nel 2014 sarà la capitale europea dei giovani, grazie ai
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nel 2014 sarà la capitale europea dei giovani, grazie ai
CLASSIFICHE 2013 SPORT ALLA ROVESCIA MULUGETA GEBREKIDAN FRANK ZAPPA FRANCO MICALIZZI RÉGIS SOAVI SENSEI KATSUGEN UNDO NEL 2014 SARÀ LA CAPITALE EUROPEA DEI GIOVANI, GRAZIE AI NUMEROSI STUDENTI CHE AFFRONTANO LA CRISI RESTANDO NEL LORO PAESE (2) ALIAS 28 DICEMBRE 2013 REPORTAGE SUL GOLFO TERMAICO GUARDANDO L’OLIMPO Il lungomare di Salonicco verso la Torre Bianca; a destra, Zineb Sedira, «The Death of Journey»; al centro, «Europe» di Philip Rantzer; a sin., Liliana Moro «Underdog» e il caffè Modigliani. Sotto, una porta con poster pubblicitari nella vecchia Salonicco THESSALONIKI Tour nella città macedone, fra storia bizantina e la IV Biennale di arte. Nel 2014 sarà la capitale europea dei giovani: qui sono più di 150mila gli studenti che sognano di risollevare il loro paese di ARIANNA DI GENOVA SALONICCO ●●●Il termometro segna nove gradi, il freddo è pungente, ma sul lungomare di Salonicco, nonostante i morsi della crisi che ha inginocchiato la Grecia (secondo le statistiche, quattro milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà, un terzo dei greci), i caffè sono affollati e la musica si diffone nell’aria ad alto volume. I giovani preferiscono stare all’aperto, protetti solo dal calore delle stufe a fungo. Qualche petroliera scivola sull’acqua in lontananza, incorniciando con la sua sagoma nera il monte Olimpo che si vede da ogni parte della città perché, insieme al mare, è un protagonista assoluto del golfo termaico. Salonicco, in greco Thessaloniki dal nome leggendario della consorte (figlia di Filippo II) del generale macedone Cassandro che nel 316 a.C. la fondò, è la seconda città della Grecia e per il 2014 si prepara a diventare The European Youth Capital, il crocevia dei giovani. Non è casuale questa scelta: su un milione di abitanti, circa 150mila sono studenti e il 50% della popolazione di Salonicco è costituita da ragazzi e ragazze. Una media da far invidia a gran parte dell’Europa, con i suoi asfittici numeri di crescita demografica pari allo zero. Certo, le prospettive di lavoro e di coronamento dei propri sogni sono scese in picchiata, ma non sparite. Per molti cervelli che sono emigrati, ce ne sono una buona fetta che ritornano in Grecia, per non lasciare il paese nelle mani delle banche e delle «cure» dell’Ue. Città spesso considerata solo di passaggio per raggiungere la penisola calcidica (su cui oggi incombe la minaccia della miniera d’oro con la conseguente distruzione dell’ecosistema e della montagna di Aristotele, oltre al rischio della contaminazione con metalli pesanti di suolo e falde acquifere), le mète marine o altri luoghi continentali, Salonicco merita invece una sosta perché ha nel suo dna una stratificazione di storie che la rende eccentrica e, un tempo almeno, sicuramente molto prima di Alba Dorata, conosceva le leggi della tolleranza, ospitando nel suo territorio ebrei (fino alla loro deportazione nei campi di sterminio erano più della metà della popolazione, poi non ne tornarono che un migliaio), musulmani, ortodossi e cattolici. La città vecchia conserva solo un tratto di possenti mura - di circa 10/12 metri - nella parte alta, lì dove passava la via Ignatia, l’arteria strategica costruita dai romani dopo la vittoria di Pidna, che attraversava la pianura macedone per collegare Roma a Bisanzio. Fu una via importantissima per la diffusione del Cristianesimo (venne percorsa più volte dai Crociati) e mantenne la sua peculiarità anche durante il Il lungomare del métissage periodo degli Ottomani, che nel 1430 conquistarono Salonicco per poi lasciarla in eredità ai turchi, fino al 1912. Poco resta oggi dei quartieri più antichi, quelli malfamati vicino al porto, quelli dei commerci con le botteghe degli ebrei, quelli musulmani: nel 1917 un incendio ha spazzato via quasi tutto. Era il 18 agosto e il fuoco, divampato sembra a causa della distrazione domestica di una donna in cucina, divorò in sole 32 ore 9500 edifici in legno, cambiando il volto della città. Salonicco però è rinata dalle sue ceneri, ha continuato ad espandersi - scontando anche gli abusi edilizi degli anni Sessanta e Settanta - e ha inglobato nel suo ventre moderno le testimonianze del suo glorioso passato. Così, capita di intuire fra lo skyline di due brutti palazzoni, una bellissima chiesa bizantina, più bassa, quasi uno scrigno chiuso in mezzo alle mura che lo sovrastano. Poco oltre, camminando ancora, si può incrociare un antico hammam, oppure trovarsi di fronte la grande agorà, che ricalca i confini di quella di epoca ellenistica. Si può poi entrare a san Demetrio (il santo protettore) e scovare, fra le colonne, i mosaici bizantini sopravissuti all’incendio, oppure imbattersi in santa Sofia che risale all’VIII secolo e nella facciata porta le tracce delle architettura romane: da qui si può vedere il livello più basso su cui si ergeva l’antico insediamento, mentre la sua pianta, in miniatura, fa rivivere quella dell’omonima chiesa di Istanbul. La città moderna non sempre riesce a convivere con il fantasma di quella storica, spesso entra visibilmente in conflitto: il cantiere della metropolitana procede a rilento, oltre che per i soldi a singhiozzo anche per i ritrovamenti archeologici. Quando si scava, a Salonicco, si «inciampa» sempre in qualcosa. Stavolta, è stata un’importante via bizantina, dell’VIII secolo, a riaffiorare. Ma Salonicco non vive solo di ricordi: la città contemporanea ospita un festival del cinema, e, proprio in questi giorni, una Biennale di arte contemporanea (fino al 31 gennaio). Giunta alla sua IV edizione, la mostra è sopravvissuta all’austerity poiché è finanziata nell’ambito del Programma Operativo Macedonia-Tracia 2007-2013, attuato dal Museo di stato di arte contemporanea, con la partecipazione dall’Ue. La rassegna, quest’anno curata da Adelina von Fürstenberg, è disseminata in vari luoghi della città, dal quartiere fieristico ai musei fino a comprendere due ex moschee e sfodera un titolo che rimanda all’attualità stringente del Mediterraneo: Everywhere but now. Crocevia di culture e melting pot di tradizioni e usanze, il Mediterraneo è, secondo Fürstenberg, un luogo da ritrovare e riattraversare con la creatività e la tenacia delle popolazioni che lo hanno caratterizzato in passato. Spazio simbolico dello scambio fra Europa, Asia e Africa, può arginare la deriva ostile di gran parte del mondo. Gli artisti sono chiamati ad affrontare questo arduo compito, ad affinare la consapevolezza proprio in un momento difficile. Anche le star, come Marina Abramovic, di cui in mostra si presenta il potentissimo filmato sui bambini soldato che giocano alla guerra, mescolando esecuzioni capitali ad allegre e scomposte cuscinate maschi contro femmine. Da parte sua, Philip Rantzer, che ha rappresentato Israele alla Biennale di Venezia nel 1999, mette in scena un’Europa che bivacca su una panchina, senza più tetto né legge. La violenza e la perdita di un centro «umano» nelle relazioni è ciò che si evince anche dall’installazione di Liliana Moro Underdog - cani che combattono un’opera del 2005 riproposta a Salonicco per la sua pertinenza politica.. Molti gli artisti greci invitati ad esporre; fra questi, c’è Maria Papadimitriou: lei allestisce un set con i resti di un naufragio, così come la francoalgerina Zineb Zedira parla della «fine del viaggio» attraverso una serie di carcasse di navi arenate e arrugginite, mentre il collettivo cubano Los Carpinteros indaga le soglie dei tunnel e gli sbarramenti. Ecco, è ora di uscire alla luce. ALIAS 28 DICEMBRE 2013 (3) Particolare di decorazioni crisoelefantine delle tombe reali di Verghina; un banco del mercato del pesce di Salonicco. Sotto, il vasellame in argento del simposio funebre e l’entrata monumentale della tomba reale. Il reportage fotografico di queste pagine è di Franco Cenci TOMBE REALI ■ UN GIRO SOLITARIO GIÙ NELL’ADE Quella magnificenza della natura e dei guerrieri-re A. Di Ge. VERIA Visita al quartiere ebraico con tocchi blu Vicino Verghìna, c’è Veria, una cittadina di 45mila abitanti che conserva ancora il suo centro storico e l’antico quartiere ebraico a forma triangolare delimitato da un lato dalle mura bizantine e, dall’altro, dalla linea di difesa naturale del fiume. È chiamato «Barbuta» e presenta case dalle caratteristiche architetture, tutte colorate (prevale il blu, colore propiziatorio per gli ebrei). Vale una visita anche l’importante museo archeologico e il santuario lì dove si fermò a predicare san Paolo. ARCHEOLOGIA LA MITICA STORIA DI VERGHÌNA Gran Tumulo, l’ultima casa del condottiero Filippo II di FEDERICO GURGONE ●●●La preponderanza di statue e templi superstiti non tragga in inganno: le fonti letterarie assicurano che altrettanto importante per gli antichi greci fosse la pittura. Tuttavia, di essa resta ben poco: scarse testimonianze in Italia, tra cui la magnifica Tomba del Tuffatore di Paestum, imbarbarita da commistioni con l’arte etrusca e italica; gli affreschi minoici provenienti da Cnosso e Agía Triáda a Creta, dai palazzi di Micene e Tirinto nel Peloponneso e da Thera sull’isola di Santorini. Povera rassegna riabilitata in extremis dall’eccezionale dote di Verghìna, miniera di pittura ellenica tornata alla ribalta nel 1977, quando sembrava ormai tramontata l’età romantica e innocente delle esplorazioni archeologiche. Aigài fu la residenza dei sovrani macedoni fino al loro trasferimento a Pella. L’usanza voleva però che i re continuassero a essere seppelliti nella prima capitale: questo il motivo per cui gli studiosi la cercarono a lungo come un El Dorado. Le sue vestigia furono scoperte a partire dal 1855, quando archeologi francesi ne iniziarono gli scavi. Mano a mano tornarono alla luce un palazzo monumentale, decorato con mosaici e stucchi dipinti, e una necropoli, situata tra i villaggi Palatìtsia e Verghìna, estesa per più di un chilometro quadrato e comprendente oltre trecento tumuli, il più antico dei quali risalente all’XI secolo. La struttura di queste tombe, costituite da camera a volta, facciata con porta monumentale, corridoio e tumulo, ricorda quella dei tholoi micenei, allo stesso modo dei corredi funerari identificati al loro interno. Dei grandi personaggi inseguiti dai detective della storia, però, nemmeno l’ombra finché Manolis Andronikos, santificato già in vita dai greci, che tengono all’archeologia quanto l’Italia post-unitaria alla letteratura, non iniziò nel 1952 l’esplorazione del Grande Tumulo: un’altura che già dal secolo precedente aveva attirato l’attenzione su Verghìna, un cono di terra alto 12 e lungo 110 metri innalzato all’inizio del III secolo a.C. da Antigono Gonata per proteggere le tombe dai saccheggi dei Galati. Il 30 agosto del 1977, quando Andronikos comunicò di aver rinvenuto la tomba di Filippo II, fu subito clamore sui giornali di mezzo mondo. Vicino a questa, altre due tombe reali, quella «di Persefone» e quella di Alessandro IV, l’unico figlio di Alessandro Magno e della principessa afgana Rossane, nato lo stesso anno della morte del condottiero, nel 323 a.C. Il sepolcro di Filippo è costituito da due stanze lunghe insieme quasi 10 metri, entrambe coperte da volte a botte alte oltre la metà; nella prima, rettangolare, vennero deposte le ceneri di una donna, probabilmente la giovane moglie Euridice, nella seconda, quadrata, quelle del re. L’ingresso, imponente, ha una porta di marmo a due ante e la forma di un tempio dorico, affrescato con un fregio che raffigura una scena di caccia dipinta. La tomba fu sicuramente voluta da Alessandro nel 336 a.C., quando il padre fu assassinato, durante il banchetto per le nozze della figlia Cleopatra con Alessandro I d’Epiro, da un ufficiale delle proprie guardie del corpo, Pausania. Questi, stando alle indagini portate avanti niente meno che da Aristotele, il celebre filosofo allora precettore di Alessandro, aveva ucciso Filippo per torbidi motivi passionali. Sempre la stessa storia. Difficile separare la morte di Filippo dall’ascesa al trono di Alessandro: i riti funebri testimoniati a Verghìna celebravano entrambi gli eventi. Nella camera sepolcrale fu trovato un sarcofago di marmo, all’interno del quale era stato deposto un larnax: uno scrigno d’oro contenente le ossa combuste del re defunto e la sua corona. Il coperchio era decorato con il cosiddetto Sole di Verghìna, una stella simbolica a sedici raggi causa ancora di numerosi contenziosi politici: compare, stilizzato, sulla bandiera della Repubblica ex jugoslava di Macedonia e, fedele all’originale, su quella dell’omonima regione greca con capitale Salonicco. Nella camera facevano mostra di sé anche le sue armi, tra le quali spicca lo splendido scudo, insieme con vasellame da banchetto e con i resti del catafalco in legno, impreziosito con oro e avorio. È evidente quanto il personaggio che domina la scena non sia tanto Filippo, colui che aveva messo fine alla libertà della Grecia nel 338, sconfiggendo ateniesi e tebani a Cheronea, quanto suo figlio Alessandro. Le ●●●Uscendo da Salonicco, tenendo il monte Olimpo con tutti i suoi dèi alla propria sinistra, si va verso nord. L’aria è tersa, l’inverno ha spogliato i rami dei peschi - siamo in una zona ricca di frutteti, una delle principali voci di esportazione verso il mercato estero - che costeggiano questa bellissima strada, di fronte si erge la catena montuosa della Pieria, che chiude ad arco il territorio, proteggendolo e incastonando la valle. È qui, dice una leggenda, che hanno avuto la loro prima dimora le Muse. Ed è sempre qui, nella Macedonia centrale, che passa il fiume Aliakmone, il più lungo della Grecia con i suoi 297 chilometri, l’unico che nasce nella regione: prende il nome da quello di una regina che si suicidò, lasciandosi trascinare via dalla corrente pur di non cadere prigioniera dei turchi. Navigabile e venerato come divinità nei tempi antichi, oggi le sue abbondanti acque alimentano quattro centrali idroelettriche. In questo territorio, poco meno di quarant’anni fa – era il 1977 - un archeologo testardo, di nome Manolis Andronikos, fece una scoperta sensazionale, coronando il sogno fiamme che attaccavano la pira funebre allestita per il padre, tra un funerale solenne e un seppellimento eroico mai visti prima, consumarono certamente tra le vampate anche la feroce presa di consapevolezza di un ventenne che si sentiva predestinato. Quando sarebbe morto, a 33 anni come Cristo, le élites avrebbero parlato greco dalle Colonne d’Ercole ai monti dell’Afghanistan. Verghìna sembra narrare questo film, quando nessun altro monumento sa raccontare con tanta evidenza Cesare e Napoleone. A lottare con il peso della storia, resta la leggerezza unica degli affreschi conservati. Plutone che afferra alla vita con il braccio sinistro una sconvolta Persefone; Alessandro a cavallo, al lato di Filippo, che colpisce con la lancia un leone. È l’impatto tutto visivo di una delle maggiori scoperte archeologiche del XX secolo. di una vita: trovò il sito delle Tombe Reali, il cosiddetto Grande Tumulo di Verghìna, in cui con molta probabilità è stato seppellito Filippo II. Un ritrovamento che cambiò anche la storia: era in questo luogo, nella città di Aigài, che il regno macedone aveva la sua capitale (ci sono anche sontuosi resti del palazzo reale, al momento in restauro). Andronikos scavò in una collina artificiale di 12-14 m di altezza fra gli anni 1977 e il ’79: quel tumulo non era altro che un tentativo di salvare una necropoli sacra da parte del re Antigono Gonata, nel 270 a. C. L’aveva costruita con cumuli di frammenti di steli per proteggere dalle razzie dei Galli qualcosa di molto prezioso: un memorial sotterraneo costituito da tre tombe di tipo macedone della dinastia argeade, Filippo II, padre di Alessandro Magno, ucciso nel teatro di Aigài nel 336 a.C., una delle sue mogli di giovane età (che probabilmente seguì il marito dandosi la morte col veleno), il nipote Alessandro IV, l’adolescente figlio del Magno e di Roxanne che venne assassinato da Cassandro per evitare che salisse sul trono come legittimo erede. Da quando Andronikos, scosso da un brivido alla schiena, attribuì le tombe alla famiglia reale per eccellenza, le diatribe tra gli studiosi non si sono mai spente. Non tutti concordano con l’identità del re seppellito. Andronikos volle mantenere la struttura originale del luogo e incoraggiò la creazione di un museo sotterraneo che rispettasse la forma del tumulo. Così si entra nell’Ade, quasi in punta di piedi. Si viene avvolti dalla penombra e si procede silenziosi dentro un racconto suggestivo, che risale a più di duemila anni fa. Storie di morti improvvise, tradimenti, giochi politici e creazione del culto della personalità. Pochi giorni prima di Natale, non è un periodo turistico intenso e ci si aggira in quei meandri in solitudine. È un museo particolare quello di Verghìna perché è «a tema»: narra le vicende di una famiglia, le biografie difficili di quei guerrieri-re, delle loro consorti e dei nemici che li fecero soccombere. I reperti salvati dai saccheggi grazie al tumulo, sono di una bellezza commovente: l’oro accecante delle corone regali, i gambali delle battaglie (uno più lungo e uno più corto che testimonierebbe l’appartenenza a Filippo II che – a causa delle ferite di guerra - era claudicante, oltre che cieco ad un occhio), tutto il vasellame di argento per il simposio, le armature di «rappresentanza», le decorazioni crisoelefantine del letto funebre posto dentro la tomba. Ci sono pure i ritratti in miniatura (d’avorio) di Filippo ed Alessandro: li ritroviamo anche nella pittura parietale dediti alla caccia al leone, passatempo dei nobili macedoni. Ma a spezzare il fiato è un affresco – riprodotto in una gigantografia all’esterno di una tomba trovata vuota, spogliata dai saccheggi. È l’unico esempio di pittura parietale della Grecia del IV secolo: secondo ciò che scrisse Plinio sarebbe opera del celebre Nicomaco. Raffigura, con tratti veloci e di grande espressività, il ratto di Persefone e la disperazione di sua madre Demetra. GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) con Roberto Peciola redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719557 e 0668719339 [email protected] http://www.ilmanifesto.it impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. 