donne chiesa mondo La - L`Osservatore Romano
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donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2012 numero 7 La libertà del perdono Dio, il prossimo e se stessi. Se c’è una cosa di cui abbiamo tutti assolutamente bisogno nel cammino quotidiano, è il perdono. Il perdono di Dio, il perdono del prossimo, il perdono di noi stessi. Sonno ristoratore, miele rigenerante: quando il perdono e il suo desiderio sono autentici, immensi sono gli effetti su chi lo chiede e su chi lo dà. Domandarlo non è facile. Come scrive Paul Auster, chiedere perdono è «una prova di delicato equilibrio tra la durezza dell’orgoglio e lo strazio del rimorso» (Follie di Brooklyn). E non è facile anche perché, un passo prima, è complicato capire di averne bisogno. L’autoassoluzione — so che mi sono comportata male, ma avevo le mie buone ragioni e in fondo non è colpa mia — è, forse, una delle tentazioni più attuali. Abbiamo perso il senso del confronto, la capacità di vedere il male fatto, di assumerci le nostre responsabilità. Assolvendoci di continuo, ancorandoci alla superficie dell’errore commesso, restiamo nell’infantilismo. Invece è ciò che v’è dietro il male fatto quel che avrebbe veramente bisogno di essere guardato e convertito. Ma il perdono salva anche chi lo dà. Per non soccombere sotto i colpi del dolore e dell’ingiustizia. Se l’odio — comprensibile e terribilmente umano — diventa una corazza lenitiva nell’immediato, goccia dopo goccia però si trasforma in un veleno capace di corroderci. Di trascinare via, come implacabile torrente, la nostra umanità. Solo il perdono ci restituisce la libertà e, con la libertà, la vita. Deve molto al cristianesimo, il perdono. Nella civiltà greca, dinnanzi al torto del carnefice, l’imperativo interiore era la vendetta. E se è vero che già un’evoluzione vi era stata (superando la legge del taglione, si era passati dalla vendetta privata a quella gestita dalla polis), il passo decisivo però ancora mancava. Così, nella sofferta decisione dell’Oreste di Euripide, il secondogenito di Agamennone non vorrebbe, ma sa che la vendetta è il suo dovere di figlio maschio. E non si sottrae. Ma poi, in una stalla, un altro Figlio è venuto al mondo, rispondendo a una chiamata di ben altra natura. È al perdono nelle sue declinazioni cristiane di ieri e di oggi che dedichiamo questo numero del nostro inserto. Perché di perdono, si nasce. E di perdono, si vive. (g.g.) Restituire un’anima ai carnefici La storia di Maïti Girtanner, la donna che abbracciò il suo persecutore di SYLVIE BARNAY a testimonianza di Maïti Girtanner è centrata sull’orrore che non si può raccontare. Negli anni 1939-1945 questo orrore è consistito nel distruggere l’uomo e nello spezzare la resistenza civile quando questa si è mostrata in grado di resistere. «Laddove si fa violenza all’uomo — scrive Primo Levi in I sommersi e i salvati — la si fa anche alla lingua». La negazione del senso delle parole è in effetti al centro stesso del processo di distruzione della persona umana messo in atto dal sistema nazista: distruzione del linguaggio, distruzione del suo significato, distruzione dell’uomo fatto a immagine di L donne chiesa mondo La mia fede cristiana mi invitava a rivolgere a ogni uomo non lo sguardo degli altri Ma lo sguardo di Dio stesso Dio. Davanti alla parola volutamente ridotta al nulla, la forza di quella giovanissima donna che era nel 1943 Maïti Girtanner è di proclamarla viva. Il suo verbo è anche quello che si è incarnato in lei fin dall’infanzia: il Verbo di Dio del cristianesimo. È questo stesso Verbo che lei parla ai suoi compagni di sventura nell’autunno del 1943, quando viene arrestata dalla Gestapo e quando tutti si preparano a morire: un Verbo che proclama la vita più forte della morte. È questo Verbo che la ispira quando, nel 1984, incontra l’uomo che è stato un tempo il suo aguzzino, che ha appena bussato alla sua porta, contro ogni aspettativa, quarant’anni dopo, chiedendole di parlare della morte. Colpito da un tumore, l’ex nazista sa in effetti che la sua morte è inevitabile e ne ha paura dal momento che i medici gli hanno annunciato che gli restano solo sei mesi di vita. Nel 1940 Maïti ha diciott’anni. Ha allora davanti a sé una carriera di pianista fuori dal comune. Nata in una famiglia di apprezzati musicisti, aveva dato il suo primo concerto all’età di nove anni: «Già da bambina sapevo che la mia via era tracciata: sarei stata pianista, la musica sarebbe stata la mia vita» (Même les bourreaux ont une âme, Paris, CLD Ėditions, 2006, p. 29). La tradizione familiare ha sempre alimentato la convinzione del necessario rispetto tra i popoli. La famiglia, cattolica, aveva molti amici, fra i quali alcuni tedeschi. Anche quando il nemico da abbattere diviene la Germania nazista, la futura partigiana non sbaglia il bersaglio: si tratta di resistere all’invasore, non si tratta di detestare i “crucchi”. «La mia fede cristiana m’invitava a rivolgere a ogni uomo non lo sguardo degli altri, ma lo sguardo che Dio stesso gli rivolgeva», dirà (p. 37). Quest’ampiezza di vedute la caratterizza fin dall’infanzia e non l’abbandonerà mai, neanche nei giorni dell’inferno. La giovane donna non decide di partecipare alla Resistenza. Sono le circostanze che fanno nascere in lei il bisogno di restare in piedi di fronte al male. La casa di famiglia, luogo di gioiose fughe estive per la liceale che per il resto dell’anno abitava a Saint-Germain-en-Laye, si trova sul limitare della linea di demarcazione fissata subito dopo l’armistizio firmato nel paese di Bones, vicino Poitiers, quando l’arrivo dei tedeschi il 22 giugno 1940 ha avuto come conseguenza la divisione del paese in due, da una parte e dall’altra del ponte. Da un lato la parte libera, dall’altro la zona occupata. Da quel momento l’edificio assume una posizione strategica visto che il suo giardino fiancheggia il ponte; è l’ultima casa prima della zona libera, nel punto dell’unico attraversamento possibile del fiume Vienne. I tedeschi vogliono occuparne una parte. Così il primo atto di resistenza di Maïti Girtanner è di segnare il proprio territorio con la parola: «No, sono svizzera, qui non si entra» (p. 