nel 2014 sarà la capitale europea dei giovani, grazie ai

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nel 2014 sarà la capitale europea dei giovani, grazie ai
CLASSIFICHE 2013 SPORT ALLA ROVESCIA
MULUGETA GEBREKIDAN
FRANK ZAPPA FRANCO MICALIZZI
RÉGIS SOAVI SENSEI KATSUGEN UNDO
NEL 2014 SARÀ
LA CAPITALE EUROPEA
DEI GIOVANI, GRAZIE
AI NUMEROSI STUDENTI
CHE AFFRONTANO
LA CRISI RESTANDO
NEL LORO PAESE
(2)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
REPORTAGE
SUL GOLFO TERMAICO
GUARDANDO L’OLIMPO
Il lungomare di Salonicco verso la Torre
Bianca; a destra, Zineb Sedira, «The Death
of Journey»; al centro, «Europe» di Philip
Rantzer; a sin., Liliana Moro «Underdog»
e il caffè Modigliani. Sotto, una porta con
poster pubblicitari nella vecchia Salonicco
THESSALONIKI
Tour nella città macedone, fra storia bizantina
e la IV Biennale di arte. Nel 2014 sarà la capitale
europea dei giovani: qui sono più di 150mila
gli studenti che sognano di risollevare il loro paese
di ARIANNA DI GENOVA
SALONICCO
●●●Il termometro segna nove
gradi, il freddo è pungente, ma sul
lungomare di Salonicco,
nonostante i morsi della crisi che
ha inginocchiato la Grecia
(secondo le statistiche, quattro
milioni di persone vivono sotto la
soglia della povertà, un terzo dei
greci), i caffè sono affollati e la
musica si diffone nell’aria ad alto
volume. I giovani preferiscono
stare all’aperto, protetti solo dal
calore delle stufe a fungo. Qualche
petroliera scivola sull’acqua in
lontananza, incorniciando con la
sua sagoma nera il monte Olimpo
che si vede da ogni parte della città
perché, insieme al mare, è un
protagonista assoluto del golfo
termaico. Salonicco, in greco
Thessaloniki dal nome leggendario
della consorte (figlia di Filippo II)
del generale macedone Cassandro
che nel 316 a.C. la fondò, è la
seconda città della Grecia e per il
2014 si prepara a diventare The
European Youth Capital, il crocevia
dei giovani. Non è casuale questa
scelta: su un milione di abitanti,
circa 150mila sono studenti e il
50% della popolazione di Salonicco
è costituita da ragazzi e ragazze.
Una media da far invidia a gran
parte dell’Europa, con i suoi
asfittici numeri di crescita
demografica pari allo zero. Certo,
le prospettive di lavoro e di
coronamento dei propri sogni
sono scese in picchiata, ma non
sparite. Per molti cervelli che sono
emigrati, ce ne sono una buona
fetta che ritornano in Grecia, per
non lasciare il paese nelle mani
delle banche e delle «cure» dell’Ue.
Città spesso considerata solo di
passaggio per raggiungere la
penisola calcidica (su cui oggi
incombe la minaccia della miniera
d’oro con la conseguente
distruzione dell’ecosistema e della
montagna di Aristotele, oltre al
rischio della contaminazione con
metalli pesanti di suolo e falde
acquifere), le mète marine o altri
luoghi continentali, Salonicco
merita invece una sosta perché ha
nel suo dna una stratificazione di
storie che la rende eccentrica e, un
tempo almeno, sicuramente molto
prima di Alba Dorata, conosceva le
leggi della tolleranza, ospitando nel
suo territorio ebrei (fino alla loro
deportazione nei campi di
sterminio erano più della metà
della popolazione, poi non ne
tornarono che un migliaio),
musulmani, ortodossi e cattolici.
La città vecchia conserva solo un
tratto di possenti mura - di circa
10/12 metri - nella parte alta, lì
dove passava la via Ignatia, l’arteria
strategica costruita dai romani
dopo la vittoria di Pidna, che
attraversava la pianura macedone
per collegare Roma a Bisanzio. Fu
una via importantissima per la
diffusione del Cristianesimo
(venne percorsa più volte dai
Crociati) e mantenne la sua
peculiarità anche durante il
Il lungomare
del métissage
periodo degli Ottomani, che nel
1430 conquistarono Salonicco per
poi lasciarla in eredità ai turchi,
fino al 1912. Poco resta oggi dei
quartieri più antichi, quelli
malfamati vicino al porto, quelli
dei commerci con le botteghe degli
ebrei, quelli musulmani: nel 1917
un incendio ha spazzato via quasi
tutto. Era il 18 agosto e il fuoco,
divampato sembra a causa della
distrazione domestica di una
donna in cucina, divorò in sole 32
ore 9500 edifici in legno,
cambiando il volto della città.
