parti avanzate, volte a
correggere o modificare il primo fondamentale progetto del libro V introdotto nella bozza II,
a livello ministeriale veniva portato avanti il lavoro di ulteriore affinamento della bozza
licenziata alla fine di gennaio del 1941.
Come si è già potuto constatare sulla base dei rilievi critici da più parti prospettati in ordine
al progetto di cui alla bozza II, il complessivo clima che si respirava nei primi mesi del 1941
registrava un tendenziale predominio delle impostazioni orientate in senso politicoideologico, per via anche delle pressioni provenienti del Ministero delle Corporazioni, anche
a scapito di quelle accademiche, rectius commercialistiche in senso stretto, che avevano ab
initio orientato la stesura del progetto del codice di commercio e successivamente prospettato
le stesure del libro V, di cui alla bozza I e II. Sotto questo profilo, se si analizzano a fondo
gli spunti polemici contro i commercialisti emersi in quel periodo e che videro protagonisti
anche soggetti coinvolti a vario titolo nel processo codificatorio e che avevano come
principale bersaglio lo stesso Asquini, si può da un lato meglio comprendere lo sforzo di
mediazione che Asquini aveva sino ad allora messo in campo al fine di assicurare che l’
unificazione dei codici e la scomparsa del codice di commercio non determinassero la fine
del diritto commerciale, dall’altro cogliere in modo evidente l’inevitabile impraticabilità di
soluzioni, culturalmente più rigorose, di provenienza accademica che partivano proprio
dalla denuncia dei “cedimenti” presenti nel progetto Asquini.
A questo riguardo, al di là delle diversità di fondo tra i due studiosi, la polemica dura che
contrappose nei primi mesi del 1941, l’artefice del progetto, il prof. Asquini, a Lorenzo
Mossa non può comprendersi a pieno se non viene calata nel concreto contesto in cui maturò,
ossia in un contesto nel quale le posizioni dei commercialisti dovevano fare i conti con un
trend in forte ascesa, favorevole ad assegnare il primato all’ideologia corporativa e, dunque,
ad introdurre “iniezioni di corporativismo” nella nuova codificazione a netto discapito di un
impianto che avesse voluto mantenersi fedele alle linee di sviluppo della migliore dottrina
commercalistica.
dei lavoratori agricoli. In particolare, il riferimento contenutistico alla coltivazione del suolo, ed alla
silvicoltura riproponeva un dato disciplinare già introdotto nel sistema normativo dalla legislazione sugli
infortuni sul lavoro. Quanto all’allevamento del bestiame, peraltro contemplato nella medesima legislazione
infortunistica, la differenza sostanziale tra la confederazione dei lavoratori e quella degli agricoltori, certamente
di non poco momento, consisteva nel fatto che mentre la prima, nel puntare essenzialmente sull’utilizzazione
della terra, configurava l’allevamento come attività connessa tipica rispetto alle prime due attività agricole
fondamentali, la seconda confederazione considerava l’allevamento del bestiame autonoma attività agricola
fondamentale. E’ il caso di rammentare che l’art.6 del d. m. 11 gennaio 1931, emanato dal Ministro delle
corporazioni quale provvedimento attuativo del r.d. 27 novembre 1930 n.1720, ai fini dell’inquadramento
sindacale delle categorie professionali, tra le categorie attribuite alla Confederazione fascista degli agricoltori
prevedeva anche quella riguardante “ coloro che esercitano per conto proprio l’allevamento di bestiame grosso
e minuto, compreso l’allevamento di cavalli per la corsa ( galoppo, trotto e caccia)” [il corsivo è nostro].
47
In tal modo, la Confederazione fascista degli agricoltori andò oltre i suggerimenti interpretativi che aveva
avanzato alcuni mesi prima, in particolare nel settembre del 1940, a proposito delle soluzioni contenute nel
progetto Asquini di riforma del codice di commercio ( si v. il documento in in ACS Ministero di Grazia e
Giustizia Gabinetto busta 22): sul punto si rinvia al nostro L’imprenditore agricolo e le origini del libro V
codice civile cit. nt.34. Ad ogni modo, il sindacato degli agricoltori aveva fatto propria sia pure con una
variante la soluzione prospettata in dottrina da ARCANGELI, Agricoltura e materia di commercio, in Studi di
Diritto Commerciale in onore di Vivante, Roma 1931.
