Stefania Sperandio - Unforgiven (promo)

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Stefania Sperandio - Unforgiven (promo)
STEFANIA SPERANDIO
UNFORGIVEN
- VOLUME PRIMO -
La Riflessione
STEFANIA SPERANDIO
UNFORGIVEN
PROPRIETÀ
LETTERARIA RISERVATA
L'OPERA È FRUTTO DELL’INGEGNO DELL'AUTORE
© 2012 La Riflessione
Davide Zedda Editore
Via F.Alziator, 24
09126 – Cagliari
www.lariflessione.com
[email protected]
[email protected]
Prima Edizione
finito di stampare nel mese di febbraio 2012
A chi non si rassegna sotto al cielo triste
nell’apocalisse che è la vita.
A Luca, in ogni pagina, da sempre.
Ad Andrea Zanella, al suo angelo custode.
A Debora Comito, che ha ispirato quest’opera.
A Marta Piras, a Martina Foddis e a Roberta Pinna,
che riempiono il mio vuoto con la loro incantevole luce.
A Jana Ballette, per il suo sorriso. E per il mio.
“Ciò che ho provato, ciò che ho saputo,
non sono mai riusciti a risplendere
in ciò che ho mostrato.
Mai libero, mai me stesso,
il mondo mi ha etichettato,
e per me sarà Imperdonato”.
METALLICA – THE UNFORGIVEN
“Dio creò l’uomo […].
Vide quanto aveva fatto, ed ecco,
era cosa molto buona”.
GENESI, 1-27, 1-31
UNFORGIVEN
La mia casa è lontanissima. La vita mi è irraggiungibile.
Il riposo mi giace così vicino. Sotto ai miei piedi, sotto alla rosa nera
che il mio cuore è divenuto, è sepolto il mio amore da tempo perduto. C’è solo questa muta croce a parlarmi di te.
Dicevi che i miei occhi erano limpidi come quelli di un lupo. Vorrei
che lei potesse oltrepassarli e scoprire quanto di umano è rimasto in
me.
Invece, io ti amo.
Ti amo, ed odio troppo me stesso per potertelo dire.
Vorrei non essere qui.
Vorrei essere qui.
Vorrei solo averne il coraggio.
Vorrei solo averne la codardia.
Vorrei solo avere un’altra notte ancora da vivere.
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UNFORGIVEN
PROLOGO
7 Agosto 2005
Domenica, ore 7.52
Roma, Cimitero militare
Oblio. Impolverarsi nella memoria dei tempi, venire sepolti
nella clessidra sotto alla sabbia dell’inaccessibile avvenire,
accecati da un’alba radiosa con cui è impossibile entrare in
contatto: la fine della vita. La paura più grande dell’essere
umano, un tema a cui era impossibile non pensare, in mezzo
a quelle croci silenziose che lo fissavano con occhi severi.
Avrebbe voluto poter evitare di andar via così, ma – fin da
quando era bambino – mal sopportava il pianto che gli chiudeva la gola, che lo costringeva a sentirsi insignificante e
debole. Eppure, decise di affrontarlo, di farsi coraggio per
provare ad ingoiarlo, tutt’al più a trattenerlo, al massimo a sfogarlo. Con gli occhi azzurri umidi di umanità rivolti verso il
cielo a cercare comprensione, il diciannovenne Davide Lilliu
arrestò il passo e sospirò, teso. Voleva vederli ancora, almeno
un altro istante, per l’ultima volta. Convintosi, deglutì e si
voltò lungo il viadotto in pietra del cimitero. Le sue iridi, pur
da lontano, si posarono ancora sulle quattro tombe dei compagni che aveva perso poche settimane prima. Tra loro, dietro
a quelle croci, si nascondevano anche il suo migliore amico, e
la sola donna che Davide avesse mai amato. E che amava
ancora.
Al sopraggiungere di quel pensiero, le lacrime lo sconfissero, correndogli lungo le guance. Con passo incerto, Davide
camminò fino alle lapidi e, allo stremo delle forze, ci si lasciò
cadere innanzi, in ginocchio. Aprendo le braccia come a voler
stringere a sé i compagni svaniti, alzò lo sguardo al cielo,
scuotendo il capo.
«Serena» si rivolse all’amata, strozzato dal pianto «non
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sono niente senza di te. Dove sei? Ti prego, dimmi dove sei…
Io… ho bisogno di te».
Con la mano destra, denudato nella sua debolezza, tentò di
asciugare le lacrime che gli correvano lungo le guance, pur
non riuscendo ad evitare che queste gli inumidissero la splendida uniforme dell’Esercito Italiano, scivolando via dal viso.
Cadde prostrato innanzi a quella croce, a tutto ciò che gli
rimaneva di lei. Rialzando appena lo sguardo e muovendolo a
destra, scorse anche la lapide del suo migliore amico.
Sconfitto, si consegnò al pianto, senza più alcun ritegno.
Ogni lacrima versata lo avrebbe fatto crescere, l’avrebbe
aiutato a comprendere che tutto ciò che si può fare per onorare il passato è affrontare il futuro. Un timido raggio di sole
mattutino penetrò le nubi che coprivano il cielo triste, posandosi proprio alle spalle delle quattro croci, creando un effetto
surreale e magnifico: abbagliato da quella luminosità, Davide
tirò su col naso, cercando di farsi coraggio. Timidamente, si
accostò alle croci – sul cui braccio maggiore il suo vecchio
comandante, il sergente Claudio Simoni, aveva abbandonato
la coppia di targhette di riconoscimento di ciascuno dei caduti – ed accostò le mani, facendo sua una delle due piastrine di
ognuno dei compagni. Fissando quelle targhette con i loro
nomi, strette nella sua mano destra, scosse il capo.
«È tutto ciò che mi rimane di voi» ammise a se stesso.
Tirando ancora su col naso, si fece del male. Chiuse gli occhi,
ed accostò le labbra alla croce di Serena, baciandola. La sensazione che il contatto con quel marmo gelido gli suscitò lo aiutò
a comprendere che la sua amata non era diventata altro che
perpetuo silenzio.
«Mi hai salvato la vita» le sussurrò «ora ti apparterrà per
sempre».
Il ricordo dell’infinita forza d’animo di Serena lo aiutò a
riscuotersi. Smise l’elegante cappello, e lo adagiò sulla croce
della sua donna. Lo avrebbe abbandonato a lei, affinché
Serena potesse sentirlo vicino, affinché potesse aver meno
paura del freddo che l’aveva colta. Fissando la sua croce con
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sopra il cappello, inginocchiato, Davide abbozzò un timido
sorriso.
«Ti amo» fu tutto ciò che riuscì a sussurrarle. Si tirò su in
piedi e prese un respiro profondo. Poi, esattamente come
aveva fatto qualche minuto prima — pensando però di andarsene subito dopo — si irrigidì nel saluto, scattando sull’attenti per rendere omaggio ai compagni.
In qualche modo, erano sopravvissuti tutti: dentro di lui.
Avrebbe vissuto anche solo per tenere vivido il loro ricordo.
Si voltò e procedette verso l’uscita. Tra le lapidi che popolavano il cimitero, il sole si posò sul fregio del suo cappello,
abbandonato sulla tomba di Serena, da cui si levò un riflesso
accecante.
Da quel sentiero, Davide ricominciava a vivere.
Sulla croce di lei, moriva il Davide soldato. La vita come da
sempre l’aveva conosciuta.