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Spring Breakers di Harmony Korine 3. Gravity di Alfonso Cuaron 4. Her di Spike Jonze 5. Before Midnight di Rochard Linklater 6. The Canyons di Paul Schrader 7. The Unknown Known di Errol Morris 8.Computer Chess di Andrew Bujalski 9. Rush di Ron Howard 10. American Hustle di David O. Russell Subito dopo: Upstream Color, Blue Jasmin, Fruitvale Station, Nebraska, The Worlds' End, Pacific Rim, Melissa McCarthy in The Heat e Identity Thief, Roberto Minervini per The Passage, Low Tide e Stop The Pounding Heart, James Franco per Child of God e Palo Alto CRISTINA PICCINO (in ordine sparso, dimenticando qualcosa di importante, senza avere visto La jalousie di Philippe Garrel) 1. Alberi – cine-installazione di Michelangelo Frammartino (al Manzoni di Milano) 2. Behind the Candelabra di Steven Soderbergh 3. At Berkeley di Frederick Wiseman 4. Die andere Heimat di Edgar Reitz 5. Pays Barbare di Angela Ricci Lucchi-Yervant Gianikian 6. L’inconnu du lac di Alain Guiraudie 7. The Wind Rises di Hayao Miyazaki 8. The Canyons di Paul Schrader 9. A Spell to Ward off the Darkness di Ben Rivers&Ben Russell 10. North - The End of the History film SILVANA SILVESTRI di Lav Diaz E: la grana desiderante della pellicola che si srotola sulla leggerezza dei corpi di Paolo Gioli in Natura obscura e Tessitura calda, lo spaesamento dell’umano in Gravity di Alfonso Cuaron, il piano sequenza di Amos Gitai in Ana Arabia, i frammenti di una storia segreta in Primitive – installazione di Apichatpong Weerasethakul (Hangar Bicocca, Milano) Venere in pelliccia di Roman Polansky, Educaçao Sentimental di Julio Bressane, Nell’anno del digitale, la parola diventa immagine, e crea altri mondi. Only Lovers Left Alive (Jim Jarmush) LUCA CELADA MATTEO BOSCAROL 1. Wolf of Wall Street di Martin Scorsese Crepuscolo del capitale dal regista di Goodfellas 2. Her di Spike Jonze Futuro prossimo Fantaromantico 3. Nebraska di Alexander Payne Grande Bruce Dern 4. All is Lost di J.C. Chandor Redford naufrago 5. Tian zhu ding di Jia Zhangke Quattro cartoline noir da una nuova Cina inquietante 6. Kaze Tachinu di Hayao Miyazaki La poesia in due dimensioni 7. The Canyons di Paul Schrader Brett Easton Ellis accompagna Schrader nella sua LA nichilista 8. Palo Alto di Gia Coppola Coppola di terza generazione adatta James Franco 9. Under The Skin di Jonathan Glazer Sci fi algido e piovoso 10. Dirty Wars di Rick Rowley, Jeremy Scahill Il Doc dell’era delle sporche guerre segrete 1. Leviathan di Lucien Castaing-Taylor and Verena Paravel 2. The Wind Rises di Miyazaki Hayao 3. The Tale of Princess Kaguya di Takahata Isao 4. Theater 1 di Soda Kazuhiro 5. Theater 2 di Soda Kazuhiro 6. The Horses of Fukushima di Matsubayashi Yojyu 7. Sky Fall di Sam Mendes 8. A Fairy Tale di Fukuma Kenji 9. Symbiopsychotaxiplasm di William Greaves (1968) 10. Fighting Soldiers di Kamei Fumio (1939) FABIO FRANCIONE 1. Venere in pelliccia di Roman Polanski 2. Gravity di Alfonso Cuaron 3. Via Castellana Bandera di Emma Dante 4. Amore Carne di Pippo Delbono 5. Sacro GRA di Gianfranco Rosi 6. Thor: The Dark World di Alan Taylor 7. Su Re di Giovanni Columbu 8. Hunger Games: la ragazza di fuoco di Francis Lawrence 9. Rockshow - Paul McCartney and Wings di Paul McCartney 10. L'ultimo imperatore in 3D di Bernardo Bertolucci La classifica considera solo i film regolarmente distribuiti ed esclude il FILIPPO BRUNAMONTI RINALDO CENSI Senza nessun ordine: 1. Pacific Rim di Guillermo Del Toro 2. Gravity 3D di Alfonso Cuaron + il salto nel vuoto di Felix Baumgartner (Headcam) 3. La jalousie di Philippe Garrel + Cinématon #2735- Ari Boulogne di Gérard Courant 4. Pays Barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi 5. Feng Ai/'Til Madness Do Us Apart di Wang Bing 6. Zero Dark Thirthy di Kathryn Bigelow 7. Venus in Furs di Roman Polanski 8. L'inconnu du lac di Alain Giraudie 9. The Conjouring di James Wan 10. Behind the Candelabra di Steven Soderbergh + Onça Geometrica di Joao Maria Gusmao, Pedro Paiva - installazione Galleria Zero Milano Un libro: Morton Feldman, Pensieri verticali (Adelphi) Un album: Toy, Join The Dots 1. Trudno byt' bogom (È difficile essere dio) di Aleksej Jurevich German 2. No di Pablo Larrain 3. La moglie del poliziotto di Philip Groning 4. Las niñas Quispe di Sebastian Sepulveda 5. Spring Breakers di Harmony Korine 6. Django Unchained di Quentin Tarantino 7. La jalousie di Philippe Garrel 8. Anja, la nave di Roland Sejko 9. The Canyons di Paul Schrader 10. Venere in pelliccia di Roman Polanski E, rivisto a Venezia, Il mio amico Ivan Lapshin di Aleksej J. German 1. Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel Cohen 2. 12 Year a Slave di Steve McQueen 3. Frances Ha di Noah Baumbach 4. The Canyons di Paul Schrader 5. Piccola patria di Alessandro Rossetto 6. The Act of Killing diJoshua Oppenheimer 7. The Pervetrt's Guide to Ideology di Sophie Fiennes 8. In the Wonder di Terrence Malick 9. Gravity di Alfonso Cuaron miglior film visto quest'anno vincitore della Settimana della critica a Venezia: Razredni sovraznik (Class Enemy) di Rok Bicek. Menzioni sparse per Viva la libertà, Razzabastarda, Un castello in Italia, L'arte della felicità, e almeno altre due decine di titoli tra doc, opere liriche, videoclip, corti. Tra le uscite in dvd: il «tuttobélatarr» della eye division, il «tuttobergman». In edicola: Identikit di Giuseppe Patroni Griffi, Glenn Gould the Russian Journey di Yosif Feyginberg. Infine Il film del secolo di Rossana Rossanda con Mariuccia Ciotta e RobertoSilvestri, la più bella «pellicola scritta» del 2013 CARLO AVONDOLA 1. Django Unchained di Quentin Tarantino 2. Le streghe di Salem di Rob Zombie 3. Qualcuno da amare di Abbas Kiarostami 4. Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann 5. L'image manquante di Rithy Panh 6. To the Wonder di Terrence Malick 7. Pacific Rim di Guillermo Del Toro 8. Redemption di Miguel Gomes 9. Age is... di Stephen Dwoskin 10. La danza de la realidad di Alejandro Jodorowski Leviathan è l'opera capitale vista durante questo 2013, visioni che abitano la soglia, i limiti. Film ipnotico che rompe i cardini spaziali dis-orientando come in passato aveva saputo fare solo forse La Région Centrale di Micheal Snow, aperte nuove piste d'esplorazione per il digitale. Poi i due lavori di Miyazaki e Takahata, con una predilezione per quest'ultimo che a 78 anni suonati realizza un capolavoro di storytelling e sperimentazione visiva. The Horses of Fukushima e Theater 1-2 perchè lavori di due fra i più interessanti documentaristi nipponici. Sky Fall per l'eccezionale fotografia, A Fairy Tale perchè Fukuma cerca una simbiosi tra digitale e poesia. Symbiopsychotaxiplasm e Fighting Soldiers le due magnifiche (ri)scoperte. MARCO GIUSTI 1. Django Unchained di Quentin Tarantino 2. Sole a catinelle di Gennaro Nunziante 3. The Canyons di Paul Schrader 4. Inside Llewyn Davis dei Coen 5. La vie d'Adèle di Abdellatif Kechice 6. Sacro Gra di Gianfranco Rosi 7. Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch 8. Behind the Candelabra di Steven Sodenbergh 9. Pacific Rim di Guillermo Del Toro 10. Lo Hobbit: La desolazione di Smaug di Peter Jackson. ANTONELLO CATACCHIO 1. Django Unchained di Quentin Tarantino 2. Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi 3. Miele di Valeria Golino 4. Now you see me di Louis Leterrier 5. The spirit of '45 di Ken Loach 6. Gravity di Alfonso Cuaron 7. Il passato di Asghar Farhadi 8. Salvo di Fabio Grassadonia, Antonio Piazza 9. Philomena di Stephen Frears 10. American Hustle di David O. Russell GIANLUCA PULSONI 1. Attesa di un'estate (frammenti di vita trascorsa) di Mauro Santini 2. Zima di Cristina Picchi 3. Gravity di Alfonso Cuaron 4. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow 5. Chats perchés e altri di Chris Marker 6. Necropolis di Franco Brocani 7. Greta Gerwig in Frances Ha di Noah Baunbach 8. Cate Blanchet in Blue Jasmine di Woody Allen 9. Alberi di Michelangelo Frammartino 10. A Spell to Ward off the Darkness di Ben Rivers, Ben Russell La logica è binaria: due film di filmmaker italiani (una certezza e una scoperta); due film Usa; due necessarie edizioni dvd; due interpretazioni, corpo (Gerwig) e volto (Blanchett) che sono «un cinema» al di là dei singoli film. In coda due opere non ancora viste, ma lette e già amate ciecamente LORENZO ESPOSITO 15 film per il 2013 (in ordine sparso) 1. A Vida invisivel di Vitor Gonçalves 2. Trydno byt bogom (È difficile essere un dio) di Aleksej Jurevich German 3. Historia de la meva mort di Albert Serra 4. The Canyons di Paul Schrader 5. La jalousie di Philippe Garrel 6. Flight di Robert Zemeckis 7. Side Effects di Steven Soderbergh 8. Zanj Revolution di Tariq Teguia 9. Django Unchained di Quentin Tarantino. 10. Educaçao sentimental di Julio Bressane 11. Norte, hangganan ng kasaysayan (Norte la fin de l'histoire) di Lav Diaz 12. At Berkeley di Frederick Wiseman 13. Feng ai (Follia e amore) di Wang Bing 14. Die andere Heimat - Cronil einer Sehnsucht di Edgar Reitz 15. Se Eu Fosse Ladrao, Roubava di Paulo Rocha Aggiungo due 'cose' italiane su tutte: Lettera al presidente di Marco Santarelli Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo di Donatello Fumarola e Alberto Momo GIONA A. NAZZARO 1. Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini 2. Materia Oscura di Martina Parenti e Massimo d'Anolfi 3. Su Re di Giovanni Columbu 4. The Canyons di Paul Schrader 5. Il grande e potente Oz di Sam Raimi 6. Lo sconosciuto del lago di Alain Giraudie 7. Pacific Rim di Guillermo Del Toro 8. Facciamola finita di Evan Goldberg e Seth Rogen 9. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh Dieci non usciti in sala 1. Norte, the end of History di Lav Diaz 2. Les rencontres d’après minuit di Yann Gonzalez 3. Her di Spike Honze 4. Der Unfertige di Jan Soldat 5. Historia de la meva mort di Albert Serra 6. Revolution Zendj di Tariq Teguia 7. Rangbhoom di Kamal Swaroop 8. Snoepiercer di Bong Joon-ho 9. Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon di Tsui Hark 10.Only Lovers left Alive di Jim Jarmush GIANCARLO MANCINI 1. Zero Dark Thirthy di Kathryn Bigelow 2. Venere in pelliccia di Roman Polanski 3. Effetti collaterali di Steven Soderbergh 4. Il Passato di Asghar Farhadi 5. La grande bellezza di Paolo Sorrentino 6. The Master di Paul Thomas Anderson 7. Blue Jasmine di Woody Allen 8. Jimmy Bobo di Walter Hill 9. Il caso Kerenes di Calin Netzer 10. Che strano chimarsi Federico di Ettore Scola I primi tre come esempi di cinema mutante, rizomadico, nomade. Il passato per la superba scrittura di scena. La grande bellezza all'unico regista italiano capace oggi di sbagliare un film TOP TE ALIAS 28 DICEMBRE 2013 NICOLA FALCINELLA 1. L'image manquante di Rithy Pahn 2. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche 3. It's Hard To Be a God di Aleksei German sr. 4. Stray Dogs di Tsai Ming Liang 5. E agora? Lembra-me - What Now? Remind Me di Joaquim Pinto 6. No di Pablo Larrain 7. Lincoln di Steven Spielberg 8. Django Unchained di Quentin Tarantino 9. Il tocco del peccato di Jia Zhang-ke 10. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer THOMAS MARTINELLI 1. La bimba dal pugno chiuso di Claudio De Mambro, Luca Mandrile, Umberto Migliaccio 2. A liar's autobiography: the untrue story of Monthy Python's di Graham Chapman, Bill Jones, Jeff Simpson, Ben Timlett 3. The special need di Carlo Zoratti 4. Stop the pounding heart di Roberto Minervini 5. La grande bellezza di Paolo Sorrentino 6. Viva la libertà di Roberto Andò 7. Educazione siberiana di Gabriele Salvatores 8. Tutti pazzi per Rose di Daniele Vicari MASSIMO CAUSO 9. It's up to you di Kajsa Naess 10. Miniyamba - Walking Blues di Luc Perez, Documentare la realtà, amplificarla, mostrarla per quello che non vorrebbe essere, rianimarla, meglio se con l'animazione, lunghi e corti. I migliori italiani per vincere fuggono all'estero, dove si fanno produrre e mostrare nei festival. Quelli bravi e intelligenti bsogna andarseli a cercare nei cinema d'essai sempre più chiusi e ristretti. Oppure scaricare 1. Redempion di Miguel Gomez 2. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow 3. After Earth di M. Night Shyamalan 4. Flight di Robert Zemeckis 5. Qualcuno da amare di Abbas Kiarostami 6. Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini 7. Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie 8. Le streghe di Salem di Rob Zombie 9. Norte, Hangganan Ng Kasaysayan (Norte, The End Of History) di Lav Diaz 10. Venere in pelliccia di Roman Polanski FABRIZIO GROSOLI 1. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche 2. Venere in pelliccia di Roman Polanski 3. Il caso Kerenes di Calin Netzer 4. Il tocco del peccato di Jan Zhang-ke 5. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer 6. Broken Circle Breakdown di Felix Van Groeningen (Berlino) 7. L'image manquante/The missing Picture di Rithy Panh (Cannes) 8. Pays Barbare di Yervant Giainikian e Angela Ricci Lucchi 9. Stray Dogs di Tsai Ming-Liang (Venezia) 10. Ida di Pawel Pawlikowski (Torino) SERGIO M. GERMANI ROBERTO TURIGLIATTO (senza ordine) 1. Tokyo Kazoku / Tokyo Family di Yoji Yamada 2. Trudno byt' bogom / Hard to be a God di Aleksej German 3. Zanji Revolution di Tariq Teguia 4. Norte, the end of the History di Lav Diaz 5. Zero Dark Thirty (Kathrin Bigelow) insieme a Lincoln (Steven Spielberg), Django unchained (Quentin Tarantino) e The Unknown Kown (Errol Morris) 6.The Three Disasters (Jean-Luc Godard) e Pays barbare (Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi) 7. Já visto jamaís visto di Andrea Tonacci 8. Natura obscura e Tessitura calda di Paolo Gioli 9. Too Much Johnson di Orson Welles 10. Educação sentimental di Julio Bressane 11. The Canyons di Paul Schrader 12. Se Eu fosse Ladrão...Roubava di Paulo Rocha 13. A vida invisível di Vítor Gonçalves 14. La jalousie di Philippe Garrel 15. Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie 16. Spring Breakers di Harmony Korine 17. At Berkeley di Frederick Wiseman 1. The Canyons di Paul Schrader 2. Most Dangerous Man Alive di Allan Dwan 3. Lincoln di Steven Spielberg 4. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow 5. Bhowani Junction (Sangue misto) di George Cukor 6. Urla mute di Alessandra Vanzi e Alberto Grifi 7. Beggars of Life di William A. Wellman 8. Dilis ati tsuti (Dieci minuti al mattino) di Aleqsandre Jaliashvili 9. Too Much Johnson di Orson Welles 10. Amore mio di Raffaello Matarazzo EUGENIO RENZI 1. Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie 2. La fille de nulle part di Jean-Claude Brisseau 3. Redemption di Miguel Gomes 4. 11-25 The Day Mishima close his own faith (25 novembre, il giorno in cui Mishima ha scelto il proprio destino) di Koji Wakamatsu 5. La performance di Avi Mograbi e Noam Embar al Gymnase Jemmapes, Parigi, notte bianca. 6. L'Ultimo degli ingiusti di Claude Lanzmann 7. Leviathan di Lucien Castagnan-Taylor e Véréna Paravel 8. