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donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2012 numero 7
La libertà del perdono
Dio, il prossimo e se stessi. Se c’è una cosa di cui abbiamo tutti
assolutamente bisogno nel cammino quotidiano, è il perdono. Il perdono
di Dio, il perdono del prossimo, il perdono di noi stessi. Sonno
ristoratore, miele rigenerante: quando il perdono e il suo desiderio sono
autentici, immensi sono gli effetti su chi lo chiede e su chi lo dà.
Domandarlo non è facile. Come scrive Paul Auster, chiedere perdono è
«una prova di delicato equilibrio tra la durezza dell’orgoglio e lo strazio
del rimorso» (Follie di Brooklyn). E non è facile anche perché, un passo
prima, è complicato capire di averne bisogno. L’autoassoluzione — so che
mi sono comportata male, ma avevo le mie buone ragioni e in fondo non
è colpa mia — è, forse, una delle tentazioni più attuali. Abbiamo perso il
senso del confronto, la capacità di vedere il male fatto, di assumerci le
nostre responsabilità. Assolvendoci di continuo, ancorandoci alla
superficie dell’errore commesso, restiamo nell’infantilismo. Invece è ciò
che v’è dietro il male fatto quel che avrebbe veramente bisogno di essere
guardato e convertito.
Ma il perdono salva anche chi lo dà. Per non soccombere sotto i colpi del
dolore e dell’ingiustizia. Se l’odio — comprensibile e terribilmente
umano — diventa una corazza lenitiva nell’immediato, goccia dopo
goccia però si trasforma in un veleno capace di corroderci. Di
trascinare via, come implacabile torrente, la nostra umanità.
Solo il perdono ci restituisce la libertà e, con la libertà, la
vita.
Deve molto al cristianesimo, il perdono. Nella civiltà
greca, dinnanzi al torto del carnefice,
l’imperativo interiore era la vendetta. E se è
vero che già un’evoluzione vi era stata
(superando la legge del taglione, si
era passati dalla vendetta privata a
quella gestita dalla polis), il passo
decisivo però ancora mancava. Così,
nella sofferta decisione dell’Oreste di
Euripide, il secondogenito di
Agamennone non vorrebbe, ma sa che la
vendetta è il suo dovere di figlio maschio. E
non si sottrae.
Ma poi, in una stalla, un altro Figlio è venuto al
mondo, rispondendo a una chiamata di ben altra natura.
È al perdono nelle sue declinazioni cristiane di ieri e di oggi
che dedichiamo questo numero del nostro inserto. Perché di
perdono, si nasce. E di perdono, si vive. (g.g.)
Restituire un’anima ai carnefici
La storia di Maïti Girtanner, la donna che abbracciò il suo persecutore
di SYLVIE BARNAY
a
testimonianza
di
Maïti
Girtanner è centrata sull’orrore
che non si può raccontare.
Negli anni 1939-1945 questo
orrore è consistito nel distruggere l’uomo e nello spezzare la resistenza
civile quando questa si è mostrata in grado di resistere. «Laddove si fa violenza
all’uomo — scrive Primo Levi in I sommersi
e i salvati — la si fa anche alla lingua».
La negazione del senso delle parole è in
effetti al centro stesso del processo di distruzione della persona umana messo in
atto dal sistema nazista: distruzione del
linguaggio, distruzione del suo significato,
distruzione dell’uomo fatto a immagine di
L
donne chiesa mondo
La mia fede cristiana mi invitava a rivolgere
a ogni uomo
non lo sguardo degli altri
Ma lo sguardo di Dio stesso
Dio. Davanti alla parola volutamente ridotta al nulla, la forza di quella giovanissima donna che era nel 1943 Maïti Girtanner è di proclamarla viva. Il suo verbo è
anche quello che si è incarnato in lei fin
dall’infanzia: il Verbo di Dio del cristianesimo. È questo stesso Verbo che lei parla
ai suoi compagni di sventura nell’autunno
del 1943, quando viene arrestata dalla
Gestapo e quando tutti si preparano a
morire: un Verbo che proclama la vita più
forte della morte. È questo Verbo che la
ispira quando, nel 1984, incontra l’uomo
che è stato un tempo il suo aguzzino, che
ha appena bussato alla sua porta, contro
ogni aspettativa, quarant’anni dopo, chiedendole di parlare della morte. Colpito da
un tumore, l’ex nazista sa in effetti che la
sua morte è inevitabile e ne ha paura dal
momento che i medici gli hanno
annunciato che gli restano solo sei mesi di
vita.
Nel 1940 Maïti ha diciott’anni. Ha allora davanti a sé una carriera di pianista
fuori dal comune. Nata in una famiglia di
apprezzati musicisti, aveva dato il suo primo concerto all’età di nove anni: «Già da
bambina sapevo che la mia via era tracciata: sarei stata pianista, la musica sarebbe
stata la mia vita» (Même les bourreaux ont
une âme, Paris, CLD Ėditions, 2006, p. 29).
La tradizione familiare ha sempre alimentato la convinzione del necessario rispetto
tra i popoli. La famiglia, cattolica, aveva
molti amici, fra i quali alcuni tedeschi.
Anche quando il nemico da abbattere
diviene la Germania nazista, la futura partigiana non sbaglia il bersaglio: si tratta di
resistere all’invasore, non si tratta di
detestare i “crucchi”. «La mia fede
cristiana m’invitava a rivolgere a ogni uomo non lo sguardo degli altri, ma lo
sguardo che Dio stesso gli rivolgeva», dirà
(p. 37). Quest’ampiezza di vedute la caratterizza fin dall’infanzia e non l’abbandonerà mai, neanche nei giorni dell’inferno.
La giovane donna non decide di partecipare alla Resistenza. Sono le circostanze
che fanno nascere in lei il bisogno di restare in piedi di fronte al male. La casa di
famiglia, luogo di gioiose fughe estive per
la liceale che per il resto dell’anno abitava
a Saint-Germain-en-Laye, si trova sul limitare della linea di demarcazione fissata subito dopo l’armistizio firmato nel paese di
Bones, vicino Poitiers, quando l’arrivo dei
tedeschi il 22 giugno 1940 ha avuto come
conseguenza la divisione del paese in due,
da una parte e dall’altra del ponte. Da un
lato la parte libera, dall’altro la zona occupata. Da quel momento l’edificio assume
una posizione strategica visto che il suo
giardino fiancheggia il ponte; è l’ultima
casa prima della zona libera, nel punto
dell’unico attraversamento possibile del
fiume Vienne. I tedeschi vogliono
occuparne una parte. Così il primo atto di
resistenza di Maïti Girtanner è di segnare
il proprio territorio con la parola: «No,
sono svizzera, qui non si entra» (p. 60).