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I
APOCALYPSE
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Apocalisse
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CAPITOLO PRIMO
“INCONSAPEVOLE”
7 Marzo 2015
Sabato, ore 23.11
Palermo, Appartamento Zanti
Infastidita dalla luce abbagliante emessa dal monitor, Debora
si stropicciò gli occhi, cercando anche di scacciare i primi sintomi del sonno. Mentre il computer seguitava a caricare la
schermata successiva, abbassò lo sguardo verso il ripiano
della scrivania e, aiutata da quella fioca luce che tanto le infastidiva gli occhi stanchi, si gettò tra le righe del voluminoso
libro, su cui era costretta da un imminente esame universitario. Nonostante trovasse ottima la qualità di quel testo, si sentiva davvero troppo stanca per finire di studiare, e pensò che
avrebbe potuto terminare la domenica, dal momento che l’appello a cui era iscritta era fissato per il lunedì seguente. La
poca forza che le rimaneva, le avrebbe consentito appena di
consultare delle dispense, raggiungibili attraverso un collegamento Internet indicato proprio sul volume stampato.
Sbuffando, la diciannovenne chiuse il libro, e rimase immobile a fissarne la copertina, leggendone il titolo: “Informatica
teorica”, interamente scritto e curato dallo statunitense dottor
Cristopher O’Neal, una vera e propria autorità nel campo
della programmazione e della tecnologia.
Debora si voltò in direzione del suo computer portatile —
un Apple MacBook bianco — che aveva rapidamente ultimato il download della pagina verso cui il libro del dottor O’Neal
l’aveva indirizzata. Quando i suoi occhi vispi ed intelligenti
decifrarono sul monitor l’indicazione secondo la quale la
pagina non era più disponibile, la ragazza aggrottò le sopracciglia.
«Che sfiga» commentò, «il sito del dottor O’Neal non esiste
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più». Rapide, le sue dita si rincorsero lungo la tastiera, componendo l’indirizzo di un motore di ricerca: da lì, la ragazza
pensò che avrebbe potuto rintracciare un URL alternativo per
le dispense.
Quando il motore di ricerca, alla digitazione dei parametri,
le rispose che il solo sito disponibile era quello che si era rivelato non più esistente, la ragazza si insospettì. Perché mai il
portale web di uno dei più grandi esperti di informatica ed
elettronica mai esistiti era stato cancellato? E, soprattutto, perché non era riuscita a rinvenire sull’intero Web nemmeno una
pagina che citasse il nome del dottor O’Neal?
Fin da quando era solo bambina, Debora avrebbe potuto
essere definita un mago del computer. Col passare degli anni,
il suo interesse per il mondo virtuale si era accresciuto sempre
di più, di pari passo con le sue capacità. Chiunque l’avesse
vista armeggiare con il suo MacBook, non avrebbe potuto
negare che si trattava di una hacker in piena regola.
Probabilmente, non esisteva nessun archivio elettronico in cui
la giovane palermitana non sarebbe riuscita a penetrare, nessun sistema di protezione che lei non sarebbe riuscita a manomettere. Ogni giorno, si infiltrava in server protetti per puro
gioco, per sentirsi brava, per darsi un tono, per migliorarsi. Ma,
soprattutto, per dare un senso a quelle serate piatte in cui non
le andava di uscire: lei, che era così socievole e quieta, aveva
scoperto ogni giorno di più di appartenere ad un’altra generazione, di non rispecchiarsi pienamente nelle persone che frequentava, di non sentirsi capita fino in fondo. Lei ed il resto
del mondo avevano qualcosa di diverso, una divergenza
incolmabile da cui il computer l’aiutava a fuggire.
Non sapendo più a quale indirizzo rinvenire gli approfondimenti di cui necessitava per l’esame, premette il tasto “indietro” sul browser, tornando alla pagina precedente e scontrandosi nuovamente con quello sfondo nero, lugubre, e con quella scritta bianca, tutta in inglese: “la pagina richiesta è stata
rimossa”. Sbuffando, con pochi click sul trackpad del portatile
raggiunse il codice sorgente della pagina e, nonostante la stan16
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chezza, prese rapidamente a decifrarlo.
«E tu da dove spunti?» si domandò ad alta voce la ragazza,
analizzando l’indirizzo che le indicava la provenienza dell’immagine di sfondo della pagina, che pareva essere stata collegata da un sito remoto. Debora risalì facilmente all’indirizzo
del sito proprietario dell’immagine, e lo raggiunse con due
click.
Quella nuova schermata la lasciò interdetta. Lo sfondo
scuro era rimasto invariato: una schermata nera con, sul lato
sinistro, il palmo di una mano aperta, riempita ugualmente di
nero e contornata in bianco. Sul lato destro, invece, una scritta in rosso scuro, in inglese: “La Mano Nera”, e appena più in
basso, “Accesso negato”.
«Che diavolo è?». Debora aveva l’irrazionale abitudine di
parlare da sola.
Inizialmente, immaginò che doveva trattarsi del portale di
un gruppo di hacker come lei, solo con la pessima abitudine
di distruggere i contenuti degli archivi, dopo essere riusciti a
penetrarli. Spinta dal suo istinto, avviò le applicazioni di
manomissione che lei stessa aveva creato e programmato,
decisa a comprendere perché mai qualcuno potesse avere
interesse a cancellare l’innocuo sito di un grande informatico.
E, soprattutto, decisa a scoprire se gli uomini della Mano Nera
avevano fatto dei back-up dei file, prima di cancellarli. Se, in
qualche modo, poteva rinvenire sul loro server le maledette
dispense su cui sarebbe stata interrogata appena due giorni
dopo.
Debora portò la mano destra alla fronte, lottando contro il
tremendo mal di testa che, da almeno due orette, aveva
cominciato a tormentarla. Incaponitasi, la ragazza stava ancora tentando di accedere ai file presenti sul server della Mano
Nera, mentre — a basso volume — una vecchia ballata di
Ligabue, che per lei aveva da sempre un significato simbolico
profondissimo, le faceva coraggio e compagnia.
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Nonostante la stanchezza, rimase ancora concentrata sul
portatile, cercando di decodificare tutti i dati che le avrebbero
consentito di accedere ai file protetti. Mentre il programma
seguitava ad analizzare la protezione, come lei gli aveva impostato di fare, Debora abbandonò la scrivania, muovendo i
pochi passi necessari a raggiungere la finestra della sua camera da letto, una stanzetta rettangolare arredata totalmente in
verde, calda ed accogliente.
«… si alza la ballerina del carillon…» cantò Ligabue, dalle
casse del suo stereo.
Debora piantò i gomiti sul davanzale e, portando le mani
alle guance, alzò gli occhi nocciola verso la luna piena.
Sorrise teneramente. Aveva da sempre amato perdersi nel
cielo notturno, fissarlo fino allo sfinimento. La faceva sentire
piccola ed insignificante, ma protetta, in una sorta di orrore
dilettevole che la cullava sempre, prima di addormentarsi.
«Se lunedì non passo l’esame, Dioguardi mi sentirà» disse,
riferendosi al suo professore di informatica teorica, «lui, ed il
maledetto libro di O’Neal che m’è venuto a consigliare».
Alle sue spalle, il MacBook emise una sorta di squillo di
tromba, un suono che lei stessa aveva scelto, e che l’applicazione eseguiva non appena riusciva a manomettere le protezioni
indicate. Debora chiuse gli occhi e deglutì: ce l’aveva fatta, per
l’ennesima volta. A passo lento, si accostò alla scrivania e –
rimanendo in piedi – diede l’Invio al programma. La finestra
si aggiornò, reindirizzandola all’homepage della Mano Nera.
La dicitura “Accesso negato” era scomparsa e, in pochi
istanti, la ragazza si ritrovò all’interno del portale.
Per la prima volta, non sapeva dove era andata ad infilarsi.
Era quasi mezzanotte. Ligabue continuava a cullarla con la
sua Ballerina del carillon – una delle sue canzoni preferite – la
luce soffusa della stanza la riscaldava. E le pagine di quel sito
oscuro le si riflettevano negli occhi.
Il portale della Mano Nera non pareva altro che un enorme
archivio dati. Intrigata, Debora non ne comprese effettivamen18
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te granché. Le pagine, di un accecante bianco su nero, erano
lunghissime liste di collegamenti, e all’interno di ciascuna di
esse si apriva un’altra infinita lista di reindirizzamenti. Era un
vero e proprio labirinto multimediale.
