Seneca, vita e opere
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Seneca, vita e opere
LUCIO ANNEO SENECA (Cordova, 5 a.C. - Roma, 65 d.C.) (detto anche SENECA MORALE, SENECA FILOSOFO, SENECA TRAGICO, SENECA IL GIOVANE) Rubens, Busto dello Pseudo-Seneca, prima del 1626 LA VITA: 5 a.C. Nasce a Cordova in Spagna, dove viene a contatto con le idee filo-repubblicane ed anti-imperiali (Cordova si era schierata con Pompeo ai tempi della guerra civile). Giunto a Roma assai presto, riceve un'ottima istruzione retorica e filosofica: tra i suoi maestri egli ricorda Papirio Fabiano della scuola dei Sestii, lo stoico Attalo, il neopitagorico Sozione, da cui apprende abitudini di vita sobrie ed austere, già ereditate dalla madre. Entra a far parte della setta dei Sestii, molto attiva fra il I ed il II sec. d.C., che predica una morale intransigente ed ascetica (esame di coscienza, dieta vegetariana); la persecuzione di Tiberio nei confronti di questa setta lo costringe a fuggire in Egitto. 31-32 d.C. Torna a Roma e diviene senatore. Sotto Caligola (37-41) rischia la condanna a morte. 41 d.C. L'imperatore Claudio lo manda in esilio in Corsica, accusandolo di adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola e nipote di Claudio; qui rimane 8 anni. Torna a Roma grazie ad Agrippina (Minore), che lo vuole come precettore per il figlio Nerone. 54 d.C. Forse coinvolto nella morte per avvelenamento di Claudio, Seneca tenta di riscattarsi agli occhi dei Romani scrivendo il discorso di elogio che Nerone pronuncia in Senato in onore dell'imperatore. Seneca gestisce di fatto il potere, affiancato da Agrippina e dal prefetto del pretorio Burro, per più di 4 anni (54-58 d. C. = "quinquennio felice"). 59 d.C. Agrippina muore per mano dei sicari di Nerone. Seneca scrive un discorso di accusa nei confronti della defunta e lo pronuncia in Senato: reazione indignata di Trasea Peto, leader dell’opposizione stoica al principato, che lascia la seduta. 62 d.C. Muore il prefetto del pretorio Burro, che viene sostituito dal famigerato Tigellino. Nerone scavalca il suo precettore e prende in mano le redini dell'impero, sobillato da Poppea, che nel frattempo è divenuta la sua amante. Seneca, perciò, si ritira a vita privata. Si sposa con la giovanissima Paolina. 65 d.C. Accusato di aver preso parte alla congiura dei Pisoni, ormai inviso a Nerone e al nuovo prefetto del pretorio, riceve da Nerone l'ordine di uccidersi; sceglie la morte del saggio stoico, facendosi aprire le vene (la descrizione della sua morte è riportata da Tacito in Annales XV 62-64). La moglie Paolina vorrebbe seguire la sorte del marito, ma questo le viene impedito dai soldati di Nerone. ELENCO DELLE OPERE: IN PROSA: FILOSOFICHE: Dialogi (10) in 12 libri: 1. De providentia (a Paolino) 2. De constantia sapientis (ad Anneo Sereno) 3. De ira (3 libri) 4. Consolatio ad Marciam 5. De vita beata 6. De otio (ad Anneo Sereno) 7. De tranquillitate animi (ad Anneo Sereno) 8. De brevitate vitae (a Paolino) 9. Consolatio ad Polybium 10. Consolatio ad Helviam Matrem De clementia in 3 libri. De beneficiis in 7 libri. Epistulae morales ad Lucilium: 124 lettere in 20 libri. SCIENTIFICO-NATURALISTICHE: Naturales quaestiones in 7 libri. IN POESIA: TEATRALI: 9 tragedie cothurnatae (= di ambientazione greca): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. Hercules furens Troades Phoenissae Medea Phaedra Oedipus Agamemnon Thyestes Hercules Aetaeus ed una praetexta (= tragedia di ambientazione latina), sicuramente spuria, l'Octavia. MISTE DI PROSA E POESIA: una satira menippea: la Apokolokyntòsis divi Claudii o Ludus de morte Claudii. ANALISI DELLE SINGOLE OPERE: I 10 DIALOGI: così chiamati da Quintiliano, non sono dialoghi in senso stretto, come quelli platonici o ciceroniani (eccezion fatta per il De tranquillitate animi), ma seguono piuttosto la linea della diatriba cinico-stoica (l’autore parla in prima persona ed ha come interlocutore il dedicatario dell’opera o un personaggio fittizio, con un ruolo del tutto secondario). Si assiste dunque in questo caso ad un vero e proprio spostamento semantico del termine dialogus. Consolatio ad Marciam (39): è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, lo storico morto suicida, per consolarla della morte del figlio; Seneca ne fa un'occasione per affrontare il delicato tema del suicidio, che, coerentemente