Infatti, in un saggio elaborato nei primi del 194148, Lorenzo Mossa criticò la scelta
dell’unificazione dei codici, sostenendo sopratutto che il livellamento derivante da quella non
poteva che mortificare proprio i caratteri del moderno diritto commerciale, quale diritto
dell’impresa assunta nella sua dimensione sociale: diritto orientato alla tutela non già degli
interessi egoistici dei capitani di industria, bensì dell’ intera società in considerazione dei
rapporti di massa legati all’avvento di una economia organizzata che esigevano appunto “la
garanzia del pubblico per l’affidamento degli atti e dei contratti, o per gli atti di
responsabilità di ogni fonte ed origine”. Sulla base di questa nozione “forte” di impresa,
assunta come “ soggetto dell’economia, se non genuino soggetto di diritto”, Mossa
denunciava altresì la necessità di non mortificare l’autonomo percorso disciplinare che
meritava l’agricoltura in larga parte ancora estranea al modello organizzativo dell’impresa
orientata al mercato. Di qui l’evidente necessità di sfuggire agli equivoci concettuali che
potevano nascondersi nel ricorso al termine impresa. A suo dire, infatti, il termine impresa
conservava e rinveniva la sua specifica pregnanza di significato “ nel senso del diritto
privato, dei rapporti molteplici e complessi delle cose congiunte e dell’imprenditore, e di
questo con il grande pubblico”, se con essa si fosse inteso fare riferimento ad una unità
giuridica, ossia ad un organismo “ che esiste come tale nel mondo del diritto, con il suo nome
proprio, con il suo diritto di affermazione e di difesa, per il credito e per la concorrenza, con
l’amalgama dei beni e delle persone che l’attivano”. In difetto di questi requisiti, il termine si
identificava con la semplice “ attività economica organizzata”, ossia assumeva un altro
significato, più precisamente “quello generico, quello della Carta del lavoro nelle sue
dichiarazioni, in virtù delle quali si ordina l’economia della nazione, in ogni campo di
attività, naturalmente senza preoccupazione di riconoscere o creare un organismo di diritto
privato”49.
Senza qui ritornare analiticamente sul conflitto che vide protagonisti Mossa ed Asquini50,
per cui la rivista di diritto commerciale diretta da Asquini, rifiutò la pubblicazione del saggio
di Mossa, va sottolineato che al cuore del contrasto non fu certo il dissenso teorico, pur
esistente tra i due studiosi, tanto è vero che nella missiva inviata a Mossa il 27 gennaio
194151 Asquini sostenne che la tesi prospettata da Mossa rispondeva “in gran parte al ‘canto
del cigno’ del suo progetto di codice di commercio”. A ben vedere, la preoccupazione di
Asquini fu soprattutto quella di evitare che la presenza di una voce discorde circa il progetto
governativo, per di più sulla stessa rivista di diritto commerciale da lui diretta, potesse, nella
sua evidente impoliticità, “ rendere un cattivo servizio alla Rivista e al diritto
commerciale”52.
Ed, invero Asquini, certamente molto meglio di Mossa, conosceva il clima effettivo in cui si
svolgevano i lavori della codificazione: più precisamente, Asquini era pienamente
consapevole del fatto che la contrapposizione denunciata con grande lucidità da Mossa tra la
nozione privatistica di impresa, accolta nelle prime bozze del libro V, sia pure con un
indubbio margine di ambiguità, e quell’altra generica di stampo corporativo, avrebbe potuto
rafforzare le posizioni più ideologizzate e, dunque, vanificare il suo tentativo di traghettare il
cuore del diritto commerciale nel nuovo codice.
48
MOSSA, Contributo al diritto dell’impresa ed al diritto del lavoro cit.
MOSSA,op.cit.82
50
Sul punto si rinvia a TETI, Codice civile e regime fascista. Sull’unificazione del diritto privato, Milano 1990,
242ss A ben vedere gli attriti tra i due studiosi, destinati a proseguire subito dopo la caduta del fascismo, erano
ben più risalenti e sempre legati alla codificazione; infatti già in occasione del progetto Vivante degli anni venti
era emersa una polemica di non poco momento: si v. MOSSA, Saggio critico sul progetto del nuovo codie ci
commercio, in Annuario di diritto comparato Roma 1927; ASQUINI, Codice di commercio, codice dei
commercianti o codice di diritto privato, in Riv. dir. comm. 1927,I,507, cui seguì la risposta di MOSSA,Per il
nuovo codice di commercio, ivi, 1928,I, 16ss.
51
La si legge in MOSSA, Corto epistolario per i codici fascisti, Livorno 1946.
52
Così Asquini nelle lettera di cui alla nota precedente.
49
Preoccupazione, quella di Asquini, più che fondata ove si consideri la reazione che
l’intervento di Mossa provocò in uno dei “ministeriali” protagonisti del lavoro redazionale
del libro V ed oltremodo più sensibili ai segnali provenienti dall’area politica del regime. Il
magistrato Mandrioli, capo di gabinetto de Ministro Grandi e interlocutore importante del
mondo accademico coinvolto nel lavori della codificazione, nel rispondere il 10 febbraio
1941 a Mossa che gli aveva inviato un estratto del proprio saggio, in primo luogo chiarì che
proprio il concetto meramente economico-corporativo di impresa, respinto dal
commercialista pisano, dovesse essere assunto alla base del libro dell’impresa e del lavoro,
affinché questo risultasse aderente all’ordinamento corporativo53; in secondo luogo, ringraziò
Mossa del suo saggio, riconoscendogli il “ grande merito di avere con molta franchezza
messo a fuoco quella che è la principale questione della codificazione in questo settore”.