Salonicco però è rinata dalle sue
ceneri, ha continuato ad
espandersi - scontando anche gli
abusi edilizi degli anni Sessanta e
Settanta - e ha inglobato nel suo
ventre moderno le testimonianze
del suo glorioso passato. Così,
capita di intuire fra lo skyline di
due brutti palazzoni, una
bellissima chiesa bizantina, più
bassa, quasi uno scrigno chiuso in
mezzo alle mura che lo sovrastano.
Poco oltre, camminando ancora, si
può incrociare un antico
hammam, oppure trovarsi di
fronte la grande agorà, che ricalca i
confini di quella di epoca
ellenistica. Si può poi entrare a san
Demetrio (il santo protettore) e
scovare, fra le colonne, i mosaici
bizantini sopravissuti all’incendio,
oppure imbattersi in santa Sofia
che risale all’VIII secolo e nella
facciata porta le tracce delle
architettura romane: da qui si può
vedere il livello più basso su cui si
ergeva l’antico insediamento,
mentre la sua pianta, in miniatura,
fa rivivere quella dell’omonima
chiesa di Istanbul.
La città moderna non sempre
riesce a convivere con il fantasma
di quella storica, spesso entra
visibilmente in conflitto: il cantiere
della metropolitana procede a
rilento, oltre che per i soldi a
singhiozzo anche per i
ritrovamenti archeologici. Quando
si scava, a Salonicco, si «inciampa»
sempre in qualcosa. Stavolta, è
stata un’importante via bizantina,
dell’VIII secolo, a riaffiorare.
Ma Salonicco non vive solo di
ricordi: la città contemporanea
ospita un festival del cinema, e,
proprio in questi giorni, una
Biennale di arte contemporanea
(fino al 31 gennaio). Giunta alla
sua IV edizione, la mostra è
sopravvissuta all’austerity poiché è
finanziata nell’ambito del
Programma Operativo
Macedonia-Tracia 2007-2013,
attuato dal Museo di stato di arte
contemporanea, con la
partecipazione dall’Ue. La
rassegna, quest’anno curata da
Adelina von Fürstenberg, è
disseminata in vari luoghi della
città, dal quartiere fieristico ai
musei fino a comprendere due ex
moschee e sfodera un titolo che
rimanda all’attualità stringente del
Mediterraneo: Everywhere but
now. Crocevia di culture e melting
pot di tradizioni e usanze, il
Mediterraneo è, secondo
Fürstenberg, un luogo da ritrovare
e riattraversare con la creatività e
la tenacia delle popolazioni che lo
hanno caratterizzato in passato.
Spazio simbolico dello scambio fra
Europa, Asia e Africa, può arginare
la deriva ostile di gran parte del
mondo. Gli artisti sono chiamati
ad affrontare questo arduo
compito, ad affinare la
consapevolezza proprio in un
momento difficile. Anche le star,
come Marina Abramovic, di cui in
mostra si presenta il potentissimo
filmato sui bambini soldato che
giocano alla guerra, mescolando
esecuzioni capitali ad allegre e
scomposte cuscinate maschi
contro femmine. Da parte sua,
Philip Rantzer, che ha
rappresentato Israele alla Biennale
di Venezia nel 1999, mette in scena
un’Europa che bivacca su una
panchina, senza più tetto né legge.
La violenza e la perdita di un
centro «umano» nelle relazioni è
ciò che si evince anche
dall’installazione di Liliana Moro
Underdog - cani che combattono un’opera del 2005 riproposta a
Salonicco per la sua pertinenza
politica.. Molti gli artisti greci
invitati ad esporre; fra questi, c’è
Maria Papadimitriou: lei allestisce
un set con i resti di un naufragio,
così come la francoalgerina Zineb
Zedira parla della «fine del viaggio»
attraverso una serie di carcasse di
navi arenate e arrugginite, mentre
il collettivo cubano Los
Carpinteros indaga le soglie dei
tunnel e gli sbarramenti. Ecco, è
ora di uscire alla luce.
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
(3)
Particolare di decorazioni crisoelefantine delle
tombe reali di Verghina; un banco del mercato
del pesce di Salonicco. Sotto, il vasellame
in argento del simposio funebre e l’entrata
monumentale della tomba reale.
Il reportage fotografico di queste pagine
è di Franco Cenci
TOMBE REALI ■ UN GIRO SOLITARIO GIÙ NELL’ADE
Quella magnificenza
della natura
e dei guerrieri-re
A. Di Ge.
VERIA
Visita al quartiere
ebraico con tocchi blu
Vicino Verghìna, c’è Veria, una
cittadina di 45mila abitanti che
conserva ancora il suo centro
storico e l’antico quartiere ebraico
a forma triangolare delimitato da
un lato dalle mura bizantine e,
dall’altro, dalla linea di difesa
naturale del fiume. È chiamato
«Barbuta» e presenta case dalle
caratteristiche architetture, tutte
colorate (prevale il blu, colore
propiziatorio per gli ebrei). Vale
una visita anche l’importante
museo archeologico e il santuario
lì dove si fermò a predicare san
Paolo.