La giovane donna, che usa la sua
nazionalità svizzera per ostentare una neutralità di principio, parla correntemente il
tedesco.
La lingua è la sua forza, il mezzo per
creare un legame da pari a pari con gli occupanti, i quali vi vedono anche un mezzo
per semplificare la comunicazione con la
popolazione locale. La lingua le permette
di guadagnare rapidamente terreno, intavolando abili trattative con i tedeschi. Il
colpo recato dalla creazione lampo della
linea di demarcazione, linea resa in poche
ore quasi invalicabile, esigeva di trovare
rapide soluzioni. In maniera molto empirica, le azioni di Maïti Girtanner corrispondevano alle sue parole. Le occorreva valicare ciò che i tedeschi avevano reso invalicabile, al fine di fare fronte prima di tutto
ai bisogni più urgenti: approvvigionare il
paese, trasmettere le notizie, trovare soluzioni volta per volta, svolgendo il ruolo
d’interprete o di intermediaria. L’aria da
ragazzina della giovane dai lunghi capelli
ricci non desta sospetti: la sua giovane età
è garanzia d’innocenza e il suo fluente tedesco garanzia di fiducia. A poco a poco
Maïti Girtanner funge da “cassetta postale” per la Resistenza entrata in contatto
con lei. Fa passare messaggi, denaro e documenti. Nell’estate del 1941 sono due uomini — due ufficiali francesi — a contattarla per chiederle di superare la linea. Con
astuzia e abilità, in fondo a un rimorchio
o a una barca, farà così passare più di un
centinaio di persone nella zona libera, fra
Nell’autunno 1943,
a 21 anni, la
promettente
pianista cattolica
Maïti Girtanner
viene arrestata dalla
Gestapo. Condotta
in un centro di
detenzione per i
membri della
Resistenza francese,
viene mutilata da
un giovane medico
tedesco. Non solo
non potrà mai più
suonare, ma per il
resto della sua vita
— oggi ha
novant’anni —
soffrirà senza posa
per quelle
mutilazioni. Nel
1984 l’aguzzino
bussa alla sua
porta: i medici gli
hanno dato sei
mesi di vita e lui
vuole parlare con
lei della morte.
Maïti ha raccontato
la sua storia in
Même les bourreaux
ont une âme (Paris,
CLD Éditions,
2006).
con il solo nome: Leo. Quest’ultimo colpisce i suoi centri nervosi, uccide le dita, fa
morire nella musicista la virtuosa. Maïti
Girtanner non potrà mai più suonare.
Il resto della sua vita — oggi ha novant’anni — la vedrà soffrire senza posa
per le mutilazioni nervose che le sono state inflitte. Mentre il corpo torturato cede,
rendendo praticamente impossibile un
progetto di trasmissione dell’esperienza, la
memoria tenta allora di appropriarsi di un
testo fondatore della cultura nella quale
tale trasmissione può avvenire. L’ex
partigiana trova questo testo nel Vangelo.
La Parola di Dio è così allo stesso tempo
garante dell’esperienza e modo simbolico
di restituzione della verità. Da essa Maïti
Girtanner attinge la forza per trasmettere
quella che fu una realtà dell’annientamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Allora il racconto della Passione e quello della vita di Maïti Girtanner s’illuminano a vicenda. Il Vangelo della Passione
racconta la sua stessa passione. Esso testimonia, versetto dopo versetto, la sua partecipazione nella propria carne a ciò che
salva l’uomo dall’uomo: «Completo nella
mia carne quello che manca ai patimenti
di Cristo, a favore del suo corpo che è la
Chiesa» (Colossesi 1, 24). L’esperienza del
perdono s’inserisce profondamente in questa partecipazione. «Fin dall’inizio — scrive Maïti Girtanner — volevo perdonarlo;
pregavo per lui; lo portavo dentro di me»
(p. 201). Quando Leo, morente, va a trovarla, cerca il suo perdono: «invece di sa-
le quali alcuni bambini ebrei. La naturalezza sarà la sua strategia.
Nel febbraio 1943, quando la linea di
demarcazione viene ufficialmente soppressa, Maïti Girtanner si trasferisce a Parigi,
a villa Molitor. Qui diviene istitutrice di
due bambine della famiglia de Beaumont,
mentre le sue attività nelle file della Resistenza subiscono un’altra svolta. Una di
questa attività consiste nell’occuparsi della
vita nascosta dei maestri di musica di origine ebraica a cui viene vietato l’insegnamento dopo il voto delle leggi di Vichy;
un’altra nel fornire falsi documenti a chi
ne ha bisogno; un’altra ancora nell’aiutare
a mettere in piedi l’esercito di liberazione
francese, e così via. Attraverso la rete del
Conservatorio di Parigi, la giovane decide
di utilizzare anche il suo talento di musicista già rinomata. Invitata a suonare davanti ad alcuni ufficiali dell’esercito tedesco all’Hotel Majestic, chiede in cambio, e
non senza sfrontatezza, la liberazione di
alcuni compagni musicisti. A primavera,
viene a sapere della creazione del Consiglio nazioFin dall’inizio volevo perdonarlo
nale della Resistenza. Continua ad attraversare Parigi
Pregavo per lui
in lungo e in largo, senza
lo portavo dentro di me
venir disturbata e senza
risparmiarsi.
È alla luce del Vangelo della Passione lutarci stringendoci la mano, gli tendo le
secondo san Marco che Maïti Girtanner braccia e lo stringo. In quel momento, lui
rilegge gli eventi che fanno precipitare la mi chiede perdono».
Maïti Girtanner sa subito con certezza
sua vita verso una sorta di morte, dopo il
suo inatteso arresto nell’ottobre 1943. Con- di aver veramente perdonato; perdono per
dotta in un centro di detenzione per i cui ha pregato a lungo, perdono chiesto
membri della Resistenza arrestati a Hen- passo dopo passo per tutti quegli anni. Sa
daye, viene orribilmente mutilata da un ormai che tutti e due parlano la stessa lingiovane medico tedesco che lei chiama gua viva che è quella di Dio.
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Accanto: Tamara De Lempicka,
«Il velo verde» (1924)
Sotto: Simon Vouet,
«Maria Maddalena» (1614-1615)
L’umiliazione quotidiana del totalitarismo
Il romanzo
La notte dell’oblio
L’ultimo libro di Lia Levi, La notte
dell’oblio (Edizioni e/o, 2012) ha al suo
centro — come preannuncia il titolo —
l’oblio: l’oblio di una donna ebrea, Elsa,
che preferisce non sapere con precisione
quello che è successo al marito, morto ad
Auschwitz, e negarsi l’evidente
colpevolezza di chi lo ha denunciato, per
poter guardare avanti e crescere le sue
figlie nella normalità. Non è perdono, ma
fuga, rimozione. E la rimozione funziona,
in un’Italia in cui nessuno intorno a lei
vuole ricordare, almeno finché la giovane
figlia non si innamora del figlio del
delatore, e il dolore rimosso sommerge e
travolge la famiglia tutta. Il tema di
queste pagine avvincenti è quello
dell’oblio, non del perdono, che non può
costruirsi sulla volontà di non vedere ma
solo sulla consapevolezza della colpa da
parte tanto dell’offeso come del colpevole.