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh 9. House of Cards (E01-02) di David Ficher 10. Théorie du drone di Gregoire Chamayou, La Fabrique, 2013 Una lista di titoli troppo rari, mi consola che quasi tutto si trova o si troverà su internet. Il libro di Chamayou, che è un saggio politico ma si divora quasi fosse un romanzo di fantascienza (lo stesso dicasi per il film di Gomes), merita di essere tradotto, come tutto quello che pubblica l'editore Eric Hazan. Mi sorprendo a trovare nella lista un forte filo nel rapporto tra corpo e politica: Bigelow, Cukor e Grifi-Vanzi creano pressoché un trittico, e lo Schrader con Lindsay Lohan, il Wellman con Louise Brooks, lo Spielberg della parola (rosselliniana-dreyeriana), il georgiano ginnico e il Welles acrobatico li estendono. I sublimi ultimi Dwan e Matarazzo sanciscono che il cinema più inattuale è il più lungimirante. Ho preferito escludere i film presentati a I mille occhi, mentre le riscoperte di Pordenone, Bologna e Locarno si rivelano film del futuro, non certo di un passato in cui non trovarono tutti gli sguardi possibili. E sono certo che Matarazzo, Wellman, Castellazzi e altri saranno anche tra i grandi cineasti del 2014. (5) CECILIA ERMINI In un'annata con tanti ottimi film, sia visti nei festival sia usciti in sala, è arduo sceglierne dieci. Manca secondo me uno italiano di quel livello. Segnalo Sangue di Pippo Delbono e La mafia uccide solo d'estate di Pif, che han trovato chiavi originali e rischiose (e divergenti tra loro) nel trattare temi ostici della nostra società. Rappresentano i cineasti che esplorano in forme nuove il reale e gli esordienti (ricordo anche Valeria Golino e Matteo Oleotto) e che sono stati i segni migliori lasciati dal nostro cinema nel 2013. 1. Lincoln di Steven Spielberg 2. The Canyons di Paul Schrader 3. Skurstenis di Laila Pakalnina 4. Only Lovers Left Alive di Jim Jarmush 5. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh 6. La moglie del poliziotto di Philip Groning 7. Sms. Save My Soul di Piergiorgio Curzi 8. Une autre Vie di Emmanuel Mouret 9. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer 10. Our Sunhi di Hong Sang-soo Hors catégorie: le Costellazioni di Helga Fanderl e l'Attesa di un'Estate di Mauro Santini Vecchie glorie: Le farò da padre di Alberto Lattuada e Narcisz és Psyché di Gabor Body BRUNO DI MARINO Le 10 migliori opere audiovisive, in ordine sparso 1. Die Andere Heimat di Edgar Reitz (lungometraggio a soggetto) 2. Storia di Sammontana di Virgilio Villoresi (spot di animazione) 3. The Stars (Are Our Tonight) di Floria Sigismondi (music video) 4. Doctor Fabre Will Cure You di Pierre Coulibeuf (fiction sperimentale) 5. Summer 82 When Zappa Came to Sicily di Salvo Cuccia (documentario) 6. Natura Oscura di Paolo Gioli (film sperimentale) 7. Drew di Lisa Gunning (music video) 8. Salvo di Grassadonia e Piazza (lungometraggio a soggetto) 9. La Vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche 10. Movie Drome Interior di Stan Vanderbeek(installazione 1965 riallestita alla Biennale di Venezia 2013) DONATELLO FUMAROLA (dieci geografie sentimentali) 1. Educaçao sentimental di Julio Bressane 2. Pays barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi 3. Hotel de l'univers di Tonino De Bernardi 4. E agora? - Lembra-me di Joaquim Pinto 5. Emmaus di Claudia Marelli 6. Marx tra di noi di Jurij Meden 7. An investigation on the night that won't forget di Lav Diaz 8. Antropologhia di Malastrada 9. Un compte de Michel de Montaigne di Jean-Marie Straub 10. Trudno byt' bogom di Aleksej Guerman I più vicini, in senso 'fisico'. Che poi, in senso 'politico', direi Tarantino, Schrader, Polanski, Kim Ki-duk, Guiraudie, Wiseman, Wang Bing, Tsai, Guy Lumbera, Teguia, Ferraro, Makhmalbaf, Reitz, Gitai, Loznitza, Minervini, Jarmush e l'incredibile Gravity. RITA DI SANTO 1. Sacro Gra di Gianfranco Rosi 2. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer 3. 12 Years a Slave di Steve McQueen 4. The Canyons di Paul Schrader 5. Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke 6. The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese 7. Venere in Pelliccia di Roman Polanski 8. La vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche 9. The Selfish Giant di Clio Barnard 10. American Hustle di David O. Russell ALESSANDRO CAPPABIANCA Devo citare prima di tutto quattro film che non avevo fatto in tempo a vedere nel 2012: Django Unchained di Quentin Tarantino, Lincoln di Steven Spielberg, Flight di Robert Zemeckis, The Act of Killing di Joshua Oppenheimer. Poi i 10, in ordine di visione: 1. Ana Arabia di Amos Gitai 2. La jalousie di Philippe Garrel 3. Sacro GRA di Gianfranco Rosi 4. The Grandmaster di Wong Kar-wai 5. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh 6. Hard to be a God di Aleksej J. German 7. Venere in pelliccia di Roman Polanski 8. Le dernier des injoustes di Claude Lanzmann 9. The Canyons di Paul Schrader 10. Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini EN 2013 (6) ALIAS 28 DICEMBRE 2013 film video game LUCA GUADAGNINO 1. L'inconnu du lac di Alaine Guirauide 2. Los amantes pasejeros di Pedro Almodovar 3. Behind the candelabra di Steven Sodebergh 4. Seventh code di Kyoshi Kurosawa 5. The wind rises di Ayao Myazaki 6. Tir di Alberto Fasulo 7. Paradise Faith/Paradise Hope di Ulrich Seidl 8. L'image manquant di Rithy Pahn 9. A touch of sin di Jia Zangke 10. Norte, Hangganan Ng Kasaysayan di Lav Diaz LUIGI ABIUSI In ordine sparso (e sono necessariamente più di 10): 1. La jalousie di Philip Garrel 2. Stray Dogs di Tsai Ming Liang 3. Her di Spike Jonze 4. The Wind Rises di Hayao Miyazaki 5, Home from home -- Chronicle of a vision di Edgar Reitz 6. Medeas di Andrea Pallaoro 7. I am not him di Tayfun Pirselimoglu 8. La vita invisibile di Vitor Goncalves 9. I corpi estranei di Mirko Locatelli 10. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh 11. In Another Country di Hons Sang-soo FABRIZIO GROSOLI 12. Historia de la meva mort di Albert Serra 13. L'inconnu du lac di Alain Guiraudie 14. Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini Due cose italiane: Minervini si conferma il maggior talento che abbiamo (anche se vive in Texas); a cui è adiacente Pallaoro, anche solo per simili vicende d'espatrio. E poi c'è Locatelli con un film sorprendente e bellissimo, in cui le immagini germinano (si presentano e si raccontano da sè) ambiguamente. 1. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche 2. Venere in pelliccia di Roman Polanski 3. Il caso Kerenes di Calin Netzer 4. Il tocco del peccato di Jan Zhang-ke 5. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer 6. Broken Circle Breakdown di Felix Van Groeningen (Berlino) 7. L'image manquante/The missing Picture di Rithy Panh (Cannes) 8. Pays Barbare di Yervant Giainikian e Angela Ricci Lucchi 9. Stray Dogs di Tsai Ming-Liang (Venezia) 10. Ida di Pawel Pawlikowski (Torino) MARIA GROSSO 1. Materia oscura di Massimo D'Anolfi Martina Parenti 2. Facing mirrors di Negar Azarbayjani 3. Salvo di Fabio Grassadonia Antonio Piazza 4. Un giorno devi andare di Giorgio Diritti 5. Un chateau en Italie di Valeria Bruni Tedeschi 6. Gloria di SebastiánLelio 7. Zero dark thirty di Kathryn Bigelow 8 Arrugas di Ignacio Ferreras 9 Il passato di Asghar Farhadi 10 Japan lies di Saburo Hasegawa L'ordine non è fisso ma dinamico. Su tutto l'aver potuto rivedere al cinema To Be or not to Be di Ernst Lubitsch. Ricorderò la visione con mia figlia de La mafia uccide solo d'estate di Pierfrancesco Diliberto. ALBERTO CASTELLANO 1. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow 2. Django Unchained di Quentin Tarantino 3. The Master di Paul Thomas Anderson 4. La migliore offerta di Giuseppe Tornatore 5. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche 6. Miss Violence di Alexandros Avranas 7. Venere in pelliccia di Roman Polanski 8. Giovane e bella di François Ozon 9. Il passato di Asghar Farhadi 10. Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke In ordine sparso RITA DI SANTO 1. Sacro Gra di Gianfranco Rosi 2. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer 3. 12 Years a Slave di Steve McQueen 4. The Canyons di Paul Schrader 5. Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke 6. The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese 7. Venere in Pelliccia di Roman Polanski 8. La vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche 9. The Selfish Giant di Clio Barnard 10. American Hustle di David O. Russell FRANCESCO MAZZETTA ROBERTO TURIGLIATTO (senza ordine) 1. Tokyo Kazoku / Tokyo Family di Yoji Yamada 2. Trudno byt' bogom / Hard to be a God di Aleksej German 3. Zanji Revolution di Tariq Teguia 4. Norte, the end of the History di Lav Diaz 5. Zero Dark Thirty (Kathrin Bigelow) insieme a Lincoln (Steven Spielberg), Django unchained (Quentin Tarantino) e The Unknown Kown (Errol Morris) 6.The Three Disasters (Jean-Luc Godard) e Pays barbare (Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi) 7. Já visto jamaís visto di Andrea Tonacci 8. Natura obscura e Tessitura calda di Paolo Gioli 9. Too Much Johnson di Orson Welles 10. Educação sentimental di Julio Bressane 11. The Canyons di Paul Schrader 12. Se Eu fosse Ladrão...Roubava di Paulo Rocha 13. A vida invisível di Vítor Gonçalves 14. La jalousie di Philippe Garrel 15. Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie 16. Spring Breakers di Harmony Korine 17. At Berkeley di Frederick Wiseman DONALD RANVAUD 1. Lunchbox di Ritesh Batra 2. Metro Manila di Sean Ellis 3. The Last Emperor 3D di Bernardo Bertolucci 4. Lech Walesa - Man of Hope di Andrzej Wajda 5. Nebraska di Alex Payne 6. La grande bellezza di Paolo Sorrentino 7. Miele di Valeria Golino 8. The Verdict di Jan Verheven 9. A Nagy Fuzet (Le grand cahier) di Janos Szasz 10. Thirst di Dimitry Tyurin Mi accorgo che questi film hanno in comune una simbiosi totale di regista e protagonista e mi sorprende anche il fatto che ci siano molti italiani nella lista, spero sia di buon augurio. Ovviamente non li includo, ma vorrei segnalare almeno i miei due film Las mariposas de Sadourni di Dario Nardi (Argentina), ci sono voluti dieci anni per farlo, miglior regia a Guadalajara e Sta per piovere di Haider Rashid uscito nel momento delle discussioni più accese sullo «jus soli» I dieci giochi dell’anno (in rigoroso ordine alfabetico): 1. 400 Years di Scriptwelder (http://armorgames.com/play/14662/) Cosa può fare una pietra per salvare il mondo se non utilizzare il tempo a sua disposizione? Intelligente, indie ed ecologista. 2. Assassin’s Creed IV: Black Flag di Ubisoft Montreal (Ubisoft) Normalmente non sono un fan della saga ma l’ultimo episodio si pone abbastanza fuori dal corso da agganciare chiunque ami una solida avventura piratesca. 3. Beyond: Due Anime di Quantic Dream (Sony) Forse troppo poco videogioco per alcuni ma sicuramente una prova d’autore, convincente e soprattutto coinvolgente. 4. BioShock Infinite di Irrational Games (2K Games) Ken Levine riprende in mano la sua creatura e inventa un personaggio potente ed indimenticabile come Elizabeth che da sola riesce a farci dimenticare che si tratta di un gioco in cui si deve sparare. 5. DmC Devil May Cry di Ninja Theory (Capcom) Tra i vari reboot/prequel/riproposizioni più o meno originali, riprendo qui quella dedicata al più paraculo del mucchio, non magari il più bello, ma senz’altro quello con più stile! 6. Grand Theft Auto V di Rockstar North (Rockstar Games) Anche solo per far dispetto a quelli che ancora la menano con la violenza nei videogiochi… 7. The Last of Us di Naughty Dog (Sony) Solitamente non amo gli zombie, ma questo è il gioco adatto – di un’intensità incredibile – per farmi ricredere. 8. Metro: Last Light di 4A Games (Koch Media) Prosegue la saga di Metro in un gioco che riesce a farci provare – ancora – la claustrofobia dell’apocalisse atomica. 9. noitcelfeR 2 di Sims5000 (http://armorgames.com/play/14673/) Semplicemente una meraviglia di platform non solo da giocare ma da creare e condividere. 10. Tom Clancy’s Spliter Cell: Blacklist di Ubisoft Toronto (Ubisoft) Menzione particolare per il multiplayer cooperativo che consente di diventare veri e propri “pard” sul campo di battaglia. TOP TEN 2013 FEDERICO ERCOLE Dieci sono sempre troppo pochi, considerando che nel 2013 ho finito più di trenta giochi e termino solo quelli che amo davvero. Tra questi Monster Hunter 3 Ultimate è ancora da completare, ma sono a trecento ore e, da solo, ho raggiunto il sesto grado di cacciatore nelle missioni della Gilda, pensate per essere cooperative. La classifica non è in ordine di merito tranne il primo posto. O forse sì. In ogni caso ho optato per tanti pari merito per non rischiare di escludere nessun preferito. Non cito remake eccellenti come The Legend of Zelda Windwaker, Kingdom Hearts HD, Deus ex Human Revolution Wii U, Deadly Premonition, la riedizione in “pacchetto” di The Walking Dead e Diablo 3 per Playstation 3. Non metto nella lista Animal Crossing New Leaf perché non è un videogioco ma una vera dimensione parallela. The Last of Us Grand Theft Auto V e Ni No Kuni Bravely Default e Legend of Zelda Link Between World Bioshock Infinite e Super Mario 3D World Monster Hunter Ultimate e Metal Gear Rising Rayman Legends e Beyond Puppeteer e DmC Pikmin 3 e Tomb Raider Tearaway e Assassin’s Creed IV Black Flag Dead Space 3 e Dragon’s Crown Mario & Luigi Dream Team e The Wonderful 101 Pokemon X e Metro Last Light Batman Arkham Origins e Luigi’s Mansion 2 Fire Emblem Awakening e Skylanders Swap Force (con mio figlio) Remember Me e Tales of Xillia Ma non è finita qui! Siccome la vecchia generazione di console ufficialmente si esaurisce con l’avvento della nuove macchine ecco i miei quattordici giochi, con 2 extra-bonus, dell’era Playstation 3, XBox 360, Wii. The Last of Us Dark Souls Red Dead Redemption Lost Odissey Metal Gear Solid IV The Witcher 2 Bayonetta Grand Theft Auto V Heavy Rain Ni No Kuni Castlevania Lords of Shadow Legend of Zelda Skyward Sword Uncharted 2 Star Ocean The Last Hope JohnWoo’s Stranglehold Bonus: Limbo e Journey Bonus 2: Brutal Legend e Vanquish ALIAS 28 DICEMBRE 2013 (7) DISCRIMINAZIONE SPORT INTERVISTA ■ MAX GALLOB E NICOLA SACCON DI «SPORT ALLA ROVESCIA» Finalmente da oggi gioco anch’io: abolito l’articolo 40 di PASQUALE COCCIA ●●●L’articolo 40, comma 11 e 11 bis è abolito. Detta così, sembra una delle tante note burocratiche che invadono le sedi delle associazioni sportive, costrette a districare nel complesso mondo degli obblighi normativi e burocratici. La nota emanata dalla Federazione italiana gioco calcio (Figc), ha un valore storico perché apre le porte a tutti i figli di immigrati extracomunitari, che non potevano calcare i campi di calcio perché non sono cittadini italiani, né possono fare richiesta fino all’età di 18 anni. Una norma discriminatoria, che di fatto escludeva gli extracomunitari di seconda generazione da qualsiasi possibilità di partecipare ai campionati di calcio delle serie minori fino alla maggiore età. Protagonisti della battaglia per l’abolizione della norma sono state una serie di associazioni sportive e palestre popolari che fanno riferimento ai centri sociali di tutta Italia e si ritrovano sotto il cartello di Sport alla Rovescia. Ai promotori di questa battaglia abbiamo chiesto di spiegarci qual è stato il loro percorso di lotta, che ha messo fuori gioco la Figc, e di fatto spinto ad abolire la norma discriminante verso i giovani extracomunitari. «Il percorso politico delle esperienze dei centri sociali a difesa dei migranti ci ha portati a individuare lo sport come terreno più facile per portare avanti la lotta sui diritti negati agli extracomunitari - dice Max Gallob attivista di Sport alla Rovescia – e a gennaio del 2012 tutte le polisportive di calcio, volley, rugby, cricket, che avevano come comune denominatore l’impegno politico su questo fronte, si sono ritrovate ad Ancona, e uno dei primi elementi emersi è stata la difficoltà di accesso allo sport da L’azione vittoriosa condotta dall’associazione «Sport alla rovescia» per consentire agli extracomunitari l’accesso, finora negato, ai campionati parte degli extracomunitari, in particolare ai campionati di calcio indetti dalla Figc. Decidemmo di studiare i regolamenti delle varie federazioni e di promuovere in tutta Italia campagne di denuncia per la modifica delle norme discriminatorie, accompagnate da appelli ad associazioni e dirigenti di società sportive di base, per il diritto allo sport degli extracomunitari, perché lo sport aiuta a superare le barriere razziali. Chiedevamo perché i bambini giocano a calcio tra loro al di là del colore della pelle e dopo non possono?». Al convegno di Ancona aderirono 15 polisportive provenienti da Napoli, Bologna, Roma, Parma, Rimini, Trieste, Vicenza, Padova, Taranto, Venezia e Torino. Le polisportive avendo più squadre, impegnate in diverse discipline non si limitarono ai semplici appelli, durante i campionati esponevano striscioni a sostegno del diritto allo sport dei ragazzi extracomunitari e con azioni di volantinaggio denunciavano nello specifico tutte le norme discriminatorie contenute nelle disposizioni delle varie federazioni sportive. Le polisportive aderenti a Sport alla Rovescia, all’interno del loro percorso di lotta, hanno organizzato anche presentazioni di libri, convegni dibattiti e manifestazioni