E’ dunque in quel clima, in cui il diritto commerciale e le sue fondamentali
concettualizzazioni erano visti come espressione di un’ ideologia liberistica, come tale
difforme dai principi del corporativismo, che al ministero prese forma la bozza III del libro
dell’Impresa e del lavoro licenziata il 14 marzo.
Sulla scorta delle indicazioni di Soprano, inviate a Mandrioli nei primi di febbraio, e dei
chiarimenti di fondo cui aveva contribuito, suo malgrado, lo stesso Mossa, la bozza III segnò
una presa di distanza significativa dall’impianto di “compromesso” che Asquini aveva
adottato nelle prime due bozze, a tutto vantaggio di un’ impostazione guidata essenzialmente
dall’ideologia corporativa.
Dal punto di vista dell’impianto complessivo del libo V, la bozza III, in sintonia con
indicazioni provenienti da più parti, destinò il titolo I non più alla disciplina degli stati
professionali, bensì alle fonti dell’ordine corporativo. Dopo il titolo II avente ad oggetto
“L’imprenditore ed i suoi collaboratori”, seguivano rispettivamente il titolo III, riguardante le
associazioni nell’impresa: da quella in partecipazione alle associazioni agrarie ( mezzadria
colonia e soccida); il titolo IV ed il titolo V relativi alle società ed alle cooperative. Il titolo
VI, di più ampia fattura, introduceva una disciplina molto puntigliosa relativa alla
circolazione dell’azienda oltre alla sua nozione generale54 ( con una puntuale distinzione
anche di articoli per le imprese soggette a registrazione ) e comprendeva anche le norme
relative alla ditta e al marchio. Infine, dopo i titoli VII e VIII relativi rispettivamente ai diritti
sui prodotti dell’ingegno ed alla disciplina dei consorzi e della concorrenza sleale, la bozza
III si chiudeva con altri due titoli, l‘uno destinato alle professionali intellettuali che, così,
dalla testa venivano relegate in coda al libro, l’altro al lavoro domestico.
Il progetto presentava novità di contenuto e di impianto soprattutto nel titolo II . In primo
luogo, la disciplina relativa ai rapporti di lavoro venne collocata come capo II nell’ambito di
un unico titolo destinato appunto all’imprenditore ed ai suoi collaboratori. In secondo luogo,
in aderenza a quanto già previsto in sede di intitolazione, l’art. 29 del capo I introduceva
nozioni generali di imprenditore e di impresa aderenti alle indicazioni preannunciate da
Mandrioli per cui la seconda coincideva con “ogni attività organizzata ai fini della
produzione o dello scambio di beni o servigi”, la prima con l’esercizio professionale di
un’impresa”.
La previsione di una definizione generale di imprenditore capace di abbracciare tutti i settori
economici senza distinzioni di ordine dimensionale era peraltro completata dalla scomparsa
di ogni riferimento formale sia all’impresa commerciale sia a quella agricola.
Il sistema binario presente nelle bozze precedenti, per cui la distinzione tra materia
commerciale e materia agricola era sopravvissuta all’unificazione dei codici, risultava
53
La lettera di Mandrioli si rinviene in ACS Ministero di Grazia e Giustizia gabinetto busta 30. Per altre
osservazioni si rinvia al nostro L’imprenditore agricolo e le origini del libro V del codice civile, cit. 557ss
54
Invero l’affitto e l’usufrutto di azienda erano disciplinati in più articoli distinti tra loro; in ordine però al
divieto di concorrenza nessuna previsione ad hoc era presente a proposito dell’impresa agricola, in particolare
per le attività connesse.
abbandonato a favore di una diversa e originale distinzione fondata sull’obbligatorietà della
registrazione per le sole imprese individuali esercitanti un’attività di intermediazione,
industriale, bancaria assicurativa e ausiliaria di queste(art.43 del progetto). Quanto
all’impresa agricola essa era del tutto trascurata in quanto già assorbita nella definizione
generale di imprenditore ex art.23, con l’unico riferimento indiretto presente nel comma 2°
dell’articolo 43: secondo questa norma, era soggetto all’obbligo di registrazione l’agricoltore
impegnato in un’attività diretta alla trasformazione o alienazione dei prodotti del fondo o in
altra impresa connessa all’agricoltura, sempre che tale attività non fosse rientrata
nell’esercizio normale dell’agricoltura.
Il progetto, peraltro, ignorava del tutto la figura del coltivatore diretto, limitandosi a chiarire
la non obbligatorietà della registrazione per l’artigiano che esercitasse la sua attività
prevalentemente con il lavoro proprio e dei suoi familiari e per piccolo commerciante ai
sensi dell’ordinamento corporativo.
In definitiva, a voler analizzare i lavori preparatori del libro V alla luce delle forze segnalate
all’inizio di queste pagine, non è difficile constatare che la bozza III segnò il punto più alto
della prevalenza della componente politica e corporativa rispetto a quella accademica, in
particolare a quella commercialistica impersonata da Asquini. Ed infatti, il miglior commento
della situazione in cui era venuto alla luce la bozza è proprio quello prospettato dallo stesso
Asquini, in una lettera inviata al Ministro Grandi ( allora in Albania) il 17 marzo, ossia pochi
giorni dopo la definitiva preparazione di quella bozza. Da una parte egli riconosceva che si
era in presenza di un notevole miglioramento rispetto al precedente testo, “ sia come ordine
della materia sia come semplificazione dei concetti”, dall’altra non poteva trattenersi dal
riconoscere che “ le anime timorose di oscure influenze commercialistiche sono placate:
perché nel nuovo progetto, la parola commerciale è scomparsa e i poli del progetto sono
l’imprenditore e l’azienda, senza aggettivi”55.