La giovane palermitana comprese che il solo modo che
aveva per rinvenire delle eventuali tracce di O’Neal, era servirsi della voce “Cerca”, presente sul sito. Digitò “Cristopher
O’Neal”, ed attese la risposta.
“Cielo Triste ‒ Cobra111” fu la sola risposta che la schermata le restituì. Lei deglutì, non capendo: cosa aveva a che fare
O’Neal con i Cobra111, un gruppo terroristico italiano esistito
nei primi anni del nuovo millennio? Sapeva che i Cobra si
erano impadroniti di un’arma nucleare, ed avevano minacciato di utilizzarla per sovvertire gli ordini mondiali.
Fortunatamente, un intervento congiunto delle truppe NATO
aveva sventato la minaccia, uccidendoli mentre erano rifugiati in Alaska, nel 2005.
«In che razza di sito sono capitata?» si chiese, «E cosa ha a
che vedere con O’Neal?». Le risposte a quei quesiti erano lontanissime dalla sua immaginazione. La sola cosa da fare per
saperne di più, era digitare come campo di ricerca la voce
“Cielo Triste”. Quando Debora si apprestò a farlo, un messaggio sovrastò la finestra del browser: “indirizzo IP non valido.
Accesso negato. Chiusura dell’accesso in corso”. In un istante,
la pagina scomparve, e la ragazza si ritrovò a fissare il desktop
d’avvio del suo fidato computer. Chiuse gli occhi e sbuffò. La
protezione della Mano Nera era più efficiente di quanto non
pensasse, e l’aveva respinta a pochi minuti dal suo accesso.
Non aveva nessuna intenzione di rimettersi al lavoro, era
troppo stanca anche solo per pensare di tenere aperti gli occhi.
Qualsiasi cosa Dioguardi le avesse detto il lunedì successivo,
si sarebbe rifiutata di rispondere a delle domande relative alle
irrintracciabili dispense del dottor O’Neal. Sfinita, si lasciò
cadere sul letto, stringendo forte a sé il suo cuscino verde.
Turbata dalla fastidiosa idea che l’esame potesse vanificare
l’impegno che lei aveva messo nella preparazione.
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Inconsapevole delle conseguenze che intrecciare il sentiero
della Mano Nera avrebbe potuto comportarle.
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CAPITOLO SECONDO
“PER DIECI ANNI,ATTENDERE”
7 Marzo 2015
Sabato, ore 23.42
New York, Palazzo di vetro dell’ONU
Il ticchettio costante della lancetta del suo costoso Rolex –
regalatole dai colleghi per festeggiare una sua promozione –
stava diventando un’eco martellante, capace di distrarla dai
suoi impegnativi pensieri. Indossava un elegantissimo tailleur
gessato, con sotto una graziosa camicia candida, e delle scarpe con tacco scure, semplici ma impeccabili. I capelli mossi,
corvini, lunghi fino alle spalle, che le incorniciavano ed abbellivano il viso da donna. Ed il trucco leggero, con un po’ di
matita scura attorno agli occhi, il color rosato sulle labbra ed
un po’ di fard sulle guance. E poi, quello che tutti gli uomini
notavano subito dopo la sua bellezza, scoraggiandosi: la fede
all’anulare sinistro, che portava con gioia ed orgoglio.
Erano passati così tanti anni da allora, eppure – se non per
quanto riguardava l’aspetto esteriore, forse – in realtà non era
mai cambiata. L’estremizzazione di qualsiasi esperienza non
fa altro che tirare fuori profili di noi stessi che già ci appartenevano, e che semplicemente non conoscevamo. In quei dieci
anni, per Valeria Ruggiero era stato così. Quasi ogni giorno,
aveva dissepolto dei profili del suo Io che non credeva esistessero, e li aveva accettati, valorizzati, fatti suoi, perché già lo
erano, che lei lo volesse o meno.
Per dieci anni, aveva atteso nell’ombra, studiando e divenendo addirittura un ispettore dell’ONU, impegnandosi concretamente per evitare che drammi come quello che aveva
coinvolto lei ed i suoi compagni, come quell’operazione Cielo
Triste, non potessero mai più ripetersi, per fare in modo che
quel dolore che l’aveva squarciata dal fondo non rimanesse
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inascoltato, ed insegnasse qualcosa alle generazioni future.
Invece no: gli equilibri internazionali avevano imposto che
non vi fosse memoria per loro, che la loro caduta rimanesse
impolverata e silenziosa.
Era il 2005, quando lei, la sua amica Stefania Zanetti ed altri
otto giovani membri dell’Esercito Italiano, erano stati coinvolti nell’operazione Cielo Triste. Convinti di dovere semplicemente trasportare dei dati statunitensi in un archivio segreto
in Alaska, si erano invece ritrovati braccati dalle truppe russe,
ed avevano scoperto di avere in mano non delle informazioni
qualsiasi, ma il progetto di un mortale cannone nucleare stealth, ossia invisibile ai radar di tutto il mondo. Gli Stati Uniti
li avevano utilizzati come sacrifici umani per cercare in vano
di far giungere il progetto fino alle isole Aleutine, consci che i
russi avrebbero cercato in qualsiasi modo di impadronirsene.
Ma, inaspettatamente, era proprio quello il loro intento: far
cadere il cannone, chiamato Blood, in mano ai loro storici rivali, e — manomettendone la tecnologia stealth ed il sistema di
controllo del lancio — costringerli a direzionare un missile
verso i paesi arabi, scatenando un putiferio internazionale che
avrebbe portato ad una gravissima crisi del petrolio, del quale
solo gli stessi Stati Uniti — grazie al progetto del visionario
dottor Hebner — potevano finalmente fare a meno, avendo
trovato una fonte di energia alternativa.
Attendendo quella telefonata, Valeria fissò la data sul quadrante del suo orologio. Sorrise appena: era il 7 marzo. Fin da
quando l’aveva persa, sapeva che il giorno della svolta non
avrebbe potuto essere che quello del compleanno dell’amica
Stefania. Malinconica, pensò che, se fosse sopravvissuta
all’operazione Cielo Triste, a quell’ora sarebbe stata con lei in
qualche locale a festeggiare i suoi ventotto anni. Purtroppo,
non era andata così. Seguitando a sorridere, risollevò lo sguardo, senza farsi nemmeno scalfire dall’idea di lasciarsi lucidare
gli occhi dal ricordo dell’amica. Era una botta che aveva imparato ad assorbire con gli anni: se, nei primi tempi, solo sentire
il nome dell’amica la faceva piangere, successivamente il suo
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ricordo l’aiutava a sorridere, a sentirsi più forte, ad andare
avanti. Non voleva più piangere: voleva lottare.
Il trillare del telefono la richiamò alla realtà. Nessuno sapeva che si trovava ancora nel suo ufficio, dunque poteva trattarsi solamente della chiamata che aspettava. Senza scomporsi, si
accostò con la poltrona girevole alla scrivania e sollevò la cornetta.
«Dottoressa?» fece una voce maschile, dall’altro capo, parlando fluentemente inglese.
Valeria annuì.
«Abe? Sono io. Hai scoperto qualcosa?».
«Dottoressa, forse ci siamo. Sembra che qualcuno sia riuscito ad infilarsi nel portale della Mano Nera. Posso risalire alla
sua identità, ed arrivarci prima che lo facciano loro.
L’infiltrato si è mosso con imprudenza, forse non era abbastanza esperto, ma se è riuscito a crackare la protezione del
loro sito, è proprio la persona di cui avevamo bisogno».
Valeria respirò a fondo, emozionata: era la svolta che aspettavano da tempo.
«Mi stai dicendo che ci siamo? Abe, è questo che intendi?».
«Sì, dottoressa, sì: è successo quello che aspettava da
tempo. Stanotte, possiamo fare qualcosa per i suoi vecchi
amici. Possiamo fare qualcosa per cambiare il mondo, dottoressa».