ARCHEOLOGIA LA MITICA STORIA DI VERGHÌNA
Gran Tumulo, l’ultima casa
del condottiero Filippo II
di FEDERICO GURGONE
●●●La preponderanza di statue
e templi superstiti non tragga in
inganno: le fonti letterarie
assicurano che altrettanto
importante per gli antichi greci
fosse la pittura. Tuttavia, di essa
resta ben poco: scarse
testimonianze in Italia, tra cui la
magnifica Tomba del Tuffatore di
Paestum, imbarbarita da
commistioni con l’arte etrusca e
italica; gli affreschi minoici
provenienti da Cnosso e Agía
Triáda a Creta, dai palazzi di
Micene e Tirinto nel Peloponneso
e da Thera sull’isola di Santorini.
Povera rassegna riabilitata in
extremis dall’eccezionale dote di
Verghìna, miniera di pittura
ellenica tornata alla ribalta nel
1977, quando sembrava ormai
tramontata l’età romantica e
innocente delle esplorazioni
archeologiche.
Aigài fu la residenza dei sovrani
macedoni fino al loro
trasferimento a Pella. L’usanza
voleva però che i re continuassero
a essere seppelliti nella prima
capitale: questo il motivo per cui
gli studiosi la cercarono a lungo
come un El Dorado.
Le sue vestigia furono scoperte
a partire dal 1855, quando
archeologi francesi ne iniziarono
gli scavi. Mano a mano tornarono
alla luce un palazzo
monumentale, decorato con
mosaici e stucchi dipinti, e una
necropoli, situata tra i villaggi
Palatìtsia e Verghìna, estesa per
più di un chilometro quadrato e
comprendente oltre trecento
tumuli, il più antico dei quali
risalente all’XI secolo. La struttura
di queste tombe, costituite da
camera a volta, facciata con porta
monumentale, corridoio e
tumulo, ricorda quella dei tholoi
micenei, allo stesso modo dei
corredi funerari identificati al loro
interno.
Dei grandi personaggi inseguiti
dai detective della storia, però,
nemmeno l’ombra finché Manolis
Andronikos, santificato già in vita
dai greci, che tengono
all’archeologia quanto l’Italia
post-unitaria alla letteratura, non
iniziò nel 1952 l’esplorazione del
Grande Tumulo: un’altura che già
dal secolo precedente aveva
attirato l’attenzione su Verghìna,
un cono di terra alto 12 e lungo
110 metri innalzato all’inizio del
III secolo a.C. da Antigono Gonata
per proteggere le tombe dai
saccheggi dei Galati.
Il 30 agosto del 1977, quando
Andronikos comunicò di aver
rinvenuto la tomba di Filippo II,
fu subito clamore sui giornali di
mezzo mondo. Vicino a questa,
altre due tombe reali, quella «di
Persefone» e quella di Alessandro
IV, l’unico figlio di Alessandro
Magno e della principessa afgana
Rossane, nato lo stesso anno della
morte del condottiero, nel 323
a.C.
Il sepolcro di Filippo è costituito
da due stanze lunghe insieme
quasi 10 metri, entrambe coperte
da volte a botte alte oltre la metà;
nella prima, rettangolare, vennero
deposte le ceneri di una donna,
probabilmente la giovane moglie
Euridice, nella seconda, quadrata,
quelle del re. L’ingresso,
imponente, ha una porta di
marmo a due ante e la forma di
un tempio dorico, affrescato con
un fregio che raffigura una scena
di caccia dipinta. La tomba fu
sicuramente voluta da Alessandro
nel 336 a.C., quando il padre fu
assassinato, durante il banchetto
per le nozze della figlia Cleopatra
con Alessandro I d’Epiro, da un
ufficiale delle proprie guardie del
corpo, Pausania. Questi, stando
alle indagini portate avanti niente
meno che da Aristotele, il celebre
filosofo allora precettore di
Alessandro, aveva ucciso Filippo
per torbidi motivi passionali.
Sempre la stessa storia.
Difficile separare la morte di
Filippo dall’ascesa al trono di
Alessandro: i riti funebri
testimoniati a Verghìna
celebravano entrambi gli eventi.
Nella camera sepolcrale fu trovato
un sarcofago di marmo,
all’interno del quale era stato
deposto un larnax: uno scrigno
d’oro contenente le ossa
combuste del re defunto e la sua
corona. Il coperchio era decorato
con il cosiddetto Sole di Verghìna,
una stella simbolica a sedici raggi
causa ancora di numerosi
contenziosi politici: compare,
stilizzato, sulla bandiera della
Repubblica ex jugoslava di
Macedonia e, fedele all’originale,
su quella dell’omonima regione
greca con capitale Salonicco.
Nella camera facevano mostra di
sé anche le sue armi, tra le quali
spicca lo splendido scudo,
insieme con vasellame da
banchetto e con i resti del
catafalco in legno, impreziosito
con oro e avorio.