5.- La bozza IV: gli interessi “forti” al contrattacco
Nella bozza III gli orientamenti più ideologicamente ispirati al corporativismo ed alle parole
d’ordine del regime avevano indubbiamente ridimensionato l’impianto commercialistico
originariamente adottato da Asquini. Ma nel far questo, si era finito con l’oltrepassare il
segno. Infatti, la necessità di rimuovere ogni palese richiamo alla “materia commerciale”
aveva portato, come conseguenza inevitabile, anche alla rimozione della “materia agricola”.
Per tale via, il primato assicurato al profilo corporativo aveva richiesto il sacrificio non solo
della componente commercialistica della disciplina ivi introdotta, ma anche di quella
civilistica, a favore della quale, viceversa, si era mosso con grande lucidità Filippo Vassalli,
già nel pilotare le osservazioni avanzate dal Comitato giuridico della Confederazione dei
lavoratori agricoli a proposito della bozza II.
La lettura della bozza III ,alla luce delle osservazioni che i gruppi sociali sindacalmente più
importanti avevano inviato nel frattempo al Ministero in merito alla prima stesura del libro
“dell’impresa e del lavoro”, non poteva che far emergere in misura evidente non solo le
tensioni tra la componente politico-ideologica, che aveva orientato l’elaborazione della
bozza III, e gli interessi concreti degli operatori economici, ma, soprattutto, la concreta
debolezza del ceto politico fascista e dei custodi di una presunta ortodossia corporativa a
fronte di prese di posizione delle rappresentanze sindacali della classi sociali sul cui
appoggio il regime aveva potuto contare sin dal suo inizio.
In questa fase dei lavori, in definitiva, furono ancora una volta le confederazioni dei
lavoratori agricoli e degli agricoltori a farsi carico di rappresentare gli interessi “forti” della
55
La lettera di Asquini a Grandi si legge in RONDINONE, op. cit. 473.
società civile, in particolare della borghesia terriera, e dunque ad esigere una correzione
dell’impianto adottato nella bozza III, al fine appunto sia di dare autonoma visibilità all’
attività agricola, sì da ribadirne formalmente la singolarità rispetto alle altre attività
economiche, sia di assicurarle precise garanzie disciplinari . Da questo punto di vista, a ben
vedere, le spinte a favore di una rivalutazione della “materia agricola” non dispiacevano ad
Asquini, non foss’altro perché, appunto, quasi inesorabilmente, il recupero di quella
certamente avrebbe aperto la strada per la resurrezione, anche formale, della “materia
commerciale”. Ed infatti, già in occasione della lettera inviata a Grandi il 17 marzo del
194156, lettera di accompagnamento della bozza III, Asquini comunicò al ministro la sua
intenzione di aggiungere nel prosieguo dei lavori qualche norma sull’azienda
agraria,ricevendo al riguardo il plauso del ministro57.
La bozza IV, approntata alla fine di aprile del 1941, rappresentò un punto di compromesso
tra le istanze ideologiche che avevano contribuito alle scelte adottate nella bozza III e gli
interessi economici forti che si erano espressi sulla base della bozza II e che intendevano
correggere il disegno originario di Asquini troppo squilibrato a difesa della commercialità.
In definitiva, tale bozza, nel conservare ancora al libro V il titolo “Dell’impresa e del lavoro”
registrava la coesistenza tra l’impianto originale contenuto nella bozza III e alcune delle
opzioni culturali di fondo presenti nella bozza II. La più evidente manifestazione
dell’innesto, nell’ambito della struttura propria della bozza III, di alcuni elementi qualificanti
presenti nella bozza II, è data dalla ricomparsa significativa di un intero capo, il II, destinato
all’impresa agricola, nell’ambito del titolo II dedicato più asetticamente all’impresa ed alla
collaborazione dell’impresa. Il capo II, relativo all’impresa agricola non solo conteneva ben
cinque disposizione generali riferite a quella, ma ricomprendeva i contratti agrari
associativi. In altri termini, le modifiche apportate accoglievano a pieno le proposte che
erano state avanzate dai sindacati agricoli.
L’art. 68, avente ad oggetto la nozione generale, riprendeva fedelmente quella di
imprenditore agricolo suggerita dalla Confederazione fascista degli agricoltori e che poi
transiterà definitivamente nel successivo art. 2135 c.c. Per tale via, dunque, il progetto
riproponeva formalmente un sistema binario a proposito della disciplina dell’impresa con
l’unica significativa variante per la quale la contrapposizione tra materia agricola e materia
commerciale era sostituita dalla distinzione tra l’impresa agricola e l’impresa soggetta a
registrazione. Proseguiva, dunque, l’ostracismo per la “commercialità”, ormai sostituita dal
riferimento alla regola della registrazione, espressamente dichiarata inapplicabile all’impresa
agricola. Al tempo stesso, però, veniva confermata ed ulteriormente chiarita l’ utilizzazione
della nozione generica di impresa denunciata da Mossa e viceversa avallata da Mandrioli.