Ma chi è qui più colpevole, chi ha tradito
o chi ha preferito non vedere? E ci sarà
salvezza per i due giovani del tutto
innocenti? In un oblio che tutto
distrugge, il perdono resta sullo sfondo
come una possibilità remota, un esile filo
di speranza per il futuro. (anna foa)
Il riscatto di Ružena Vacková, Komunella Markman e Milena Semiz
di MARTA DELL’ASTA
i sono tante vittime del totalitarismo a cui nessuno mai dedicherà
un monumento perché hanno subito la violenza senza arrivare a
morire, eppure hanno sofferto
un’umiliazione devastante e quotidiana. Da
questo punto di vista l’esperienza del totalitarismo offre una gamma infinita di vite spezzate fisicamente e moralmente, ma la cosa sorprendente è che tra questi milioni di vittime
inconsapevoli si trova un gran numero di «re-
C
Sono tre donne
che hanno vissuto tempi terribili
soffrendo privazioni morali e fisiche
Ma che sono rimaste fedeli a se stesse
con coraggio e perfino con letizia
sistenti», persone che in vario grado e in vario
modo non si sono lasciate schiacciare dal potere né dal ricatto della mentalità comune.
Che hanno saputo superare il rancore per trasformare in perdono e ricchezza la loro sventura.
Queste figure sono un tesoro in gran parte
ancora da scoprire. Decenni dopo la caduta del
regime sovietico ci sono
testimonianze di dignità
umana che ancora affiorano per caso da qualche
archivio, da quaderni lasciati in eredità, da lettere ritrovate in fondo a
un cassetto. Si scoprono
così le sorprendenti capacità di resistenza dell’io
umano.
Ružena,
Komunella,
Milena sono tre donne
(una ceca, una ebrea, una
russa) che hanno vissuto
in tempi bui, soffrendo
privazioni morali e fisiche, emarginazione e
isolamento, ma sono rimaste fedeli a se stesse
con coraggio e persino
con letizia.
Ružena Vacková era
cattolica, docente di archeologia e abitava a
Praga. Aveva una pesante esperienza alle spalle: la fucilazione del fratello Vladimir da parte
dei nazisti nel 1944 e poi, nel 1945, l’arresto e
la condanna a morte anche per lei. Era scampata solo grazie all’arrivo dell’Armata Rossa.
Questo dramma l’aveva segnata in positivo,
portandola alla conversione, come ricordava
padre Zverina al suo funerale: «Allora le si
pose il dilemma cruciale: o il nichilismo o la
positività, o il nulla o Dio». Da quel momento la sua vita aveva acquistato in densità: ricordano i suoi studenti che le sue lezioni
all’università erano un dialogo vivo e personale, si faceva carico dei problemi di ciascuno, li
invitava a pranzo al ristorante, li faceva curare
dal padre medico.
Nel febbraio del 1948, dopo il colpo di Stato comunista, era stata l’unica docente
dell’Università Carolina ad andare alla manifestazione di protesta, poi si era autodenunciata davanti al consiglio docenti per sostenere
gli studenti espulsi. Così aveva perso il posto
ed era stata costretta a campare di aiuti, ma
non aveva abbandonato i seminari per i giovani almeno fino al 22 febbraio 1952, quando
erano venuti ad arrestarla.
Il processo farsa costruito contro un gruppo
di attivisti cattolici era finito con due condan-
ne a morte e un ergastolo. Lei aveva preso
ventidue anni.
Da quel momento aveva «abitato» nel temibile carcere femminile di Pardubice, dove aveva cercato da subito di vivere un’esistenza pienamente umana, anche se stretta da tutti i lati
dal lavoro coatto e dai regolamenti carcerari:
per sedici anni aveva tenuto regolari lezioni
alle compagne di carcere, accompagnando ladre e prostitute in un viaggio nella conoscenza
e nella bellezza che ne faceva «donne stupende, apprezzabili ed eclettiche».
Le lezioni — chiamate «pomeriggi accademici» — si tenevano nelle latrine: un contesto
così stridente non faceva che evidenziare la
potenza liberante della bellezza e dell’arte, come difficilmente accade nella vita normale. Ricorda una compagna: «Questa grande studiosa, umiliata e infreddolita, sta qui di notte in
mezzo alle disgrazie, alla cattiveria, alla mancanza di significato, e continua a creare… Fumiamo entusiaste e dialoghiamo fino all’alba,
non sentiamo né il freddo né la fame, non vediamo le sbarre e questo mondo d’oltretomba,
restano solo i pensieri di persone non umiliate, più forti del nostro corpo infiacchito. Nello
stesso momento, da qualche parte nel mondo,
si stanno alzando gli studenti per andare a
scuola, magari un po’ annoiati e infreddoliti…
il nostro entusiasmo è quello degli studenti
medievali, che con la
pancia vuota e la bisaccia
altrettanto vuota giravano il mondo per ascoltare gli insegnamenti di
Abelardo».
Un ufficiale della polizia carceraria aveva scritto di lei nel suo rapporto: «Non è interessata a
farsi rieducare, e anzi
ostacola la rieducazione
delle altre. È orgogliosa
di essere stata punita
dall’attuale regime, di cui
è nemica ostinata. Non
riconosce i suoi crimini e
afferma che se fosse rilasciata continuerebbe a fare quel che faceva prima.
Aggiunge che non ha bisogno di chiedere la grazia. Ha un’indole fortemente religiosa, direi fanatica».
Era stata rilasciata nel 1968 in seguito alla
primavera di Praga, e subito si era gettata
nell’impegno educativo e civile, tenendo corsi
clandestini, partecipando a varie attività civiche, diventando membro di Charta 77. È morta nel 1982 e il presidente Havel le ha conferito l’Ordine di Masaryk
alla memoria.
Per Komunella Markman invece, diversamente da Ružena, la fede
cristiana era un mondo
estraneo. La fede, nella
sua famiglia, era quella
marxista, trasmessa dai
genitori ebrei rivoluzionari di professione; questo aveva voluto dire
un’educazione ideologica
venata di stoicismo: disprezzare il dolore fisico,
non piangere mai, combattere per la causa.