pubbliche sul tema del diritto allo sport per tutti. A maggio del 2012 le azioni di lotta di Sport alla Rovescia ricevono un largo consenso all’interno di una vasta platea: «Fummo invitati a Roma a una riunione della rete Fare (Football against racism in Europe ndr), che si teneva in una sala adiacente a quella del Consiglio dei ministri, tra i presenti anche Giancarlo Abete, presidente della Figc, che nel suo intervento non mancò di elogiare con belle parole le azioni del mondo del calcio nostrano contro il razzismo. Intervenni subito dopo e smascherai l’ipocrisia di Abete, avevamo studiato lo statuto della Figc, e dissi che le norme che caratterizzavano quello statuto erano le più razziste d’Europa e che sarebbe stato bello se proprio la sua federazione avesse dato un segnale di controtendenza, fosse stata la prima ad invertire la rotta. Da parte della platea vi fu un lungo applauso, la maschera di Abete era caduta, il presidente della Figc venne a cercarci voleva parlare e rabbonirci, gli dicemmo che la nostra denuncia sarebbe proseguita e che lo avremmo giudicato dai fatti». Le azioni di Sport alla Rovescia non si limitano alla denuncia nei confronti dei dirigenti della Figc come Giancarlo Abete, che nulla fanno per favorire l’integrazione attraverso lo sport degli extracomunitari, e nell’autunno del 2012 promuovono la campagna «Gioco anch’io» che consente ai giovani extracomunitari di giocare a calcio nei tornei promossi dalle polisportive dei centri sociali. A Napoli organizzano il torneo di calcio 3 contro 3, a Bologna squadre di calcio a 11, a Padova il torneo di calcio a 5 e a Vicenza partecipa al torneo una squadra, la Porcenese, costituita interamente da calciatori extracomunitari di Porcen in provincia di Belluno, dove la Lega ha consensi pari al 98%, ma quei ragazzi parlano tutti i dialetto veneto, tanto è il tempo in cui risiedono in Italia. E se quei calciatori dalla pelle scura possono giocare nei tornei indetti in tutta Italia dalle polisportive aderenti a Sport alla Rovescia, perché mai non potrebbero farlo nei campionati organizzati dalla Federcalcio? A dicembre del 2012 i ragazzi delle polisportive di Sport alla Rovescia si presentano ai presidenti dei rispettivi comitati della Figc delle regioni in cui operano maggiormente Veneto, Marche, Emilia Romagna e Campania: «Erano presidenti appena eletti ai quali facemmo presente la necessità di abolire una serie di articoli e con nostra grande sorpresa trovammo una certa disponibilità - continua Max Gallob - ma ci chiesero anche se in caso contrario avremmo alzato il tiro. Rispondemmo loro che con tutte le nostre squadre ci saremmo iscritti ai campionati della Figc e avremmo fatto giocare nel corso delle partite extracomunitari che non avevano la cittadinanza italiana, sostituendoli con gli italiani, in questo modo avremmo fatto saltare l’impianto discriminatorio che era alla base delle norme dell’organizzazione dei campionati. Aggiungemmo che ce ne saremmo ampiamente Foto di Giacomo Carlotto fregati delle sanzioni disciplinari e delle partite perse a tavolino». Guidati da Nicola Saccon, un pool di avvocati aderenti all’Asgi, che nulla ha a che fare con i centri sociali, mette a disposizione le proprie competenze, perché vuole ribadire che quelle discriminazioni cui sono soggetti gli extracomunitari non hanno ragione di esistere e lo sport è un diritto di tutti. Gli avvocati studiano nei particolari gli statuti di ogni singola federazione e tutte quelle norme discriminatorie che vietano l’accesso ai ragazzi di colore, la partecipazione ai campionati promossi dalle federazioni del Coni: «Le maggiori difficoltà erano costituite dalle norme che prevedevano per i ragazzi che giocavano il permesso di soggiorno valido fino a giugno. Chi lo aveva fino a marzo non poteva giocare, gran parte del tempo, circa 5 mesi andava via per il rinnovo, saltavano sempre i primi mesi di campionato – afferma Nicola Saccon anima giuridica di Sport alla Rovesciala prima domanda che ci siamo posti è stata «perché la Figc chiede il permesso di soggiorno? Non può farlo, è illeggittimo». Un altro problema riguardava i ragazzi che avevano già giocato all’estero, come nel caso di due fratellini rumeni, che avevano disputato il torneo «pulcini» in Romania, in questo caso solo uno può giocare in una squadra, le norme Figc prevedono che non possano giocare in due. Oltre al calcio anche gli statuti delle altre federazioni sono discriminatori, per esempio quello della federazione di pallavolo o di pallacanestro, che impongono limiti numerici alla presenza di extracomunitari in squadra. Una ragazza che gareggiava nel nuoto sincronizzato non ha potuto passare di categoria per la presenza di altre ragazze extracomunitarie sottoposte al limite numerico. All’estero in Germania, Francia, Inghilterra, i ragazzi extracomunitari di seconda generazione giocano nelle nazionali giovanili, qui non è possibile». E alla Figc come hanno reagito? «Hanno abolito l’articolo 40, come avevamo chiesto, ma continueremo a tenerli d’occhio, la nostra battaglia non è finita, dopo il calcio si sposterà sugli altri sport e le loro federazioni» conclude Saccon. Sport alla Rovescia questa volta ha saputo rovesciare il Palazzo del calcio. (8) ALIAS 28 DICEMBRE 2013 REPORTAGE LO SMANTELLAMENTO DELLE RADICI In pagina: ritratto di Mulugeta Gebrekidan e alcune sue opere, in alto: Traditional house in Wolkilo, sotto: Good Carrier in basso: Wax and Gold performance art. A pag 9 in alto: particolare di Boundaries Bound (2009), sotto: Addis in change Eredità africana di Gebrekidan DI VINCENZO MATTEI ADDIS ABEBA ●●●Eredità, questo potrebbe essere lo slogan con il quale etichettare Mulugeta Gebrekidan. Il percorso storico dell’Etiopia si ritrova nelle sue foto, nei suoi video, nei suoi quadri, nelle sue installazioni e nelle «azioni» politiche che porta avanti ad Addis Abeba per criticare l’azione del governo. La sua visione critica lo smantellamento delle radici etiopi, prese d’assalto dalla speculazione edilizia che, partendo dal suo modello da esportare (Dubai), e dopo aver smembrato intere comunità urbane in Medio Oriente, ora punta decisamente verso il Sud, verso l’Africa subsahariana. Mulugeta ha fatto mostre e performance in Germania, Usa, Angola, Senegal, Belgio, Italia, Sud Africa .... usando diversi linguaggi artistici (http://mulugetart.tumblr.com/). Bounderies Bound è un quadro su tela avvolto da filo spinato che rappresenta le frontiere degli emigranti, dei rifugiati, di coloro che scappano dalla miserie e dall’ingiustizia. Il video, dallo stesso titolo dell’opera, ne ripercorre il momento dell’esecuzione; un frastuono di vento e di tempesta fa da sottofondo, è il suono delle difficoltà oggettive e ambientali che gli emigranti devono affrontare per arrivare a destinazione. Sul filo spinato ci sono oggetti dilaniati e macchie di rosso, a rappresentare quei corpi mutilati abbandonati alla morte. Boundaries, confini, linee di demarcazione che segnano il numero interminabile e sempre approssimativo di gente che ha pagato per il sogno di una vita migliore. Chi ce l’ha fatta racconta di torture, di stupri e di violenze nel carcere di detenzione in Libia, in Algeria e in Marocco. Un messaggio forte quello di Mulugeta, che grida nella sordità della comunità internazionale, incapace di affrontare una calamità che non riguarda solo l’Africa, ma un mondo intero impreparato alle sfide del 21˚ secolo. È possibile ammirare Boundaries Bond presso il museo del CAM di Casoria (Napoli), dove l’artista è stato ospite di una collettiva «africana». Il video Inside out è una denucia contro i poteri speculativi che stanno distruggendo lo skyline di Addis Abeba. Interi quartieri sono stati distrutti, completamente smantellati per far posto ad alti palazzi a specchio, senza alcun riferimento alla storia e alla tradizione dell’Etiopia. Il video, completamente girato in mezzo alla distruzione lasciata dai bulldozer delle compagnie di costruzione, lega i fili e le vite di tre generazioni. Quella degli anziani, rappresentata da un uomo di colore ben vestito che legge il giornale in mezzo alle macerie; finita la lettura l’uomo si toglie gli occhiali, i suoi occhi sono un pozzo nero indecifrabile, come indecifrabili sono i cambiamenti intorno a lui. Seguono quattro ragazzi che mangiano una pizza su un tavolo, tra i resti di quella che una volta era una pizzeria; sorridono allegri, incuranti della trasformazione della città. «È infatti la nuova generazione che ha perso il legame con il passato, con la storia del paese, con le sue tradizioni e modi di vivere. Vuole la modernità, incurante di tutte quelle trasformazioni sociali che comporterà, vuole uno sviluppo incapace di portare avanti un benessere collettivo», afferma Mulugeta. L’ultima parte è dedicata a una coppia di giovani che, seduta sul divano, guarda la televisione in mezzo alle rovine. La donna è incinta, le mani dell’uomo e della donna s’intrecciano sul pancione, sul futuro del nascituro, sulla generazione che verrà e su quello che erediterà dall’attuale presente. Mulugeta non guarda solo al sociale, ma attraverso la sua arte descrive il popolo etiope, e forse tutto il continente africano, proponendo usi e costumi della vita quotidiana che non hanno tempo e che rappresentano la base per costruire il futuro. Nel corto Unity Mulugeta mette in risalto l’importanza della collaborazione tra uomini. Una canoa ricavata scavando un tronco di albero deve essere trasportata dalla foresta fino al vicino lago di Wenchi, impresa impossibile per un solo uomo. Ecco allora tutta la comunità locale, in segno di rispetto alla tradizione, che si adopera per trascinare il mezzo fino alle acque del lago. La zattera sarà il mezzo di trasporto dell’intera collettività rurale per attraversare il lago, che altrimenti, impiegherebbe quasi due giorni per percorrerlo a piedi via terra. Sono i suoni che spiazzano e trasportano l’osservatore. Un trasporto a volte cinico, a volte melodico. La costruzione del suono è la perla che mette in risalto la capacità dell’artista di conoscere il proprio lavoro, la dimestichezza con cui maneggia le proprie opere e che lo rende un artista completo nel suo campo. Non sono solo le inquadrature complessive ad attrarre, ma anche la capacità di focalizzare su un volto, trasmettendo tutto il lato umano della solitudine ma anche della forza di lottare. Come è il caso di Yeshitila, un paraplegico che dipinge supino dal suo letto, o di Sentayehu Teshale, un artigiano disabile che fa lavori di manifattura con i propri piedi. Mulugeta ha la capacità di denunciare attraverso la poesia delle immagini e dei colori. ●Che cosa ti ha spinto verso la pittura? E perché ti sei spostato sulla fotografia e i video? C’è solo un’Accademia di Belle Arti in Etiopia, ad Addis Abeba, non avevo altra scelta che studiare pittura. Tuttora dipingo, anche se meno e in maniera differente. Prima volevo esprimere le mie idee attraverso i quadri, ora no, mi confronto con la tela con la testa libera. Normalmente uso tele di grandi dimensioni, inizio a dipingere, mi immergo e mi perdo dentro il quadro fino a diventarne parte vivente, in una realtà a 3D. Solo alla fine scopro l’immagine completa. Con il tempo, volevo Attraverso la sua arte descrive il popolo etiope, proponendo usi e costumi della vita quotidiana che rappresentano la base per costruire il futuro qualcosa che andasse oltre la tela. La «piattezza» della tela stava diventando una limitazione, così ho iniziato a sperimentare con il collage, per avere più spessore, poi ho aggiunto oggetti. Ad un certo punto ho sentito la necessità di muovere verso i video, con i quali mi sono trovato subito a mio agio perché mi danno una libertà maggiore, mi permettono di esprimere idee, di parlare dei valori e dei problemi sociali. Poi ci sono altre forme di arte più facili per esprimersi, come per esempio le performance, perché sono spesso in un luogo pubblico e aperto, dove tutti possono partecipare, interagire e condividere. ●Perché «Boundaries Bound»? Il dipinto di Casoria è stato solo il primo passo di uno sviluppo successivo in cui il quadro è diventato video e poi performance. L’idea è quella rappresentare, l’impossibilità dell’individuo di muoversi, di emigrare. Nel 2010 ho partecipato alla biennale di Dakar con un lavoro simile a quello che è esposto a Casoria, in aggiunta volevo fare una performance in cui chiudevo l’entrata del museo con del filo spinato, indossavo un uniforme militare e imbracciavo un mitra vero ma scarico. Il presidente del Senegal doveva venire per inaugurare l’apertura della biennale. L’idea era quella di sorprenderlo all’ingresso e dichiarare: «Lei non ha il permesso di entrare, a meno che non abbia un pass». Poi porre una serie di domande, interrogandolo: «Perché è venuto in questo museo? Che cosa è venuto a fare? …». Volevo fargli provare la sensazione di essere escluso. Quando si mette un quadro in mostra, l’osservatore lo assorbe in quel momento, ma spesso, appena uscito dal museo, si dimentica dell’immagine. Invece, sperimentando sulla propria pelle un’esperienza, anche solo costruita artificialmente, non è facile dimenticarsene, la si assorbe fino al profondo. ●Mi racconti la performance che hai fatto al centro di Addis Abeba vestito da statua? [/VINT_RISPOST]«International workshop in Addis». Il progetto s’incentrava sulla libertà di espressione degli artisti e sulla censura, perché spesso capita che in Etiopia vengano indiscriminatamente sequestrate le camere fotografiche e cancellati video e foto da parte della polizia. La nostra proposta si chiamava Wax and Gold (Cera e Oro), che nella tradizione etiopie significa criticare con ironia e velatamente l’autorità costituita. In Etiopia ci sono molte piazze pubbliche che non sono ben conservate, dove non ci sono né sculture, né fontane … niente di niente. Alcune multinazionali hanno sponsorizzato la rivalutazione di questi luoghi pubblici e hanno messo i loro loghi permanenti, come se la piazza fosse un posto addetto alla pubblicità. Purtroppo anche gli etiopi hanno incominciato a chiamare la piazza con nome del brand che l’ha ristrutturata, senza pensare di nominarla con il nome di qualche personaggio famoso della nostra storia. Ero vestito come una statua vivente, e sono stato trasportato con un furgone alla piazza «Samsung». Molte persone vedendomi hanno incominciato a seguirmi gridando se fossi Tedros (eroe etiope del 19˚ secolo, ndr). I bambini hanno incomiciato a rincorrere il camion. Quando sono arrivato alla piazza sono rimasto fuori, come se lo sponsor commerciale mi avesse scalzato dal posto che mi competeva di diritto. Alla fine della performance sono entranto nel giardino recintato e tutti i bambini mi hanno seguito entusiasti. ●Quale è il leit motiv del progetto fotografico sui resettlement delle famiglie? C’è una massiccia costruzione edilizia che sta avendo luogo ad Addis Abeba, non ce ne rendiamo conto, ma stiamo perdendo i nostri spazi vitali. Costruiscono da tutte le parti, e le persone sono costrette a essere ricollocate forzatamente in altri posti, ad alcuni vengono dati rimborsi mentre ad altri no. Quest’ultimi iniziano così a vivere sulla strada, in tende di buste, legno e cartoni. Mulugeta segue delle famiglie, le fotografa nel mezzo della desolazione cittadina con i monumenti della speculazione edilizia alle spalle, modelli di ricchezza impiantati nel mezzo della città che sradicano tradizioni, culture, consuetudini abitative … identità. «Siamo quattro artisti che lavoriamo sui cambiamenti di Addis Abeba. Io mi concentro su due famiglie e su due bambine di 11 anni, Betti e Jerry, che vivono in una tenda e vanno a scuola, nel pomeriggio vendono gomme da masticare o fazzoletti in strada per aiutare il budget familiare. Le bambine appartengono alla città ma allo stesso tempo no, come se fossero fantasmi, la loro identità è confusa, sfumata» ●Come è la reazione della popolazione a questo «Modello Dubai» messo in atto in Etiopia? Perché hai girato il video «Inside out»? Contrastante. Gli architetti etiopi e le comunità come quella di B&J, sono completamente contrari a questo modello speculativo di costruzioni massive, perché la gente è cosciente di perdere la sua identità. I costruttori cancellano tutto ed esodano la gente in un ambiente completamente diverso che non coincide con il loro stile di vita. Per esempio le famiglie di B&J vivevano al centro della città, riuscivano a tirare avanti vendendo piccole cose per soddisfare il fabbisogno quotidiano. Se vengono spostate fuori dalla città, in un ALIAS 28 DICEMBRE 2013 (9) I nuovi edifici a specchio riflettono il sole accecante dell’equatore rendendo la temperatura insopportabile Foto di Addis Abeba di Vincenzo Mattei ETIOPIA ■ SPECULAZIONE EDILIZIA Gli idoli di cemento del modello Dubai sbarcano in Etiopia contesto alieno, non hanno più la possibilità di avere un reddito, sono condannate