PDF - Spaghetti Writers

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ACCELERAZIONI #2
DAVID VALENTINI
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Per anni papà mi ha chiamata la sua Cassiopea. Mamma è stata meno gentile e mi ha sempre
definita una stronza patentata. E Michele… ricordo ancora quando mi sussurrò: «Tu non puoi
discendere da Eva, semmai sei figlia del serpente tentatore.»
Da una vita mi sento dire che mi porto dentro qualcosa di maligno. Non tanto per le cose
che faccio, ché quelle sarebbero anche – parole di Sabrina – “quasi socialmente accettabili”:
secondo loro sono le mie reazioni, soprattutto quelle emotive, a essere, come dire…
Ecco sì: distorte.
Ognuno reagisce a modo suo, ho sempre risposto. Non esistono solo il bianco e il nero.
Questa cosa delle mie reazioni distorte non l’avevo mai capita fino a stasera, finché non ho
aperto lo specchietto sotto l’aletta parasole della macchina per sistemarmi il trucco.
Eppure credevo di star facendo tutto con le migliori intenzioni.
Dove sei?, gli ho scritto mentre Marika ci mostrava il libro di racconti di un tizio americano.
Sabrina stava leggendo ad alta voce la trama sul retro quando la risposta è arrivata, così ho
lasciato i soldi per l’aperitivo, preso telefono, borsa e ombrello e detto loro che avrei raggiunto
Marco al Birromania. Sono rimaste così interdette, Sabrina col libro in mano e Marika con un
pezzo di pizza in bocca, che ho dovuto spiegare che mi ronzava in testa da stamattina il dubbio
che Nina potesse tradirmi. Marco deve sapere, ho aggiunto, promettendo poi che le avrei
raggiunte appena possibile, per un ultimo saluto, al locale dove avrebbero suonato Robi e Sam.
Non potevo partire per Lisbona con questo peso sullo stomaco. Dovevo partire libera.
Birromania è il re dei pub sfigati di San Lorenzo: luci tenui da sfigati, musica rock da sfigati,
giochi da tavolo da sfigati. E ovviamente una marea di sfigati. Normale trovarlo lì, buttato in
un angolo, lo sguardo piantato su un mucchietto di carta ficcato dentro un boccale piccolo.
Quei suoi bei capelli lunghi erano fradici, doveva essersi beccato un sacco di pioggia. In mano
aveva un secondo boccale, questo mezzo pieno di birra rossa.
Dieci minuti, mi ripetevo. Il tempo di avvisarlo e poi avrei raggiunto le altre.
«Ehi» gli ho detto avvicinandomi, ma il frastuono di musica rock e voci ha coperto la mia
voce. «Marco!» ho urlato.
Ha alzato lo sguardo, ci ha messo un secondo per riconoscermi, poi ha fatto una smorfia.
«Oh. Laura.»
«Posso sedermi?»
«Fa’ come ti pare.»
«Eh?»
«Sì, siediti!»
Mi sono seduta davanti a lui. Ho tolto il giaccone pesante e dato una sistemata ai capelli che
si erano gonfiati per l’umidità. Lo sguardo gli è scivolato sulla scollatura, poi è tornato sul
boccale pieno di cartacce. Ha agitato appena quello che teneva in mano e buttato giù un sorso
rapido.
«Come stai, tesoro?»
«Eh?»
Ho sbuffato, cogliendo l’occasione per cacciarmi via un ricciolo dalla fronte. Gli ho sorriso,
mi sono alzata e, facendo il giro del tavolo, ho preso posto al suo fianco. «Ma non c’è un locale
più tranquillo in cui parlare in santa pace?»
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«Fuori piove ancora?»
«Sì.»
«Allora» ha ringhiato, «dovrai farti andar bene questo.»
Gli ho messo su un broncio finto. «Certo che sei proprio antipatico oggi.»
«Lo so. È stata una giornata di merda.»
«Ah, mi spiace. Come mai, tesoro?»
Ha di nuovo agitato il boccale, sembrando incerto su cosa farne, prima di buttare giù un
paio di sorsi decisi. Poi niente.
«Senti…» ho iniziato non sapendo bene come introdurre il discorso, ma quel cafone di un
barista col pizzetto è arrivato a prendere la mia ordinazione.
«Non voglio niente, grazie» gli ho risposto.
«Mi dispiace, ma la consumazione è obbligatoria.»
«Ma io non voglio niente!»
«Le regole del pub non le faccio io.»
«Allora prendo un mojito» e mi sono rivolta verso Marco per afferrargli il braccio.
«Non lo facciamo il mojito qui.»
L’ho guardato attonita. «Lo capisci o no che cercando di avere una conversazione privata
qui?»
«Devi comunque ordinare» ha detto quello, proprio mentre Marco si allontanava dalla mia
presa.
«Senti: portami quello che ti pare, basta che mi lasci in pace.»
Quello ha alzato le spalle e se n’è andato.
«Che cafone, santo cielo! Dicevamo, tesoro?»
«Non chiamarmi tesoro, Laura. E non provare ad abbracciarmi.»
«Ma perché? Che ti ho fatto?»
Marco si è voltato di scatto. Si è scolato il boccale e, pulendosi con la manica della felpa, se
n’è uscito che Anna l’aveva mollato. Gli ho chiesto come mai e se n’è uscito che lei aveva
scoperto tutto.