con i princìpi della dottrina stoica, è visto come positivo se motivato da una scelta compiuta razionalmente: la vita non è un bene in assoluto, ma è utile e positiva solo se vissuta in modo decoroso; il suicidio dunque può essere strumento di affermazione della libertà individuale. Modello di questo dialogus è la Consolatio ad se ipsum di Cicerone. De ira in 3 libri (41): in base ai princìpi stoici sommo bene è il lògos, e quindi tutto ciò che non è razionale è male e va evitato. L'ira è scelta di proposito da Seneca in contrapposizione alla tesi aristotelico-peripatetica che vede in essa uno strumento di stimolo all'azione e quindi la valuta in chiave positiva, assumendo che colui che non prova indignazione e non si adira di fronte alle ingiustizie sia in sostanza un ignavo: la sua reazione di fronte al sopruso è quella della passiva inerzia. Per Seneca, ferma restando la necessità morale di indignarsi di fronte alle ingiustizie e di combatterle, l'ira è però inutile e controproducente ai fini della punizione: essa è infatti desiderio di punizione che si esprime in modo sbagliato; la giusta volontà punitiva consiste invece in una lucida decisione maturata "a freddo", razionalmente. Seneca mette infine in guardia sulle circostanze che provocano l'ira (il contatto con persone volgari, il fatto di attribuire importanza a cose non importanti, il fatto di dare troppo ascolto agli altri, la fame, la sete e soprattutto la stanchezza), onde prevenirla. Consolatio ad Helviam Matrem (42-43): è dedicata a sua madre per consolarla della "perdita" del figlio, costretto in esilio in Corsica. Utilizza la topica consueta della consolatio ed espone le argomentazioni di consolazione tipiche del saggio stoico (quasi tutte basate sulla ricerca dell'autàrkeia = autosufficienza). Consolatio ad Polybium (42-43): dedicata a Polibio, potente liberto e consigliere di Claudio, per consolarlo della morte di un fratello. Si tratta di una delle opere più imbarazzanti di Seneca: l'intento è evidentemente e a tratti spudoratamente adulatorio nei confronti del princeps (lo stesso di cui, di lì a poco, descriverà la morte con toni beffardi), nel tentativo di convincerlo a richiamarlo in Roma dall'esilio forzato. De vita beata (58): si parte dalla considerazione che la felicità, considerata come il sommo bene dalle filosofie ellenistiche, si ottiene, secondo gli epicurei, attraverso la hedonè, il piacere, ed il rifiuto della sofferenza: quest'ultima è infatti identificata con il male. Secondo gli stoici, invece, e quindi secondo Seneca, il dolore non è un male, perché nella prospettiva monistica tipica dello stoicismo non esiste altro che il Logos, e il Logos è sommo bene. La sofferenza è anzi indispensabile all'uomo per crescere. Seneca identifica il sommo bene con la virtus, ossia la disciplina che la razionalità umana impone alla componente emotiva. Il male, che per gli stoici è assenza di bene, consiste appunto nell'assecondare le pulsioni irrazionali. Seneca, esponente del Terzo Stoicismo, in questo è perfettamente coerente con i princìpi della dottrina stoica. Egli però a questo punto, rispondendo ad alcune critiche che gli vengono mosse, afferma di essere conscio che le sue azioni non sono sempre coerenti con il suo pensiero: si giustifica dicendo che il saggio stoico non De De De De De incarna la verità, ma la indica a se stesso ed agli altri (da cui il celebre motto: "fate quel che dico, non fate quel che faccio"). otio (62): in quest’opera tarda, posteriore al ritiro a vita privata, Seneca affronta la problematica relativa all’otium (= vita contemplativa, contrapposta al negotium = vita attiva) e per la prima volta prende le distanze dalla rigorosa etica stoica: quando l'impegno politico diviene impossibile o richiede compromessi troppo squallidi, è meglio ripiegare su altre attività, quali filosofia e letteratura (posizione, questa, già di Sallustio). Senza dubbio il saggio stoico deve in prima istanza cercare di essere utile alla collettività; ma se ciò gli è impedito, lo sia almeno a se stesso e alla cerchia dei suoi amici. providentia (?): in quest'opera, la cui datazione è incerta, Seneca non intende dimostrare l'esistenza di Dio e della Provvidenza, di cui è già convinto; l'interrogativo che si pone, e a cui cerca di dare risposta, è piuttosto come possa un Dio provvidenziale ammettere l'esistenza del male. Seneca riprende qui la tematica della sofferenza, che non è male, ma è una sorta di banco di prova su cui la divinità saggia la tempra umana; male è per Seneca contrastare la volontà divina (il che è peraltro impossibile, essendo tutto predeterminato: è questa una delle più tipiche aporìe logiche dello stoicismo). constantia sapientis (42? 