60). La giovane donna, che usa la sua nazionalità svizzera per ostentare una neutralità di principio, parla correntemente il tedesco. La lingua è la sua forza, il mezzo per creare un legame da pari a pari con gli occupanti, i quali vi vedono anche un mezzo per semplificare la comunicazione con la popolazione locale. La lingua le permette di guadagnare rapidamente terreno, intavolando abili trattative con i tedeschi. Il colpo recato dalla creazione lampo della linea di demarcazione, linea resa in poche ore quasi invalicabile, esigeva di trovare rapide soluzioni. In maniera molto empirica, le azioni di Maïti Girtanner corrispondevano alle sue parole. Le occorreva valicare ciò che i tedeschi avevano reso invalicabile, al fine di fare fronte prima di tutto ai bisogni più urgenti: approvvigionare il paese, trasmettere le notizie, trovare soluzioni volta per volta, svolgendo il ruolo d’interprete o di intermediaria. L’aria da ragazzina della giovane dai lunghi capelli ricci non desta sospetti: la sua giovane età è garanzia d’innocenza e il suo fluente tedesco garanzia di fiducia. A poco a poco Maïti Girtanner funge da “cassetta postale” per la Resistenza entrata in contatto con lei. Fa passare messaggi, denaro e documenti. Nell’estate del 1941 sono due uomini — due ufficiali francesi — a contattarla per chiederle di superare la linea. Con astuzia e abilità, in fondo a un rimorchio o a una barca, farà così passare più di un centinaio di persone nella zona libera, fra Nell’autunno 1943, a 21 anni, la promettente pianista cattolica Maïti Girtanner viene arrestata dalla Gestapo. Condotta in un centro di detenzione per i membri della Resistenza francese, viene mutilata da un giovane medico tedesco. Non solo non potrà mai più suonare, ma per il resto della sua vita — oggi ha novant’anni — soffrirà senza posa per quelle mutilazioni. Nel 1984 l’aguzzino bussa alla sua porta: i medici gli hanno dato sei mesi di vita e lui vuole parlare con lei della morte. Maïti ha raccontato la sua storia in Même les bourreaux ont une âme (Paris, CLD Éditions, 2006). con il solo nome: Leo. Quest’ultimo colpisce i suoi centri nervosi, uccide le dita, fa morire nella musicista la virtuosa. Maïti Girtanner non potrà mai più suonare. Il resto della sua vita — oggi ha novant’anni — la vedrà soffrire senza posa per le mutilazioni nervose che le sono state inflitte. Mentre il corpo torturato cede, rendendo praticamente impossibile un progetto di trasmissione dell’esperienza, la memoria tenta allora di appropriarsi di un testo fondatore della cultura nella quale tale trasmissione può avvenire. L’ex partigiana trova questo testo nel Vangelo. La Parola di Dio è così allo stesso tempo garante dell’esperienza e modo simbolico di restituzione della verità. Da essa Maïti Girtanner attinge la forza per trasmettere quella che fu una realtà dell’annientamento dell’uomo da parte dell’uomo. Allora il racconto della Passione e quello della vita di Maïti Girtanner s’illuminano a vicenda. Il Vangelo della Passione racconta la sua stessa passione. Esso testimonia, versetto dopo versetto, la sua partecipazione nella propria carne a ciò che salva l’uomo dall’uomo: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Colossesi 1, 24). L’esperienza del perdono s’inserisce profondamente in questa partecipazione. «Fin dall’inizio — scrive Maïti Girtanner — volevo perdonarlo; pregavo per lui; lo portavo dentro di me» (p. 201). Quando Leo, morente, va a trovarla, cerca il suo perdono: «invece di sa- le quali alcuni bambini ebrei. La naturalezza sarà la sua strategia. Nel febbraio 1943, quando la linea di demarcazione viene ufficialmente soppressa, Maïti Girtanner si trasferisce a Parigi, a villa Molitor. Qui diviene istitutrice di due bambine della famiglia de Beaumont, mentre le sue attività nelle file della Resistenza subiscono un’altra svolta. Una di questa attività consiste nell’occuparsi della vita nascosta dei maestri di musica di origine ebraica a cui viene vietato l’insegnamento dopo il voto delle leggi di Vichy; un’altra nel fornire falsi documenti a chi ne ha bisogno; un’altra ancora nell’aiutare a mettere in piedi l’esercito di liberazione francese, e così via. Attraverso la rete del Conservatorio di Parigi, la giovane decide di utilizzare anche il suo talento di musicista già rinomata. Invitata a suonare davanti ad alcuni ufficiali dell’esercito tedesco all’Hotel Majestic, chiede in cambio, e non senza sfrontatezza, la liberazione di alcuni compagni musicisti. A primavera, viene a sapere della creazione del Consiglio nazioFin dall’inizio volevo perdonarlo nale della Resistenza. Continua ad attraversare Parigi Pregavo per lui in lungo e in largo, senza lo portavo dentro di me venir disturbata e senza risparmiarsi. È alla luce del Vangelo della Passione lutarci stringendoci la mano, gli tendo le secondo san Marco che Maïti Girtanner braccia e lo stringo. In quel momento, lui rilegge gli eventi che fanno precipitare la mi chiede perdono». Maïti Girtanner sa subito con certezza sua vita verso una sorta di morte, dopo il suo inatteso arresto nell’ottobre 1943. Con- di aver veramente perdonato; perdono per dotta in un centro di detenzione per i cui ha pregato a lungo, perdono chiesto membri della Resistenza arrestati a Hen- passo dopo passo per tutti quegli anni. Sa daye, viene orribilmente mutilata da un ormai che tutti e due parlano la stessa lingiovane medico tedesco che lei chiama gua viva che è quella di Dio. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Accanto: Tamara De Lempicka, «Il velo verde» (1924) Sotto: Simon Vouet, «Maria Maddalena» (1614-1615) L’umiliazione quotidiana del totalitarismo Il romanzo La notte dell’oblio L’ultimo libro di Lia Levi, La notte dell’oblio (Edizioni e/o, 2012) ha al suo centro — come preannuncia il titolo — l’oblio: l’oblio di una donna ebrea, Elsa, che preferisce non sapere con precisione quello che è successo al marito, morto ad Auschwitz, e negarsi l’evidente colpevolezza di chi lo ha denunciato, per poter guardare avanti e crescere le sue figlie nella normalità. Non è perdono, ma fuga, rimozione. E la rimozione funziona, in un’Italia in cui nessuno intorno a lei vuole ricordare, almeno finché la giovane figlia non si innamora del figlio del delatore, e il dolore rimosso sommerge e travolge la famiglia tutta. Il tema di queste pagine avvincenti è quello dell’oblio, non del perdono, che non può costruirsi sulla volontà di non vedere ma solo sulla consapevolezza della colpa da parte tanto dell’offeso come del colpevole. Ma chi è qui più colpevole, chi ha tradito o chi ha preferito non vedere? E ci sarà salvezza per i due giovani del tutto innocenti? In un oblio che tutto distrugge, il perdono resta sullo sfondo come una possibilità remota, un esile filo di speranza per il futuro. (anna foa) Il riscatto di Ružena Vacková, Komunella Markman e Milena Semiz di MARTA DELL’ASTA i sono tante vittime del totalitarismo a cui nessuno mai dedicherà un monumento perché hanno subito la violenza senza arrivare a morire, eppure hanno sofferto un’umiliazione devastante e quotidiana. Da questo punto di vista l’esperienza del totalitarismo offre una gamma infinita di vite spezzate fisicamente e moralmente, ma la cosa sorprendente è che tra questi milioni di vittime inconsapevoli si trova un gran numero di «re- C Sono tre donne che hanno vissuto tempi terribili soffrendo privazioni morali e fisiche Ma che sono rimaste fedeli a se stesse con coraggio e perfino con letizia sistenti», persone che in vario grado e in vario modo non si sono lasciate schiacciare dal potere né dal ricatto della mentalità comune. Che hanno saputo superare il rancore per trasformare in perdono e ricchezza la loro sventura. Queste figure sono un tesoro in gran parte ancora da scoprire. Decenni dopo la caduta del regime sovietico ci sono testimonianze di dignità umana che ancora affiorano per caso da qualche archivio, da quaderni lasciati in eredità, da lettere ritrovate in fondo a un cassetto. Si scoprono così le sorprendenti capacità di resistenza dell’io umano. Ružena, Komunella, Milena sono tre donne (una ceca, una ebrea, una russa) che hanno vissuto in tempi bui, soffrendo privazioni morali e fisiche, emarginazione e isolamento, ma sono rimaste fedeli a se stesse con coraggio e persino con letizia. Ružena Vacková era cattolica, docente di archeologia e abitava a Praga. Aveva una pesante esperienza alle spalle: la fucilazione del fratello Vladimir da parte dei nazisti nel 1944 e poi, nel 1945, l’arresto e la condanna a morte anche per lei. Era scampata solo grazie all’arrivo dell’Armata Rossa. Questo dramma l’aveva segnata in positivo, portandola alla conversione, come ricordava padre Zverina al suo funerale: «Allora le si pose il dilemma cruciale: o il nichilismo o la positività, o il nulla o Dio». Da quel momento la sua vita aveva acquistato in densità: ricordano i suoi studenti che le sue lezioni all’università erano un dialogo vivo e personale, si faceva carico dei problemi di ciascuno, li invitava a pranzo al ristorante, li faceva curare dal padre medico. Nel febbraio del 1948, dopo il colpo di Stato comunista, era stata l’unica docente dell’Università Carolina ad andare alla manifestazione di protesta, poi si era autodenunciata davanti al consiglio docenti per sostenere gli studenti espulsi. Così aveva perso il posto ed era stata costretta a campare di aiuti, ma non aveva abbandonato i seminari per i giovani almeno fino al 22 febbraio 1952, quando erano venuti ad arrestarla. Il processo farsa costruito contro un gruppo di attivisti cattolici era finito con due condan- ne a morte e un ergastolo. Lei aveva preso ventidue anni. Da quel momento aveva «abitato» nel temibile carcere femminile di Pardubice, dove aveva cercato da subito di vivere un’esistenza pienamente umana, anche se stretta da tutti i lati dal lavoro coatto e dai regolamenti carcerari: per sedici anni aveva tenuto regolari lezioni alle compagne di carcere, accompagnando ladre e prostitute in un viaggio nella conoscenza e nella bellezza che ne faceva «donne stupende, apprezzabili ed eclettiche». Le lezioni — chiamate «pomeriggi accademici» — si tenevano nelle latrine: un contesto così stridente non faceva che evidenziare la potenza liberante della bellezza e dell’arte, come difficilmente accade nella vita normale. Ricorda una compagna: «Questa grande studiosa, umiliata e infreddolita, sta qui di notte in mezzo alle disgrazie, alla cattiveria, alla mancanza di significato, e continua a creare… Fumiamo entusiaste e dialoghiamo fino all’alba, non sentiamo né il freddo né la fame, non vediamo le sbarre e questo mondo d’oltretomba, restano solo i pensieri di persone non umiliate, più forti del nostro corpo infiacchito. Nello stesso momento, da qualche parte nel mondo, si stanno alzando gli studenti per andare a scuola, magari un po’ annoiati e infreddoliti… il nostro entusiasmo è quello degli studenti medievali, che con la pancia vuota e la bisaccia altrettanto vuota giravano il mondo per ascoltare gli insegnamenti di Abelardo». Un ufficiale della polizia carceraria aveva scritto di lei nel suo rapporto: «Non è interessata a farsi rieducare, e anzi ostacola la rieducazione delle altre. È orgogliosa di essere stata punita dall’attuale regime, di cui è nemica ostinata. Non riconosce i suoi crimini e afferma che se fosse rilasciata continuerebbe a fare quel che faceva prima. Aggiunge che non ha bisogno di chiedere la grazia. Ha un’indole fortemente religiosa, direi fanatica». Era stata rilasciata nel 1968 in seguito alla primavera di Praga, e subito si era gettata nell’impegno educativo e civile, tenendo corsi clandestini, partecipando a varie attività civiche, diventando membro di Charta 77. È morta nel 1982 e il presidente Havel le ha conferito l’Ordine di Masaryk alla memoria. Per Komunella Markman invece, diversamente da Ružena, la fede cristiana era un mondo estraneo. La fede, nella sua famiglia, era quella marxista, trasmessa dai genitori ebrei rivoluzionari di professione; questo aveva voluto dire un’educazione ideologica venata di stoicismo: disprezzare il dolore fisico, non piangere mai, combattere per la causa. Ma la storia si era introdotta nella loro vita prepotentemente: il padre, un funzionario di partito nel Caucaso, era stato fucilato nel 1937, la In senso orario, da sotto: Ružena Vacková; Alekander Sedov, «Il viaggio» (1956); donne sotto la