«Sei già riuscito a risalire alla provenienza dell’infiltrato?»
chiese la Ruggiero, impaziente.
«Sissignora: dalla sua Italia. Da Palermo, più precisamente.
Ho anche le precise coordinate del punto da cui si è connesso,
e nome e cognome a cui la Rete è intestata».
«Incredibile» balbettò Valeria «non ci siamo mai andati così
vicini. Possiamo farcela, Abe».
«Ce la faremo, dottoressa. Purtroppo, temo che anche la
Mano Nera stia già per risalire a queste informazioni.
Dobbiamo arrivare a quell’hacker prima che lo facciano loro.
Gli salveremo la vita, e rispolvereremo la memoria dei suoi
vecchi compagni».
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«E sovvertiremo il sistema, soprattutto. Dimostreremo che
la disinformazione globale regna sovrana».
«Proprio così, dottoressa: sovvertiremo il sistema».
«Abe, sapevo che sarebbe successo oggi. Sapevo che sarebbe stato il 7 marzo. Ne ero certa».
«Dottoressa, dobbiamo metterci subito in contatto con la
sua Milizia. Devono mettere in salvo l’hacker, e subito».
«Inviami via fax ciò che sei riuscito a scoprire della sua provenienza. Contatto subito i ragazzi. Questa volta, le catene di
quello che ci costringono a chiamare destino si spezzeranno. Il
destino lo creeremo noi».
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CAPITOLO TERZO
“VERITÀ MUTE”
8 Marzo 2015
Domenica, ore 3.17
Londra, Westminster Bridge
Il lento trascorrere degli anni, non gli aveva mai fatto sfuggire di mano la situazione. Qualsiasi cosa accadesse, ovunque
accadesse, lui ne era informato. Era lui a poterne decidere
l’inizio e la fine. Era la sua mente a riuscire a trovare il profilo
migliore delle cose che potevano diventare occasioni, a tramutare in guadagno anche la peggiore delle bestialità. E lo infastidiva venire a conoscenza del fatto che qualcuno, forse per
puro caso, aveva osato anche solo appena alterare l’equilibrio
di quell’ordine.
Era un uomo sulla cinquantina, coi capelli corti, biondi, la
fronte alta e due occhi chiari gelidi e severi. Indossava un
impeccabile smoking nero, e teneva le mani lisce e perfette
dentro alle tasche del suo cappotto lungo fino alle ginocchia,
nero anche quello.
La notte londinese era come sempre di un freddo penetrante. Il cielo, visibilmente grigio nonostante il buio, svelava una
luna timida, ma rassicurante. E, consuetudine delle grandi
metropoli, le strade non erano mai deserte. Lo spettacolare
Westminster Bridge, che l’uomo stava attraversando per raggiungere la sua destinazione, era popolato da diversi altri
pedoni che, silenziosi e infreddoliti, marciavano ciascuno
nella propria direzione. Silenzioso, il Tamigi faceva da specchio al cielo sotto ai loro piedi, mentre l’enorme struttura della
ruota panoramica londinese — il London Eye — si levava,
chiaramente visibile anche al buio notturno grazie alla suggestiva illuminazione, a pochi metri dal ponte. All’altro lato,
maestoso e reso quasi incantato a vedersi per via delle luci
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STEFANIA SPERANDIO
ambrate che lo adornavano, il Big Ben spaccava il cielo, trascinandosi dietro l’enorme e storica struttura dell’House of
Parliament.
Era infastidito e nervoso: certe verità non dovrebbero mai
venire a galla. Solo lo squillo del suo cellulare, nell’istante successivo, parve rasserenarlo. Interrompendo il passo, l’uomo si
accostò al parapetto alla sua destra, sul Westminster Bridge,
proprio in direzione del London Eye, e lasciò che il suo sguardo si smarrisse lungo il fiume.
«Sono io» rispose seccamente.
«Signore, abbiamo completato le nostre ricerche».
«Con quale risultato?».
«Sembra che l’hacker non fosse interessato a nulla di particolarmente rilevante, ha solo digitato il nome di Cristopher
O’Neal».
«Cercava tracce della maledetta Cielo Triste?».
«Probabilmente, signore. Ad ogni modo, siamo riusciti a
decifrare il suo IP nonostante alcune protezioni che aveva utilizzato, ed ora sappiamo chi è, e dove trovarlo».
Ascoltando le parole dell’interlocutore, l’uomo annuì e tirò
su col naso.
«Da dove viene, il bastardo?» domandò.
«Da Palermo, in Italia. La connessione che utilizza è intestata a nome di una certa…» l’altro si interruppe per ritrovare i
fogli dove aveva appuntato le informazioni ricavate «… ecco:
Zanti, Debora Zanti. Credo che abbiamo a che fare con una
donna».
L’uomo rise. «Una lady hacker» commentò.
«Direi di sì. Come procediamo?».
«La procedura è la stessa di sempre. Non m’importa se è
una donna, una ragazzina o anche solo una bambina. Certe
verità sono — e devono restare — mute».
L’interlocutore tacque per un istante, prima di riprendere a
parlare. «La uccidiamo, quindi?».
L’altro uomo abbassò lo sguardo fiero verso le acque del
Tamigi sotto di lui, fissando il riflesso distorto del suo stesso,
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UNFORGIVEN
insano, sorriso.
«Vedo che capisci al volo».
«Conosco bene la procedura, signore: la Mano Nera prima
di tutto».
«Ricorda, ragazzo: da anni, siamo la sabbia nella clessidra
del mondo. Con noi, nessuno dei piatti prevale: esiste solo la
bilancia. Siamo la tenebra e la luce. E, come ti ho detto, certi
silenzi esistono perché non si deve raccontare l’inenarrabile.
Perché senza di noi non ci sarebbe che chiasso. Quel silenzio
porta quiete. Il silenzio ci porta profitto. La sopravvivenza
delle bugie per cui ci ingaggiano è la sola cosa di cui mi
importi».
«Siamo tutti con lei, signore. Comunico l’ordine di inviare
degli uomini a Palermo per eliminare la ragazza».
«Intesi. La Mano Nera ha sempre ucciso per sopravvivere.
E non mi importa di quanti altri cadaveri dovremo calpestare
per andare avanti».
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STEFANIA SPERANDIO
CAPITOLO QUARTO
“INNOCENZA”
8 Marzo 2015
Domenica, ore 21.57
Palermo, Via Libertà
I veicoli si susseguivano lungo le corsie, disponendosi pazientemente in fila, in attesa di procedere. Via Libertà era sempre
molto frequentata e trafficata, soprattutto nei pressi di Piazza
Ruggiero Settimo e Piazza Castelnuovo — situate l’una di
fronte all’altra, e più conosciute col nome di Piazza Politeama,
in cui venivano comprese entrambe — veri e propri punti di
ritrovo dei palermitani. Forse proprio per questo motivo, in
maniera tale da essere più gradevole a vedersi, Via Libertà era
strapiena di alberi: le tre corsie stradali erano attorniate da
alberi, che presenziavano regolarmente lungo i larghi marciapiedi in cemento.
Il labbro superiore dell’uomo si piegò come in una smorfia
di disgusto, stringendo forte il filtro della sua Lucky Strike
rossa, mentre se ne stava appoggiato con le spalle contro il furgone scuro con cui era arrivato fin lì.
Noncurante della temperatura ancora non certo primaverile, l’uomo indossava una canotta accollata nera — fin troppo
stretta per il suo torace marmoreo — e dei jeans scuri e stropicciati. Al collo, teneva appese in fila quattro targhette di
riconoscimento, nelle quali il sole si rifletteva in maniera abbagliante. Ai piedi, invece, dei pesanti anfibi militari. Il viso era
squadrato e rude, estremamente virile, semplicemente bello,
puntinato dalla barba di qualche giorno, e con i capelli lunghi,
neri e appena mossi, che arrivavano fin sul collo dietro, e ai
lati della fronte in alto.