62?): Seneca vi espone nuovamente la tesi stoica dell'imperturbabilità del saggio; il sapiente non può subire offesa perché è in possesso dell’unico vero bene, che dipende solo da lui: la serenità interiore. tranquillitate animi (?): sappiamo per certo che questo dialogo è posteriore al De constantia sapientis; è l'unico in forma effettivamente dialogica. Tratta della serenità dell'anima. Il destinatario, Anneo Sereno, è introdotto a parlare per chiedere aiuto a Seneca in un momento di particolare turbamento psicologico. Come si può raggiungere la serenità? Secondo Seneca, non certo cambiando luogo o viaggiando di continuo ("ovunque tu vada ti porti dietro te stesso"), bensì sforzandosi di bene operare, vivendo in modo frugale, frequentando buone compagnie, accettando la necessità della sofferenza e della morte. brevitate vitae (42? 62?): la vita dell'uomo non è mai troppo breve se vissuta intensamente. Non in quantità, ma in qualità si misura il valore della vita umana ("longa est vita si plena"). L'uomo la considera breve perché disperde il bene più prezioso, il tempo, in attività inutili e inconcludenti, futili tempeste passionali e presunti "doveri" sociali che lo assorbono quasi per intero. E alla fine, il tempo che resta per vivere veramente, cioè per capire chi siamo e che ci stiamo a fare al mondo, è davvero troppo poco: ma la colpa è tutta e solo nostra, non della natura. I TRATTATI: De clementia: risale ai primi anni del regno di Nerone ed il suo scopo è l'educazione del giovane principe, al quale l'opera è dedicata. Non è un vero e proprio trattato di politica, ma affronta inevitabilmente temi politici. La posizione di Seneca nei confronti della monarchia denota una lucida coscienza politica: non hanno ormai più senso le nostalgie repubblicane (e con esse l'opposizione stoica al principato): Seneca accetta dunque la forma istituzionale del principato (che peraltro è specchio dell’ordinamento cosmico: un unico Dio, un unico princeps); ciò che contesta è la sua degenerazione e l'abuso di essa. Per essere una figura positiva, il princeps dev’essere come un padre per i suoi sudditi: posizione che si può ricondurre alla definizione di paternalismo illuminato (simile a quello dei Tolomei in Egitto) e che non manca di suscitare un'inevitabile obiezione: in questo modello politico non è previsto - né può esserlo - alcun correttivo istituzionale per porre rimedio ad eventuali abusi di potere da parte del princeps. De beneficiis (62-64): ci mostra un Seneca ormai disincantato e deluso, che ha visto fallire in pieno il suo programma pedagogico e politico. Seneca si rivolge perciò ora, con gli stessi ideali di fondo, ad un nuovo pubblico: la classe abbiente, la sola che possa opporre un rimedio alla povertà e alla miseria delle masse, se educata alla generosità e alla benevolenza. E' la stessa ottica paternalistica in cui si inquadrava il suo programma politico, e possiede già in nuce gli elementi della non lontana dottrina cristiana. Il trattato è incentrato sul significato del beneficio (che cosa significa "fare del bene"? Siamo sicuri di saperlo? Quante volte, per fare del bene, facciamo in realtà il male del prossimo e di noi stessi?) e sulla disposizione d’animo di chi lo fa e di chi lo riceve. Naturales quaestiones In 7 libri. Per la datazione ci si basa sul riferimento, fatto da Seneca, ad una cometa apparsa nel 60 d. C. e ad un terremoto che danneggiò Pompei nel 62. Rispondono anch'esse alla necessità di ripiegare su attività alternative all'impegno politico diretto. Sono di fatto un tentativo di collegare scienza e morale, evidente già dalla struttura delle singole quaestiones, ciascuna introdotta da un problema di carattere etico e conclusa da una specie di "morale" o comunque dalle conseguenze etiche della quaestio trattata. L’opera ha come argomento la scienza della terra, la fisica e i fenomeni atmosferici. Solo con lo studio dei fenomeni fisici si può vincere la paura e l’ignoranza: in questo senso, sostiene Seneca, la fisica è pertinente alla