Infatti, alla definizione generale di imprenditore contenuta nell’art.27 , coincidente con quella
poi transitata nell’art.2082, seguiva quella del piccolo imprenditore che recuperava la figura
del coltivatore diretto, trascurata dalla bozza III, e la collocava a fianco delle figure
dell’artigiano e del piccolo commerciante58.
56
Si v. al riguardo la nota precedente.
Come rammenta RONDINONE, op cit., 474, nella sua lettera di risposta ad Asquini, Grandi si dichiarò lieto
dell’aggiunta di norme relative all’azienda agraria, ed al coltivatore diretto auspicando che si facesse
altrettanto per l’artigiano.
58
Sotto questo profilo, qualche anno dopo la pubblicazione del codice civile, anticipando una parte della
riflessione che sarebbe stata successivamente sviluppata in termini sistematici da Bigiavi, Giuseppe Ferri( in
Revisione del codice e autonomia del diritto commerciale, in Riv, dir. comm 1945, I, 96ss, avrebbe messo a
nudo con indubbia lucidità e chiarezza i limiti della nozione generica contenuto nell’art.2082, soprattutto alla
luce della definitiva caduta del quadro rappresentato dall’ordinamento corporativo: “L’art.2082 cod. civ. nel
porre la nozione di imprenditore, ha più propriamente riguardo alla attività organizzata; ma un principio di
organizzazione sussiste nello svolgimento di una qualsiasi attività e nella legge la organizzazione può essere
così elementare da ritenersi esistente anche nel commercio ambulante, il cui esercizio rientra, attraverso la
nozione del piccolo commerciante e del piccolo imprenditore, nella nozione di impresa.
57
Nella sistemazione complessiva della disciplina, la bozza IV apportò anche due significative
correzioni all’impianto accolto nelle bozza III: infatti, la disciplina delle professioni
intellettuali e del lavoro domestico, che chiudevano il progetto della precedente bozza,
vennero sistemati nei titoli III e IV, intestati rispettivamente al “lavoro autonomo” ed al
“lavoro subordinato estraneo all’impresa”, ossia collocati subito dopo il titolo II dedicato
appunto all’impresa ed al lavoro subordinato.
6.- La bozza V e la bozza VI tra ultime “ fiammate” corporative e ritocchi di ordine
tecnico.
Tra l’aprile e la metà di giugno del 1941, il lavoro preparatorio del nuovo libro V da
introdurre nel codice civile unificato si orientò essenzialmente nella correzione formale
della bozza IV, nella quale si ritenne raggiunto un punto di condiviso equilibrio tra le diverse
anime che avevano ispirato l’azione codificatoria nei primi mesi di quell’anno.
Ed infatti, la bozza V e la bozza VI del libro V, entrambe qualificate per la prima volta in
termini di “definitive” ed in cui si riaffacciava l’originario titolo “Del Lavoro”, si
completavano a vicenda. La prima rappresentava semplicemente una tappa nel processo di
revisione della bozza IV limitata ai soli primi 174 articoli del progetto. Ad integrazione di
questa bozza, la bozza VI completò la revisione per i restanti articoli del medesimo libro
V.
In conclusione, queste due ultime bozze realizzarono l’ assestamento definitivo dell’impianto
e delle scelte di fondo maturate nell’elaborazione della bozza IV, sia pure con qualche novità.
A conferma del fatto che la bozza IV avesse condotto ad un arretramento delle spinte
ideologico-politiche, per via della scesa in campo degli interessi economici organizzati, le
bozze V e VI registrarono una sola significativa innovazione “ compensativa” al fine di
accontentare le prime. In particolare, nell’ambito della disciplina dettata per l’imprenditore in
generale di cui al titolo II, ribattezzato di nuovo “ dell’imprenditore e del suoi collaboratori”,
vennero introdotte 6 nuove disposizioni ( 29 bis, 30 bis, ter , quater, quinquies, sexies;
[l’art.31 stranamente venne saltato] ), riguardanti appunto sia i compiti dello stato in ordine al
controllo della produzione e degli scambi in relazione all’interesse unitario dell’economia
nazionale sia, di conseguenza, la responsabilità dell’imprenditore in caso di inosservanza
degli obblighi e le sanzioni da applicare nella specie già presente nella bozza: responsabilità,
quella dell’imprenditore, certamente ispirata alle originarie determinazioni della carta del
lavoro.
Quanto alle distinzione tra le imprese soggette a registrazione e le imprese agricole, la bozza
definitiva si limitò a semplici limature di ordine formale. L’unica più significativa variazione
riguardò proprio la definizione generale di imprenditore agricolo. Infatti, a proposito delle
attività connesse tipiche scomparve il riferimento alla formula relativa all’esercizio normale
dell’agricoltura: essa venne sostituita dalla formula che legava la connessione all’ attività
riguardante solo i prodotti della azienda agricola dell’imprenditore.