Ma la storia si era introdotta nella loro vita
prepotentemente: il padre, un funzionario di
partito nel Caucaso, era
stato fucilato nel 1937, la
In senso orario, da sotto: Ružena Vacková;
Alekander Sedov, «Il viaggio» (1956);
donne sotto la fotografia di Stalin; Bogdesko
Il’ja Trofimovii, «Sui campi» (1977)
In questa “intervista” Maria Maddalena è associata alla figura della peccatrice senza tenere
conto delle difficili questioni di identificazione ai
fini della riflessione sul perdono.
di SANDRA ISETTA
ta medievale sulle mura della città di Vladimir, senza riscaldamento, né servizi igienici né
acqua corrente. Ma l’amore per il bello, il senso della dignità della vita la spingevano a non
rassegnarsi alla pura lotta per la sopravvivenza, così raccoglieva attorno a sé bambini e ragazzi cui amava raccontare le meraviglie
dell’arte egizia, degli affreschi di Rublev, del
mondo biblico. Distribuiva loro romanzi della
letteratura mondiale che potevano alimentare
la fantasia e i buoni principi.
Quando, finita la guerra, i dipendenti
dell’Ermitage erano stati richiamati in servizio,
per lei non c’era stato più posto perché era figlia di un nemico del popolo. Il sogno del ritorno alla normalità si era così dileguato, sommerso dall’umiliazione di essere esclusa, ma il
senso dell’importanza di ciò che aveva da dare
non era venuto meno.
Per anni aveva bussato a tutte le porte senza demordere, e senza, nel frattempo, smettere
Sua madre in coda
davanti al carcere di Leningrado
aveva sussurrato all’orecchio
di Anna Achmatova
«Lei può descrivere tutto questo?»
mamma arrestata subito dopo come «moglie
di un nemico del popolo», e le due figlie Julija di 15 anni e Komunella di 13, erano rimaste sole. Erano state divise, poi era venuta la
guerra e Julija era morta di fame nell’assedio
di Leningrado. Così Komunella, desiderosa di
vendetta, non aveva esitato a entrare giovanissima in un gruppo terroristico clandestino.
Naturalmente era stata arrestata nel 1948, e
condannata a 25 anni di lager: come dire una
prolungata agonia e la morte certa.
Dopo questa catastrofe, con lo stoicismo
che aveva imparato in famiglia, aveva scritto:
«Mamma, so che non ci tieni tanto alla vita, e
neppure io. E allora forza, decidiamo il giorno e
l’ora, e ci suicidiamo
tutt’e due». Per fortuna
la madre le aveva risposto che valeva la pena
aspettare ancora un po’,
per vedere «quali altri
porcherie ci prepara la
sorte. Se non altro per
curiosità».
Ma la sorte aveva in
serbo qualcosa di molto
diverso: l’incontro con
Cristo, che in una notte
di solitudine e disperazione Komunella aveva
percepito come l’unica
persona veramente prossima e solidale. Così la
sua vita aveva assunto
nuovi contorni: si era
accorta che il lager le
riservava ogni giorno, accanto alla miseria e
alla brutalità, anche incontri luminosi ed
esempi di straordinaria generosità, anche tra le
delinquenti più depravate, persino tra le guardie.
E
nella
memoria
dell’anziana ex detenuta
che oggi vive a Mosca
una vecchiaia incredibilmente serena, si sono fissati soprattutto i ricordi
belli, che le fanno dire:
quanti miracoli nella mia
vita, quanta bontà, non
bisogna mai cedere, l’essere umano ti può sempre sorprendere.
Diversamente Milena
Semiz, russa di origini
serbe, ortodossa, non ha
mai conosciuto la reclusione, anche se ha vissuto
il dramma della lunghissima detenzione del padre. Era una studiosa
d’arte che lavorava al
museo Ermitage di Leningrado, uno dei maggiori del mondo, ma poi
l’arresto del padre, il sopraggiungere della guerra e dell’assedio, l’evacuazione nelle retrovie, l’avevano ridotta da
promettente studiosa a relitto sociale senza dimora e senza lavoro.
Difficile immaginarsi le condizioni in cui si
era trovata: per un certo periodo Milena e la
madre si erano ridotte a vivere in una chieset-
di comunicare la ricchezza dell’arte che amava. Alla fine, negli anni Sessanta, aveva finalmente trovato un impiego come direttrice della Biblioteca del museo d’arte antico-russa
Rublev, a Mosca. Lì aveva ritrovato un ambiente consonante, infatti in quegli anni nel
museo si salvava e si restituiva alla vita la pittura antica, e questa frequentazione delle forme iconiche trasfigurava le persone, che si
convertivano una dopo l’altra. Forse quella era
l’unica istituzione a Mosca dove non ci fosse
una cellula del partito, anzi, venivano accolti
conferenzieri «molto speciali» come il metropolita
Antonij Blum, Dmitrij
Lichacĕv, Leonid Uspenskij; quei seminari diventavano momenti di condivisione e di confronto
sulle cose essenziali della
vita, non solo sull’arte e
la cultura.
In sostanza Milena Semiz, grande esperta d’arte dalla carriera mancata,
che non ha mai avuto
una famiglia sua, ha lasciato dietro di sé una
teoria di discepoli che la
seguivano per la sua intelligenza, il bagaglio
culturale e la battuta
pronta, ma soprattutto
per il suo discernimento
spirituale. Poiché tutto in
lei era imperniato attorno
alla fede, una fede che
dava unità a ogni cosa, che rendeva umana
ogni situazione. Del resto, questa coscienza irriducibile l’aveva imparata in famiglia: era sua
madre la donna che, nel lontano 1937, in coda
davanti al carcere di Leningrado aveva sussurrato all’orecchio della poetessa Achmatova:
«Lei può descrivere tutto questo?».
ono nata a Magdala, una bianca
cittadina che sguscia da una stretta
vallata per sporgersi sull’azzurro
mare di Tiberiade. Una terra benedetta, verde e fertile, un lago pescoso di acqua limpida e benefica. Tempeste
S
Tu scrivevi la nuova Legge
E allora anch’io potevo essere perdonata
Hai rimesso i miei peccati fino a tal punto
Mi chiamo Miriam
e sono risorta nel perdono
improvvise agitano le onde, la forza del clima
ha forgiato la tenacia degli abitanti di questo
piccolo villaggio, trasformato in grande porto
commerciale, Tarichea, famosa per gli ottimi
pesci salati e per gli olii, i profumi, gli unguenti.
Un popolo coraggioso il mio, che pagò col
sangue la resistenza ai romani. La salsedine e
il sole infuocato sono nei miei ricordi di bimba e poi di ragazza, quando i pescatori dalla
pelle scura e dalle mani forti, gridavano il
mio nome: «Miriam sei bellissima!».