fotografia di Stalin; Bogdesko Il’ja Trofimovii, «Sui campi» (1977) In questa “intervista” Maria Maddalena è associata alla figura della peccatrice senza tenere conto delle difficili questioni di identificazione ai fini della riflessione sul perdono. di SANDRA ISETTA ta medievale sulle mura della città di Vladimir, senza riscaldamento, né servizi igienici né acqua corrente. Ma l’amore per il bello, il senso della dignità della vita la spingevano a non rassegnarsi alla pura lotta per la sopravvivenza, così raccoglieva attorno a sé bambini e ragazzi cui amava raccontare le meraviglie dell’arte egizia, degli affreschi di Rublev, del mondo biblico. Distribuiva loro romanzi della letteratura mondiale che potevano alimentare la fantasia e i buoni principi. Quando, finita la guerra, i dipendenti dell’Ermitage erano stati richiamati in servizio, per lei non c’era stato più posto perché era figlia di un nemico del popolo. Il sogno del ritorno alla normalità si era così dileguato, sommerso dall’umiliazione di essere esclusa, ma il senso dell’importanza di ciò che aveva da dare non era venuto meno. Per anni aveva bussato a tutte le porte senza demordere, e senza, nel frattempo, smettere Sua madre in coda davanti al carcere di Leningrado aveva sussurrato all’orecchio di Anna Achmatova «Lei può descrivere tutto questo?» mamma arrestata subito dopo come «moglie di un nemico del popolo», e le due figlie Julija di 15 anni e Komunella di 13, erano rimaste sole. Erano state divise, poi era venuta la guerra e Julija era morta di fame nell’assedio di Leningrado. Così Komunella, desiderosa di vendetta, non aveva esitato a entrare giovanissima in un gruppo terroristico clandestino. Naturalmente era stata arrestata nel 1948, e condannata a 25 anni di lager: come dire una prolungata agonia e la morte certa. Dopo questa catastrofe, con lo stoicismo che aveva imparato in famiglia, aveva scritto: «Mamma, so che non ci tieni tanto alla vita, e neppure io. E allora forza, decidiamo il giorno e l’ora, e ci suicidiamo tutt’e due». Per fortuna la madre le aveva risposto che valeva la pena aspettare ancora un po’, per vedere «quali altri porcherie ci prepara la sorte. Se non altro per curiosità». Ma la sorte aveva in serbo qualcosa di molto diverso: l’incontro con Cristo, che in una notte di solitudine e disperazione Komunella aveva percepito come l’unica persona veramente prossima e solidale. Così la sua vita aveva assunto nuovi contorni: si era accorta che il lager le riservava ogni giorno, accanto alla miseria e alla brutalità, anche incontri luminosi ed esempi di straordinaria generosità, anche tra le delinquenti più depravate, persino tra le guardie. E nella memoria dell’anziana ex detenuta che oggi vive a Mosca una vecchiaia incredibilmente serena, si sono fissati soprattutto i ricordi belli, che le fanno dire: quanti miracoli nella mia vita, quanta bontà, non bisogna mai cedere, l’essere umano ti può sempre sorprendere. Diversamente Milena Semiz, russa di origini serbe, ortodossa, non ha mai conosciuto la reclusione, anche se ha vissuto il dramma della lunghissima detenzione del padre. Era una studiosa d’arte che lavorava al museo Ermitage di Leningrado, uno dei maggiori del mondo, ma poi l’arresto del padre, il sopraggiungere della guerra e dell’assedio, l’evacuazione nelle retrovie, l’avevano ridotta da promettente studiosa a relitto sociale senza dimora e senza lavoro. Difficile immaginarsi le condizioni in cui si era trovata: per un certo periodo Milena e la madre si erano ridotte a vivere in una chieset- di comunicare la ricchezza dell’arte che amava. Alla fine, negli anni Sessanta, aveva finalmente trovato un impiego come direttrice della Biblioteca del museo d’arte antico-russa Rublev, a Mosca. Lì aveva ritrovato un ambiente consonante, infatti in quegli anni nel museo si salvava e si restituiva alla vita la pittura antica, e questa frequentazione delle forme iconiche trasfigurava le persone, che si convertivano una dopo l’altra. Forse quella era l’unica istituzione a Mosca dove non ci fosse una cellula del partito, anzi, venivano accolti conferenzieri «molto speciali» come il metropolita Antonij Blum, Dmitrij Lichacĕv, Leonid Uspenskij; quei seminari diventavano momenti di condivisione e di confronto sulle cose essenziali della vita, non solo sull’arte e la cultura. In sostanza Milena Semiz, grande esperta d’arte dalla carriera mancata, che non ha mai avuto una famiglia sua, ha lasciato dietro di sé una teoria di discepoli che la seguivano per la sua intelligenza, il bagaglio culturale e la battuta pronta, ma soprattutto per il suo discernimento spirituale. Poiché tutto in lei era imperniato attorno alla fede, una fede che dava unità a ogni cosa, che rendeva umana ogni situazione. Del resto, questa coscienza irriducibile l’aveva imparata in famiglia: era sua madre la donna che, nel lontano 1937, in coda davanti al carcere di Leningrado aveva sussurrato all’orecchio della poetessa Achmatova: «Lei può descrivere tutto questo?». ono nata a Magdala, una bianca cittadina che sguscia da una stretta vallata per sporgersi sull’azzurro mare di Tiberiade. Una terra benedetta, verde e fertile, un lago pescoso di acqua limpida e benefica. Tempeste S Tu scrivevi la nuova Legge E allora anch’io potevo essere perdonata Hai rimesso i miei peccati fino a tal punto Mi chiamo Miriam e sono risorta nel perdono improvvise agitano le onde, la forza del clima ha forgiato la tenacia degli abitanti di questo piccolo villaggio, trasformato in grande porto commerciale, Tarichea, famosa per gli ottimi pesci salati e per gli olii, i profumi, gli unguenti. Un popolo coraggioso il mio, che pagò col sangue la resistenza ai romani. La salsedine e il sole infuocato sono nei miei ricordi di bimba e poi di ragazza, quando i pescatori dalla pelle scura e dalle mani forti, gridavano il mio nome: «Miriam sei bellissima!». Dio è stato generoso con me, mi ha dato gli occhi bruni del cervo, la grazia flessuosa della gazzella, i capelli di seta, come onde di fiume. Il mio è un nome regale: Miriam, si chiamava così la sorella di Mosè, che vuol dire “principessa”, “signora”. E divenni principessa, ma dell’orgoglio: mi inebriavo della mia bellezza e