La morte del saggio

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La morte del saggio
Socrate:
E’ narrata nel Fedone di Platone. Avviene dopo una condanna ingiusta (processo politico
che lo accusava di essere un empio e ateo corruttore della giovinezza) Però non sfuggirà alla sua
condanna poiché è meglio subire un ingiustizia piuttosto che farla e in più perché non ha paura della
morte, che è un andare in un luogo migliore. E’ sereno davanti alla morte grazie alla ragione e alla
filosofia. E’ una morte esemplare ed eroica. Platone la narra senza sofferenza e sangue, distaccandosi
dal filone epico. Socrate morirà dopo aver ingeritò volontariamente la cicuta.
Epicuro:
E’ descritta nella “lettera a Idomeneo” tradotta sia da Seneca che da Cicerone. I due
poeti latini ne danno però una interpretazione diversa: Cicerone (Scettico e quindi contrario alla
filosofia epicurea) specula, con anche un forte utilizzo dell’ironia, su i dolori patiti dal filosofo greco sul
letto di morte. Per Cicerone è di fondamentale importanza la concezione di una vita al di là della morte,
mentre per Epicuro non è possibile nemmeno pensarla visto che assistiamo alla disgregazione sia del
corpo che dell’anima. Al contrario Seneca (sostenitore della filosofia stoica) ammira Epicuro che
apostrofa così il giorno della sua morte: “l’ultimo…ma anche il più felice”. Epicuro morirà dopo aver
bevuto del vino in una tinozza di bronzo ricordando ai suoi discepoli di non dimenticare il suo pensiero.
Catone Uticense:
Il suo suicidio è considerato l’archetipo del “suicidio come estrema
rivendicazione della propria libertà”, topos attuale nella prima età imperiale. Catone si suicidò per
evitare di finire sotto il comando di Cesare. Passò le ultime ora a leggere il fedone di Platone e poi si
trafisse con la sua spada. Per lui la morte non era un male, ma anzi uno strumento di liberazione
Seneca:
Suicidatosi per evitare le ire di Nerone e per non perdere, da buono stoico, la sua
proverbiale integrità morale. Sul punto di morte dice agli amici che gli ha lasciato la cosa più cara:
ovvero l’esempio della sua vita. Decise di recidersi le vene prima del braccio e poi delle gambe, ma per la
vecchiaia il sangue non fuoriusciva e allora chiese ai suoi servi di somministrarli la cicuta. Ma neanche
questo rimedio lo aiutò nel suicidio, e così decise di entrare in una vasca colma di acqua bollente e morì
probabilmente per soffocamento. Naturalmente neanche in vista della morte mancò la sua eloquenza:
infatti è narrato che nelle sue lunghe ore di agonia Seneca detto ai suoi servi morali sulla vita.
Cfr morte di Trasea Peto (esorta gli amici ad allontanarsi e la moglie a restare in vita)
Petronio:
Anche lui suicidatosi sotto l’era di Nerone. Assunto dallo stesso imperatore come
maestro di eleganza e raffinatezza, fece scatenare l’invidia del prefetto Tigellino che lo accusò di far
parte della congiura dei Pisoni. Anche lui si suicidò tagliandosi le vene, però le richiuse e le riaprì a
piacimento giocando con la morte. Al contrario di Seneca e forse anche per metterlo in ridicolo, morì
scherzando con gli amici, senza filosofeggiare. Mangiò e poi si mise a letto per far sembrare la morte
normale. Prima di morire elencò tutte le amanti e tutte le perversioni sessuali di Nerone
I suicidi di Seneca e Petronio sono entrambi contenuti negli “Annales” di Tacito. Quest’ultimo fa
trasparire dalle sue parole una preferenza per la morte ironica di Petronio piuttosto che quella seriosa
di Seneca, che critica anche per l’eccesiva eloquenza mostrata davanti la morte.
Marco Aurelio:
Ammalatosi gravemente durante una campagna prima di morire chiese al figlio
Commodo di continuare la guerra: ma questo gli rispose che aveva più a cuore la sua salute personale
che la sorte dello stato. Anche lui da buono stoico disprezzando la morte chiese ai suoi amici di non
interessarsi e disperarsi per la sua morte, ma piuttosto di concentrarsi sui pericoli che correva lo
stato. Per accellelare la morte si astenne del cibo. Prima di morire salutò il figlio (che fece però uscire
subito dalla stanza per evitare di contagiarlo) e si coprì il viso con un velo.
Giuliano:
La sua morte è narrata da Ammiano Marcellino nelle “rerum gestarum”. Si caratterizza
per la morte da eroe: viene trafitto da una lancia mentre nel mezzo della battaglia contro i persiani
cerca di ridare vigore alle sue truppe prese alle spalle. Nonostante la grave ferita volle subito ritornare
a combattere, non dimostrandosi preoccupato per la sua sorte ma per quella dei suoi uomini. La sua
morte però è anche la tipica del filosofo: infatti Ammiano nel narrarla ricalca quella di Socrate e quella
di Seneca: è sereno perché è cosciente del fatto che l’anima è più felice del corpo. Rivela poi che era a
conoscenza della sua fine, ed è molto contento perché è gloriosa. Discute con dei filosofi sulla nobiltà
d’animo e quando sentì la ferita riaprirsi bevve dell’acqua fredda e spirò.