Stanco di aspettare, inspirò una lunga boccata dalla sigaretta, che teneva tra l’indice ed il medio della mano sinistra,
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UNFORGIVEN
rivolta verso il palmo. Nella stessa mano, al pollice e all’anulare, portava due anelli metallici, che completavano il suo look
così inusuale e, proprio per i colori scuri e sobri, così appariscente.
Nell’abitacolo del furgone, al posto del guidatore, un suo
compare — un biondo dai capelli corti, e con qualche filo di
barba sul bordo della mandibola — si sporse appena oltre il
finestrino aperto, osservando il lato opposto della strada:
ancora nessun segno dell’obiettivo.
«Si fa aspettare, la pulzella» commentò.
Il moro fece cadere la cenere con indifferenza, imperturbabile, senza rispondergli. Non essendo riuscito ad intavolare
un dialogo, l’altro — annoiatissimo — aumentò il volume dell’autoradio, lasciandosi prendere dal file MP3 che veniva
riprodotto.
«Trust I seek, and I find in you» prese a cantare, agitando
lentamente le braccia come ad accompagnare il ritmo «everyday for us something new, open mind for a different view, and
nothing else matters…!».
Spazientito, il moro tirò su col naso e, con l’indice destro
piegato, bussò sullo sportello del furgone. Vedendo che l’altro
non lo sentiva, picchiò più forte.
«Che succede?» domandò il biondo, sporgendo nuovamente la testa oltre il finestrino.
«Spegni quella cazzo di radio».
L’altro rimase interdetto. «Non ti piacciono i Metallica,
Jena?».
«Mi fa schifo sentirti cantare».
Il biondo sorrise. «Sempre di buon umore, amico mio»
commentò, accontentandolo in parte, limitandosi ad abbassare il volume e a smettere di cantare.
Soddisfatto, l’altro — che pareva essere soprannominato
Jena — tornò a dedicarsi alla sua sigaretta, fissando il lato
opposto di via Libertà in attesa che l’obiettivo si facesse vedere.
«Signori, qui non si può sostare senza pagare l’apposita
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STEFANIA SPERANDIO
tassa. Siete in contravvenzione, se non abbandonate subito il
posteggio».
Quella voce di donna lo irritò. Si voltò lentamente, per scorgere una giovane agente della Municipale, di venticinque anni
al massimo, che, taccuino alla mano, si preparava a sanzionare la loro infrazione.
«Che cosa siamo?» domandò con tono irritato.
«Siete in contravvenzione, e non faccia lo spiritoso».
Jena indicò l’amico seduto dentro all’abitacolo.
«Parli con Daniele, è lui l’autista. I passeggeri non pagano
le infrazioni».
Subito, l’agente si accostò all’abitacolo, intenzionata ad
insegnare al biondo il codice stradale.
«Non può sostare qui. Deve spostarsi, o dovrò multarla».
Senza prestarle troppa attenzione, Daniele prese a tamburellare sullo sterzo.
«Non posso spostarmi, bella. Temo proprio che dovrai multarmi, tanto paga lui» rispose, indicando Jena con il pollice
destro. La donna storse il naso.
«Bene, allora devo farle la contravvenzione. Lei è il
signor…?».
Quello si voltò solo allora e, accorgendosi che si trattava di
una ragazza piuttosto bella, si levò gli occhiali da sole scuri,
squadrandola da capo a piedi con interesse.
«Daniele Rosi, ma tu puoi chiamarmi solo Dan, tesoro».
Udendolo proporsi così spudoratamente ad un’agente, Jena
scosse il capo, pensando che, in fondo, quel Daniele somigliava parecchio al suo amico morto dieci anni prima, e che non
aveva mai voluto dimenticare.
«La pianti, lei sta parlando con un pubblico ufficiale!» s’irritò la donna.
«Avremo si e no la stessa età. Magari, a parte che sui parcheggi, potremo andare d’accordo, non credi?» insisté Daniele,
sorridendo guascone.
Debora si assicurò di avere sistemato tutto ciò di cui aveva
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UNFORGIVEN
bisogno nella piccola borsa sportiva che avrebbe portato a tracolla e, prima di uscire — come qualsiasi normale ragazza —
si diede un’ultima occhiata allo specchio. I suoi bei capelli
scuri e mossi erano sciolti sulle sue spalle, a circondarle ed
adornarle il viso. Ne sistemò alcune ciocche dietro alle orecchie, ritenendole troppo invadenti, e non si preoccupò di nessun altro particolare dettaglio: la sua amica Roberta, puntuale
com’era, probabilmente la stava già aspettando nei pressi del
Giardino Inglese, dove le due si erano date appuntamento per
fare una passeggiata insieme.
Appena ebbe varcato la soglia che dava accesso al condominio dove viveva, si ritrovò fuori, in via Libertà. Il suo sguardo venne subito attratto da qualcosa.
Un furgone scuro era posteggiato proprio accanto alla sua
vettura, con un uomo nerboruto, dall’aria burbera e vestito
totalmente di nero, che la guardava, fumando una sigaretta.
La ragazza rimase pietrificata, e quasi fece un passo indietro,
incerta: era davvero lei che quell’uomo stava fissando?
«Dan, piantala di fare l’idiota, è lei» disse subito Jena, attirando l’attenzione dell’amico «dobbiamo muoverci».
L’agente della Municipale li guardò titubante.
«Quando dovete muovervi lo decido io, signori».
Jena la squadrò da capo a piedi, senza tradire nemmeno un
sorriso divertito.
«Senti, pubblico ufficiale, prendi la targa e levati dalle
palle».
La sua voce profonda esprimeva un ché di minaccioso,
tanto che la donna si lasciò convincere.
«Riceverete la contravvenzione a casa» disse, prima di
annotare il numero di targa, gettare un foglietto dentro l’abitacolo ed allontanarsi rapidamente.
Jena si fece più vicino al finestrino per parlare col compagno.
«Dobbiamo beccarla in un luogo dove attireremo meno
l’attenzione, non ho nessuna intenzione di tirarmi dietro
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STEFANIA SPERANDIO
mezza Palermo. Io la seguo a piedi e cerco di bloccarla, tu
stammi vicino. E accendi la tua trasmittente, nel caso dovessimo cambiare i programmi».
Visto che la visuale gli era in parte ostruita dal compare,
Daniele si fece più a destra, cercando di scorgere meglio il loro
obiettivo.
«Però, niente male, la signorina. Io me la hackererei volentieri, una così».
Jena lo fulminò con gli occhi azzurri e profondissimi.
«Una volta ogni tanto, almeno quando lavori con me, prova
a far arrampicare il cervello dalle mutande alla testa» lo stroncò. «Seguimi, forza».
Debora era troppo scaltra per non comprendere che stava
per succedere qualcosa. Il primo istinto che ebbe fu quello di
stringere più forte la borsa, anche se effettivamente quel tizio
vestito di nero non pareva avere certo l’aria dello scippatore.
Deglutendo l’incertezza, la ragazza avanzò lungo il marciapiedi, in direzione del Giardino Inglese. Alle sue spalle, Jena e
Dan si scambiarono un’occhiata. Poi, il primo cammino sull’asfalto, raggiungendo l’altro lato della strada, mentre il
secondo proseguì in direzione di un’area dove avrebbe potuto
fare inversione e fare da ombra al compare.
Quando Debora si voltò, l’uomo — che teneva lo sguardo
dritto, piantato su di lei — si era già portato alle sue spalle per
seguirla.
«Si è accorta che la seguo» disse Jena, parlando al piccolo
microfono che teneva bloccato sotto la maglietta, collegato
all’auricolare che teneva all’orecchio destro «penso che tenterà
di sparire. Teniamo gli occhi aperti» chiuse, inspirando un’altra boccata dalla sua sigaretta.
Debora non si lasciò vincere dalla situazione: come se nulla
fosse, convinta che a renderla tesa fossero solo delle personali
paranoie, camminò in direzione del punto d’incontro con
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UNFORGIVEN
l’amica, che l’attendeva alle porte del Giardino Inglese.