morale. L'opera ha carattere dossografico (in essa vengono cioè riportate le opinioni di filosofi greci e latini). Si deplora, fra l'altro, il comportamento di chi mette le scoperte scientifiche al servizio dei propri vizi. Seneca conclude l’opera esprimendo la certezza che le scoperte scientifiche continueranno e che le generazioni future conosceranno cose ora impensabili. L'EPISTOLARIO: Epistulae morales ad Lucilium: sono 124 lettere, divise in 20 libri, che Seneca scrisse all’amico Lucilio, per lo più dopo il 62. Seneca non è più un personaggio pubblico e si esprime in questa sede con un linguaggio più discorsivo e colloquiale di quello a cui ci aveva abituati; nonostante si tratti a tutti gli effetti di un epistolario privato, avvertiamo comunque che Seneca prevedeva una futura pubblicazione delle sue lettere. I temi trattati sono molteplici e vari e già presenti in alcuni Dialogi, ma due sono i motivi ricorrenti: la figura del saggio stoico e la morte. La filosofia senecana trova in questo epistolario un'esposizione pressoché completa, anche se non sistematica (l'asistematicità è un "difetto" riconosciuto da molti al pensiero senecano: la critica è però facilmente contestabile, se si considera che una filosofia focalizzata sull'etica, come tipico della Terza Stoà, non necessita di sistematicità in senso classico). LE TRAGEDIE: Delle tragedie del repertorio senecano che possediamo, la praetexta spuria (l'Octavia) è forse la più celebre: essa mette in scena la triste vicenda della giovanissima Ottavia, sposa di Nerone, sacrificata per permettere le nozze del princeps con Poppea. Sicuramente falsa, in quanto troppo... "profetica" (allude alla morte di Nerone, avvenuta dopo quella di Seneca!), e poi per la comparsa dello stesso Seneca fra i personaggi, è tuttavia un'opera molto interessante, il cui vero autore potrebbe essere Anneo Cornuto, liberto di Seneca e celebre maestro di filosofia. Le 9 cothurnatae in nostro possesso sono tratte da opere dei tragici greci a noi note, eccezion fatta per il Thyestes. Le tragedie senecane presentano alcuni interessanti problemi interpretativi, a cominciare dalla cronologia della composizione, legata ad un quesito di base: sono state composte per fini puramente artistici o con obiettivi politici? Se infatti rientrano nel progetto pedagogico di educazione del princeps, sono databili ai primi anni del principato di Nerone; se invece si tratta di un ripiego artistico del Seneca deluso dalla politica, sono databili agli ultimi anni della sua vita. E ancora: erano destinate alla rappresentazione o alla recitatio (= lettura nelle sale di recitazione)? L'uccisione in scena dei figli di Medea nell'omonima tragedia (quando sappiamo che, per questioni educative, sin dai primi tragici greci gli omicidi non potevano avvenire in scena) e lo stile tipico della recitatio inducono buona parte della critica a propendere per la seconda ipotesi. Infine è da sottolineare che il tragico in Seneca non rispetta lo spirito dei modelli greci: è un tragico, il suo, ideologico piuttosto che tematico: la realtà esistenziale è assolutamente negativa, e nell'opera compaiono come personaggi positivi solo e sempre i minori, i subalterni, destinati comunque a rimanere inascoltati. L'aspetto che più colpisce dei personaggi di Seneca è che "si parlano addosso", ovvero parlano, ma non si ascoltano: è un dialogo fra sordi, che trasmette allo spettatore un desolante senso di incomunicabilità. Lo stile della tragedia senecana è fortemente influenzato dalla retorica asiana del "primo tipo" (= stile gonfio, barocco, caratterizzato da un evidente gusto per il macabro); è uno stile non dissimile da quello del Bellum civile di Lucano. Eccone il contenuto e i modelli greci in estrema sintesi: Hercules Furens: Ercole impazzito uccide moglie e figli; poi, rinsavito, va ad Atene (modello è l' "Eracle" di Euripide). Troades: descrive il dramma delle donne troiane destinate alla schiavitù presso i capi greci (modello sono le "Troiane" di Euripide). Phoenissae: tratta della rivalità dei figli di Edipo, Eteocle e Polinice, per la successione al trono (modello sono le "Fenicie" di Euripide). Medea: Medea, per vendicarsi dell’abbandono da parte di Giasone, uccide i figli che ha avuto da lui (modello è la "Medea" di Euripide). Phaedra: tratta dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito: la donna