alla rovina. Nessuno si può opporre allo sviluppo cittadino, ma deve essere giusto ed equo, rispettare l’equilibrio ambientale e culturale di un luogo. Mi piace la diversità e anche il senso di unità, ma non mi piace vedere solo grattacieli e cemento. ●Pensi ci siano soluzioni? Alcuni architetti all’avanguardia stanno proponendo nuovi piani di urbanizzazione che rispettano le radici del luogo. Lavorano sugli spazi vuoti, perché non si può pensare solo alla costruzione senza pensare agli spazi «negativi». Questi architetti disegnano prima il vuoto, solo sul rimanente si può costruire. Un architetto americano è andato a Merkato (è il più grande mercato di tutta l’Africa, ndr), ed è rimasto impressionanto per due motivi. Il primo perché là tutto viene riciclato, il secondo perché bisogna contrattare per ogni acquisto e questo dà alle persone la possibilità di parlare, di socializzare! ●Pensando alla parte finale di «Inside out», quale è il futuro dell’Etiopia? Nella nostra esperienza come artisti, nelle mostre, come nei seminari di arte e di architettura cerchiamo di esporre le nostre idee e suggerimenti all’opinione pubblica e ai governanti. Sono convinto che questo movimento porterà a una discussione e in un certo modo a un sistema migliore per attuare lo sviluppo. I governanti hanno aperto le porte agli investimenti edilizi, ma c’è bisogno di un piano regolatore urbanistico. Gli architetti sono quelli che patiscono di più questa situazione e cercano di mediare con il governo, senza opporsi, per non essere tacciati di essere contro lo sviluppo del paese. Gli investitori vogliono che gli architetti copino gli edifici tutto specchi costruiti dai cinesi o in stile Dubai. I palazzi sono tutti diversi e non hanno niente a che vedere con l’aspetto paesaggistico dell’habitat della città. Una certa consapevolezza tra i cittadini sta nascendo, perché soffrono il caldo riflesso da tutti questi edifici e per la mancanza di parcheggi. L’attuale generazione invece vive in uno stato di costruzioni urbane permanenti che dà un senso di precarietà. Con il video voglio esprimere la mia speranza che la futura generazione possa avere uno spazio «umano» dove vivere. ●Quale è il panorama artistico in Etiopia? Per diversi motivi l’Etiopia è Un messaggio forte alla sordità della comunità internazionale, incapace di affrontare una calamità che riguarda il mondo intero geograficamente e politicamente isolata, non è facile conseguire un visto per visitare altri paesi vicini. Gli artisti africani di altre nazioni hanno possibilità maggiori di viaggiare e d’incontrarsi, sia per possibilità economiche che per migliore comunicazione stradale. Solo pochi etiopi hanno la possibilità di confrontarsi con altre realtà e la comunità di artisti è molto ristretta ed è concentrata solo nella capitale. ●La tua arte sembra inglobare tutti gli strati sociali dell’Etiopia Non è intenzionale. Quando qualcosa colpisce la mia attenzione, diventa naturale lavorarci sopra. Sul corto del carpentiere disabile che lavora il legno con i piedi, voglio mostrare il suo impegno e le sue capacità, senza che la gente si senta a disagio guardandolo, voglio mostrare la sua forza interiore. ●Quale è il messaggio? In Etiopia le condizioni di vita sono difficilissime, voglio dire alle persone di incoraggiare chi ha problemi motori a non perdere la fiducia, perché possono fare cose straordinarie. Ora sto lavorando su un corto di una donna che non può muovere le mani e cuce con i piedi riuscendo a fare degli abiti tradizionali etiopi eccezionali. Pensa che con le dita del piede riesce ad infilare l’ago e fa dei modelli favolosi. ●Quanto la tua religione Bahai influenza il tuo lavoro? Molto, cerco di vivere la mia vita seguendo gli insegnamenti degli oltre cento libri che la mia religione impartisce. Alla fine siamo tutti fiori differenti nello stesso giardino, il colore bianco della tua pelle non è un ostacolo per me, perché cerco di guardarti nell’anima e non nell’aspetto esteriore ed è quello metto dentro il mio lavoro, senza demarcazioni e ... confini. di V.M. ADDIS ABEBA ●●●«Il 21˚ secolo appartiene all’Africa», è l’immagine proiettata da gigantografie che bombardano il viaggiatore appena arrivato all’eroporto di Addis Abeba. Cartelloni pubblicitari di famiglie etiopi sorridenti danno l’idea di un continente proiettato verso un futuro roseo e uno sviluppo inarrestabile che sembra non preoccuparsi delle crisi cicliche dell’economia mondiale. Negli ultimi sette anni la capitale è cresciuta demograficamente, con le forti migrazioni dalle campagne, ed economicamente, con indici di crescita che in alcuni periodi sono stati a doppia cifra. Ma, come spesso accade, ciò non ha portato a un miglioramento sostanziale delle condizioni di vita dell’intera popolazione (secondo Wikipedia il reddito pro-capite ancora si colloca al 168˚ posto). Come ogni paese in ascesa, l’Etiopia ha voglia di dimostrare la propria crescita, e quale modo migliore se non la vetrina di una città in pieno sviluppo edilizio? E quale modello mettere in pratica se non quello di Dubai? Dopo gli Usa, i paesi del Golfo Persico e il Medio Oriente, dove le continue rivolte hanno ormai disincentivato ogni tipo di investimento, la speculazione edilizia sembra indirizzata verso altri confini, verso sud. L’Africa, e le sue infinite possibilità di sviluppo, è l’obiettivo naturale per erigere gli idoli di cemento da innalzare in onore del neocapitalismo che non trae alcun insegnamento dai propri errori. Il Modello Dubai sradica il tessuto storico-sociale che caratterizza una nazione. Se si guarda ai paesi nord africani del mondo arabo, il tipo di politiche di sviluppo messe in atto non ha portato i giovamenti economici sperati se non ad una ridotta minoranza della popolazione. Anzi, le sperequazioni sono aumentate, l’assistenza sanitaria inesistente o accessibile solo per pochi ricchi, l’istruzione fallimentare, la pensione un miraggio. Il Modello Dubai, che funziona solo nei Paesi del Golfo perché supportati dagli introiti del petrolio, sottintende l’adozione di un sistema di valori non solo economici, che prenetrano la società e le istituzioni statali, spazzando via qualsiasi teoria neokeynesiana. Wrapped, incartati ... verdi, blu, gialli, sono i colori con i quali vengono cellofanate le impalcature delle costruzione ad Addis Abeba. Interi rioni storici della capitale (Kazanchis, Merkato, il quartiere a ridosso della Greek School, Bole ...) sono stati rasi completamente al suolo per far spazio a questi monumenti variopinti da scartare una volta terminati i lavori. Lo skyline della città sta cambiando radicalmente in tutte le zone, le nuove fabbricazioni si arrampicano addirittura ai piedi dei monti circostanti. Ogni area della città è un cantiere a cielo aperto. Il problema di fondo è il confuso piano di sviluppo urbanistico, che non stabilisce regole precise e rigide da seguire e rispettare. Il governo etiope ha assunto consulenti inglesi e cinesi per strutturare al meglio il piano regolatore, ma questi impongono politiche poco lineari con la realtà etiope e spesso con lo scopo di favorire le multinazionali straniere. I nuovi edifici a specchio, con design di architetti cinesi e americani, riflettono il sole accecante dell’equatore aumentando di molto le temperature in città e rendendole insopportabili per i passanti. Per legge palazzi a sei/dieci piani si erigono nelle prime tre file a ridosso dei grandi boulevard che vengono costruiti per aiutare la viabilità, ma che tagliano a metà interi quartieri. Non ci sono parcheggi sulle nuove ampie strade perché lo Stato concede in costruzione spazi ristretti (normalmente 400 m2 quando un vecchio edificio viene raso al suolo). Così i costruttori ottimizzano la cubatura a disposizione costruendo quasi a ridosso del terreno limitrofo e riducendo al minimo la distanza tra le vie e i palazzi. I nuovi stabili di cemento e vetro hanno parzialmente rimpiazzato le baraccopoli metropolitane ma senza rispettare la storia del territorio e lo stile africano di vivere in estensione più che in altezza. Il tipo di piano urbanistico impiegato, sradica completamente le regole di convivenza pacifiche tra il ricco e il povero che per quasi un secolo hanno caratterizzato la vita ad Addis Abeba, alimentando tensioni e delinquenza. Entrambi erano figure ben integrate nel quartiere, si conoscevano a vicenda permettendo quel controllo sociale che riduceva al minimo i casi di teppismo. Le disparità esistevano ma non erano così marcate. Spesso i meno fortunati/e andavano a lavorare nelle case delle famiglie più agiate come guardiani, giardinieri, portieri, donne delle pulizie. Oggi si assiste al sorgere di veri e propri compound per ricchi sparsi a macchia di leopardo nella città, dove ogni casa è recintata con filo spinato e con uomini di sorveglianza privati. Tutto un modus vivendi è stato cancellato con lo smantellamento di molti quartieri. La gente è stata rilocata nei sobborghi periferici della capitale con indennizzi ridicoli, dove vivono in condomini e devono percorrere più di 50 km al giorno per andare a lavorare. Molte famiglie per far fronte alle spese condividono lo stesso appartamento e gli stessi bagni, a discapito di tutte le norme igeniche. Le tradizionali case etiopi sono a un solo livello, dotate di un forno esterno dove le donne cucinano a legna, a carbone o a kerosene! Riversare queste abitudini in uno spazio ridotto quale quello di un condominio è pericoloso sia per la salute che per la sicurezza. Un altro modo del governo etiope per attrarre capitali stranieri è stato incentivare la voglia di molti espatriati a investire i propri risparmi nella terra d’origine. Ma la nuova borghesia etiope, soprattutto quella cresciuta in America, ha perso completamente gli stili di vita africani. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza generazione che, al rientro in Etiopia, non ne conosce la storia e la cultura, rifiutandone persino la dieta culinaria, come il kitfo, carne macinata cruda speziata con berberé piccante, sostituito da hamburger abbrustoliti del McDonald. Questa perdita dell’eredità culturale fa credere all’emigrato di poter mettere in pratica una filosofia economica nuova, senza rendersi conto delle conseguenze negative e dell’impatto ambientale che può avere in un paese quale l’Etiopia. Ciò è particolarmente visibile nelle vicinanze della capitale, dove migliaia di ettari sono stati dati in concessione alle multinazionali pronte a investire nel paese. Alle porte di Addis Abeba si trovano fabbriche cinesi che si estendono per chilometri e chilometri quadrati. Ma non sono gli unici, anche olandesi, francesi, inglesi e russi puntano sul continente emergente e sulle normative molto accomodanti dei governi africani. Il progresso deve andare avanti, ma non può esistere un modello universale valido per tutti e per tutte le aree geografiche del pianeta. Nessuno è contro il miglioramento delle condizioni di vita dell’essere umano, ma le ridondanti prediche per proteggere la cultura e la tradizione di un popolo vengono sempre lasciate inascoltate. L’Etiopia, come tutto il continente africano, si trova davanti ad una sfida che segnerà in maniera irreversibile il cammino del paese: quella di non seguire gli stessi errori commessi dai paesi industrializzati. Nel secolo scorso, spesso l’Occidente ha inseguito uno sviluppo insensato senza curarsi dello smantellamento urbano e della devastazione sociale e ambientale che poteva causare e di cui si pagano ancora le conseguenze. Sarà importante seguire un percorso che riesca a rispettare l’identità culturale del paese, anche se al momento ad Addis Abeba sembra accadere il contrario. Purtroppo è l’eredità del colonialismo. Per quanto gli stati africani se ne vogliano affrancare, non hanno altri modelli di riferimento se non quelli occidentali, con tutta una serie di errori che tristemente sembrano ripercorrere. Forse la nuova generazione ha più prospettive di riuscire ad estirpare questo pesante retaggio, ma dovrà evitare di rompere troppo bruscamente con le tradizioni del passato, per non fare la fine della Cina, dove mangiare al McDonald è come andare a un ristorante di lusso! (10) ALIAS 28 DICEMBRE 2013 ARTI ORIENTALI LASCIARE IL CORPO LAVORARE ATTRAVERSO IL PROPRIO INVOLONTARIO ●Il pensiero del Maestro Itsuo Tsuda è ampiamente espresso nei suoi 9 libri. Ce ne può consigliare uno in particolare? Sì, tutti. Intervista a Régis Soavi Sensei, maestro di Aikido che da oltre trent’anni fa conoscere il «Katsugen undo», pratica giapponese che ci fa ritrovare le capacità naturali di MANOLA DI PASQUALE* ●●●Oggi molte persone con idee politiche diverse o anche prive di una idea politica definita, si preoccupano di come i loro comportamenti individuali possono influire sull'ambiente: acquistare prodotti biologici e a «km-zero», riciclare meglio i rifiuti, scegliere fornitori di servizi più rispettosi dell'ambiente, ridurre il consumo energetico, ecc. A livello di dibattito politico comunque, la retorica ecologista funziona sempre, anche in tempo di crisi. In ogni caso, l'attenzione collettiva verso le condizioni e la qualità della terra, dell'aria e dell'acqua, per diverse ragioni, che sia per senso di responsabilità o a volte, semplicemente per business, è alta. Ci si preoccupa delle sostanze con cui tutti gli esseri viventi entrano in contatto: piante, animali ed esseri umani, siano queste nutritive, medicinali o tossiche. Oltre agli esperti che siano ecologisti, naturalisti, veterinari, medici, molte sono le persone che si interrogano su come e in che misura tutto ciò abbia un impatto sul nostro corpo e le sue capacità di reazione e di adattabilità. Ne parliamo con Régis Soavi, maestro di Aikido che, da oltre trenta anni, attraverso stage e conferenze fa conoscere il Katsugen Undo (una pratica messa a punto in Giappone da Haruchika Noguchi), continuando il lavoro del suo maestro Itsuo Tsuda che per primo lo aveva proposto in Europa a partire dagli anni 70. ●Lei insegna ormai da più di trent'anni Aikido e Katsugen undo e sicuramente il meno conosciuto è il secondo. Ci può dire in poche parole di che cosa si tratta? Che cos'è il Katsugen undo? È una maniera di ritrovare l'istinto naturale del corpo. È un esercizio, una ginnastica, dell'involontario che si fa per ritrovare le capacità naturali. Normalmente nessuno dovrebbe Per un’ecologia del corpo umano ha fatto il legame tra queste due vie. fare il Katsugen undo, nessuno, assolutamente nessuno. Ma siccome i corpi non funzionano più in modo normale, ora abbiamo bisogno di ritrovare le capacità che abbiamo perso. È per questo che il maestro Haruchika Noguchi ha messo a punto qualche esercizio che permette al sistema involontario di attivarsi ed agire di nuovo nei corpi, cosicché i corpi possano regolarsi da soli. ●C'è un rapporto tra il Katsugen undo e l'Aikido? Sono due vie diverse, ma si può dire che tutte le vie normalmente dovrebbero andare verso la stessa cosa. Non avrei mai potuto praticare l'Aikido come lo pratico adesso, se non avessi conosciuto e praticato il Katsugen undo. Praticare Katsugen undo significa lasciare il corpo lavorare attraverso il proprio involontario e così il corpo si normalizza e ritrova le capacità innate, fisiche e psichiche. Ho conosciuto queste due pratiche, Aikido e Katsugen undo, attraverso il mio Maestro Itsuo Tsuda ed è lui che ●Il maestro Itsuo Tsuda invece del termine Aikido usava l'espressione «Pratica respiratoria del maestro Ueshiba». Perché questo nome? Soprattutto perché il termine Aikido è diventato un «marque déposé» e poi lui preferiva parlare di respirazione. L'Aikido adesso è soprattutto visto come un'arte di lotta o di difesa contro un avversario. Per il Maestro Tsuda la maniera di praticare l'Aikido, e quindi la maniera di oggi di parlare dell'Aikido, non è ciò che lui aveva sentito dal maestro Ueshiba. Aveva sentito qualcosa di molto diverso, più vicino alla respirazione, ovvero il movimento del ki. Per questo non voleva più usare il termine Aikido, preferiva parlare di respirazione. Parlava sempre di Ka e Mi, inspirazione ed espirazione, parlava di unione e di fusione più che di lotta l'uno contro l'altro o di difesa personale; è dunque per questo che il tipo di Aikido che faceva era molto diverso da tutto quello che avevo visto fino al momento in cui l'ho incontrato. All'epoca ero iscritto alle federazioni, in Francia. Ho conosciuto diversi maestri ed alcuni di quelli che ho incrociato, come ad esempio i Maestri Yamaguchi e Shirata, erano molto vicini a quello che faceva lui. Probabilmente ce ne sono altri che non conosco, che non ho mai incontrato. Ma le scuole di Aikido adesso sono sempre più delle scuole di arti di lotta marziale ed invece il Maestro Tsuda seguiva una via molto diversa. Parlava spesso di come il Maestro Morihei Ueshiba faceva Misogi: penso quindi che sia per questo che lo chiamava «Arte della Respirazione» ed ha anche chiamato la propria scuola «Scuola della Respirazione». ●Il suo Maestro, Itsuo Tsuda, parla di una filosofia pratica. Ci può spiegare cosa significa? In occidente le filosofie sono sempre delle cose pensate, uno pensa e scrive. «Io penso dunque sono», questa è la filosofia. La filosofia di cui parla Itsuo Tsuda è basata veramente su di una pratica, su una pratica del vuoto mentale. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che sia piuttosto una non filosofia, ma non esiste una non filosofia. Il maestro Tsuda parla di cose pratiche, per lui non è più pensare, e poi fare. Non fare, non filosofare e non pensare non vuol dire essere decerebrato. C'è un'unione tra il pensiero e il fatto di fare, non c'è più separazione: è la stessa cosa, come nello Zen. Una filosofia pratica non è separata dal corpo, da tutto ciò che c'è intorno, non è una filosofia che si inventa. Non è una filosofia astratta, che raggiunge solo la testa. ●Quanto ha contato per lei il contatto diretto con il suo Maestro Itsuo Tsuda, che a sua volta è stato allievo diretto dei Maestri Morihei Ueshiba e Haruchika Noguchi? È stato essenziale. È l'essenza perché attraverso di lui, il mio Maestro Itsuo Tsuda, si potevano sentire H. Noguchi e M. Ueshiba. Si sentivano le cose nel non dire, nel non fare, nello sguardo, nei gesti. La presenza di un Maestro è importante fin nei suoi silenzi. Ciò che poteva insegnare, lui lo ha fatto, ma la cosa più importante era la sua presenza e quello che noi come allievi potevamo sentire attraverso ciò che emanava e che si trasmetteva tutto intorno a lui, qualcosa che si sentiva, che... si respirava. ●Lei è stato l'ispiratore, il creatore della Scuola Itsuo Tsuda. Che cosa è esattamente questa Scuola? La Scuola Itsuo Tsuda è stata creata per far conoscere la filosofia pratica del Maestro Itsuo Tsuda e per permettere alle persone interessate da questa via di praticare l'Aikido e il Katsugen undo così come sono stati trasmessi dal Maestro Tsuda. Questa Scuola riunisce degli individui i quali, nella maggior parte dei casi, hanno creato delle associazioni indipendenti che hanno come sede dei dojo. Ad oggi ve ne sono a Roma, Milano, Ancona, Torino, Amsterdam, Parigi, Tolosa e Mas d'Azil (Francia). Queste associazioni collaborano a diversi progetti della Scuola Itsuo Tsuda, come ALIAS 28 DICEMBRE 2013 (11) organizzare stage, conferenze pubbliche, esposizioni, scrivere articoli o pubblicazioni, ecc. Il mio rapporto di insegnamento con alcune di queste associazioni dura da oltre 30 anni. ●La filosofia pratica di cui abbiamo parlato fino ad ora viene da maestri orientali, secondo lei c'è una possibilità per noi occidentali di comprendere qualcosa di così specifico che viene dall'oriente? Assolutamente! Gli esseri umani sono esseri umani che vengano dall'oriente o dall'occidente, dal sud o dal nord, sono sempre esseri umani. È vero che in occidente noi, nelle società iperindustrializzate, abbiamo perso qualcosa di primordiale, è per questo che ci giriamo verso l'oriente, c'è anche chi si gira verso il sud o verso il nord o verso gli Eschimesi, per ritrovare delle cose che comunque sono prima di tutto umane. Noi abbiamo trovato questa filosofia pratica: non è difficile da imparare, in realtà non c'è niente da imparare. Lasciare il corpo fare ciò di cui ha bisogno: è una pratica semplice, è di una semplicità straordinaria. Venite un po' a provare durante uno dei nostri stage... Vedrete! «Ho conosciuto queste due pratiche, Aikido e Katsugen undo, attraverso il mio Maestro Itsuo Tsuda ed è lui che ha fatto il legame tra queste due vie» ●È stato Tsuda che ha fatto per primo il passaggio tra oriente e occidente? Bodidarma si è girato verso l'oriente e Tsuda verso l'occidente: ha reso così possibile capire delle cose che all'inizio potevano sembrare esoteriche, lui le ha rese exoteriche. I libri di Itsuo Tsuda (si possono leggere anche a dieci anni) hanno diversi livelli di comprensione. La sua grande capacità è stata quella di rendere accessibili alla mentalità occidentale concetti facilmente comprensibili da un orientale, perché fanno parte della sua cultura, o almeno ne facevano parte prima dell'occidentalizzazione dell'oriente. ●Si sente parlare ogni giorno di ecologia, di stili di vita ecologici, di materiali ecocompatibili, di cibi naturali, di medicine naturali, di come e cosa dovremmo e potremmo fare per salvare il nostro pianeta. Lei ha parlato in una recente conferenza di ecologia del corpo umano. Che cosa intende? Prima vorrei definire di cosa si parla quando si parla di ecologia: per esempio quando si parla dell'agricoltura, si fanno pesanti interventi sulla terra per uccidere gli insetti. Ma rispettare la natura vuol dire non intervenire sulle manifestazioni naturali della terra: per esempio l'esperienza che Masanobu Fukuoka ha descritto in La rivoluzione del filo di paglia è interessante dal punto di vista dell'ecologia e per quanto riguarda il corpo è la stessa cosa: tutti oggi vogliono assolutamente intervenire sul corpo, su tutte le fasi, dall'inizio alla fine. Dall'inizio, quando l'essere umano nasce, fino a quando muore. Tra questi due momenti ci sono interventi di tutti i tipi che rendono le persone uniformi o che sopprimono tutte le risposte che dà il corpo. Un corpo sano è un corpo che reagisce. Un corpo sano non ha bisogno di niente di speciale per reagire alle malattie, o anche semplicemente per crescere, per invecchiare... per invecchiare normalmente. Dunque l'ecologia umana è rispettare il corpo del neonato, del bambino, dei giovani, dell'adulto, delle persone anziane, ed è lasciare la possibilità ai corpi di reagire. È questa l'ecologia umana. Adesso tutti i corpi sono completamente imbottiti di medicine. Vengono imbottiti con tante cose, non solamente medicine, ma anche cibo, che è pieno di sostanze chimiche. Dunque i corpi non hanno più niente di naturale. Ritrovare la natura del corpo vuol dire anche eliminare tutti i prodotti chimici, che sono inutili. Dunque quando io parlo di ecologia umana non voglio dire solo mangiare sano, ma anche ritrovare la capacità umana di sentire, di prendere le cose di cui si ha bisogno senza esagerazione LE BIOGRAFIE RÉGIS SOAVI Durante la sua formazione da professionista nelle federazioni di Aikido, Régis Soavi incontra il Maestro Itsuo Tsuda e segue il suo insegnamento per dieci anni. L'Aikido del M˚ Tsuda corrisponde molto di più a quello che cerca e si orienta definitivamente in questa direzione verso gli anni '80. Si dedica da più di trenta anni all'Aikido e al Katsugen Undo insegnando tutte le mattine al dojo Tenshin di Parigi. Conduce stage regolari nei dojo che sono riuniti nella Scuola Itsuo Tsuda, a Parigi, Tolosa, Milano, Roma, Amsterdam. Conferenziere durante gli stage, è chiamato anche in altre occasioni a tenere delle conferenze pubbliche. e solo quelle cose di cui si ha bisogno. Così i corpi possono ritrovare la capacità di dare le risposte di cui hanno bisogno e di vivere normalmente. ●Il filosofo tedesco dello scorso secolo Hans Jonas scrive in «Sull'orlo dell'abisso»: «Siamo diventati più pericolosi per la natura di quanto la natura sia mai stata per noi». Lei è d'accordo? In un certo senso sì, ma noi facciamo parte della natura, dunque non c'è una separazione. ITSUO TSUDA Itsuo Tsuda, nato nel 1914, arriva in Francia nel 1934 e compie i suoi studi con Marcel Granet e Marcel Mauss fino al 1940, anno del suo ritorno in Giappone. Dopo il 1950 si interessa agli aspetti culturali del Giappone, studia la recitazione del Nô con il M˚Hosada, il Seitai con il M˚ Noguchi e l'Aikido con il M˚ Ueshiba. Itsuo Tsuda torna in Europa nel 1970 per diffondere il Katsugen undo (movimento rigeneratore) e le sue idee sul Ki. La sua morte è avvenuta nel 1984, ma la filosofia pratica e l'insegnamento che ha trasmesso attraverso le sue opere e il suo lavoro continuano a vivere in Europa nei dojo della Scuola Itsuo Tsuda. www.scuolaitsuotsuda.org Su questo punto non sono d'accordo con l'interpretazione che si fa di ciò che ha scritto Jonas: detto così sembra che faccia una separazione tra l'uomo e la natura, ma l'essere umano fa parte della natura. Dunque è come se noi come natura lottassimo contro noi come esseri umani. Adesso effettivamente siamo più pericolosi, perché c'è una parte negativa della nostra natura che è diventata assolutamente pericolosa. Lui parla della natura come se fosse una parte esterna, ma non si può definire la cosa così, è una questione dialettica. L'essere umano è completamente nella natura, senza la natura non esisterebbe e la natura senza l'essere umano sarebbe qualcosa d'altro, qualcosa che noi non possiamo conoscere. Dunque se una parte della natura tra virgolette è stata pericolosa per noi, per esempio animali selvatici, piante velenose, ecc. ... effettivamente adesso noi siamo più che pericolosi: distruggiamo la natura, distruggiamo tutto, persino l'essere umano. Forse la natura sopravviverà all'essere umano, io lo spero, altrimenti sarebbe terribile. Stiamo distruggendo più l'essere umano che la natura stessa. La natura comunque sopravviverà in un'altra maniera senza l'essere umano, senza animali, non so. Anche i dinosauri si sono estinti... e forse all'uomo accadrà la stessa cosa. ●Potremmo parlare di una cultura ecologica del corpo umano da trasmettere? Io non parlo di una cultura ecologica da trasmettere, ma di ritrovare le capacità naturali dell'essere umano, qualcosa che abbiamo dimenticato, qualcosa che non sentiamo più, ma che c'è ancora. Non è una cultura nuova, è qualcosa da ritrovare, è qualcosa che abbiamo dimenticato, è qualcosa che non conosciamo più. Il primo passo sarebbe già smettere di pensare troppo, e ritrovare le capacità naturali dell'essere umano. ●Ci sono momenti nella vita di ogni individuo che sono fondamentali per l'essere umano? Sì, la nascita. Quando uno nasce è fondamentale e poi quando uno muore, ma si può dire che quello che c'è tra questi due momenti non sia fondamentale? Io che sono tra i due penso che sia fondamentale. Un altro momento importante è quello della malattia. ●La malattia si può affrontare in modo «ecologico»? Deve fare questo tipo di domanda agli ecologisti. Io non sono un ecologista, dunque io non penso in termini di «affrontare la malattia», forse gli ecologisti la affrontano e usano metodi dolci o altre cose, non so... Quello che posso dire è che io non vado contro la malattia, non affronto la malattia. La malattia è una funzione naturale del corpo, soprattutto se si pensa alla malattia in termini di sintomi. La gente pensa alla malattia come qualcosa che va verso la morte, sempre. Io direi che non devo affrontare la malattia, io vivo la malattia, per me è una maniera di rigenerarsi, per trovare il modo di vivere ancora. E poi evidentemente c'è un momento in cui non si vive più. La malattia non è una cosa da affrontare o contro cui lottare, è qualcosa da attraversare. *omotossicologa Al centro, in alto e nel secondo taglio, il maestro Régis Soavi in azione nel centro (dojo) di Roma. In basso due esempi di combattimento di Aikido tradizionale. A pag 11, al centro, il maestro Itsuo Tsuda e, sopra, una sua calligrafia che indica il Ki, la espirazione concentrata (12) ALIAS 28 DICEMBRE 2013 PAGINE ■ È USCITO IL VOLUME «FREAK OUT! LA MIA VITA CON FRANK ZAPPA» 20 anni dalla parte di Frank Zappa Il 4 dicembre 1993 moriva Frank Zappa, uno dei musicisti più completi del Novecento, capace di passare dal rock alla musica concreta, dal jazz al pop arguto di pezzi come Camarillo Brillo. Frank e il resto del mondo. Un libro illuminante, edito da Arcana, scritto da un punto di vista del tutto esterno all'artista che però diventa con il passare dei capitoli centrale per capire il personaggio, la sua avversione per censure, modi e stili dominanti. La storia di una dattilografa «scioccata» dal disco Absolutely Free che si trasferisce con Zappa a Hollywood, conosce una teoria di artisti-colleghi, gestisce il fan club, si prende cura delle GTO's. E si lega per sempre al maestro. Eccolo Zappa, maestro isolato, spesso asociale, eppure così centrale per tanti suoni e spostamenti culturali del Novecento. Si ringrazia l’editore per aver concesso gli estratti che seguono. di PAULINE BUTCHER* Il giorno in cui conobbi Frank Zappa iniziò come ogni altro dei cinque anni precedenti. Avessi saputo quanto sarebbe stato epocale, mi sarei agganciata i pendenti alle orecchie con più cura, avrei attraversato Londra più alla svelta, e avrei risposto al telefono in ufficio con più solerzia. Ma in quel piovoso e piatto pomeriggio d’agosto del 1967, non potevo certo immaginarlo. Guadagnavo 10 scellini l’ora in una copisteria di Dover Street. Non c’erano grandi macchinari e orde di uomini, bensì un grosso ufficio con macchine da scrivere Selectric e venti ragazze sedute in quadrati da quattro. Dattilografavamo menù, programmi di sala, pubblicità, sceneggiature, e talora anche romanzi di scrittori pieni di speranza. In fondo alla stanza, dietro a un vetro, due ragazzi azionavano delle enormi fotocopiatrici. Noi ragazze non eravamo però semplici dattilografe. Niente affatto. Ci affrettavamo da un capo all’altro della città con macchine da scrivere portatili e taccuini, tra hotel e case private. I nostri clienti potevano anche essere persone molto importanti. Solo una settimana prima, avevo lavorato per il nipote dell’Imperatore d’Etiopia, Hailé Selassié. Quando era crollato ubriaco nel water, avevo chiamato il portiere dell’hotel, pensando che fosse morto. E avevo lavorato anche con Margaret, duchessa di Argyll, che era tremendamente affranta per via del suo scandaloso divorzio. Alcune foto che la ritraevano nuda con una serie di aristocratici erano state spiattellate da vari tabloid. (...) La Forum Secretarial Services, un posto chiassoso, quasi assordante, apparteneva a Miss Bee e a quel piccoletto di suo marito, il dottor Lederer, entrambi scappati dalla Rivoluzione ungherese nel 1956. (...) Quel giorno, il 16 agosto, Miss Bee era dal parrucchiere, perciò risposi io al telefono. «Royal Garden Hotel», mi disse il portiere. «Un nostro cliente vuole una dattilografa per le sei e mezza». «Attenda». Misi una mano sulla cornetta e cercai una volontaria, ma le ragazze scossero il capo. Avevo preso io la telefonata, pertanto ero io a dover andare. (...) «È per il signor Zappa. Stanza 412». Il signor Zappa. Che nome noioso! A volte lavoravamo per stelle del cinema come Gregory Peck (e stranamente avevo trovato suo figlio, un teenager, più seducente di lui). Tra gli altri clienti celebri avevo avuto il mimo Marcel Marceau e degli affascinanti politici israeliani o di Buenos Aires, ma la maggior parte della clientela era formata da alti dirigenti di multinazionali, e credevo che il signor Zappa fosse uno di loro. (...) Trotterellai lungo il corridoio fino alla stanza 412, appoggiai le borse sul pavimento, e bussai. (...) Sulla scrivania, mi aspettava un registratore a bobine. Mentre tiravo fuori la macchina da scrivere, il signor Zappa mi disse: «Voglio che tu dattiloscriva i testi dei brani nel nastro. Mi servono per domani». Premette play per accertarsi che il registratore funzionasse. Ne uscirono strani rumori. Mi aspettava una lunga notte. (...) Gli chiesi: «Dovrei conoscerla? È famoso?». Sentii delle risatine dei tizi nell’altra stanza. «A Londra ci conoscono in pochi», mi rispose con umiltà. «Questo l’hai mai visto?». Mi porse la copertina di un Lp, Freak Out!; cinque uomini in una foto colorata in modo confuso. Quello in mezzo, malgrado la distorsione dell’immagine, era senza dubbio il signor Zappa. «Mothers of Invention?», lessi ad alta voce. Strano nome per una band. «Siamo noi», mi disse. «Quelli brutti». Cercando di essere gentile, gli risposi: «Oh, non direi». Mi contraddisse con un gesto. «Scelgo tutti i membri della mia band per la loro bruttezza. Tutti gli altri gruppi cercano di essere belli. Noi facciamo soldi essendo brutti, visto che la società è proprio così, brutta». Mi passò un secondo album, Absolutely Free. Stavolta era l’espressione severa del signor Zappa a riempire la copertina, mentre le altre Mothers spuntavano dal basso. All’interno, una fascetta pubblicitaria chiedeva ai fan di inviare un dollaro in cambio dei testi. Qui a Londra, l’International Times, un giornale underground che non avevo mai letto, aveva accettato di pubblicarli gratuitamente. Il mio compito era quello di trascriverli. Mentre il signor Zappa mi chiedeva se ero comoda e mi portava il caffè - gesti gentili quasi senza precedenti tra i miei clienti premetti play, e partì uno sproloquio incomprensibile. Mentre stava uscendo, lo chiamai: «Signor Zappa!». Tornò indietro. «Ehm, sì?». «Questa lingua è inglese?». Sorrise sarcastico, arricciando un angolo della bocca. Era bello che capisse il mio umorismo. Gli risposi a mia volta sorridendo. Mi diede un’ultima occhiata e poi raggiunse gli altri. Lo fissai mentre se ne andava, desiderando che rimanesse ancora a parlare con me. Il primo brano si intitolava Plastic People. Gente di plastica? La voce cool e profonda del signor Zappa presentava il presidente degli Stati Scelgo i membri della mia band per la loro bruttezza. Tutti gli altri gruppi cercano di essere belli. Noi facciamo soldi essendo brutti Uniti, e io incominciai a dattilografare. Ma che cosa stava dicendo? Era «he had sex» o «he’s been sick»? Nessuna delle due aveva senso. Continuai a scrivere. Seguirono altri sproloqui, e dovetti riascoltarli in continuazione. Perché non poteva trattarsi dei Beatles o dei Rolling Stones, con testi facili e parole che capivo? Tenni duro. Il brano seguente, The Duke of Prunes, mi confuse ulteriormente. Era divertente e satirico, e mi fece sorridere, ma perché quel canto lamentoso e i continui cambi di ritmo? I suoni discordanti mi tormentavano le orecchie. Poi, fortunatamente, nel bel mezzo arrivò un lungo segmento jazzy, da big band, e in men che non si dica cominciai a tenere il tempo col piede e mi appoggiai alla sedia per lasciarmi avvolgere dal suono. Mi piacevano. Quell’uomo aveva talento. Dalla porta, potevo sentire brindisi e chiacchiere a bassa voce. (...) Cominciò a raccontarmi della sua istruzione, di come suo padre fosse passato da un lavoro all’altro, facendo trasferire la sua famiglia in Maryland, in Florida e in California. «Non mi piaceva affatto», mi disse. «A quindici anni, ero già stato in sei diverse scuole superiori. Hai idea di che effetto abbia? Non è divertente quando soffri di acne. Ti rende davvero difficile farti degli amici». Nessun altro uomo per il quale avessi lavorato mi aveva parlato in modo tanto intimo. Mi fece sentire importante. Non mi illudevo di essere speciale, ma sembrava che gli piacessi. (...) Frank sobbalzava sul letto a bocca aperta, battendosi le mani sulle ginocchia e ridendo tanto forte da far tacere il mormorio nella stanza accanto. «Oh, cielo, fa più ridere dell’originale». Sentendomi incoraggiata, gli dissi: «Non ho capito tutto, così l’ho inventato». «Una bambolina fa la cacca puzzolente? («A baby dool makes a filthy poo»)». «Come dovrebbe essere?». «Una cassa di colla per aeroplani («A case of airplane glue»)».