Ma, considerata l’impresa come equivalente ad attività professionale o meglio a esercizio professionale, la
nozione si vuota di contenuto, se dal punto di vista giuridico non sussistono particolari principi che regolano
l’attività del soggetto in quanto professionalmente esercitata. Se per il diritto è indifferente che il soggetto
compia un singolo atto o invece eserciti professionalmente una attività, se l’esercizio professionale di questa
attività, dal punto di vista giuridico, si risolve nella molteplicità degli atti singoli compiuti, la irrilevanza
giuridica della nozione di impresa è evidente”
Orbene, esclusa ormai, con la soppressione dell’ordinamento corporativo, ogni rilevanza dell’esercizio
dell’attività professionale sotto il profilo corporativo, la nozione di impresa, intesa mel senso del codice, assume
rilevanza soltanto nel campo commerciale, in cui l’attività professionale è assoggettata a un regime giuridico
proprio e distinto dal regime degli atti dai quali essa risulta”.
7.- Dalle bozze definitive al testo del libro V pubblicato nel luglio del 1941. La resurrezione
della commercialità: il colpo di coda di Asquini
Con le bozze V e VI, formalmente qualificate proprio come “definitive”, a fronte di quelle
precedenti “ provvisorie”, il lavoro preparatorio del libro V era giunto a compimento. La
combinazione tra le istanze correttive della bozza II provenienti dagli interessi organizzati e
le spinte ideologiche alla base della bozza III, aveva condotto ad un equilibrio di fondo
ormai destinato a consolidarsi. In particolare, se da una parte l’accoglimento della
definizione “ corporativa” dell’impresa aveva rappresentato il maggior successo della linea
ideologica indirizzata a collocare sul medesimo piano il complesso delle attività economiche
presenti nella realtà sociale del paese e, dunque, ad utilizzare la categoria ampia del “
lavoro” quale strumento per rimuovere, in funzione della salvaguardia degli interessi
nazionali, le differenze tra capitale e lavoro, dall’altra la netta distinzione dell’impresa
agricola rispetto alle imprese soggette a registrazione offriva una assicurante risposta alle
preoccupazioni della classi agricole circa i rischi di un’ omologazione del settore primario ai
criteri disciplinari coerenti con le specifiche esigenze del mondo industriale e, in definitiva,
circa una possibile egemonia della società industriale rispetto a quella agricola.
Nell’ambito del “bilanciamento” così conseguito, l’unificazione tra codice civile e codice
di commercio, emblematicamente rappresentata proprio dalla “neutralità” assegnata alla
nozione formale del binomio impresa-imprenditore, non aveva certo condotto, dal punto di
vista della disciplina sostanziale, alla scomparsa effettiva del sistema binario alla base della
tradizionale distinzione tra “materia agricola e materia commerciale”. A ben vedere, però la
conservazione del sistema binario aveva richiesto il sacrificio, anche sul piano linguistico, di
quella nozione ampia di “commercio” che si era consolidata alla luce dello stesso codice di
commercio del 1882 e della riflessione teorica della dottrina e che aveva di fatto contribuito a
dare fondamenta all’autonomia scientifica e didattica proprio del “diritto commerciale”.
Nel testo del progetto definitivo del libro V, presente nella bozze V e VI, il riferimento al
termine “commercio” anche nel suo significato tecnico più ristretto era stato del tutto
bandito: se l’art.132 “ a proposito degli imprenditori soggetti a registrazione si era limitato a
comprendere anche l’attività intermediaria nella circolazione dei beni; dall’altra, il richiamo
ai piccoli “commercianti”nell’art.28, riguardante i piccoli imprenditori, restava pur sempre
troppo fragile ed isolato per confortare, sul piano sistematico, la conservazione della
categoria storica della commercialità.
Ebbene, fu proprio la fase che si aprì all’indomani della predisposizione della bozza
definitiva e che precedette di quasi un mese la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del
libro V, intervenuta il 12 luglio 1941, a permettere a quel “vecchio rudere”59 di Asquini un
59
E’ quello l’ingeneroso epiteto che il Duce riservò al prof. Asquini e a Biagi nell’autunno del 1943) : si v. la
testimonianza di CIANETTI, Memorie dal carcere di Verona, Milano 1983, 378.