giocavo con quel fascino impetuoso che il mio corpo dissipava. Non pensavo a Te, che mi hai donato l’armonia e la forza, non pensavo a Te e Ti seppellivo nella terra arida del peccato. Fino a quel giorno. Quando i tuoi passi impressero orme indelebili sulla sabbia del mio mare, sul fango del mio cuore umido e appannato. Al tuo passaggio, gli uomini abbandonavano le reti e ti seguivano, come in un miracolo. Qualcosa accadde anche a me, come se una voce mi chiamasse, qui, dentro di me. Quel giorno, guardai nello specchio e vidi la grazia del mio corpo, offuscata nella porpora, spenta nell’oro, sepolta nella polvere di falsi colori: era l’immagine deformata della mia anima. Già, l’anima. Cercavo di scacciarla dalla mia mente, non volevo curarmi dello spirito, io profanavo il tempio del mio corpo cercando la gloria degli sguardi e del desiderio, o forse no, cercavo solo amore. Quando si scivola sul fondo, la superbia è pronta a consolarti per evitarti lo schiaffo dell’umiliazione. Umiltà: provavo orrore per questa parola. Sarebbe crollato il castello della mia superbia, un tempio di vanagloria. Poi sei arrivato Tu, a promettere un regno agli ultimi, a quelli che stanno più in basso, dove mi trovavo io, insieme agli scarti umani, perché sono una donna e per giunta ero una donna di quel genere. La speranza che anch’io avrei potuto entrare in quel regno divenne certezza, quando Ti udii dire a quella donna, che tutti ricordano come l’adultera: «Va e non peccare più». Mentre col dito Tu disegnavi sulla sabbia, quell’orribile pioggia di pietre e sangue si arrestò, non si abbatté su di lei. Il saggio Tu mi hai perdonata Maria Maddalena racconta la sua storia Tu scrivevi la nuova Legge. E allora anch’io, anch’io potevo essere perdonata. Perdono: nell’antica Legge non se ne parla, è prescritta invece una pena a saldo di ogni colpa. Da tempo ormai evitavo la Sinagoga. Quella di Magdala è imponente, con i suoi mosaici e i suoi affreschi, al centro la scultura della menorah, come quella a sette bracci del tempio di Gerusalemme. Tornai, nel tempio, per udire le Tue parole, nascosta sotto il velo e dietro una colonna, come una ladra, e il mio cuore da tempo indurito riprese a sanguinare, insieme alle lacrime. Finalmente fluivano quegli umori, di gioia e contrizione insieme, era pentimento, ora lo so: dolore per quello che ero stata e sollievo per il desiderio di divenire un’altra. Volevo essere simile a Te, mettermi al tuo seguito, servirti e aiutarti. Ma Tu mi avresti accettata? Forse la mia era ancora una stupida presunzione di donna? Così quel giorno venni a cercarti. Tu eri a casa di quel fariseo, Simone, che ti aveva invitato a mangiare con lui. Entrai, il cuore mi esplodeva, come se stessi profanando un tempio. Al petto stringevo un vasetto di alabastro ricolmo di olio di nardo, il profumo delle spose. Strisciai per terra, come un animale, mi feci piccola e mi rannic- chiai ai tuoi piedi. Piansi, le lacrime irrigavano i Tuoi santi piedi e io li cospargevo di profumo, li coprivo di baci, fra i singhiozzi. Poi li asciugai, ma non usai il velo, no, li tamponai con i mei capelli di seta, come con uno straccio. Era il solo modo che conoscevo per dirTi: vedi, sono un’altra. Vedi, i miei occhi sono puliti, le lacrime sono limpide, non scurite dallo stibio. Pulisci la mia anima, perdonami. Perdonami, ti prego. Poi accadde il miracolo: mi hai difesa dalle indignate, indegne accuse del tuo commensale. Hai difeso la mia dignità di donna, di essere umano che ha peccato e si è pentito. Le tue parole risuonavano dentro di me come il fragore del tuono: «I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco». Così rispondevi a Simone, mentre a me ridavi la vita: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». Da allora divenni la tua ombra. La gente mi additava: «Quella è Maria di Magdala! Da lei sono usciti sette spiriti!». Non me ne curavo, ne ridevo anzi, con Giovanna, Susanna e con le molte altre che avevi guarito e che si erano unite a noi. Con loro, cercavo di imparare dal mio Maestro, non perdevo una Sua parola, e la mia fede diveniva sempre più salda. Le tue donne. Non dimenticherò mai i loro occhi sotto la croce, quelli di Tua madre erano sbarrati in un grido che volò in cielo, nel buio boato del terremoto. E poi la luce. Quei teli candidi, abbaglianti, come la pietra del Tuo sepolcro. Gli uomini, Pietro e Giovanni, pensavano che vaneggiassi, come fanno le donne. Sono andati via. Io resto qui e, stupida donna, piango. Chiedo di Te a due figure vestite di splendore. Mi volto. Non comprendo che sei Tu, e non perché le lacrime velano la mia vista, sei così diverso. Credo che tu sia il custode del giardino. O sto vedendo l’Eden? Ma la tua voce, «Miriam!», quella sì la riconosco. «Rabbunì!». E affidi l’annuncio a una piccola donna, peccatrice: «Va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Hai fatto di me la discepola. Hai rimesso i mei peccati fino a tal punto. Mi chiamo Miriam, sono nata a Magdala e risorta nel perdono. Au-delà du pardon Lo sguardo e gli studi di Lytta Basset, docente di teologia protestante all’università di Ginevra sono sempre stati rivolti alle grandi questioni teologiche e spirituali del mondo attuale. Il senso di colpa, la compassione, l’amore che non divora l’altro sono tra i temi affrontati nelle sue numerose opere. In Au-delà du pardon. Le desir de tourner la page (Presses de la Renaissance, 2006) ci parla del difficile percorso del perdono raccontando passo passo una ricerca durata dieci anni. Il perdono — spiega — non è un fine personale, ma la decisione di voltare pagina per raggiungere la propria liberazione e la propria pacificazione. È la strada per imparare ad accettarsi e ad amarsi, per raggiungere una nuova e profonda unità interiore. Gesù non chiede a Dio di dare agli uomini la forza di perdonare perché non dubita della loro capacità e della loro forza. Infatti nella sola e unica preghiera che Gesù insegna agli apostoli, il Padre nostro, si dice «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il perdono è parte della condizione umana, suggerisce Lytta Basset: si tratta di cominciare a cercarlo con determinazione e con la convinzione che in questa ricerca