È evidente quanto il
personaggio che domina la scena
non sia tanto Filippo, colui che
aveva messo fine alla libertà della
Grecia nel 338, sconfiggendo
ateniesi e tebani a Cheronea,
quanto suo figlio Alessandro. Le
●●●Uscendo da Salonicco, tenendo il
monte Olimpo con tutti i suoi dèi alla
propria sinistra, si va verso nord. L’aria è
tersa, l’inverno ha spogliato i rami dei
peschi - siamo in una zona ricca di frutteti,
una delle principali voci di esportazione
verso il mercato estero - che costeggiano
questa bellissima strada, di fronte si erge la
catena montuosa della Pieria, che chiude
ad arco il territorio, proteggendolo e
incastonando la valle. È qui, dice una
leggenda, che hanno avuto la loro prima
dimora le Muse. Ed è sempre qui, nella
Macedonia centrale, che passa il fiume
Aliakmone, il più lungo della Grecia con i
suoi 297 chilometri, l’unico che nasce nella
regione: prende il nome da quello di una
regina che si suicidò, lasciandosi
trascinare via dalla corrente pur di non
cadere prigioniera dei turchi. Navigabile e
venerato come divinità nei tempi antichi,
oggi le sue abbondanti acque alimentano
quattro centrali idroelettriche. In questo
territorio, poco meno di quarant’anni fa –
era il 1977 - un archeologo testardo, di
nome Manolis Andronikos, fece una
scoperta sensazionale, coronando il sogno
fiamme che attaccavano la pira
funebre allestita per il padre, tra
un funerale solenne e un
seppellimento eroico mai visti
prima, consumarono certamente
tra le vampate anche la feroce
presa di consapevolezza di un
ventenne che si sentiva
predestinato. Quando sarebbe
morto, a 33 anni come Cristo, le
élites avrebbero parlato greco
dalle Colonne d’Ercole ai monti
dell’Afghanistan. Verghìna sembra
narrare questo film, quando
nessun altro monumento sa
raccontare con tanta evidenza
Cesare e Napoleone. A lottare con
il peso della storia, resta la
leggerezza unica degli affreschi
conservati. Plutone che afferra alla
vita con il braccio sinistro una
sconvolta Persefone; Alessandro a
cavallo, al lato di Filippo, che
colpisce con la lancia un leone. È
l’impatto tutto visivo di una delle
maggiori scoperte archeologiche
del XX secolo.
di una vita: trovò il sito delle Tombe Reali,
il cosiddetto Grande Tumulo di Verghìna,
in cui con molta probabilità è stato
seppellito Filippo II. Un ritrovamento che
cambiò anche la storia: era in questo
luogo, nella città di Aigài, che il regno
macedone aveva la sua capitale (ci sono
anche sontuosi resti del palazzo reale, al
momento in restauro). Andronikos scavò
in una collina artificiale di 12-14 m di
altezza fra gli anni 1977 e il ’79: quel
tumulo non era altro che un tentativo di
salvare una necropoli sacra da parte del re
Antigono Gonata, nel 270 a. C. L’aveva
costruita con cumuli di frammenti di steli
per proteggere dalle razzie dei Galli
qualcosa di molto prezioso: un memorial
sotterraneo costituito da tre tombe di tipo
macedone della dinastia argeade, Filippo
II, padre di Alessandro Magno, ucciso nel
teatro di Aigài nel 336 a.C., una delle sue
mogli di giovane età (che probabilmente
seguì il marito dandosi la morte col
veleno), il nipote Alessandro IV,
l’adolescente figlio del Magno e di
Roxanne che venne assassinato da
Cassandro per evitare che salisse sul trono
come legittimo erede. Da quando
Andronikos, scosso da un brivido alla
schiena, attribuì le tombe
alla famiglia reale per
eccellenza, le diatribe tra
gli studiosi non si sono
mai spente. Non tutti
concordano con l’identità
del re seppellito.
Andronikos volle
mantenere la struttura
originale del luogo e
incoraggiò la creazione di
un museo sotterraneo che
rispettasse la forma del
tumulo. Così si entra
nell’Ade, quasi in punta di
piedi. Si viene avvolti
dalla penombra e si
procede silenziosi dentro
un racconto suggestivo,
che risale a più di
duemila anni fa. Storie di
morti improvvise,
tradimenti, giochi politici
e creazione del culto della
personalità. Pochi giorni
prima di Natale, non è un
periodo turistico intenso
e ci si aggira in quei
meandri in solitudine. È
un museo particolare
quello di Verghìna perché
è «a tema»: narra le
vicende di una famiglia, le
biografie difficili di quei
guerrieri-re, delle loro
consorti e dei nemici che li fecero
soccombere. I reperti salvati dai saccheggi
grazie al tumulo, sono di una bellezza
commovente: l’oro accecante delle corone
regali, i gambali delle battaglie (uno più
lungo e uno più corto che testimonierebbe
l’appartenenza a Filippo II che – a causa
delle ferite di guerra - era claudicante,
oltre che cieco ad un occhio), tutto il
vasellame di argento per il simposio, le
armature di «rappresentanza», le
decorazioni crisoelefantine del letto
funebre posto dentro la tomba. Ci sono
pure i ritratti in miniatura (d’avorio) di
Filippo ed Alessandro: li ritroviamo anche
nella pittura parietale dediti alla caccia al
leone, passatempo dei nobili macedoni.