causa involontariamente la morte di lui e poi si uccide. La tragedia è di estremo interesse documentario perché non rispecchia affatto la trama dell’ "Ippolito coronato" di Euripide, che dovrebbe esserne il modello. La critica suppone pertanto che il prototipo di questa tragedia fosse il perduto "Ippolito velato", dramma giudicato troppo scandaloso dal pubblico ateniese e pertanto "rifatto" da Euripide l’anno successivo (428 a.C.) con il titolo di "Ippolito coronato". Se così fosse, la tragedia senecana sarebbe doppiamente importante, proprio perché ci consentirebbe di ricostruire la trama del "velato". Oedipus: Edipo scopre di essere l’uccisore del padre Laio e di avere sposato la madre Giocasta (modello è l' "Edipo re" di Sofocle). Agamemnon: vi è rappresentato l’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra (modello è l' "Agamennone" di Eschilo). Thyestes: è la più celebre e truculenta fra le tragedie senecane: mette in scena l’atroce misfatto di Atreo, che imbandisce a Tieste le carni dei suoi figli. Hercules Oetaeus: Ercole è ucciso dalla tunica intrisa del sangue velenoso del centauro Nesso, inviatagli dalla moglie Deianira con l’intenzione di riportarlo al suo amore (modello sono le "Trachinie" di Sofocle). SATIRA MENIPPEA: L’ultima opera del corpus senecano, prosimetrica (= mista di prosa e versi), com’è tipico della satira menippea, è la Apokolokyntòsis divi Claudii (già nel titolo parodistica: Apokolokyntòsis sta per Apotheòsis). Il significato del titolo (Apokolokyntòsis = "inzuccatura", "trasformazione in zucca"?) è controverso: secondo una diffusa ipotesi, esso significherebbe che alla sua morte Claudio, invece di essere assunto fra gli dèi, è stato assunto... fra le zucche (o gli zucchini); nulla di simile accade però nell’opera. Altri traducono "Infinocchiatura del divino Claudio", essendo per lui l'apoteosi una vera fregatura (egli non sarà affatto divinizzato)! La critica riconosce piuttosto unanimemente che l'Apokolokyntòsis, per essere una satira, è povera di vis polemica: più che un'invettiva sembra un (pesante) scherzo, un ludus. E forse, a giudicare dal sottotitolo (Ludus de morte Claudii), proprio questo voleva essere. Contenuto: Dopo che Mercurio riesce ad ottenere che Claudio esali finalmente l’anima, cessando così di sembrare vivo (sic!), si presenta a Giove un essere mostruoso, zoppo e che parla in modo incoerente. Viene creduto un mostro e sottoposto all’attenzione di Ercole, convinto di dover affrontare la sua tredicesima fatica. Dopo aver interrogato Claudio, Ercole si esprime sfavorevolmente sul suo conto, ma Giove, nonostante tutto, sarebbe dell’idea di divinizzarlo. Si avanza allora Augusto, che elenca tutte le malefatte di Claudio, per cui si decide di spedirlo agli Inferi. Accompagnato da Mercurio, passando per la via Sacra, Claudio assiste al suo funerale e si rende finalmente conto di essere morto. Nell’Ade viene accolto da tutte le sue vittime e viene condannato a giocare ai dadi con un bossolo senza fondo. Caligola lo vorrebbe come suo schiavo, ma Claudio viene invece assegnato al suo liberto Menandro. Il tono è evidentemente, e pesantemente, parodistico: vengono messe alla berlina le fissazioni maniacali di Claudio, la sua infermità fisica (era probabilmente spastico) e la sua presunta stupidità. LA LINGUA E LO STILE: Dal punto di vista stilistico Seneca costituisce una vera rivoluzione nella prosa latina. La sua prosa è caratterizzata dalla inconcinnitas, che si riflette in periodi asimmetrici, con una forte componente paratattica, frasi brevi, incalzanti e ricche di sentenze, scarne ed essenziali. Notevole il ricorso a figure retoriche quali la metafora e l’anafora (quest’ultima rende più incalzante il periodare). Notevole anche la coordinazione per asindeto e l’abbondanza di ellissi del verbo, ma anche di altri termini, e la variatio dei tempi e dei modi verbali. Frequenti anche i neologismi. Si tratta di uno stile asiano: non però quello roboante e magniloquente dell’epoca di Cicerone, presente ad esempio nelle tragedie senecane, bensì un asianesimo più raffinato e più semplice, il cosiddetto asianesimo imperiale (o "del secondo tipo"), più adatto all’introspezione psicologica. Lo scrittore mira a colpire le coscienze con parole che siano lo specchio immediato del pensiero, per provocare nel lettore una reazione che susciti la riflessione.