«Tutto cosa?»
«Tutto.»
«Ma tutto cosa?»
«Laura, ma porco ***, sei stupida o cosa? Tutto, di me e di te. Non so chi cazzo è stato ma
qualcuno gliel’ha detto: mi ha fatto pure leggere un messaggio, però non c’ho capito niente.»
Ah, ho pensato. «Ah.»
«Esatto: “ah”. Cinque anni buttati al cesso per una cazzata. Una. Cristo. Di Cazzata.»
Con tutto quel trambusto neanche mi sono accorta che il barista era tornato con una
Guinness. L’ho guardato senza vederlo mentre mi porgeva lo scontrino e restava in attesa.
Dopo un po’ Marco ha sbattuto una banconota sul tavolo borbottando qualcosa, così quello ha
preso i due boccali vuoti e se li è portati via. Continuavo a chiedermi se Nina potesse essere
stata così stronza.
«Allora?» ha detto Marco leccandosi via la schiuma della Guinness dalle labbra.
«No, è che…»
«Eh?»
Mi sono trovata a mangiucchiarmi un boccolo. «Non me l’aspettavo» ho detto a voce più alta.
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«Neanche io. Neanche io. La gente riesce a tenere in piedi tre o quattro storie parallele e io
resto inculato per un unico, fottuto errore.»
«Mi dispiace» ho detto, ma mentre lo dicevo scoprivo che la mia unica preoccupazione era
che la voce si spargesse. Mi sono ritrovata a fare congetture su ciò che avrebbero detto tutti
quanti.
«Laura: che vuoi da me? Se sai qualcosa di questa storia parla, altrimenti…»
Doveva per forza essere stata Nina. Chi altri? Marika e Sabrina non avrebbero mai…
«Volevo dirti» ho riportato gli occhi su Marco, «che domani parto per sei mesi—»
«Lo so che parti. Erasmus. Me l’hai già detto.»
«Infatti, infatti» ma non mi veniva niente che giustificasse l’urgenza con cui avevo condito
il messaggio di poco prima. «È che mi… piacerebbe passare quest’ultima notte con te.»
«Passare cosa?»
«La notte con te!» ho detto sibilando ad alta voce e lanciando occhiate intorno.
Marco ha fatto una smorfia e poi ha scosso la testa, guardandomi come si guardano i
bambini stupidi.
Ma proprio mentre gli ripetevo quanto fosse importante per me passare insieme
quest’ultima notte, andavo capendo che, ora che s’era lasciato, lui era l’ultima persona con cui
avrei voluto fare alcunché.
E quando ha scansato di nuovo la mia presa, ho sospirato come mai avevo fatto prima. Ero
libera. Libera di godermi la serata, libera di tornare a casa da Michele. Libera di partire per
questi sei mesi, un tempo sufficiente a far sgonfiare qualsiasi eventuale pandemonio.
Avrebbero detto cose malvagie su di me: non m’importava neanche più.
Ma Marco deve aver interpretato altrimenti quel sospiro. Con uno sguardo affranto ha detto
che in fondo lo sapeva che non era colpa mia. Che le cose si fanno in due eccetera e non era
giusto che se la prendesse con me. Che si vedeva che mi sentivo in colpa. Si è addirittura
scusato – non so di cosa, è stato un mormorio appena – e ora voleva solo tornare a casa e
mettersi all’Xbox. Avrebbe tolto non so che foto dal comodino per evitare che il coinquilino gli
facesse il terzo grado.
Mi ha persino chiesto se volevo un passaggio da qualche parte. Gli ho risposto che in effetti
mi serviva uno strappo al Pigneto per andare a vedere il concerto di due amici.
Così ci siamo avviati verso la pioggia, in silenzio, lasciandoci alle spalle il putiferio del pub.
Ho ripreso l’ombrello, l’ho passato a Marco e mi sono aggrappata a lui, già pensando ad altro.
Lui ha abbozzato un sorriso di rassegnazione. «Tuo fratello come sta?»
«Michele sta bene. Lavora, è pure uscito con una» ho bisbigliato fingendo neutralità.
Gli avevo appena chiesto dove avesse lasciato la macchina quando qualcuno dietro di noi
ha detto: «Hai visto che erano loro?»
Ci siamo voltati insieme, io e Marco. E insieme abbiamo riconosciuto la figura enorme di
Stefano. Sembrava ancora più robusto dell’ultima volta. La tizia roscia al suo fianco sarà stata
alta quanto me, però in confronto ai suoi quasi due metri sembrava una nana.
Anch’io sono sempre sembrata una nana vicino a Stefano. Per questo mi faceva paura.
«E avevi proprio ragione, Virgi’» ha urlato attraverso il muro d’acqua. «Marco e la sua
nuova puttana!»
Per questo mi piaceva.
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Questa cosa delle mie reazioni distorte non l’avevo mai capita: ho sempre risposto che ognuno
reagisce a modo suo, che ci sono infinite scale di grigio eccetera.
Ma stasera tutto mi è diventato limpido. Perché sono qui, in macchina, mi sto truccando per
andare al concerto – e non riesco a evitare questo sorriso compiaciuto quando ripenso a quei
due che si gonfiano di botte sotto la pioggia a causa mia.
David Valentini
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