Ma a spezzare il fiato è un affresco –
riprodotto in una gigantografia all’esterno
di una tomba trovata vuota, spogliata dai
saccheggi. È l’unico esempio di pittura
parietale della Grecia del IV secolo:
secondo ciò che scrisse Plinio sarebbe
opera del celebre Nicomaco. Raffigura,
con tratti veloci e di grande espressività, il
ratto di Persefone e la disperazione di sua
madre Demetra.
GERENZA
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In copertina, un graffito
nel vecchio quartiere di
Salonicco, vicino al porto.
Foto di Franco Cenci
(4)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
LE CLASSIFICHE 2013
In ordine tassativo
o in ordine sparso, visti
in sala o nei festival
GIULIA D'AGNOLO VALLAN
1. Art Berkeley di Fred Wiseman
2. Spring Breakers di Harmony Korine
3. Gravity di Alfonso Cuaron
4. Her di Spike Jonze
5. Before Midnight di Rochard Linklater
6. The Canyons di Paul Schrader
7. The Unknown Known di Errol Morris
8.Computer Chess di Andrew Bujalski
9. Rush di Ron Howard
10. American Hustle di David O. Russell
Subito dopo: Upstream Color, Blue
Jasmin, Fruitvale Station, Nebraska,
The Worlds' End, Pacific Rim, Melissa
McCarthy in The Heat e Identity Thief,
Roberto Minervini per The Passage, Low
Tide e Stop The Pounding Heart,
James Franco per Child of God e Palo Alto
CRISTINA PICCINO
(in ordine sparso, dimenticando
qualcosa di importante, senza avere
visto La jalousie di Philippe Garrel)
1. Alberi – cine-installazione di
Michelangelo Frammartino (al Manzoni
di Milano)
2. Behind the Candelabra di Steven
Soderbergh
3. At Berkeley di Frederick Wiseman
4. Die andere Heimat di Edgar Reitz
5. Pays Barbare di Angela Ricci
Lucchi-Yervant Gianikian
6. L’inconnu du lac di Alain Guiraudie
7. The Wind Rises di Hayao Miyazaki
8. The Canyons di Paul Schrader
9. A Spell to Ward off the Darkness di
Ben Rivers&Ben Russell
10. North - The End of the History
film
SILVANA SILVESTRI
di Lav Diaz
E: la grana desiderante della pellicola
che si srotola sulla leggerezza dei corpi
di Paolo Gioli in Natura obscura e
Tessitura calda, lo spaesamento
dell’umano in Gravity di Alfonso Cuaron,
il piano sequenza di Amos Gitai in Ana
Arabia, i frammenti di una storia segreta
in Primitive – installazione di
Apichatpong Weerasethakul (Hangar
Bicocca, Milano)
Venere in pelliccia di Roman Polansky,
Educaçao Sentimental di Julio
Bressane, Nell’anno del digitale, la
parola diventa immagine, e crea altri
mondi. Only Lovers Left Alive (Jim
Jarmush)
LUCA CELADA
MATTEO BOSCAROL
1. Wolf of Wall Street di Martin Scorsese
Crepuscolo del capitale dal regista di
Goodfellas
2. Her di Spike Jonze
Futuro prossimo Fantaromantico
3. Nebraska di Alexander Payne
Grande Bruce Dern
4. All is Lost di J.C. Chandor
Redford naufrago
5. Tian zhu ding di Jia Zhangke
Quattro cartoline noir da una nuova
Cina inquietante
6. Kaze Tachinu di Hayao Miyazaki
La poesia in due dimensioni
7. The Canyons di Paul Schrader
Brett Easton Ellis accompagna Schrader
nella sua LA nichilista
8. Palo Alto di Gia Coppola
Coppola di terza generazione adatta
James Franco
9. Under The Skin di Jonathan Glazer
Sci fi algido e piovoso
10. Dirty Wars di Rick Rowley, Jeremy
Scahill
Il Doc dell’era delle sporche guerre
segrete
1. Leviathan di Lucien Castaing-Taylor
and Verena Paravel
2. The Wind Rises di Miyazaki Hayao
3. The Tale of Princess Kaguya di
Takahata Isao
4. Theater 1 di Soda Kazuhiro
5. Theater 2 di Soda Kazuhiro
6. The Horses of Fukushima di
Matsubayashi Yojyu
7. Sky Fall di Sam Mendes
8. A Fairy Tale di Fukuma Kenji
9. Symbiopsychotaxiplasm di William
Greaves (1968)
10. Fighting Soldiers di Kamei Fumio
(1939)
FABIO FRANCIONE
1. Venere in pelliccia di Roman Polanski
2. Gravity di Alfonso Cuaron