Dio è stato generoso con me, mi ha dato
gli occhi bruni del cervo, la grazia flessuosa
della gazzella, i capelli di seta, come onde di
fiume. Il mio è un nome regale: Miriam, si
chiamava così la sorella di Mosè, che vuol
dire “principessa”, “signora”.
E divenni principessa, ma dell’orgoglio: mi
inebriavo della mia bellezza e giocavo con
quel fascino impetuoso che il mio corpo dissipava. Non pensavo a Te, che mi hai donato
l’armonia e la forza, non pensavo a Te e Ti
seppellivo nella terra arida del peccato. Fino
a quel giorno.
Quando i tuoi passi impressero orme indelebili sulla sabbia del mio mare, sul fango del
mio cuore umido e appannato. Al tuo passaggio, gli uomini abbandonavano le reti e ti
seguivano, come in un miracolo. Qualcosa
accadde anche a me, come se una voce mi
chiamasse, qui, dentro di me.
Quel giorno, guardai nello specchio e vidi
la grazia del mio corpo, offuscata nella porpora, spenta nell’oro, sepolta nella polvere di
falsi colori: era l’immagine deformata della
mia anima. Già, l’anima.
Cercavo di scacciarla dalla mia mente, non
volevo curarmi dello spirito, io profanavo il
tempio del mio corpo cercando la gloria degli sguardi e del desiderio, o forse no, cercavo solo amore. Quando si scivola sul fondo,
la superbia è pronta a consolarti per evitarti
lo schiaffo dell’umiliazione. Umiltà: provavo
orrore per questa parola. Sarebbe crollato il
castello della mia superbia, un tempio di vanagloria.
Poi sei arrivato Tu, a promettere un regno
agli ultimi, a quelli che stanno più in basso,
dove mi trovavo io, insieme agli scarti umani,
perché sono una donna e per giunta ero una
donna di quel genere. La speranza che anch’io avrei potuto entrare in quel regno divenne certezza, quando Ti udii dire a quella
donna, che tutti ricordano come l’adultera:
«Va e non peccare più». Mentre col dito Tu
disegnavi sulla sabbia, quell’orribile pioggia
di pietre e sangue si arrestò, non si abbatté
su di lei.
Il saggio
Tu mi hai perdonata
Maria Maddalena racconta la sua storia
Tu scrivevi la nuova Legge. E allora anch’io, anch’io potevo essere perdonata.
Perdono: nell’antica Legge non se ne parla, è prescritta invece una pena a saldo di
ogni colpa.
Da tempo ormai evitavo la Sinagoga.
Quella di Magdala è imponente, con i suoi
mosaici e i suoi affreschi, al centro la scultura
della menorah, come quella a sette bracci del
tempio di Gerusalemme. Tornai, nel tempio,
per udire le Tue parole, nascosta sotto il velo
e dietro una colonna, come una ladra, e il mio
cuore da tempo indurito
riprese a sanguinare, insieme alle lacrime. Finalmente fluivano quegli
umori, di gioia e contrizione insieme, era pentimento, ora lo so: dolore
per quello che ero stata e
sollievo per il desiderio
di divenire un’altra. Volevo essere simile a Te,
mettermi al tuo seguito,
servirti e aiutarti. Ma Tu
mi avresti accettata? Forse la mia era ancora una
stupida presunzione di
donna?
Così quel giorno venni
a cercarti. Tu eri a casa
di quel fariseo, Simone,
che ti aveva invitato a
mangiare con lui. Entrai,
il cuore mi esplodeva,
come se stessi profanando un tempio. Al petto
stringevo un vasetto di
alabastro ricolmo di olio
di nardo, il profumo delle spose. Strisciai per terra, come un animale, mi
feci piccola e mi rannic-
chiai ai tuoi piedi. Piansi, le lacrime irrigavano i Tuoi santi piedi e io li cospargevo di
profumo, li coprivo di baci, fra i singhiozzi.
Poi li asciugai, ma non usai il velo, no, li
tamponai con i mei capelli di seta, come con
uno straccio.
Era il solo modo che conoscevo per dirTi:
vedi, sono un’altra. Vedi, i miei occhi sono
puliti, le lacrime sono limpide, non scurite
dallo stibio. Pulisci la mia anima, perdonami.
Perdonami, ti prego.
Poi accadde il miracolo: mi hai difesa dalle
indignate, indegne accuse del tuo commensale. Hai difeso la mia dignità di donna, di essere umano che ha peccato e si è pentito. Le
tue parole risuonavano dentro di me come il
fragore del tuono: «I suoi molti peccati le
sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco». Così rispondevi a Simone, mentre a me
ridavi la vita: «La tua fede ti ha salvata; va’
in pace!».
Da allora divenni la tua ombra. La gente
mi additava: «Quella è Maria di Magdala!
Da lei sono usciti sette spiriti!». Non me ne
curavo, ne ridevo anzi, con Giovanna, Susanna e con le molte altre che avevi guarito e
che si erano unite a noi. Con loro, cercavo di
imparare dal mio Maestro, non perdevo una
Sua parola, e la mia fede diveniva sempre
più salda. Le tue donne.
Non dimenticherò mai i loro occhi sotto la
croce, quelli di Tua madre erano sbarrati in
un grido che volò in cielo, nel buio boato
del terremoto. E poi la luce. Quei teli candidi, abbaglianti, come la pietra del Tuo sepolcro. Gli uomini, Pietro e Giovanni, pensavano che vaneggiassi, come fanno le donne.
Sono andati via.
Io resto qui e, stupida donna, piango.
Chiedo di Te a due figure vestite di splendore. Mi volto. Non comprendo che sei Tu, e
non perché le lacrime velano la mia vista, sei
così diverso. Credo che tu sia il custode del
giardino. O sto vedendo l’Eden? Ma la tua
voce, «Miriam!», quella sì la riconosco.
«Rabbunì!». E affidi l’annuncio a una piccola donna, peccatrice: «Va’ dai miei fratelli e
di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro,
Dio mio e Dio vostro”».
Hai fatto di me la discepola. Hai rimesso i
mei peccati fino a tal punto. Mi chiamo Miriam, sono nata a Magdala e risorta nel perdono.
Au-delà du pardon
Lo sguardo e gli studi di Lytta Basset,
docente di teologia protestante
all’università di Ginevra sono sempre stati
rivolti alle grandi questioni teologiche e
spirituali del mondo attuale. Il senso di
colpa, la compassione, l’amore che non
divora l’altro sono tra i temi affrontati
nelle sue numerose opere. In Au-delà du
pardon. Le desir de tourner la page (Presses
de la Renaissance, 2006) ci parla del
difficile percorso del perdono raccontando
passo passo una ricerca durata dieci anni.