«Ah!». Sfogliai le pagine per cercare il punto esatto, e timidamente dissi: «Immagino che ce ne siano altre», ma era già andato avanti con la lettura. «Stando a quel che hai fatto, dovresti scrivere anche tu». (...) «Ma se lo facessi, sarei meno volgare». «Volgare?». «Be’, Brown Shoes Don’t Make It è piuttosto forte per un disco». «Lo pensi davvero? È una delle nostre canzoni più popolari». Risi. «Probabilmente perché è così volgare». Mi guardò con indulgenza: «Questo è il tuo punto di vista, Pauline, e mi dice più di te che della canzone». Un po’ colpita, gli dissi con tutta l’autorità possibile: «Non posso essere stata l’unica a dirlo. Devi ammetterlo, sono testi ben poco edificanti. Se non sono volgari, sono quantomeno licenziosi». «Non per il nostro pubblico». Mi aveva contraddetto, ma ero determinata a non indietreggiare. Scorsi le pagine per trovare quella giusta. Lessi ad alta voce dei versi su una tredicenne e un uomo di mezza età con le scarpe marroni. Fanno sesso sul prato della Casa Bianca e giocano a «padre e figlia». Cercai di scorgere una reazione sul viso di Frank, ma mi fissava inespressivo. «Non è carino», gli dissi. «Non è carino?». «No». Il suo sorriso scomparve. «Se vuoi sentire canzoncine carine con parole insignificanti, ci sono un mucchio di persone che fanno al caso tuo. Non ho alcuna intenzione di scrivere roba del genere. Non c’è motivo di affollare quel settore». Non volevo perdere la sua benevolenza, quindi acconsentii: «Immagino che tu venda abbastanza dischi, e perciò non debba preoccuparti di quel che pensa la gente». «Vendiamo abbastanza. Abbiamo un buon pubblico di nicchia, malgrado le radio si rifiutino di mandarci in onda, e malgrado i tentativi della nostra casa discografica». «Di certo sei in affari per fare soldi, come tutti. Perché ti saboti da solo scrivendo canzoni che i dj si rifiutano di suonare?». Non mi rispose e si fece serio, pensoso. Forse avrei dovuto fermarmi, ma d’impeto continuai a pressarlo: «Forse i tuoi fan sono più grandi e navigati di me». «Affatto». «Quanti anni hanno?». Annoiato, mi rispose: «Tra i tredici e i quarantacinque. All’incirca». «Tredici! Così giovani! Be’, se mi permetti, non penso che i tredicenni debbano sentire cose simili». Sembravo mia madre, ma non potevo farci niente, le parole ALIAS 28 DICEMBRE 2013 (13) Alcune immagini di Frank Zappa e la copertina del libro di Pauline Butcher. Qui accanto l’autrice del libro accanto all’artista (C) Ed Caraeff Se vuoi sentire canzoncine carine con parole insignificanti, ci sono un mucchio di persone che fanno al caso tuo. Non ho alcuna intenzione di farlo venivano da sole. «Oh, non so», mi disse. «Dovresti discuterne con un tredicenne. Se li fa felici, devono pur trovare qualcuno di loro gradimento. Per quel che so, non hanno niente da obiettare». «Ma potrebbero obiettare i loro genitori». Mi contraddisse con un gesto. «Chi compra i nostri dischi non si cura di quel che pensano i genitori. A quanto pare prosperiamo dove c’è contrasto generazionale, perché abbiamo la tendenza a rendere tutto più animato». Proseguii: «Corri il rischio di corrompere le menti di un’intera generazione». «Lo pensi davvero?». «Sì». Scosse il capo. «Rifletti. La maggior parte delle canzoni che trasmettono in radio parla d’amore. In radio non sentiamo altro che messaggi d’amore, pertanto se i testi influenzassero davvero la gente, quale sarebbe il risultato? Un mondo di fiaba. Ma non è così». «Ma la maggior parte delle persone crede davvero nell’amore, non è vero? Pertanto puoi dare la colpa alle canzoni, perché forse influenzano davvero le persone». Mi studiò con aria interrogativa, tra le capriole del fumo. Perlomeno non mi stava cacciando via. Rincuorata, insistetti: «Questo verso». Indicai un altro segmento della canzone che parlava di scopare sul prato della Casa Bianca. Lessi ad alta voce: «“Ricoprire mia figlia di cioccolata e farmela di nuovo”. Onestamente, credo che sia immorale». «Come lo leggi tu, col tuo accento, lo fai sembrare piuttosto strano». Il tiremmolla proseguì: più lo criticavo, più sembrava divertirsi. Mi sentivo inebriata, ogni sfida mi incitava a vedere quanto in là potessi spingermi. «Stai insinuando metaforicamente che il presidente degli Stati Uniti, il presidente Johnson, se la faccia con le ragazzine?». Questo lo spinse finalmente ad alzarsi dal letto con un balzo, e a schiacciare il mozzicone della sua sigaretta nel posacenere. «No, non sto puntando il dito contro una persona in particolare, ma in generale, contro gli stronzi che ci governano». Bah, pensai, non prendendo in considerazione le sue parole. I politici facevano del loro meglio e noi avremmo dovuto elogiarli. Cambiai rotta: «Ho fatto leggere i tuoi testi a una collega. Pensa che questa canzone parli di incesto». Le sue sopracciglia andarono su e giù: «Ha le tette grandi?». Risi: «No-o-o-o». Si mise seduto in fondo al letto, accanto a me, e mi sentii imbarazzata e affannata, come se avessi corso i cento metri. Accennò col capo al mio taccuino sul tavolo, e con cortesia mi disse: «Scrivi quel che ti detto». Incrociò le gambe e poggiò un gomito sul suo ginocchio, appoggiando la sigaretta mentre raccoglieva i pensieri. Forse, vista la confusione che mi avevano causato alcuni testi, si sentiva in dovere di dettarmi la spiegazione di ogni brano. «Plastic People sono gli stronzi bugiardi che governano quasi tutti gli Stati. Vegetables sono le persone che non hanno un ruolo nella società e che non sono all’altezza delle proprie responsabilità. The Duke of Prunes è una canzone d’amore surrealista, e le parole “prugnami, formaggiami” sono una trasformazione del classico “scopami, succhiamelo fino a mandarmi in estasi, baby”». Non avevo mai stenografato delle parolacce, perciò inizialmente esitai, aggiungendo poi le vocali in tutta fretta per essere sicura di capire in seguito quello che avevo scritto. Andò avanti spedito, evidentemente divertendosi, mentre teneva un piede scalzo appoggiato al ginocchio. «Brown Shoes Don’t Make It è una canzone su quelle persone sfortunate che confezionano leggi e ordinanze inique, forse inconsapevoli del fatto che le restrizioni che impongono ai giovani siano il risultato delle loro frustrazioni sessuali. I vecchi sporcaccioni non dovrebbero guidare il vostro paese». Gli feci segno di aspettarmi e lui fece una pausa, mentre fissava i segni e riccioli che la mia penna lasciava sul foglio. «Uncle Bernie’s Farm è una canzone che parla di brutti giocattoli e della gente che li costruisce. Suggerisce la possibilità che chi compra brutti giocattoli sia brutto come i giocattoli stessi». Gli lanciai un’occhiata di disapprovazione: non si salvava nessuno? «Son of Suzy Creamcheese è l’avvincente saga di una giovane groupie. Agisce con lo scopo di essere sempre in. Pertanto eccede con la droga: si fotte la mente con troppo Kool-Aid». Si fermò. «Sto parlando dell’acido, Pauline, ok?». Annuii. «E ruba la riserva del suo ragazzo. La riserva è una scorta segreta di droga. Mettilo tra parentesi». Era arrivato alla fine. Si stiracchiò, allungando le braccia verso l’alto. Non mi piacevano le sue generalizzazioni, ma avevo capito che ci voleva coraggio a trattare certi temi, e mi piacevano il suo approccio da uomo d’affari, la sua intelligenza e la sua lucidità. Anche se non fosse stato un intellettuale, era comunque di gran lunga più sveglio e navigato delle popstar che avevo visto in tv. Certo, John Lennon e Paul McCartney sapevano tirare fuori delle risposte brillanti quando venivano intervistati, ma quest’uomo emanava saggezza e cultura. Chi l’avrebbe immaginato che quel pagliaccio che ieri mi aveva aperto la porta mi avrebbe dettato dei testi in modo tanto serio e fluente. Mentre mi preparavo a trascrivere i miei appunti, Frank cominciò a leggere il resto dei testi e ad apportare correzioni. Erano le dieci e mezzo di sera quando estrassi l’ultimo foglio dalla macchina da scrivere e gli porsi il conto. Mi aiutò con la giacca e mi disse: «Tra non molto io e alcuni del gruppo ce ne andiamo allo Speakeasy. Ti piacerebbe uscire con me?». Le sue sopracciglia fecero di nuovo su e giù, nella parodia di un’espressione da seduttore. Cercai di nascondere le mie emozioni, ma mi sentivo raggiante. Aveva un harem di donne a sua disposizione: Londra era piena di belle ragazze. Nel foyer, considerammo l’idea di andare con la mia macchina, ma alla fine scegliemmo un taxi. Mentre ci mettevamo comodi sui larghi sedili, gli raccontai della mia Mini. «L’ho comprata nuova. Mi è costata più di 500 sterline, e il primo giorno, un uomo che camminava col carretto del latte è uscito da dietro l’angolo e si è schiantato sulla portiera del passeggero. Mi ha speronata!». «Un carretto del latte?». Risi. «Sì. Non è stato divertente». La fila si estendeva per tutta Margaret Street, e anche dietro l’angolo, lungo Oxford Circus, ma qualcuno ci fece entrare subito per le scale che conducevano all’interno. Superato il lungo bar in legno, ci accomodammo al nostro tavolo in fondo al ristorante, apparecchiato con una tovaglia a scacchi rossi. Lì dietro, la musica era un po’ più clemente con le mie orecchie, ma dovemmo comunque urlare le nostre ordinazioni al cameriere: whisky con ghiaccio per Frank, whisky con acqua per me. Mentre i miei occhi si abituavano all’oscurità, mi accorsi che la gente ai tavoli davanti al nostro si voltava e si dava di gomito, facendo attenzione a non indicarci direttamente. (...) Mi strinse forte. Ero rossa di emozione, ma mi sentivo orgogliosa. Poi mi disse all’orecchio: «Vuoi fare una cosa veramente strana?», e prima che potessi rispondergli cominciò a piegare le ginocchia e a saltellare in modo strano, come un russo. Non ero una gran ballerina, ma conoscevo i passi base. Non conoscevo però passi del genere. Era un tango? Ci trovammo guancia a guancia, e mi fece estendere il braccio, spostandolo su e giù. Voleva deliberatamente comportarsi da idiota, per essere all’altezza della sua reputazione di persona bizzarra? In passerella ero abituata alle attenzioni, ma sotto quelle luci lancinanti, rimasi paralizzata dall’imbarazzo. Ridacchiando e cercando di nascondere la faccia, gli rimasi aggrappata, mentre Frank, con uno strano sorrisetto, accelerava il ritmo di salti e piroette, a beneficio di un pubblico sempre più numeroso. Colsi delle risatine soffocate e degli sguardi meravigliati. Il disco finalmente sfumò, e con gran sollievo caracollai fino al tavolo, inebriata da tante giravolte. Ancora con l’impermeabile addosso, Frank si lasciò cadere accanto a me. Dal buio emerse una figura con la zazzera e le basette lunghe. «Frank, Frank, è un piacere vederti, amico mio». Chiunque fosse, si accomodò. Frank si rivolse a me. «Pauline, Eric Clapton. Eric, lei è Pauline Butcher». Gli strinsi la mano, e protesa verso di lui come un’insegnante di musica dai modi gentili, gli chiesi: «E tu che cosa suoni?». I suoi occhi strisciarono verso quelli di Frank e poi tornarono da me. Si avvicinò e mi disse, come fosse un segreto: «Suono la chitarra». «Che bello», gli dissi. Seguì un momento di silenzio imbarazzato, mentre Frank tossiva e Eric sprofondava nella propria sedia. Evidentemente avevo detto la cosa sbagliata. Frugai in cerca di sigarette nella mia borsa patchwork appoggiata sul pavimento, le trovai e le spinsi di nuovo sul fondo, sempre restando a testa bassa. Nel frattempo sentivo Eric che raccontava a Frank della sua imminente esibizione al Fillmore di San Francisco. Frank lo mise in guardia dai figli dei fiori: «Se la gente cerca di mettermi delle perline al collo, io rispondo vaffanculo». *Un estratto da Pauline Butcher, «Freak Out! La mia vita con Frank Zappa» (Arcana, pp. 380, euro 23,50) (C) Pauline Butcher. Si ringrazia l'editore e l'autore (14) ALIAS 28 DICEMBRE 2013 PAGINE Nella foto grande Franco Micalizzi. Qui sotto la copertina della sua autobiografia «C’est la vie d’artiste»; in basso locandine di alcuni film di cui il compositore ha curato la colonna sonora di FRANCO MICALIZZI* Era il 1970 e tra i rapporti che avevo intessuto con i produttori cinematografici ce n’era uno particolarmente stretto. Parlo di Italo Zingarelli. (...) Un giorno lo sento parlare di un film che sta per produrre. È il solito western di recupero, almeno così sembra. In pratica si useranno dei set già utilizzati per altri film più importanti, non si andrà in Spagna per gli esterni, e saranno scritturati attori poco costosi. Mi sembrava l’occasione perfetta per un debuttante come me. Iniziai a fare delle sommesse e ripetute richieste a Italo che, sornione, volle farmi un po’ sospirare, ma alla fine mi diede l’incarico. Era il primo vero impegno ufficiale che ottenevo per scrivere il commento di un... piccolo film. Si diceva di quanti produttori avessero tenuto a lungo nei loro cassetti la sceneggiatura di questo western anomalo. Già: anomalo, perché, pur contenendo molte scene d’azione, non prevedeva facce insanguinate o morti violente, com’era la norma dei western di Sergio Leone, e inoltre i dialoghi erano densi di un humour popolare ma non banale; chi poteva credere in un film del genere? L’ideatore dell’originalissima storia e regista del film era Enzo Barboni (in arte E. B. Clucher), già ottimo direttore della fotografia di film impegnati e film commerciali di successo. Anche lui alla sua prima esperienza come regista. (...) La scena iniziale del film, che mostra il protagonista mangiare con gran gusto un tegame di fagioli e che predispone subito lo spettatore al divertimento, Barboni l’aveva scritta pensando, giustamente, all’atavica fame che gli italiani hanno ancora nella loro memoria inconscia. Ne sapeva qualcosa lui che nella sua umana esperienza era sopravvissuto alla disastrosa ritirata in Russia dell’esercito italiano di cui aveva fatto parte, tra gelo, fame e disperazione. Insomma il film che, forse lo avrete già capito, si intitolava Lo chiamavano Trinità, fu girato in poche settimane tra il Tevere, la Magliana e l’Abruzzo. I protagonisti erano due favolosi e italianissimi attori: Terence Hill e Bud Spencer, Mario Girotti e Carlo Pederzoli, già grande campione di nuoto. Io, dopo aver letto la sceneggiatura avevo composto un tema canzone un po’ swing, non privo di ironia e divertimento. Il testo in inglese lo avevo affidato a Lally Stot, un artista di Liverpool che era venuto a Roma anni prima con un gruppo che si chiamava I Motowns. (...) Stavo mettendo giù la pasta con l’acqua che bolliva e sento partire il tema dell’Ultima neve di primavera con la voce di Giancarlo Guardabassi (conduttore del noto programma radiofonico Dischi caldi) che l’annuncia come nuovo disco caldo pronto per la hit parade. Non ci credevo