non si sarà mai soli. «L’Altro — umano e divino — è la roccia alla quale posso comunque aggrapparmi». (ritanna armeni) Il film Les enfants de Belleville Akbar, sedici anni, ha ucciso la sua ragazza e ha provato a uccidersi. È in carcere e al compimento dei 18 anni può essere condannato a morte. Il più caro amico e la sorella chiedono al padre della ragazza di perdonarlo. Solo così Akbar potrà sfuggire alla condanna. Ma il padre è irremovibile: una vita per una vita, il sangue del colpevole per il sangue della vittima. È questa la legge del taglione, è questo ciò in cui lui, uomo pio e religioso, crede. È questo che prevede la giustizia del suo Paese. Ma è davvero così? È la legge di Allah che vuole la vendetta ed esclude il perdono? Asghar Farhadi, regista del bellissimo Una separazione, in Les enfants de Belleville (2004) entra nelle contraddizioni della società iraniana e nel dibattito civile e religioso di quel Paese. Si scopre che il sangue di una donna vale la metà di quello di un uomo, quindi Akbar non può essere ucciso se il padre della vittima non paga l’altra metà. Si racconta di uomini e di donne divise fra la legge del perdono e quella del taglione. «Allah è potente e misericordioso», ricorda nella moschea l’imam al padre che vuole vendetta. E insiste: «Misericordioso». (ritanna armeni) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women ATTENTATO A BARGEETA ALMBY Una missionaria laica protestante è stata vittima di un tentato omicidio a Lahore, capitale della provincia del Punjab, e si trova in condizioni critiche all’ospedale Jinnah. Bargeeta Almby, 72 anni, di nazionalità svedese, era nella sua auto quando due uomini in motocicletta si sono avvicinati sparando ripetutamente e colpendola al petto. L’attentato è avvenuto il 3 dicembre, alle due del pomeriggio. La missionaria opera in Pakistan da oltre 38 anni e, come riferisce l’agenzia Fides, era pienamente integrata nella comunità. Bargeeta dirige i programmi sociali di una associazione cristiana, la Full Gospel Assemblies of Pakistan (Fga Church), attraverso un’organizzazione non governativa che si occupa di istruzione e formazione professionale. In particolare è responsabile di un orfanotrofio, lavora con bambini disabili e poveri, gestisce un corso di formazione in ostetricia. Il Pastore Liaquat Kaiser, capo della Fga Church, ha detto che «si tratta di un attacco premeditato», ma che la donna «non aveva ricevuto minacce». Il cattolico Paul Bhatti, consigliere speciale del primo ministro per l’armonia nazionale, ha dichiarato: «È un atto terroristico, anti-umano e anti-pakistano. Negli ultimi giorni è stato ucciso l’imam di una moschea a Karachi ed è stato dissacrato un cimitero di Ahmadi a Lahore. Ora il tentato omicidio di questa missionaria. Sono atti che intendono destabilizzare il Paese e soffiare sull’odio religioso. Come pakistani dobbiamo restare uniti nel condannare e combattere l’estremismo». Ancora in stato di incoscienza, il 10 dicembre Bargeeta è stata rimpatriata. «Siamo certi che in Svezia potrà ricevere cure mediche appropriate — ha detto Kaiser — e che sentirà la vicinanza della sua famiglia e della sua comunità di origine». Tiziana Guerrisi — è il primo esperimento in Italia di un rapporto prodotto in forma multimediale, che rende disponibile a tutti un prezioso archivio sulle carceri italiane. E che ci ricorda il dramma di maternità e detenzione, invitandoci a metterci nei panni dei bambini. LA I FIGLI DELLE DETENUTE Una mamma racconta tra le lacrime il suo dramma: tra qualche giorno la figlia verrà allontanata da lei. La donna — che deve scontare una lunga pena — è detenuta nel carcere di Solicciano (Firenze) e la bimba, che sta per compiere tre anni, è già stata dichiarata adottabile. Un’altra è già stata adottata. È questa una delle tante interviste realizzate da settembre a novembre 2012 all’interno di una ventina di istituti italiani, che va a sommarsi a decine di fotogallery, video, approfondimenti su temi importantissimi. Accesso ai diritti fondamentali, condizioni di vita dei detenuti, stato delle infrastrutture, futuro degli ospedali psichiatrici giudiziari (la loro dismissione è prevista entro marzo 2013). Tutto questo è scaricabile gratuitamente su www.insidecarceri.com, realizzato da Next New Media, società di comunicazione nata nel 2011. Il progetto — ha spiegato la curatrice MADRE DEL VIOLINISTA Tra i tanti eroi della Costa Concordia che hanno sacrificato la loro vita per salvare gli altri mentre si consumava la tragedia al Giglio il 13 gennaio 2012, vi era anche Sándor Fehér, violonista ungherese di etnia rom, morto per aiutare i bambini intrappolati. Márta Vertse della Radio Vaticana ne ha appena intervistato la madre, Tereza. «Dobbiamo sfatare una volta per tutte — fa presente la giornalista — il mito che Sándor sia tornato a prendere il violino prezioso. Anche recentemente è stato riproposto questo fatto falso dalla televisione italiana. Sándor non è tornato per il suo amato violino e non è scappato dalla nave che affondava. Voleva salvare valori molto più preziosi: vite umane». Risponde Tereza: «Tutti i sopravvissuti hanno confermato che il violino era rimasto nella sala dove avevano suonato. Quando l’orchestra è scesa e hanno assegnato le uscite per salvarsi, tutti hanno occupato i loro posti e Sándor ha solo pensato a salvare la vita dei bimbi rimasti soli nella Abbonamenti e auguri Grandi novità per il nostro inserto. Da gennaio saremo in edicola ogni secondo giorno del mese. È ora anche possibile abbonarsi all’inserto «donne chiesa mondo» al costo di 10 euro per gli 11 numeri annuali. Non manca la formula regalo, attraverso la cartolina con il disegno di Isabella Ducrot riprodotta qui affianco. A chi attiverà più di tre abbonamenti, in dono il numero speciale dell’«O sservatore Romano» dedicato ai centocinquanta anni della sua storia. Per sottoscrivere l’abbonamento, scrivere all’indirizzo [email protected] o chiamare il numero 06 69899470 (fax 06 69882818). Intanto, a tutte e tutti i nostri migliori auguri per l’imminente Natale. L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2012 numero 7 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va confusione. Pochi