Il perdono — spiega — non è un fine
personale, ma la decisione di voltare
pagina per raggiungere la propria
liberazione e la propria pacificazione. È la
strada per imparare ad accettarsi e ad
amarsi, per raggiungere una nuova e
profonda unità interiore. Gesù non chiede
a Dio di dare agli uomini la forza di
perdonare perché non dubita della loro
capacità e della loro forza. Infatti nella
sola e unica preghiera che Gesù insegna
agli apostoli, il Padre nostro, si dice
«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori». Il perdono
è parte della condizione umana,
suggerisce Lytta Basset: si tratta di
cominciare a cercarlo con determinazione
e con la convinzione che in questa ricerca
non si sarà mai soli. «L’Altro — umano e
divino — è la roccia alla quale posso
comunque aggrapparmi». (ritanna armeni)
Il film
Les enfants
de Belleville
Akbar, sedici anni, ha ucciso la sua
ragazza e ha provato a uccidersi. È in
carcere e al compimento dei 18 anni può
essere condannato a morte. Il più caro
amico e la sorella chiedono al padre della
ragazza di
perdonarlo. Solo
così Akbar potrà
sfuggire alla
condanna. Ma il
padre è
irremovibile: una
vita per una vita, il
sangue del
colpevole per il
sangue della
vittima. È questa la
legge del taglione,
è questo ciò in cui
lui, uomo pio e
religioso, crede. È
questo che prevede
la giustizia del suo Paese. Ma è davvero
così? È la legge di Allah che vuole la
vendetta ed esclude il perdono? Asghar
Farhadi, regista del bellissimo Una
separazione, in Les enfants de Belleville
(2004) entra nelle contraddizioni della
società iraniana e nel dibattito civile e
religioso di quel Paese. Si scopre che il
sangue di una donna vale la metà di
quello di un uomo, quindi Akbar non può
essere ucciso se il padre della vittima non
paga l’altra metà. Si racconta di uomini e
di donne divise fra la legge del perdono e
quella del taglione. «Allah è potente e
misericordioso», ricorda nella moschea
l’imam al padre che vuole vendetta. E
insiste: «Misericordioso». (ritanna armeni)
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ATTENTATO
A
BARGEETA ALMBY
Una missionaria laica protestante è stata vittima di un
tentato omicidio a Lahore, capitale della provincia del
Punjab, e si trova in condizioni critiche all’ospedale
Jinnah. Bargeeta Almby, 72 anni, di nazionalità svedese,
era nella sua auto quando due uomini in motocicletta si
sono avvicinati sparando ripetutamente e colpendola al
petto. L’attentato è avvenuto il 3 dicembre, alle due del
pomeriggio. La missionaria opera in Pakistan da oltre 38
anni e, come riferisce l’agenzia Fides, era pienamente
integrata nella comunità. Bargeeta dirige i programmi
sociali di una associazione cristiana, la Full Gospel
Assemblies of Pakistan (Fga Church), attraverso
un’organizzazione non governativa che si occupa di
istruzione e formazione professionale. In particolare è
responsabile di un orfanotrofio, lavora con bambini
disabili e poveri, gestisce un corso di formazione in
ostetricia. Il Pastore Liaquat Kaiser, capo della Fga
Church, ha detto che «si tratta di un attacco
premeditato», ma che la donna «non aveva ricevuto
minacce». Il cattolico Paul Bhatti, consigliere speciale del
primo ministro per l’armonia nazionale, ha dichiarato: «È
un atto terroristico, anti-umano e anti-pakistano. Negli
ultimi giorni è stato ucciso l’imam di una moschea a
Karachi ed è stato dissacrato un cimitero di Ahmadi a
Lahore. Ora il tentato omicidio di questa missionaria.
Sono atti che intendono destabilizzare il Paese e soffiare
sull’odio religioso. Come pakistani dobbiamo restare uniti
nel condannare e combattere l’estremismo». Ancora in
stato di incoscienza, il 10 dicembre Bargeeta è stata
rimpatriata. «Siamo certi che in Svezia potrà ricevere cure
mediche appropriate — ha detto Kaiser — e che sentirà la
vicinanza della sua famiglia e della sua comunità di
origine».
Tiziana Guerrisi — è il primo esperimento in Italia di un
rapporto prodotto in forma multimediale, che rende
disponibile a tutti un prezioso archivio sulle carceri
italiane. E che ci ricorda il dramma di maternità e
detenzione, invitandoci a metterci nei panni dei bambini.
LA
I
FIGLI DELLE DETENUTE
Una mamma racconta tra le lacrime il suo dramma: tra
qualche giorno la figlia verrà allontanata da lei. La donna
— che deve scontare una lunga pena — è detenuta nel
carcere di Solicciano (Firenze) e la bimba, che sta per
compiere tre anni, è già stata dichiarata adottabile.
Un’altra è già stata adottata. È questa una delle tante
interviste realizzate da settembre a novembre 2012
all’interno di una ventina di istituti italiani, che va a
sommarsi a decine di fotogallery, video, approfondimenti
su temi importantissimi. Accesso ai diritti fondamentali,
condizioni di vita dei detenuti, stato delle infrastrutture,
futuro degli ospedali psichiatrici giudiziari (la loro
dismissione è prevista entro marzo 2013). Tutto questo è
scaricabile gratuitamente su www.insidecarceri.com,
realizzato da Next New Media, società di comunicazione
nata nel 2011. Il progetto — ha spiegato la curatrice
MADRE DEL VIOLINISTA
Tra i tanti eroi della Costa Concordia che hanno
sacrificato la loro vita per salvare gli altri mentre si
consumava la tragedia al Giglio il 13 gennaio 2012, vi era
anche Sándor Fehér, violonista ungherese di etnia rom,
morto per aiutare i bambini intrappolati. Márta Vertse
della Radio Vaticana ne ha appena intervistato la madre,
Tereza. «Dobbiamo sfatare una volta per tutte — fa
presente la giornalista — il mito che Sándor sia tornato a
prendere il violino prezioso. Anche recentemente è stato
riproposto questo fatto falso dalla televisione italiana.
Sándor non è tornato per il suo amato violino e non è
scappato dalla nave che affondava. Voleva salvare valori
molto più preziosi: vite umane». Risponde Tereza: «Tutti
i sopravvissuti hanno confermato che il violino era
rimasto nella sala dove avevano suonato. Quando
l’orchestra è scesa e hanno assegnato le uscite per salvarsi,
tutti hanno occupato i loro posti e Sándor ha solo
pensato a salvare la vita dei bimbi rimasti soli nella
Abbonamenti e auguri
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con il disegno di Isabella Ducrot riprodotta qui
affianco. A chi attiverà più di tre abbonamenti,
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Romano» dedicato ai centocinquanta anni della
sua storia. Per sottoscrivere l’abbonamento,
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(fax 06 69882818). Intanto, a tutte e tutti i
nostri migliori auguri per l’imminente Natale.