«Ciao, Deb» la salutò Roberta, una ragazza bionda e bellissima, con due occhi verdi e luminosi ed un sorriso particolarmente dolce. Per tutta risposta, la Zanti si guardò nuovamente alle spalle: l’uomo era ancora lì, dietro di lei. Deglutì.
«Ehilà, Roby» le rispose.
«Ci andiamo a sedere alle panchine vicino alla fontana?»
propose ancora l’altra. Debora rimase voltata verso l’uomo,
chiedendosi cosa potesse volere da lei. Jena si limitava a fissarla, tetro ed immobile. Roberta si insospettì, e seguì lo sguardo
dell’amica, aggrottando le sopracciglia.
«Tutto bene? Conosci quel tipo?».
Debora tirò su col naso. Annuì, fingendo che andasse tutto
bene. «Sì, tutto a posto, tranquilla. Andiamoci a sedere» tagliò
corto, spingendo l’amica verso l’interno del Giardino Inglese.
«Dan, sta entrando al Giardino Inglese, tieniti pronto a
cambiare percorso, appena ti do indicazioni».
Il Giardino Inglese era un enorme ed accogliente parco
verde, frequentato ad ogni ora del giorno da decine e decine
di palermitani che cercavano un attimo di quiete. Debora e
Roberta avanzarono per un po’ lungo il vialetto al centro del
prato, oltrepassando dei suggestivi zampilli monumentali per
raggiungere le panchine dove si andavano a sedere solitamente.
«Roberta! Che piacere rivederti!».
Tesa com’era, Debora quasi trasalì a quella voce sconosciuta. Quando lei e l’amica si voltarono, scorsero una ragazza di
mezz’altezza, sulla ventina, con dei lunghi capelli castani e
lisci. Roberta la riconobbe subito.
«Anna, che piacere rivederti!» esclamò, correndo ad
abbracciarla. Debora tirò un lunghissimo respiro di sollievo,
mentre il suo sguardo fu attratto nuovamente dalla figura di
Jena, che la osservava a pochi metri di distanza. L’uomo sapeva dove voleva spingerla.
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STEFANIA SPERANDIO
«Debora, lei è Anna, la ragazza di cui ti avevo parlato, ricordi?». Lei annuì con poco interesse, e riuscì solo a tenderle la
mano destra, annuendo. «Io sono Debora, piacere».
«Come procedono le cose?» domandò Dan all’auricolare,
mentre conduceva il van lungo la strada che attorniava il
Giardino Inglese.
«Ha incontrato degli amici, sono fermi. Aspettiamo che si
smuovano» rispose Jena, facendo qualche altro passo avanti in
direzione di Debora. «È solo lei che vogliamo, pretendo di riuscire a tenerne fuori i suoi amichetti. Noi non facciamo le cose
a casaccio».
«Beh, è chiaro: è per lei che ci hanno mandato qui».
Non aveva più dubbi: quell’uomo era venuto fino al
Giardino Inglese solo per lei. Debora agì d’istinto: nonostante
il tizio burbero avesse tutta l’aria di volerla uccidere, la ragazza non avrebbe mai permesso che potesse accadere qualcosa
di male anche a Roberta. Secondo quel ragionamento, il solo e
più istintivo che riuscì a concludere in quell’istante, toccò una
spalla all’amica, impegnata a chiacchierare con Anna.
«Roby» disse, dando un tono più risoluto del solito alla sua
voce «mentre stai un po’ con Anna, mi allontano un attimo a
fare una telefonata».
Roberta la osservò ed annuì. «Ok, noi siamo qui, torna
appena puoi». Debora annuì di rimando. «Torno subito, non ti
preoccupare».
«Ma che brava ragazza, si sta allontanando» commentò
Jena, riprendendo a camminarle alle spalle non appena questa
si mosse «quando saremo abbastanza isolati, daremo un taglio
a questo schifo di pedinamento».
Era una pazza. Non c’era niente di sano nell’allontanarsi
dalle altre persone, dopo essersi accorta che quello che aveva
tutta l’aria di essere un serial killer aveva preso a seguirla.
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UNFORGIVEN
Semplicemente, non voleva che l’uomo — che era arrivato a
seguirle fino al Giardino Inglese unicamente perché pareva
avercela con lei, e non certo con Roberta — potesse fare del
male anche all’amica.
Era stata una decisione istantanea, ma — ora che si ritrovava da sola, e che voltandosi vedeva ancora quell’ombra nera
camminarle alle spalle — Debora cominciò a sentire paura.
Deglutì a fatica la tensione e alzò lo sguardo al cielo, domandandosi come sarebbe andata a finire quella spiacevole esperienza.
L’uomo le era alle spalle, ad una decina di metri. C’era solo
una via per sfuggirgli, e Debora non ci volle pensare su due
volte. Accelerò il passo fino ad una svolta adorna di siepi alte
quasi due metri. Proseguì verso destra e, appena la siepe la
ebbe nascosta, cominciò a correre. Ebbe il coraggio di rizzare
le orecchie per sentire se anche l’uomo aveva preso a correre
e, quando scoprì che la risposta era sì, spinse le gambe come
non aveva mai fatto in vita sua.
Jena comprese subito il suo gioco.
«Cazzo, sta giocando d’astuzia» ammise, allungando a sua
volta il passo che, già normalmente, era almeno il doppio di
quello della ragazza. «Dan, parcheggia all’uscita del Giardino,
in via Duca della Verdura. Le sbarriamo la strada. Mi sono
scocciato di giocare a guardie e ladri».
«Pare che sia entrata al Giardino Inglese. Proviamo ad
aspettarla all’uscita in via Duca della Verdura, appena la
vediamo la sistemiamo una volta per tutte». L’uomo, abbigliato con un completo tattico nero, indicò al guidatore della sua
auto, con la mano destra — avvolta da un guanto in pelle nera
— la strada da seguire per raggiungere il punto stabilito.
«Ma non è bene sparare in mezzo al Giardino, attireremo
persone indesiderate» commentò l’altro che, come il compagno, completava il suo abbigliamento totalmente nero con un
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STEFANIA SPERANDIO
passamontagna che svelava solo gli occhi e la bocca.
«Che ci importa? Non lasceremo trapelare la notizia, e convinceremo i pochi presenti che si è trattato di un attacco compreso in una guerra tra clan».
L’autista storse il naso.
«Spero che ci credano, o Genesis non ne sarà affatto contento, questa volta».
Per tutta risposta, l’altro tirò su la sua arma, esibendola: si
trattava di una mitraglietta MGV-176, una tremenda creatura
slava con un bizzarro caricatore a girandola posto sopra la
canna, capace di contenere la bellezza di centosessantuno
colpi. E capace di spararli tutti consecutivamente con grande
precisione, grazie allo scarso rinculo, ponderato anche dal calcio estensibile.
«Genesis sarà contento» chiuse il discorso, «Predator non
sbaglia mai» aggiunse, indicandosi con il pollice destro.
Debora si accorse di stare correndo a perdifiato. Quando si
voltò, l’uomo era sparito. Non le importava, pensò soltanto di
continuare a correre, dirigendosi ad una piccola casupola di
legno, accanto ad una delle quattro uscite del giardino, che da
piccola, insieme alle sue amiche, si divertiva a chiamare casa
dei tre porcellini. Poteva essere la sua salvezza, ed era il solo
rifugio dove le era venuto in mente di nascondersi per far perdere le sue tracce. Quando la scorse, da lontano, il cuore le si
riempì di speranza, e le gambe di vigore. Poteva salvarsi, poteva farcela. In pochi secondi, fu davanti alla fragile porta di
legno e, con la sola forza della disperazione, la spinse, gettandocisi all’interno e cadendo in ginocchio, mentre la porta si
richiuse alle sue spalle.