giorni fa un passeggero russo ha postato un video inedito su Facebook: sono le ultime immagini di Sándor, alle 4 di quella notte. Lo si vede benissimo: con indosso il giubbotto giallo di salvataggio — quelli dei passeggeri erano arancioni — dirige la gente. Non è scappato: è rimasto sulla nave fino all’ultimo per salvare le persone». Ricordando come Sándor avesse sempre la Bibbia con sé, Tereza conclude: «Vivo la mia tragedia nella consapevolezza che Dio ha chiamato a sé Sándor, perché ha bisogno di lui lì». SETTIMANA SO CIALE IN FRANCIA Hommes et femmes, la nouvelle donne è il titolo della Settimana sociale tenutasi a Parigi dal 23 al 25 novembre. «Superare gli stereotipi e lottare contro i modelli di dominazione» sono gli appelli risuonati con maggior frequenza, come ha scritto Sarah Numico, inviata Sir. François Ernenwein, caporedattore di «La Croix», ha commentato: «L’uguaglianza tra uomini e donne è uno dei principi che misurano l’avanzamento di una società. Sebbene il diritto di famiglia e del lavoro abbiano registrato i cambiamenti di mentalità che hanno accompagnato l’emancipazione delle donne, dibattere di uguaglianza non dispensa dall’interrogarsi su quale ne sia la trama. Uguaglianza non significa uniformità. Occorre tenere conto di cosa fa la differenza dei sessi e il loro apporto specifico al bene comune». Anche Najat VallaudBelkacem, ministro per l’Uguaglianza, ha affermato: «L’uguaglianza non è una lotta tra gli uni e le altre. È una leva per far progredire la società». Secondo la vice presidente della Commissione europea Viviane Reding, «la povertà oggi in Europa è femminile e rischia di esserlo sempre più, soprattutto tra le donne al di sopra dei 65 anni». E Claude Martin, sociologo e ricercatore: «I poteri pubblici possono avere un ruolo centrale per aiutare a promuovere l’uguaglianza. Innanzitutto intensificando gli sforzi per sviluppare servizi per la prima infanzia o per sollecitare gli uomini a occuparsi maggiormente del lavoro di cura, ad esempio facendo ricorso al congedo riservato ai padri». KAROLINA KOZKOWNA Tra le reliquie dei beati polacchi da poco condotti al santuario dei nuovi martiri nella basilica romana di San Bartolomeo, ci sono anche quelle di Karolina Kozkowna, la Maria Goretti polacca, assassinata a 16 anni da un soldato russo. Malgrado il conflitto in corso (era il 18 novembre 1944), ai funerali parteciparono tremila persone. Da allora la devozione verso Karolina, patrona dei movimenti della gioventù polacca, è rimasta vivissima. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Francesca della ipermodernità La santa del mese raccontata da Franco La Cecla robabilmente la modernità non fa parte delle motivazioni determinanti la santità di un cristiano. Eppure nel caso di madre Cabrini è proprio la sua modernità, o addirittura ipermodernità a renderla un personaggio che diventa sempre più attuale e quindi sempre più vicino all’esperienza dell’umanità oggi. Forse è per questo che questa santa è così poco conosciuta in Italia e così tanto conosciuta in America. Per altro, per completare il quadro, madre Cabrini è stato il primo cittadino americano a essere proclamato santo. Oggi per parlare della sua esperienza e del suo percorso occorrerebbe usare parole come “transnazionalità”, “identità ibride”, “identità in diaspora”. In un mondo sempre più globalizzato, una condizione spesso inevitabile per centinaia di milioni di persone costrette a lasciare il proprio luogo di origine, sono intervenute però delle nuove occasioni che hanno reso questa esperienza qualcosa di completamente diverso dal passato. Oggi gli emigranti, gli emigrati, ma anche le generazioni di seconda e terza emigrazione grazie anche alla maggiore facilità degli spostamenti vivono una condizione sospesa — e non sempre in maniera dolorosa — tra due mondi, quello d’origine e di appartenenza culturale, linguistica, religiosa, e quella di arrivo in un paese di accoglienza. Madre Cabrini intuì in anni di assoluta indigenza per gli emigrati italiani in Nord America e poi nel mondo che un atteggiamento nostalgico o al contrario una adesione acritica al mondo di arrivo non rendevano la verità dell’esperienza umana dell’emigrazione. Era difficile davvero ai suoi tempi non cadere nella tentazione del ripiegamento delle identità in diaspora su se stesse: rancori, difficoltà, povertà, durezza di vita potevano dare all’emigrato italiano l’idea che fosse meglio chiudersi in un passato che si portava nel cuore. Tentazione che a distanza di un secolo è la prima di ogni identità in diaspora. Oggi che i media, televisioni satellitari anzitutto, ma anche le comunicazioni più facili, i voli low cost, lo consentono è possibile vivere in un Paese e lavorarci continuando a considerarsi stranieri a esso. La tentazione identitaria, quella che attribuisce il male a tutto ciò che è esterno alla propria origine, è probabilmente alla radice di molti fondamentalismi. La diaspora islamica, ma anche hindu o ortodossa in genere cristiana rischia sempre di concepirsi come reazione al mondo nuovo, come rifiuto delle sue tentazioni e condanna tout-court della modernità che esso rappresenta. Il velo, ma anche l’attaccamento alle tradizioni come se fossero solo uno strumento di difesa dall’esterno hanno molto a che fare con una presunta superiorità del proprio passato interiore. Spesso alle categorie culturali della differenza si sostituiscono le categorie temporali del passato contrapposto al presente. È incredibile che una donna cattolica, cristiana abbia capito questo così presto e ne abbia fatto una metodologia di integrazione. E anche qui bisogna capirsi. Perché madre Cabrini non ha mai esaltato l’America come American dream, ne ha sempre avuto una idea molto chiara e realistica. L’America non era né meglio né peggio dell’Italia della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX . Era forse meno ipocrita di quanto fosse l’Italia con i suoi emigranti, di cui cullava la retorica, ma di cui sfruttava appieno le rimesse in valuta pregiata. Però l’atteggiamento cabriniano nei confronti della globalizzazione si basava P Samundar Singh con la madre di Rani Maria, Eliswa Paily Il cuore dell’assassino di GIULIA GALEOTTI