3. Via Castellana Bandera di Emma
Dante
4. Amore Carne di Pippo Delbono
5. Sacro GRA di Gianfranco Rosi
6. Thor: The Dark World di Alan Taylor
7. Su Re di Giovanni Columbu
8. Hunger Games: la ragazza di fuoco di
Francis Lawrence
9. Rockshow - Paul McCartney and Wings
di Paul McCartney
10. L'ultimo imperatore in 3D di
Bernardo Bertolucci
La classifica considera solo i film
regolarmente distribuiti ed esclude il
FILIPPO BRUNAMONTI
RINALDO CENSI
Senza nessun ordine:
1. Pacific Rim di Guillermo Del Toro
2. Gravity 3D di Alfonso Cuaron + il
salto nel vuoto di Felix Baumgartner
(Headcam)
3. La jalousie di Philippe Garrel +
Cinématon #2735- Ari Boulogne
di Gérard Courant
4. Pays Barbare di Yervant Gianikian
e Angela Ricci Lucchi
5. Feng Ai/'Til Madness Do Us Apart
di Wang Bing
6. Zero Dark Thirthy di Kathryn Bigelow
7. Venus in Furs di Roman Polanski
8. L'inconnu du lac di Alain Giraudie
9. The Conjouring di James Wan
10. Behind the Candelabra di Steven
Soderbergh
+ Onça Geometrica di Joao Maria
Gusmao, Pedro Paiva - installazione
Galleria Zero Milano
Un libro: Morton Feldman, Pensieri
verticali (Adelphi)
Un album: Toy, Join The Dots
1. Trudno byt' bogom (È difficile essere
dio) di Aleksej Jurevich German
2. No di Pablo Larrain
3. La moglie del poliziotto di Philip
Groning
4. Las niñas Quispe di Sebastian
Sepulveda
5. Spring Breakers di Harmony Korine
6. Django Unchained di Quentin
Tarantino
7. La jalousie di Philippe Garrel
8. Anja, la nave di Roland Sejko
9. The Canyons di Paul Schrader
10. Venere in pelliccia di Roman Polanski
E, rivisto a Venezia, Il mio amico Ivan
Lapshin di Aleksej J. German
1. Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel
Cohen
2. 12 Year a Slave di Steve McQueen
3. Frances Ha di Noah Baumbach
4. The Canyons di Paul Schrader
5. Piccola patria di Alessandro Rossetto
6. The Act of Killing diJoshua
Oppenheimer
7. The Pervetrt's Guide to Ideology di
Sophie Fiennes
8. In the Wonder di Terrence Malick
9. Gravity di Alfonso Cuaron
miglior film visto quest'anno vincitore
della Settimana della critica a
Venezia: Razredni sovraznik (Class
Enemy) di Rok Bicek. Menzioni sparse
per Viva la libertà, Razzabastarda, Un
castello in Italia, L'arte della
felicità, e almeno altre due decine di
titoli tra doc, opere liriche,
videoclip, corti. Tra le uscite in dvd: il
«tuttobélatarr» della eye
division, il «tuttobergman». In edicola:
Identikit di Giuseppe Patroni
Griffi, Glenn Gould the Russian Journey di
Yosif Feyginberg. Infine Il
film del secolo di Rossana Rossanda con
Mariuccia Ciotta e RobertoSilvestri, la
più bella «pellicola scritta» del 2013
CARLO AVONDOLA
1. Django Unchained di Quentin
Tarantino
2. Le streghe di Salem di Rob Zombie
3. Qualcuno da amare di Abbas
Kiarostami
4. Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann
5. L'image manquante di Rithy Panh
6. To the Wonder di Terrence Malick
7. Pacific Rim di Guillermo Del Toro
8. Redemption di Miguel Gomes
9. Age is... di Stephen Dwoskin
10. La danza de la realidad di Alejandro
Jodorowski
Leviathan è l'opera capitale vista durante
questo 2013, visioni che abitano la
soglia, i limiti. Film ipnotico che rompe i
cardini spaziali dis-orientando come in
passato aveva saputo fare solo forse La
Région Centrale di Micheal Snow,
aperte nuove piste d'esplorazione per il
digitale. Poi i due lavori di Miyazaki e
Takahata, con una predilezione per
quest'ultimo che a 78 anni suonati
realizza un capolavoro di storytelling e
sperimentazione visiva. The Horses of
Fukushima e Theater 1-2 perchè lavori di
due fra i più interessanti documentaristi
nipponici. Sky Fall per l'eccezionale
fotografia, A Fairy Tale perchè Fukuma
cerca una simbiosi tra digitale e poesia.