Al di là del ruolo importante che Alberto Asquini ha giocato nel corso dei lavori della codificazione, in
particolare in ordine all’elaborazione del libro V, esula dal presente saggio l’analisi complessiva della figura di
quel grande commercialista, con specifico riferimento ai suoi legami con il regime. Indubbiamente, a differenza
di altri giuristi che pur collaborarono con il regime, Asquini partecipò all’esperienza parlamentare e di governo,
in cui fu sottosegretario ( unitamente allo stesso Biagi) presso il dicastero delle corporazioni, allorché (1932)
esso venne assunto dallo stesso Mussolini, facendo parte anche della delegazione italiana al convegno giuridico
italo-germanico del 1938. Ai fini di una valutazione compiuta della sua personalità, vanno tra l’altro rammentati
due episodi di non poco rilievo. Il primo è rappresentato dal necrologio, per alcuni aspetti di facciata, che
Asquini pubblicò in memoria del grande Cesare Vivante, Necrologio, in Riv. dir. comm. 1943, I, 109ss
soprattutto se posto a confronto con il successivo magistrale discorso di commemorazione che lo stesso
Asquini dedicò dieci anni dopo allo stesso Vivante: in ASQUINI, Cesare Vivante, in Scritti giuridici III, Padova
1961, 3ss, già in Riv. Scienze Giur. 1954, I, 237ss Il secondo è costituito dalla lettera che il 22 luglio del 1943
lo stesso Asquini, reduce da un viaggio in Germania, scrisse al Duce e che è stata rinvenuta tra le “carte
autentico abilissimo colpo di coda: riguadagnare il terreno perduto nei mesi precedenti e, più
precisamente, recuperare nel diritto codificato il formale riferimento a quella nozione ampia
di commercialità che era stata consapevolmente espunta nel corso dei lavori preparatori e
che, a suoi occhi era sempre apparsa strategicamente indispensabile per rafforzare
l’autonomia scientifica e didattica del diritto commerciale. In tal modo, al di là della svolta
storica di cui lo stesso Asquini aveva parlato nel prospettare l’unificazione dei due codici, fu
quello stesso giurista con grande abilità ad evitare che la “nuova via” individuata per il
diritto commerciale non si trasformasse in un “precipizio”60.
In altri termini, conclusi i ludi dialettici e le diatribe ideologiche che avevamo circondato e
condizionato la pur rapida elaborazione del libro V e affidatosi ad un testo, assunto ormai
come definitivo, un soddisfacente equilibrio tra interessi forti e spinte ideologiche, fu la
cultura giuridica, impersonata nel nostro caso da Asquini, a restare padrona del campo, in
definitiva, a dire l’ultima parola sul libro V, sia pure nella funzione apparentemente solo
“tecnica” di migliorare il testo del progetto, senza alterarne le scelte di fondo.
Con pochi ritocchi, lasciati cadere qua e là nell’articolato, in particolare attraverso riferimenti
apparentemente innocui all’attività commerciale ed all’impresa commerciale, Asquini riuscì
non solo a sdoganare dal forzato oblio cui era stata condannata nel corso dei lavori la
terminologia stessa riguardante il “commerciale”. A ben vedere, il testo definitivo del libro V
restituiva piena dignità formale alla commercialità che si era inteso mortificare sino
all’ultimo progetto.
Il primo intervento, apparentemente innocuo in quanto indirizzato ad assicurare un raccordo
tra la nuova codificazione e la legislazione allora vigente, venne collocato nell’art.142 del
libro V (l’attuale art. 2195) che andava a sostituire l’at.132 del testo della bozza V. Mentre
quest’ultimo articolo conteneva un solo comma ( rispondente al 1° comma dell’attuale
art.2195), il quale elencava le attività economiche in presenza del cui esercizio avrebbe
dovuto operare l’obbligo di registrazione, il secondo comma, del tutto nuovo, frutto
dell’intervento di Asquini si preoccupava di chiarire che “ le disposizioni della legge che
fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano se non risulta
diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo ed alle imprese che le esercitano”.
In tal modo, la “commercialità” sia dell’attività sia dell’impresa veniva rappresentata come
sostanzialmente riassuntiva di tutta l’area operativa delle imprese soggette a registrazione.
Una volta aperta la strada al recupero della commercialità attraverso questa disposizione, il
cammino era tutto in discesa: e così nell’art. 142, sostitutivo dell’art.136 del progetto,
relativo all’obbligo di iscrizione delle società, con una formula decisamente più ridondante di
quella originaria, ci si preoccupò di puntualizzare l’operatività dell’obbligo per tutte le
società “ anche se non esercitano attività commerciale”! Ed ancora, il successivo art.143
rispondente all’art.137 della bozza V, a proposito dell’obbligo di iscrizione per gli enti
pubblici svolgenti attività di impresa, vide sostituita la formula che correttamente faceva
riferimento alle specifiche attività elencate nell’art.132 con la formula “un’attività
commerciale” che veniva così richiamata in pieno servizio al fine di indicare
riassuntivamente l’intero complesso delle attività!
segrete” di Mussolini. In quella lettera, il “vecchio rudere” segnalava al Duce il contrasto fra lo stato d’animo
riscontrato in Germania e quello trovato in Italia al suo rientro, in particolare la presenza in Italia di una “falla
morale” da arginare energicamente al fine di evitare conseguenze estreme: di qui l’incitamento a Mussolini a
favore di una ampia azione Governo-Partito per far “ sentire al Paese che non esiste altra alternativa se non la
guerra ad oltranza” (gli stralci della lettera di Asquini sono tratti da ANDRIOLA, Le “carte segrete” di
Mussolini: l’altra faccia dell’Asse, in Nuova Storia Contemporanea, n.2 2003, 21ss, in part. 31, saggio nel
quale sono illustrate per la prima volta le c.d. “carte Alicicco”, ossia le carte che Mussolini aveva con sé al
momento della cattura da parte dei partigiani).