Ansimando per la fatica e la tensione, la ragazza si portò
una mano sul cuore, cercando di calmarsi. Cosa voleva quell’uomo da lei? Perché la seguiva? Per un attimo, le tornò alla
mente l’immagine di sfondo di quel sito che aveva penetrato
la notte prima, quella mano nera lugubre ed oscura.
Quando quelle due braccia la cinsero, il suo cuore quasi si
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UNFORGIVEN
fermò. Un’enorme mano, che avrebbe potuto stringere interamente la sua testa e schiacciargliela, le si premette sulla bocca
e sul naso, impedendole di parlare, gridare o respirare. L’altro
braccio le cinse fermamente l’addome, immobilizzandole il
diaframma e strattonandola con violenza all’indietro, verso
l’alto, per metterla in piedi.
Più di ogni altra cosa, Debora temette che il suo cuore
smettesse seriamente di battere, spaventato da uno shock così
improvviso. Sentendo quel corpo dietro di lei, comprese di
essere stretta sull’uomo che l’aveva seguita fino a pochi minuti prima. Terrorizzata, cercò inutilmente di divincolarsi, ma
Jena strinse più forte, dandole un altro violento strattone.
Sapeva bene che la ragazza, intrappolata in quella morsa, non
respirava, e che si agitava per questo.
«Ascoltami bene» le disse con la sua voce roca e profonda,
«se tu fai la brava, io ti lascio respirare. Hai capito? Voglio solo
che tu faccia la brava, e che mi ascolti».
Con gli occhi sgranati, Debora riuscì appena ad annuire
alle sue parole. Non voleva soffocare, non le importava di
nient’altro. Jena le liberò il naso dalla morsa, tenendole
comunque saldamente chiusa la bocca, mentre la ragazza
inspirò subito il più profondamente possibile.
Appena si sentì forte abbastanza, tentò ancora di divincolarsi, riuscendo a sfuggire alla morsa di Jena.
A quella reazione, l’uomo perse la calma. Protese le braccia
per riafferrarla mentre lei cercava inutilmente di guadagnare
l’uscita, e le chiuse nuovamente la bocca con la mano sinistra,
prima ancora che potesse gridare. Sentendosi nuovamente
afferrare, Debora comprese di non avere scampo. Jena la strattonò a sé, utilizzando mezzi di coercizione più diretti.
Udendolo scivolare lungo il fodero, e vedendosi quel coltello
— un terrificante Tops Condor Alert con lama da ventiquattro
centimetri — poggiato contro la guancia, la giovane studentessa hacker si sentì così impaurita da non essere più nemmeno in grado di scappare.
«Non volevo spaventarti, ragazzina. Mi dispiace di dover
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tirare fuori il coltello» fece per scusarsi l’uomo. «Ora mi ascolterai, non è così?».
Nonostante il suo carattere deciso, Debora era innegabilmente terrorizzata. Tutto quello che poté fare fu accennare un
gesto che ricordava l’annuire.
«Non sono qui per farti del male. Questo basta a convincerti a non urlare, appena ti scoprirò la bocca e il naso?».
Lei annuì di nuovo, e Jena volle fidarsi. Fece scivolare la
mano sinistra dal viso al collo, tenendola comunque saldamente stretta a sé. Debora non urlò: non era esattamente una
buona idea contrariare un colosso che le carezzava la faccia
con un coltello. Prese un respiro profondo e nervoso, chiudendo gli occhi.
«Che cosa vuoi da me?» balbettò con voce impaurita.
«Stai calma, ed andrà tutto bene».
Debora scosse il capo, confusa dal terrore.
«Lasciami andare, voglio andare a casa, lasciami, per favore, lasciami».
Jena sapeva che, così turbata, difficilmente la ragazza lo
avrebbe ascoltato e, anche se lo avesse fatto, non avrebbe creduto ad una sola parola di quanto le avrebbe detto.
«Ti ho detto che non voglio farti del male, tranquillizzati»
provò ancora a convincerla.
Debora era ancora abbastanza lucida da comprendere di
aver perso la lucidità. Con le braccia, tentò inutilmente di
allargare la morsa che Jena le applicava sul collo, ottenendo
solo che quest’ultimo la stringesse ulteriormente.
«Ho detto che non voglio farti del male!» ruggì l’uomo,
spaventandola ancora di più.
Debora chiuse di nuovo gli occhi, così forte che quasi le
fecero male.
«Lasciami» sussurrò ancora «lasciami stare, non ho fatto
niente! Sei un bastardo, non ho fatto niente!».
L’uomo comprese di averla terrorizzata. Di quei tempi, una
ragazza che usciva da sola in una grande città poteva aspettarsi davvero di tutto da un aggressore.
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UNFORGIVEN
«Dan, con le buone non si ottiene nulla. Prepara il vano del
furgone» parlò, rivolto al microfono che lo teneva in contatto
col compagno.
«Porta qua la pulzella, Jena. Ci penso io».
«Sto arrivando» chiuse l’altro «sarò lì tra un attimo».
Udendo quella conversazione, Debora realizzò che quegli
istanti erano gli ultimi per cercare di scappare. Volevano portarla via, per farle chissà cosa. Anche se avesse obbedito
all’omone dai capelli lunghi che l’aveva aggredita, non l’avrebbero lasciata tornare a casa. Volevano qualcosa da lei. E non
voleva nemmeno immaginare cosa.
Con tutta la forza di cui disponeva, dimenticandosi della
paura che la lama gelida posata contro la guancia le procurava, si divincolò in modo così agitato da riuscire a sgusciare letteralmente via dalle braccia di Jena, mentre il coltello le graffiò inavvertitamente il viso. Sentendosi libera, non si arrese al
bruciore che quel graffio lieve le procurava, e chiamò nuovamente a sé tutte le energie che ancora aveva in corpo, per raggiungere la porta ed urlare, chiamare aiuto, fare qualsiasi cosa
che potesse salvarla da quei due uomini. La tensione le stringeva la gola al punto tale da non riuscire ad emettere niente se
non un gemito di paura, mentre cercava di guadagnare l’uscita.
Scorgendo quell’auto — una lussuosa Mercedes con vetri
in fumé — Daniele aggrottò le sopracciglia, insospettito. La
vettura, il cui interno era inaccessibile proprio per via dei vetri
scuri, rallentò l’andatura e posteggiò esattamente innanzi ad
una delle uscite del Giardino Inglese, in via Duca della
Verdura.
Daniele sapeva cosa stava per succedere. Storcendo il naso,
ma rimanendo gelido, accostò la bocca al microfono che teneva bloccato contro il petto.
«Jena, sono loro» allarmò l’amico «c’è una delle loro macchine proprio qui, davanti a me, in via Duca della Verdura. Fai
attenzione: questi ci ammazzano tutti quanti, se ci beccano».
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STEFANIA SPERANDIO
Ancora una volta con la sola forza della disperazione,
Debora spinse la fragile porta di quel rifugio, uscendone. Jena
sgranò gli occhi, capendo che le cose stavano mettendosi
parecchio male. Rinfoderò il coltello e, rapido, si lanciò ancora una volta all’inseguimento della ragazza.
La Zanti si sentiva protagonista di una situazione surreale,
mentre continuava a correre, ansimando. Era la sua ultima
occasione per fuggire: se l’uomo l’avesse presa di nuovo, non
sarebbe di sicuro riuscita a sfuggirgli ancora.
«Aiuto!» chiamò disperatamente, sebbene quell’ala del
Giardino, per sua sfortuna, avesse tutta l’aria di essere deserta. «Aiuto!» ripeté, più arresa, correndo verso l’uscita più vicina del Giardino.
Verso via Duca della Verdura.
«È lei». Lo sguardo di Predator, ancora seduto all’interno
della sua vettura, era gelido e deciso. «Jena non è riuscito a
portarla via prima di noi. Perfetto».
«Forza, falla fuori e cerchiamo di sparire il prima possibile
dalla circolazione» lo spronò l’autista.
Predator annuì. Spinse lo sportello del Mercedes, e — senza
pensarci su due volte — alzò la sua letale mitragliatrice MGV176 in direzione di un’incolpevole hacker palermitana.