Symbiopsychotaxiplasm e Fighting Soldiers
le due magnifiche (ri)scoperte.
MARCO GIUSTI
1. Django Unchained di Quentin Tarantino
2. Sole a catinelle di Gennaro Nunziante
3. The Canyons di Paul Schrader
4. Inside Llewyn Davis dei Coen
5. La vie d'Adèle di Abdellatif Kechice
6. Sacro Gra di Gianfranco Rosi
7. Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch
8. Behind the Candelabra di Steven
Sodenbergh
9. Pacific Rim di Guillermo Del Toro
10. Lo Hobbit: La desolazione di Smaug di
Peter Jackson.
ANTONELLO CATACCHIO
1. Django Unchained di Quentin
Tarantino
2. Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi
3. Miele di Valeria Golino
4. Now you see me di Louis Leterrier
5. The spirit of '45 di Ken Loach
6. Gravity di Alfonso Cuaron
7. Il passato di Asghar Farhadi
8. Salvo di Fabio Grassadonia, Antonio
Piazza
9. Philomena di Stephen Frears
10. American Hustle di David O. Russell
GIANLUCA PULSONI
1. Attesa di un'estate (frammenti di vita
trascorsa) di Mauro Santini
2. Zima di Cristina Picchi
3. Gravity di Alfonso Cuaron
4. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
5. Chats perchés e altri di Chris Marker
6. Necropolis di Franco Brocani
7. Greta Gerwig in Frances Ha di Noah
Baunbach
8. Cate Blanchet in Blue Jasmine di
Woody Allen
9. Alberi di Michelangelo Frammartino
10. A Spell to Ward off the Darkness di
Ben Rivers, Ben Russell
La logica è binaria: due film di filmmaker
italiani (una certezza e una scoperta);
due film Usa; due necessarie edizioni
dvd; due interpretazioni, corpo
(Gerwig) e volto (Blanchett) che sono
«un cinema» al di là dei singoli film.
In coda due opere non ancora viste,
ma lette e già amate ciecamente
LORENZO ESPOSITO
15 film per il 2013 (in ordine sparso)
1. A Vida invisivel di Vitor Gonçalves
2. Trydno byt bogom (È difficile essere un
dio) di Aleksej Jurevich German
3. Historia de la meva mort di Albert Serra
4. The Canyons di Paul Schrader
5. La jalousie di Philippe Garrel
6. Flight di Robert Zemeckis
7. Side Effects di Steven Soderbergh
8. Zanj Revolution di Tariq Teguia
9. Django Unchained di Quentin
Tarantino.
10. Educaçao sentimental di Julio Bressane
11. Norte, hangganan ng kasaysayan
(Norte la fin de l'histoire) di Lav Diaz
12. At Berkeley di Frederick Wiseman
13. Feng ai (Follia e amore) di Wang Bing
14. Die andere Heimat - Cronil einer
Sehnsucht di Edgar Reitz
15. Se Eu Fosse Ladrao, Roubava di Paulo
Rocha
Aggiungo due 'cose' italiane su tutte:
Lettera al presidente di Marco Santarelli
Atlante sentimentale del cinema per il XXI
secolo di Donatello Fumarola e
Alberto Momo
GIONA A. NAZZARO
1. Stop the Pounding Heart di Roberto
Minervini
2. Materia Oscura di Martina Parenti e
Massimo d'Anolfi
3. Su Re di Giovanni Columbu
4. The Canyons di Paul Schrader
5. Il grande e potente Oz di Sam Raimi
6. Lo sconosciuto del lago di Alain
Giraudie
7. Pacific Rim di Guillermo Del Toro
8. Facciamola finita di Evan Goldberg e
Seth Rogen
9. Dietro i candelabri di Steven
Soderbergh
Dieci non usciti in sala
1. Norte, the end of History di Lav Diaz
2. Les rencontres d’après minuit di Yann
Gonzalez
3. Her di Spike Honze
4. Der Unfertige di Jan Soldat
5. Historia de la meva mort di Albert Serra
6. Revolution Zendj di Tariq Teguia
7. Rangbhoom di Kamal Swaroop
8. Snoepiercer di Bong Joon-ho
9. Young Detective Dee: Rise of the Sea
Dragon di Tsui Hark
10.Only Lovers left Alive di Jim Jarmush
GIANCARLO MANCINI
1. Zero Dark Thirthy di Kathryn Bigelow
2. Venere in pelliccia di Roman Polanski
3. Effetti collaterali di Steven Soderbergh
4. Il Passato di Asghar Farhadi
5. La grande bellezza di Paolo Sorrentino
6. The Master di Paul Thomas Anderson
7. Blue Jasmine di Woody Allen
8. Jimmy Bobo di Walter Hill
9. Il caso Kerenes di Calin Netzer
10. Che strano chimarsi Federico di Ettore
Scola
I primi tre come esempi di cinema
mutante, rizomadico, nomade. Il
passato
per la superba scrittura di scena. La
grande bellezza all'unico regista
italiano capace oggi di sbagliare un film
TOP TE
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
NICOLA FALCINELLA
1. L'image manquante di Rithy Pahn
2. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
3. It's Hard To Be a God di Aleksei
German sr.