L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2012 numero 7
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
www.osservatoreromano.va
confusione. Pochi giorni fa un passeggero russo ha
postato un video inedito su Facebook: sono le ultime
immagini di Sándor, alle 4 di quella notte. Lo si vede
benissimo: con indosso il giubbotto giallo di salvataggio
— quelli dei passeggeri erano arancioni — dirige la gente.
Non è scappato: è rimasto sulla nave fino all’ultimo per
salvare le persone». Ricordando come Sándor avesse
sempre la Bibbia con sé, Tereza conclude: «Vivo la mia
tragedia nella consapevolezza che Dio ha chiamato a sé
Sándor, perché ha bisogno di lui lì».
SETTIMANA
SO CIALE IN
FRANCIA
Hommes et femmes, la nouvelle donne è il titolo della
Settimana sociale tenutasi a Parigi dal 23 al 25 novembre.
«Superare gli stereotipi e lottare contro i modelli di
dominazione» sono gli appelli risuonati con maggior
frequenza, come ha scritto Sarah Numico, inviata Sir.
François Ernenwein, caporedattore di «La Croix», ha
commentato: «L’uguaglianza tra uomini e donne è uno
dei principi che misurano l’avanzamento di una società.
Sebbene il diritto di famiglia e del lavoro abbiano
registrato i cambiamenti di mentalità che hanno
accompagnato l’emancipazione delle donne, dibattere di
uguaglianza non dispensa dall’interrogarsi su quale ne sia
la trama. Uguaglianza non significa uniformità. Occorre
tenere conto di cosa fa la differenza dei sessi e il loro
apporto specifico al bene comune». Anche Najat VallaudBelkacem, ministro per l’Uguaglianza, ha affermato:
«L’uguaglianza non è una lotta tra gli uni e le altre. È
una leva per far progredire la società». Secondo la vice
presidente della Commissione europea Viviane Reding,
«la povertà oggi in Europa è femminile e rischia di
esserlo sempre più, soprattutto tra le donne al di sopra
dei 65 anni». E Claude Martin, sociologo e ricercatore: «I
poteri pubblici possono avere un ruolo centrale per
aiutare a promuovere l’uguaglianza. Innanzitutto
intensificando gli sforzi per sviluppare servizi per la
prima infanzia o per sollecitare gli uomini a occuparsi
maggiormente del lavoro di cura, ad esempio facendo
ricorso al congedo riservato ai padri».
KAROLINA KOZKOWNA
Tra le reliquie dei beati polacchi da poco condotti al
santuario dei nuovi martiri nella basilica romana di San
Bartolomeo, ci sono anche quelle di Karolina Kozkowna,
la Maria Goretti polacca, assassinata a 16 anni da un
soldato russo. Malgrado il conflitto in corso (era il 18
novembre 1944), ai funerali parteciparono tremila persone.
Da allora la devozione verso Karolina, patrona dei
movimenti della gioventù polacca, è rimasta vivissima.
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Francesca della ipermodernità
La santa del mese raccontata da Franco La Cecla
robabilmente la modernità non
fa parte delle motivazioni determinanti la santità di un cristiano. Eppure nel caso di madre
Cabrini è proprio la sua modernità, o addirittura ipermodernità a renderla un personaggio che diventa sempre più
attuale e quindi sempre più vicino
all’esperienza dell’umanità oggi.
Forse è per questo che questa santa è
così poco conosciuta in Italia e così tanto
conosciuta in America. Per altro, per completare il quadro, madre Cabrini è stato il
primo cittadino americano a essere proclamato santo.
Oggi per parlare della sua esperienza e
del suo percorso occorrerebbe usare parole
come “transnazionalità”, “identità ibride”,
“identità in diaspora”. In un mondo sempre più globalizzato, una condizione spesso inevitabile per centinaia di milioni di
persone costrette a lasciare il proprio luogo di origine, sono intervenute però delle
nuove occasioni che hanno reso questa
esperienza qualcosa di completamente diverso dal passato.
Oggi gli emigranti, gli emigrati, ma anche le generazioni di seconda e terza emigrazione grazie anche alla maggiore facilità degli spostamenti vivono una condizione sospesa — e non sempre in maniera dolorosa — tra due mondi, quello d’origine e
di appartenenza culturale, linguistica, religiosa, e quella di arrivo in un paese di accoglienza.
Madre Cabrini intuì in anni di assoluta
indigenza per gli emigrati italiani in Nord
America e poi nel mondo che un atteggiamento nostalgico o al contrario una adesione acritica al mondo di arrivo non rendevano la verità dell’esperienza umana
dell’emigrazione.
Era difficile davvero ai suoi tempi non
cadere nella tentazione del ripiegamento
delle identità in diaspora su se stesse: rancori, difficoltà, povertà, durezza di vita
potevano dare all’emigrato italiano l’idea
che fosse meglio chiudersi in un passato
che si portava nel cuore. Tentazione che a
distanza di un secolo è la prima di ogni
identità in diaspora.
Oggi che i media, televisioni satellitari
anzitutto, ma anche le comunicazioni più
facili, i voli low cost, lo consentono è possibile vivere in un Paese e lavorarci continuando a considerarsi stranieri a esso. La
tentazione identitaria, quella che attribuisce il male a tutto ciò che è esterno alla
propria origine, è probabilmente alla radice di molti fondamentalismi. La diaspora
islamica, ma anche hindu o ortodossa in
genere cristiana rischia sempre di concepirsi come reazione al mondo nuovo, come rifiuto delle sue tentazioni e condanna
tout-court della modernità che esso rappresenta. Il velo, ma anche l’attaccamento
alle tradizioni come se fossero solo uno
strumento di difesa dall’esterno hanno
molto a che fare con una presunta superiorità del proprio passato interiore.
Spesso alle categorie culturali della differenza si sostituiscono le categorie temporali del passato contrapposto al presente. È incredibile che una donna cattolica,
cristiana abbia capito questo così presto e
ne abbia fatto una metodologia di integrazione. E anche qui bisogna capirsi. Perché
madre Cabrini non ha mai esaltato l’America come American dream, ne ha sempre
avuto una idea molto chiara e realistica.