«Jena, sono loro! Sono loro! La ammazzano!». La voce di
Daniele tremava per la tensione. Era disarmato, per raggiungere le armi nel cassone del van avrebbe dovuto esporsi. Non
poteva scoprirsi. E non poteva fare niente per fermare
Predator.
Debora mise a fuoco, a poco più di una decina di metri da
lei, quell’immagine agghiacciante: un uomo in completo nero
e passamontagna, che le puntava un’arma contro. Lo scorse
sorridere attraverso la fessura sulla bocca del passamontagna,
mentre arrestò la corsa, terrorizzata. Le stava sparando addos40
UNFORGIVEN
so?
Un uomo la inseguiva, ed un altro — di fronte a lei — stava
per spararle. Folgorata da quel pensiero, e dall’idea che la
canna di quel fucile fosse protesa irrimediabilmente contro di
lei, la ragazza rimase con i piedi piantati al suolo, le braccia a
mezz’aria, tremanti, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta.
Se era un incubo, voleva svegliarsi in quell’istante.
«Le sparano, Jena, maledizione! La ammazzano!». La voce
di Daniele era un gemito di tensione. Non doveva andare così,
non doveva andare così.
Jena corse spingendo nelle gambe tutta la sua inestinguibile forza. Debora era immobile, a pochi metri da lui, così incredula e spaventata da non poter fare nient’altro.
«No! Maledizione, no!» ruggì lui.
Accorgendosi che gli istanti si erano fatti improvvisamente
infiniti, Debora portò appena indietro la testa, spaventata
dall’MGV-176, che pareva non avere nessuna intenzione di
abbassarsi.
Predator esibì un ghigno terribilmente inumano, demoniaco e sadico. Il suo sorriso la spaventò molto più di quanto la
sua mitraglietta non potesse fare.
«Ciao, signorina». Quel saluto faceva da cornice al suo
insano quadretto. E il grilletto premuto dell’MGV diede il via
all’esecuzione dell’assordante colonna sonora.
«No! Dio, no!». Daniele non riuscì a guardare ancora quella scena agghiacciante e, coprendosi il viso con le mani, lasciò
scivolare la testa sul volante, affranto.
Non ce l’avevano fatta.
«No! Debora, Debora, no!». La voce di Jena era scossa dall’impeto che gli incendiava gli occhi di ghiaccio, mentre il caricatore a girandola dell’MGV aveva preso a turbinare in modo
ipnotico, svuotandosi colpo dopo colpo.
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STEFANIA SPERANDIO
Debora sgranò gli occhi e si lasciò sfuggire un gemito di
paura, quando comprese che a quella luce accecante sarebbero seguiti degli spari. Accennò a fare un passo indietro e, chiudendo gli occhi, si fece piccolissima, chinando la testa ed
incrociando istintivamente le braccia, come per proteggersi.
Ad un secondo, debole gemito impaurito, la ragazza fu
costretta a fare succedere un agghiacciante urlo di dolore.
«Debora! No!».
Jena riuscì ad arrivarle addosso solo in quell’istante. Teso,
ma mantenendo la necessaria e gelida lucidità, si tuffò letteralmente addosso alla palermitana, spingendola a terra per spostarla dal centro del mirino.
Debora sbatté violentemente sul vialetto, ma quasi non
avvertì nemmeno il dolore di quell’impatto. Con gli occhi
sgranati, accasciata sulla spalla destra, sentì il cuore battere
sempre più veloce, concitato, mentre la sua t-shirt si stava
rapidamente intingendo di sangue. Portò istintivamente la
mano sinistra al petto e, quando la ritrasse, comprese che era
imbrattata della sua vita, che scorreva via, veloce, facendosi
strada nella sua maglietta, finendo con l’allagare il suolo.
Riconoscendo Jena, Predator sorrise ancora. Non poteva
augurarsi niente di più stimolante. Arrestò momentaneamente il fuoco, solo per voltarsi in direzione dell’uomo dai lunghi
capelli scuri. Jena non sarebbe riuscito a salvare la vita a
Debora, ed avrebbe pagato il prezzo di quel tentativo con la
sua.
Jena si chinò accanto a Debora, di spalle a lei, rivolto in
direzione di Predator. Con la mano sinistra, cercò la mano
della ragazza, stringendogliela forte per rassicurarla, per cullarla, per farla sentire protetta.
A parte gli interessi legati al suo incarico, non voleva che
morisse. Non avrebbe mai voluto che la scena che aveva sconvolto la sua vita, dieci anni prima, si ripetesse. La ricordava
ancora, quella bellissima e giovane donna, stringersi a lui per
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UNFORGIVEN
fargli da scudo, accogliere sulla schiena la raffica di fucile
d’assalto che gli era stata destinata. E che invece aveva portato via lei, in un atto d’amore estremo con cui la donna, davvero, gli aveva dato tutto di sé.
Ma lui ora, no, non era stato capace di fare lo stesso con
altrettanta efficienza. Debora era stata colpita, e non voleva
nemmeno immaginare quanto grave fosse la ferita che la faceva ansimare per il dolore e lo spavento.
Tenendola sempre forte per la mano sinistra — e quasi ringhiando — Jena estrasse con l’altra mano quella che col tempo
era diventata la sua amica più fidata, una pistola Desert Eagle
Mark XIX Action Express calibro .50, e la protese verso
Predator.
In quell’istante, tutta la forza della donna che aveva amato,
e che era rimasta uccisa in quell’ultimo sacrificio, viveva ancora nel dito che Jena spinse sul grilletto.
Il ghigno di Predator si spense quando s’accese il bagliore
infuocato dello sparo. L’enorme proiettile gli si avventò
addosso con una potenza tale da fargli sfuggire un grido, scaraventandolo a terra.
Quella volta — pensò Predator — gli uomini della Mano
Nera avrebbero fallito. La Deagle di Jena era troppo veloce e
risoluta perfino per loro. Il sicario, caduto di schiena, strinse i
denti ed alzò lo sguardo al cielo, comprendendo che nemmeno lui, centrato in pieno petto, avrebbe avuto la forza necessaria ad affrontare una pistola che non ammetteva repliche.
Debora riusciva ancora a malapena a vederlo, con gli occhi
scuri, tremanti, così innocenti e confusi, che non potevano o
non volevano capire cosa le era successo, e perché le era successo. La sua mano sinistra, imbrattata di sangue, era stretta in
quella dell’uomo che l’aveva seguita, mentre il braccio destro
era disteso lungo il suo fianco, piegato sul gomito verso l’interno e sospeso a pochi centimetri dall’addome.
«Va tutto bene, Debora, va tutto bene». La voce di Jena era
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STEFANIA SPERANDIO
distorta, ma ancora comprensibile. La sua forza straordinaria
non voleva cedere, ma non faceva altro, in quel caso, che prolungare la sua sofferenza. La ragazza volse gli occhi intimoriti ma accesi verso di lui, cercando di inquadrarlo con precisione.
«… sto… morendo…». Il suo sussurro lapidario era di una
lucidità e di una freddezza disarmanti. «Ma perché…?»
aggiunse, «… perché mi uccidete?».
«Resisti Debora, sono qui per salvarti! Resisti!».
Più Jena tentava di tenerla cosciente, più la ragazza si sentiva debole. La paura si fece più forte, la vita le suonava già
come una nostalgica eco lontana.
«Aiutami… Voglio tornare a casa… io… voglio solo andare
a casa… Aiutami…» fu tutto ciò che riuscì a biascicare, prima
di chiudere gli occhi e ritrovare la pace.
Prima che le luci si spegnessero ed il sipario calasse.
Jena rimase a fissarla per un istante, sconfitto. Poi tirò su col
naso ed annuì. Innanzi a quell’immagine, la convinzione nella
sua causa si fece ancora più forte.
«Va tutto bene» le sussurrò ancora, «tornerai presto a casa,
Debora. Presto».
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