60
In questi termini, in una lettura ex post della conclusione dei lavori della codificazione, ARENA, Nuovi profili
del diritto commerciale, in Diritto e pratica commerciale 1942, 12 ( dall’estratto).
Non pago, peraltro, di questi interventi, già sufficienti per supportare la totale resurrezione
della commercialità61, in un crescendo guidato dalla sua mano sapiente, Asquini seppe
consacrarne addirittura in un titolo la piena riabilitazione: infatti la sezione III che
comprendeva i due soli artt.146 e 147 relativi alla capacità ( del minore, interdetto,
inabilitato ed emancipato), veniva appunto intitolata con la formula “disposizioni particolari
per le imprese commerciali”.
Con questi ritocchi, frutto della sofisticata tecnica di un giurista che aveva assecondato il
corso degli eventi senza perdere di vista l’obiettivo culturale che si era prefisso, relativo alla
conservazione di quel patrimonio scientifico ed accademico costituto appunto dal diritto
commerciale e dalla sua autonomia didattica, Asquini riuscì a porre le premesse di ordine
tecnico perché alla contrapposizione tra imprese agricole e imprese soggette a registrazione
prevista nelle bozze V e VI, venisse sostituita quella tra imprese agricole ed imprese
commerciali, così declassando definitivamente la registrazione a semplice regola della
“commercialità”.
In definitiva, in linea con quanto aveva annunciato con chiarezza nel corso del suo faticoso
impegno nel processo codificatorio, a partire dall’ elaborazione del contestato progetto di
codice di commercio sino alla stesura definitiva del libro V, al di là delle formule
ideologiche e delle vuote simmetrie presenti nel libro V, Asquini orientò con pazienza e
lungimiranza la stesura del libro V, in modo tale che la “materia agricola” e la “materia
commerciale” superassero sostanzialmente indenni il processo di unificazione del codice
civile.
Peraltro, nel lavoro di revisione finale, il recupero anche sul piano formale della “materia
commerciale” si accompagnò con una più flessibile soluzione, questa volta a proposito della
“materia agricola”, atteso che il comma 2° della norma avente ad oggetto l’impresa agricola
recuperò in pieno la formula suggerita dalla confederazione fascista degli agricoltori che
ancorava al criterio della “normalità” la fissazione delle attività agricole per connessione.
In conclusione, per una coincidenza, solo per certi aspetti singolare, la riaffermazione della
distinzione tra materia agricola e materia commerciale nell’ambito del nuovo codice civile,
gelosamente difesa da Asquini in quanto ritenuta indispensabile per continuare a legittimare
l’articolazione del lavoro scientifico e didattico nell’accademia e, in particolare, a dare
fondamenta salde al diritto commerciale, finì con il riflettere anche il concreto dualismo degli
interessi forti presenti nel nostro paese, riconducibili essenzialmente all’agricoltura ed
all’industria: ossia quel dualismo che per molti decenni avrebbe caratterizzato e che in parte
ancora caratterizza la faticosa transizione dell’Italia verso una compiuta modernizzazione
dell’economia.
61
Il recupero del nome stesso “impresa commerciale” che, molti anni dopo lo stesso Asquini non mancò di
evocare proprio a conferma piena del fatto che il codice civile avesse conservato “ nel sistema della disciplina
generale dell’impresa e a fianco dell’impresa agricola, la tradizionale disciplina dell’impresa commerciale” ( si
v. ASQUINI, Dal codice di commercio del 1865 al libro del lavoro del codice civile del 1942, in Riv. dir. comm.
1966, I, 8 ) avrebbe fruttificato immediatamente proprio al fine di rilanciare la questione dell’autonomia del
diritto commerciale: si v. infatti. LA LUMIA, L’autonomia del nuovo diritto delle imprese commerciali, in Riv.
dir. comm, 1942, I, 1ss. Di contro, la dottrina che aveva respinto il sistema fondato sulla distinzione fra diritto
agrario e diritto commerciale e che si era battuta a favore di un sistema che nell’ambito di un unitario diritto
economico distinguesse tra quello della produzione intellettuale quello della produzione agricola, della
produzione industriale, degli scambi commerciali, dei trasporti , delle operazioni bancarie e delle assicurazioni (
così SOPRANO, Il diritto dell’economia corporativa come disciplina autonoma, in Arch. Studi corporativi 1942,
321ss) del tutto vanamente dovette denunciare che la contrapposta tendenza “ si è afferrata disperatamente
all’art.2195 del testo definitivo del codice che sembra far rivivere il concetto giuridico di commercialità per le
attività produttive industriali, bancarie, assicurative e di trasporti, contrapponendole, per certi riguardi, alle altre
attività ( ed imprese economiche) e specialmente a quella agraria” ( così SOPRANO, op. cit. , 325).