L’America non era né meglio né peggio
dell’Italia della fine del secolo XIX e
dell’inizio del XX . Era forse meno ipocrita
di quanto fosse l’Italia con i suoi emigranti, di cui cullava la retorica, ma di cui
sfruttava appieno le rimesse in valuta pregiata. Però l’atteggiamento cabriniano nei
confronti della globalizzazione si basava
P
Samundar Singh con la madre di Rani Maria, Eliswa Paily
Il cuore
dell’assassino
di GIULIA GALEOTTI
ou’re my son, and I’m glad you came»: aprire le porte della propria casa, baciare, fare sedere a tavola con
la propria famiglia, mangiare con lui. Com’è umanamente possibile accogliere nella vita e nel cuore l’assassino della
propria figlia? Abbracciare le mani macchiate del suo sangue?
È il mistero del perdono — radicale, potente e silenzioso — il
centro del bellissimo film The Heart of a Murderer (che esce a
gennaio) girato in India dalla regista italo-australiana Catherine
McGilvray. In un’ora, la pellicola racconta la storia di Samundar
Singh, il giovane fanatico indù che nel 1995, a ventidue anni, uccise suor Rani Maria, missionaria francescana originaria del Kerala. Accoltellatala per 54 volte, la abbandonò sul ciglio della
strada. Una morte lenta, lentissima nella solitudine più completa:
«Tu, Gesù, almeno avevi tua madre e i tuoi amici più cari ai piedi della Croce —
sono i primi pensieri di suor Selmy
Paul, la sorella di
Rani, appena avuta
notizia dell’omicidio — Mia sorella
invece è morta senza nessuno attorno».
Arrestato e condannato all’ergastolo, Samundar viene
perdonato dalla famiglia di Rani, che
non solo chiede (e
ottiene) per lui la
grazia, ma che arriva ad accoglierlo
come un figlio e
come un fratello.
Tra i narratori
principali del film,
lo stesso Samundar,
che ricorda i fatti
mentre, dal suo villaggio del nord
dell’India, sta anSamundar con Swami Sadanand
dando in treno a
trovare la famiglia
di Rani Maria, che vive nel Kerala. È il viaggio del suo risveglio
spirituale, del passaggio da giovane imbevuto di odio e ignoranza a uomo libero nell’amore. Quasi parlando a se stesso, Samundar è timido e per certi versi incredulo mentre espone il perdono
incondizionato e inatteso, manifestato da chi è stato irreparabilmente colpito dal suo gesto assassino. È affascinante notare il
linguaggio che Samundar utilizza nel presentare la sua dolorosa
storia: come la regista spiega a «donne chiesa mondo», è stato
lui stesso a scegliere di raccontare, più che attraverso le parole,
mimando nuovamente quei terribili gesti, interpretando se stesso.
«È il modo indiano di raccontare — continua McGilvray — e ho
accettato ben volentieri questa “contaminazione” culturale, nella
speranza che rappresentasse un passo ulteriore verso il tentativo
di cogliere lo spirito autentico di questa incredibile vicenda».
Ma il film parla anche attraverso la voce della sorella e della
madre di Rani, due donne accomunate dall’amore e dal dolore,
dal pianto e dalla pace. Sono presenze che restano profondamente impresse per la serenità emanata dai loro volti e dai loro gesti.
Nessuna esaltazione o esagerazione in loro: solo la forza feconda
del perdono capace di accogliere nel profondo. La madre, in particolare, arriva a comprendere il senso della morte di sua figlia,
dopo che, inizialmente, non ne aveva condiviso nemmeno la scelta religiosa. La quarta voce narrante è infine quella di Swami Sadanand, il sacerdote con la vocazione del pacificatore («laddove
c’è un conflitto, io vado e mi propongo»), il primo a essere andato a trovare Samundar Singh in carcere, diventandone poi la
guida, il padre spirituale.
Senza alcuna retorica né gusto del macabro, senza strumentalizzare i fatti o enfatizzarne i protagonisti, il film di Catherine
McGilvray narra — con rispetto, poesia e forza insieme — una
storia paradigmatica, capace di elevarsi, nel suo profondo e universale significato, al di là del contingente.
La vicenda, ci racconta McGilvray, le venne incontro nel 2009:
da allora il suo desiderio è stato quello di riuscire a trovare la
chiave per capire e quindi per raccontare, la sorprendente risposta della madre e della sorella di Rani Maria all’orrore che hanno
dovuto affrontare. «Sono andata in India — spiega la regista —
volendomi affidare del tutto a questa storia».
Il messaggio è dirompente. Il perdono può veramente trasformare l’odio in amore. Nel corso del film, Samundar Singh racconta, pacatamente e senza alcuna esaltazione, il radicale e progressivo cammino della sua conversione, dalla disperazione
(«nessuno mi può perdonare. Nemmeno Dio») alla rinascita.
Oggi quest’uomo è una persona consapevole, vero testimone della grandezza potente e vitale dell’immenso dono che ha ricevuto.
«Y
Sarebbe bello
se fosse proclamata
patrona della capacità di essere cittadini
del mondo
su un approccio pragmatico: inutile piangersi addosso e fare le vittime della modernità. Si trattava invece di acquisire gli
strumenti per farne parte a pieno titolo: la
lingua inglese prima di tutto, ma soprattutto la comprensione delle categorie culturali del mondo in cui ci si trovava a vivere.
Cosa dava a madre Cabrini quella marcia in più da farne una santa della ipermodernità? Probabilmente la mancanza di
pregiudizi, l’apertura al mondo, la curiosità del nuovo, tutte qualità di un cosmopolitismo vero. Era una forma connaturata a
una formazione cristiana, una inevitabile
conseguenza di un universalismo?
Non saprei: di sicuro era una grande
capacità di relativizzare le cose, di relativizzare le culture e i loro “valori”. C’era in
questo un coraggio di esplorazione che
poi riverberava nella ricchezza con cui
Una delle rare foto
giovanili
di Francesca Cabrini
Franco La Cecla
(1956) ha insegnato
antropologia
culturale in varie
università, tra cui
Bologna, Palermo,
Venezia, Verona,
l’università VitaSalute San
Raffaele,
l’università della
California a
Berkeley, l’École
des Hautes Études
en Sciences
Sociales di Parigi,
l’Universidad
Politécnica de
Barcelona, l’École
polytechnique
fédérale de
Lausanne. Tra le
sue pubblicazioni,
Mente Locale,
un’antropologia
dell’abitare
(Eleuthera 2011),
Perdersi (Laterza
2010), Il Malinteso
(Laterza 2009),
Contro l’Architettura
(Bollati Boringhieri
2009). Ha vinto il
Festival del cinema
di San Francisco
con il
documentario In
altro mare (2010).
madre Cabrini viveva il viaggio. Questo
non era per lei un magnifico diversivo, ma
proprio una esperienza fondamentale della
relatività e della comunanza tuttavia di
problemi, umanità, speranze.
Sarebbe bello se oggi madre Cabrini venisse proclamata patrona della globalizzazione e, perché no, della capacità di essere
finalmente cittadini del mondo e non solo
di una sua parte.