e anche questa volta, poiché le grandi emozioni ci colpiscono nel profondo e sono incontrollabili, non riuscii a trattenere una certa commozione, dopo la nascita dei figli era la nascita del successo che mi dava una scarica di adrenalina. Il disco entrò puntualmente in hit parade dove rimase a lungo. (...) Il tema di Ultima neve cominciò a viaggiare per il mondo, ricordo che in Argentina restò ai primissimi posti in classifica per più di un anno e che in Brasile divenne la sigla di una telenovela seguitissima con molte centinaia di puntate, si chiamava: Os gigantes e sono ormai moltissime le versioni discografiche sia suonate che cantate, realizzate da molti artisti nel mondo. (...) Nel ’75 feci un incontro decisivo per la mia carriera. Umberto Lenzi, affermato regista, mi chiese di scrivere la musica di uno dei suoi primi polizieschi con Thomas Milian protagonista. Il film era Il giustiziere sfida la città. Reduce dalla prima esperienza americana avevo cominciato a utilizzare i synth AUTOBIOGRAFIA ■ UN ESTRATTO DAL LIBRO «C'EST LA VIE D'ARTISTE» Franco Micalizzi, ciak si suona. Da Trinità al Monnezza Autore di temi da classifica come «L’ultima neve di primavera» e di una sequela indimenticabile di poliziotteschi. Anche Tarantino lo ha omaggiato e soprattutto il clavinet (penso di essere stato il primo in Italia) e le ritmiche che scrivevo per i film d’azione erano particolarmente moderne e trascinanti. Il tema che avevo composto piacque a Lenzi e anche tutto il commento andò bene. Il film ebbe un buon successo e inaugurò le collaborazioni con Umberto con il quale feci poi molti altri film sempre più del genere poliziesco (molto imitati dagli altri registi). I polizieschi di Lenzi piacevano molto e mi davano la possibilità di scrivere per gli ottoni della big band. Ecco che nasceva lo stile funky jazz all’italiana che tanti ammiratori ha trovato nel mondo. Le mie musiche appartenenti a questo genere arrivarono persino negli Stati Uniti dove diversi rapper le campionarono per le loro incisioni. È divertente pensare che il suono e lo stile delle big band americane che tanto mi avevano influenzato nella mia formazione ritornavano all’origine (gli Usa) con le mie composizioni ed esecuzioni, insomma, il cerchio si chiudeva. Con Umberto Lenzi ho lavorato a lungo e sempre con molta soddisfazione, sostenuto dalla sua competenza e dalla sua capacità di valutare subito l’efficacia di un brano musicale nel commento di una sequenza. I principali film di Lenzi di cui scrissi la musica sono: Il giustiziere sfida la città, Il cinico l’infame il violento, Roma a mano armata, Napoli violenta, Il grande attacco, La banda del gobbo, Da Corleone a Brooklyn. Quello che colpiva in questi film era la capacità di realizzare scene anche complesse e di grande effetto, senza disporre di grandi mezzi. Ad esempio ricordo, nel film Napoli violenta, le efficacissime soggettive girate a grande velocità dalla moto del cattivo che doveva fare una rapina e in brevissimo tempo presentarsi per firmare in questura. Per questa sequenza Umberto si servì di un campione di motociclismo. Dopo aver assicurata la macchina da presa al parafango della moto gli chiese di girare per la città a velocità sostenuta. L’effetto nel film (anche la musica fa la sua parte) è eccellente. E ancora nello stesso film c’è una sequenza che io amo molto perché mi riporta al clima drammatico del neorealismo, in cui un grande mercato viene attraversato da un sontuoso funerale con la carrozza e i cavalli neri con i pennacchi, seguita da un lungo corteo. Contemporaneamente il cattivo del film è inseguito dal poliziotto. I due devono passare attraverso questo vasto mercato e, soprattutto, attraverso questo lungo e dolente corteo. La scena è bellissima, di un meraviglioso realismo. In seguito Umberto mi ha raccontato che la sequenza è stata come dire, rubata, poiché il mercato e il funerale erano autentici e loro, dopo aver istruito gli attori sul da farsi, appostati su un balcone, avevano ripreso tutta l’azione. Ditemi se questo non è «cinema verità»? Restando nel genere poliziesco, scrissi anche la musica per film di altri registi come Marino Girolami, Italia a mano armata e Bruno Corbucci, Delitto sull’autostrada, Delitto a Porta Romana con Thomas Milian nei panni del «Monnezza». (...) Mi ricordo che quando cominciarono a pubblicare su cassette Vhs i vecchi film, avendo saputo che circolava una copia di Lo chiamavano Trinità, andai a cercarlo in un negozio specializzato. Poiché non lo trovavo sugli scaffali principali, chiesi ad una commessa che, senza battere ciglio, mi indicò delle mensole sul fondo del negozio: «Vede quegli scaffali laggiù con il cartello “trash movie”, ecco lo trova sicuramente là». Temo che arrossii, un po’... Che grande soddisfazione, i western, i polizieschi e ogni altro film di «genere» italiano, noi lo classificavamo «trash movie». Meno male che, come spesso accade qui in Italia, qualcuno dall’estero ci ha fatto sapere che i nostri «trash movie» erano invece più che rispettabili film, a volte addirittura geniali. Noi non lo avevamo capito finché questo qualcuno dagli Usa non ce l’ha comunicato. Parlo di Quentin Tarantino che è stato il grande «sdoganatore». Per noi che abbiamo lavorato molto per il cinema di «genere» italiano è stato il momento della rivalutazione. Senza il suo intervento saremmo rimasti, sicuramente, nella spazzatura. Devo, inoltre, ringraziare Tarantino per aver utilizzato più volte i miei temi musicali nei suoi film. La prima volta ha scelto il tema di Italia a mano armata e lo ha inserito nel fantastico finale del suo film Grindhouse-A prova di morte, il risultato è notevole e non posso che esserne soddisfatto. Ultimamente ha scelto il tema di Lo chiamavano Trinità e più esattamente la canzone dei titoli di testa, Trinity, per il finale del bellissimo e spettacolare film Django Unchained vincitore di ben due Oscar. Non posso che ringraziarlo augurandomi che individui altri miei temi per i suoi prossimi film. Grazie Quentin! * Un estratto (si ringrazia l'editore) da Franco Micalizzi, «C'est la vie d'artiste. I miei primi cinquant'anni di musica» (Editori internazionali riuniti, pp. 144, euro 15). Oltre all'autobiografia, l'artista ha pubblicato di recente il disco «Miele» (New Music Company/ Goodfellas) che rappresenta la complessità di stili e generi che da sempre lo caratterizza ALIAS 28 DICEMBRE 2013 (15) ULTRASUONATI DA STEFANO CRIPPA LUCIANO DEL SETTE GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE GUIDO MICHELONE BRIAN MORDEN LUIGI ONORI ROBERTO PECIOLA FOLK Ponente ligure, i tesori nascosti L'estremo Ponente d'Italia, quella porzione di terra che è (ed è stata) contemporaneamente montagna, mare, terra di passo verso i cugini d'Oltralpe e zona di forte radicamento per chi cercava la fuga, ha dato al folk revival molte occasioni per rivelare piccoli tesori nascosti. Ancor più interessante, però, che continuino anche oggi le testimonianze, in libera declinazione fra culture liguri d'estremo occidente, e culture provenzali o «occitane». Al secondo gruppo appartiene il gran lavoro di Silvio Peron, Eschandihà de vita (Peron/Felmay): diciassette musicisti coinvolti, anche da Marsiglia, 11 racconti (sempre in prima persona) via via affrontati con le parole specifiche e le varianti delle diverse valli. La Ramà, invece, in Mascharias (FolkClub Ethnosuoni) racconta storie di incanti e di tenebre delle medesime zone con sagge aperture alla world music, e molto buon gusto. Sono le stesse parole che useremmo per QB, opera prima dei liguri ponentini Uribà (FolkClub Ethnosuoni): che recuperano canti e filastrocche popolari, il tutto ben sapendo d'essere nel terzo millennio. (Guido Festinese) RANDY BRECKER THE BRECKER BROTHERS BAND REUNION (Moosicus) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Celebre negli anni Settanta il gruppo dei Brecker Bros vedeva una front-line aggressiva con Michael (sax tenore) e Randy (tromba) sostenuta da ritmiche elettriche a proporre una fusione tanto romantica quanto talvolta imparentata persino con l'heavy metal. Tali perculiarità - dolcezza un po' smooth jazz e vigore anche in stile hard bop - vengono oggi ribadite da Randy (Michael è mancato nel 2007) in un disco autocelebrativo con undici musicisti (come Mike Stern o David Sanborn) amici o ex membri di una band comunque da ricordare. (g.mic.) VITTORIO GENNARI BLUES (Red Records) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Bisogna ringraziare l'etichetta milanese per aver dato fiducia a quel ragazzo scanzonato, irriverente e passionale che risponde al nome di Vittorio Gennari. Ottantuno primavere addosso, sessanta di meno quando imbraccia il suo contralto con foga parkeriana, o alla Cannonball Adderley. Qui la scelta è tutta, come da titolo, attorno al blues: con un quartetto d'accompagnatori preciso come un orologio, a partire da Daniele Di Gregorio al vibrafono. (g.fe.) KAYHAN KALHOR/ERDAL ERZINCAN KULA KULLUK YAKISIR MI (Ecm/Ducale) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Kalhor è un affermato musicista iraniano virtuoso del kamancheh, il violino tradizionale del suo paese. Il sodale turco Erzincan ha invece nel baglama, sorta di oud del Bosforo, il suo strumento. Assieme registrano 14 momenti in cui proseguono il discorso artistico iniziato nel 2004 con The Wind. Ora in duo rispetto ad allora, eradicano ancor più la parte visionaria del loro incontro. Da ascoltare a luce spenta, un viaggio che porta davvero lontano nel tempo e nello spazio. (g.di.) LUCY LOVE DESPERATE DAYS OF DYNAMITE (Super Billion) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ La cantante danese ha le carte in regola per il salto di qualità nel music business, e lo dimostra con questo terzo lavoro in cui unisce pop, electro e hip hop in maniera egregia. Brani che potrebbero esser passati in rotazione nelle radio commerciali, e non, di tutto il mondo, perché non hanno molto da invidiare ad artiste più celebrate e note. Ascoltate l'ncedere del ritornello di Surrender o il singolo Prison per darvi un'idea, anche se il pezzo migliore, V, arriva in chiusura di album. (r.pe.) INDIE ITALIA JAZZ TRIBUTI INDIE ITALIA/2 Celebrazioni capitoline Gaia Matiuzzi, poetica sorpresa Dalla e Jannacci per natale Lo sguardo rock dell’adolescenza Excursus nella scena musicale romana. Partiamo dall'indie rock molto british dei The Singers, che pubblicano il secondo lavoro, omonimo, per CoseComuni. Un dischetto godibile, con coretti pop e qualche inserto electro che non guasta. Garage rock è invece quello a cui si dedicano i Drifting Mines in uscita a gennaio con Comeback (Autoprod.). Qui lo sguardo è rivolto dall'altra parte dell'oceano, al delta del Mississippi, con brani registrati in presa diretta. Chiudiamo la tappa capitolina con i celebratissimi Il Muro del Canto, di nuovo in pista con un secondo disco, Ancora ridi (Goodfellas). Purtroppo, così come per l'esordio, non riusciamo a unirci ai peana della critica specializzata, e a noi il loro folk rock in salsa romanesca non convince. Nulla da eccepire sulle liriche, ma musicalmente troviamo il tutto alquanto banale e legato a cliché triti e ritriti. Infine, citazione per i ravennati Actionmen che tornano dopo annicon Ramadama (Autunno Dischi). Evidente il riferimento ai Queen, ma se il paragone è azzardato e perdente, il disco risulta non male e le influenze non si limitano a Freddie Mercury e c. (Roberto Peciola) Il canto jazz femminile si colora in Italia di nuove giovani interpreti che rappresentano al meglio l'intera gamma espressiva del moderno vocalismo conteporaneo, lavorando, in tre casi esemplari, su materiale tematico conosciuto, attraverso il quale si sprigiona una ricerca sonora variegata, a cominciare dalla sorprendente Gaia Matiuzzi che in Laut (Doppia I), assieme a Fabrizio Puglisi e Cristiano Calcagnile rilegge Eisler e Copeland, Steve Lacy e Nina Simone, intonando poesie di Beaudelaire o Dickinson, con un vocalismo futiristicheggiante da new thing cameristica. Il jazz da camera di Steve Swallow invece con Lara Iacovini di Right Together (Abeat) diventa vivace e swingante grazie all'ggiunta delle liriche su temi originali, completati da melodie di Strayhorn, Harrell, Mazzarino. Alla classica song si dedica infine Federica Foscari in The Nearness of You (Egea) affrontando jazz standard, bossanova, canzoni italiane con raffinato umore mainstream in compagnia di Fabrizio Bosso e del trio del citato Giovanni Mazzarino, qui soprattutto encomiabile arrangiatore. (Guido Michelone) Quando arriva l’aria del natale si scatena una forza creativa senza eguali. Anche le case discografiche cercano di approfittare del momento per promuovere nuovi e vecchi prodotti. E siamo felici però di trovarne un paio che servono a lenire l’assenza di Enzo Jannacci e di Lucio Dalla. Forse non è proprio una festa ascoltare la voce dell’ultimo Jannacci nel cd L’artista (Alabianca) fortemente voluto dal figlio Paolo e da Tony Verona. L’ultimo sforzo è racchiuso in 11 canzoni che partono da lontano per arrivare fino agli eventi della maturità, in quella che si stava delineando come una profonda vecchiaia. In questo viaggio di memoria non può mancare la strenna natalizia dedicata a Lucio Dalla. I solerti familiari d’intesa con gli eredi di Roberto Roversi presentano un mega cofanetto con 4 cd che ripercorre l’intensa e discussa carriera a quattro mani dei due autori. Con Nevica sulla mia mano (Sony Music) la storia dei tre mitici lp è ripercorsa con tanto degli inediti di Automobili che tanto fecero incavolare Roversi, tanto da firmarsi Noriso. In più, la vera chicca è in una manciata di canzoni tratte dalla rappresentazione Enzo Re. (Marco Ranaldi) In occasione dell'uscita del cortometraggio Sports di Pietro Borzì recuperiamo l'ep che l'ha ispirato, uscito la scorsa primavera per We Were Never Being Boring: Sports dei Love the Unicorn. Il dischetto è «un inno all'età giovane, alla voglia di perdersi», all'amore, alle gite al mare, alle estati che sembrano non finire mai. L'unica «pecca» che possiamo attribuire a questi sei brani deliziosi è forse un'eccessiva uniformità, ma ci sta. Rende omaggio all'adolescenza anche il recente Forever Young dei Tiger! Shit! Tiger! Tiger! (To Lose La Track). L'influenza di Sonic Youth, My Bloody Valentine, e Jesus and Mary Chain si sente tutta, ma il trio umbro schiva con maestria l'effetto-fotocopia. Sparso degli Altro (La Tempesta) raccoglie i quattro 7” dedicati alle stagioni che la band pesarese ha pubblicato negli ultimi anni, e due brani inediti. Diciotto tracce per meno di mezz'ora di musica, ma più idee di quante altre band hanno nel corso di un’intera carriera. Affrettatevi perché Sparso esce in edizione limitata, con solita bellissima copertina di Alessandro Baronciani. (Jessica Dainese) LUI SONO IO STORIA DI UNA CORSA (Brutture Moderne/ Audioglobe) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Tra la via Emilia e il west il progetto capitanato da Federico Braschi e Alberto Amati, pur scontando qualche ingenuità di fondo, ha un background solido e un'attenzione nei dettagli che spesso sul versante rock cantautorale si perdono. Una grossa mano in fase produttiva arriva da Jd Foster (già con Calexico e Capossela) e da un'ottima registrazione effettuata al Country Side in Virginia. (s.cr.) SHANTEL ANARCHY & ROMANCE (Essay/Audioglobe) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Il musicista e dj tedesco, ma di origini romene, torna senza la sua Bucovina Club Orkestar. Un disco in cui l'anima gitana (e flamenca) si fonde con il pop anni Sessanta, una miscela che riesce sicuramente meglio quando a prendere il sopravvento è l'anima pop. Ma nel suo complesso un album che non cattura, lasciando nell'ascoltatore un senso di incompiutezza, della serie vorrei ma non posso. O forse potrei ma non voglio? (b.mo.) THOMAS WANDER/HARALD KLOSER WHITE HOUSE DOWN (Varese Sarabande) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ In pieno vigore da adrenalina filmica, i due compositori Wander e Kloser si divertono a scrivere la partitura per White House Down. Nella carrellata di luoghi o meglio di suoni comuni di una storia tappezzata di tensioni, lo score scorre benissimo così come è; è divertente immaginarsi un tourbillon di situazioni e in tempi di pre elezioni, fra scaffalature apolitiche e tormenti post berlusconiani. (m.ra.) ZUFFANTI LA QUARTA VITTIMA (Ams/Btf) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Da vent’anni Fabio Zuffanti nuota nel mare della musica, e la corposità della sua discografia ne è dimostrazione eloquente. La quarta vittima, tributo al prog nella sua forma più classica e pura, lancia citazioni metal e rap, sguardi a Zappa, assoli floydiani. L’impasto è denso di atmosfere scure e gotiche, sospeso in una morbidezza quasi liquida. 7 brani da inchino, 12 compagni forgiati da jazz, folk, metal, funk. E naturalmente dal prog. (l.d.s.)