ou’re my son, and I’m glad you came»: aprire le porte della propria casa, baciare, fare sedere a tavola con la propria famiglia, mangiare con lui. Com’è umanamente possibile accogliere nella vita e nel cuore l’assassino della propria figlia? Abbracciare le mani macchiate del suo sangue? È il mistero del perdono — radicale, potente e silenzioso — il centro del bellissimo film The Heart of a Murderer (che esce a gennaio) girato in India dalla regista italo-australiana Catherine McGilvray. In un’ora, la pellicola racconta la storia di Samundar Singh, il giovane fanatico indù che nel 1995, a ventidue anni, uccise suor Rani Maria, missionaria francescana originaria del Kerala. Accoltellatala per 54 volte, la abbandonò sul ciglio della strada. Una morte lenta, lentissima nella solitudine più completa: «Tu, Gesù, almeno avevi tua madre e i tuoi amici più cari ai piedi della Croce — sono i primi pensieri di suor Selmy Paul, la sorella di Rani, appena avuta notizia dell’omicidio — Mia sorella invece è morta senza nessuno attorno». Arrestato e condannato all’ergastolo, Samundar viene perdonato dalla famiglia di Rani, che non solo chiede (e ottiene) per lui la grazia, ma che arriva ad accoglierlo come un figlio e come un fratello. Tra i narratori principali del film, lo stesso Samundar, che ricorda i fatti mentre, dal suo villaggio del nord dell’India, sta anSamundar con Swami Sadanand dando in treno a trovare la famiglia di Rani Maria, che vive nel Kerala. È il viaggio del suo risveglio spirituale, del passaggio da giovane imbevuto di odio e ignoranza a uomo libero nell’amore. Quasi parlando a se stesso, Samundar è timido e per certi versi incredulo mentre espone il perdono incondizionato e inatteso, manifestato da chi è stato irreparabilmente colpito dal suo gesto assassino. È affascinante notare il linguaggio che Samundar utilizza nel presentare la sua dolorosa storia: come la regista spiega a «donne chiesa mondo», è stato lui stesso a scegliere di raccontare, più che attraverso le parole, mimando nuovamente quei terribili gesti, interpretando se stesso. «È il modo indiano di raccontare — continua McGilvray — e ho accettato ben volentieri questa “contaminazione” culturale, nella speranza che rappresentasse un passo ulteriore verso il tentativo di cogliere lo spirito autentico di questa incredibile vicenda». Ma il film parla anche attraverso la voce della sorella e della madre di Rani, due donne accomunate dall’amore e dal dolore, dal pianto e dalla pace. Sono presenze che restano profondamente impresse per la serenità emanata dai loro volti e dai loro gesti. Nessuna esaltazione o esagerazione in loro: solo la forza feconda del perdono capace di accogliere nel profondo. La madre, in particolare, arriva a comprendere il senso della morte di sua figlia, dopo che, inizialmente, non ne aveva condiviso nemmeno la scelta religiosa. La quarta voce narrante è infine quella di Swami Sadanand, il sacerdote con la vocazione del pacificatore («laddove c’è un conflitto, io vado e mi propongo»), il primo a essere andato a trovare Samundar Singh in carcere, diventandone poi la guida, il padre spirituale. Senza alcuna retorica né gusto del macabro, senza strumentalizzare i fatti o enfatizzarne i protagonisti, il film di Catherine McGilvray narra — con rispetto, poesia e forza insieme — una storia paradigmatica, capace di elevarsi, nel suo profondo e universale significato, al di là del contingente. La vicenda, ci racconta McGilvray, le venne incontro nel 2009: da allora il suo desiderio è stato quello di riuscire a trovare la chiave per capire e quindi per raccontare, la sorprendente risposta della madre e della sorella di Rani Maria all’orrore che hanno dovuto affrontare. «Sono andata in India — spiega la regista — volendomi affidare del tutto a questa storia». Il messaggio è dirompente. Il perdono può veramente trasformare l’odio in amore. Nel corso del film, Samundar Singh racconta, pacatamente e senza alcuna esaltazione, il radicale e progressivo cammino della sua conversione, dalla disperazione («nessuno mi può perdonare. Nemmeno Dio») alla rinascita. Oggi quest’uomo è una persona consapevole, vero testimone della grandezza potente e vitale dell’immenso dono che ha ricevuto. «Y Sarebbe bello se fosse proclamata patrona della capacità di essere cittadini del mondo su un approccio pragmatico: inutile piangersi addosso e fare le vittime della modernità. Si trattava invece di acquisire gli strumenti per farne parte a pieno titolo: la lingua inglese prima di tutto, ma soprattutto la comprensione delle categorie culturali del mondo in cui ci si trovava a vivere. Cosa dava a madre Cabrini quella marcia in più da farne una santa della ipermodernità? Probabilmente la mancanza di pregiudizi, l’apertura al mondo, la curiosità del nuovo, tutte qualità di un cosmopolitismo vero. Era una forma connaturata a una formazione cristiana, una inevitabile conseguenza di un universalismo? Non saprei: di sicuro era una grande capacità di relativizzare le cose, di relativizzare le culture e i loro “valori”. C’era in questo un coraggio di esplorazione che poi riverberava nella ricchezza con cui Una delle rare foto giovanili di Francesca Cabrini Franco La Cecla (1956) ha insegnato antropologia culturale in varie università, tra cui Bologna, Palermo, Venezia, Verona, l’università VitaSalute San Raffaele, l’università della California a Berkeley, l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, l’Universidad Politécnica de Barcelona, l’École polytechnique fédérale de Lausanne. Tra le sue pubblicazioni, Mente Locale, un’antropologia dell’abitare (Eleuthera 2011), Perdersi (Laterza 2010), Il Malinteso (Laterza 2009), Contro l’Architettura (Bollati Boringhieri 2009). Ha vinto il Festival del cinema di San Francisco con il documentario In altro mare (2010). madre Cabrini viveva il viaggio. Questo non era per lei un magnifico diversivo, ma proprio una esperienza fondamentale della relatività e della comunanza tuttavia di problemi, umanità, speranze. Sarebbe bello se oggi madre Cabrini venisse proclamata patrona della globalizzazione e, perché no, della capacità di essere finalmente cittadini del mondo e non solo di una sua parte.