4. Stray Dogs di Tsai Ming Liang
5. E agora? Lembra-me - What Now?
Remind Me di Joaquim Pinto
6. No di Pablo Larrain
7. Lincoln di Steven Spielberg
8. Django Unchained di Quentin
Tarantino
9. Il tocco del peccato di Jia Zhang-ke
10. The Act of Killing di Joshua
Oppenheimer
THOMAS MARTINELLI
1. La bimba dal pugno chiuso di Claudio
De Mambro, Luca Mandrile, Umberto
Migliaccio
2. A liar's autobiography: the untrue story of
Monthy Python's di Graham Chapman,
Bill Jones, Jeff Simpson, Ben Timlett
3. The special need di Carlo Zoratti
4. Stop the pounding heart di Roberto
Minervini
5. La grande bellezza di Paolo Sorrentino
6. Viva la libertà di Roberto Andò
7. Educazione siberiana di Gabriele
Salvatores
8. Tutti pazzi per Rose di Daniele Vicari
MASSIMO CAUSO
9. It's up to you di Kajsa Naess
10. Miniyamba - Walking Blues di Luc
Perez,
Documentare la realtà, amplificarla,
mostrarla per quello che non vorrebbe
essere, rianimarla, meglio se con
l'animazione, lunghi e corti. I migliori
italiani per vincere fuggono all'estero,
dove si fanno produrre e mostrare nei
festival. Quelli bravi e intelligenti bsogna
andarseli a cercare nei cinema d'essai
sempre più chiusi e ristretti.
Oppure scaricare
1. Redempion di Miguel Gomez
2. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
3. After Earth di M. Night Shyamalan
4. Flight di Robert Zemeckis
5. Qualcuno da amare di Abbas
Kiarostami
6. Stop the Pounding Heart di Roberto
Minervini
7. Lo sconosciuto del lago di Alain
Guiraudie
8. Le streghe di Salem di Rob Zombie
9. Norte, Hangganan Ng Kasaysayan
(Norte, The End Of History) di Lav Diaz
10. Venere in pelliccia di Roman Polanski
FABRIZIO GROSOLI
1. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
2. Venere in pelliccia di Roman Polanski
3. Il caso Kerenes di Calin Netzer
4. Il tocco del peccato di Jan Zhang-ke
5. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer
6. Broken Circle Breakdown di Felix Van
Groeningen (Berlino)
7. L'image manquante/The missing Picture
di Rithy Panh (Cannes)
8. Pays Barbare di Yervant Giainikian e
Angela Ricci Lucchi
9. Stray Dogs di Tsai Ming-Liang (Venezia)
10. Ida di Pawel Pawlikowski (Torino)
SERGIO M. GERMANI
ROBERTO TURIGLIATTO
(senza ordine)
1. Tokyo Kazoku / Tokyo Family di Yoji
Yamada
2. Trudno byt' bogom / Hard to be a
God di Aleksej German
3. Zanji Revolution di Tariq Teguia
4. Norte, the end of the History di Lav
Diaz
5. Zero Dark Thirty (Kathrin Bigelow)
insieme a Lincoln (Steven Spielberg),
Django unchained (Quentin Tarantino)
e The Unknown Kown (Errol Morris)
6.The Three Disasters (Jean-Luc
Godard) e Pays barbare (Yervant
Gianikian e Angela Ricci Lucchi)
7. Já visto jamaís visto di Andrea
Tonacci
8. Natura obscura e Tessitura calda di
Paolo Gioli
9. Too Much Johnson di Orson Welles
10. Educação sentimental di Julio
Bressane
11. The Canyons di Paul Schrader
12. Se Eu fosse Ladrão...Roubava di
Paulo Rocha
13. A vida invisível di Vítor Gonçalves
14. La jalousie di Philippe Garrel
15. Lo sconosciuto del lago di Alain
Guiraudie
16. Spring Breakers di Harmony
Korine
17. At Berkeley di Frederick Wiseman
1. The Canyons di Paul Schrader
2. Most Dangerous Man Alive di Allan Dwan
3. Lincoln di Steven Spielberg
4. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
5. Bhowani Junction (Sangue misto)
di George Cukor
6. Urla mute di Alessandra Vanzi
e Alberto Grifi
7. Beggars of Life di William A. Wellman
8. Dilis ati tsuti (Dieci minuti al mattino)
di Aleqsandre Jaliashvili
9. Too Much Johnson di Orson Welles
10. Amore mio di Raffaello Matarazzo
EUGENIO RENZI
1. Lo sconosciuto del lago di Alain
Guiraudie
2. La fille de nulle part di Jean-Claude
Brisseau
3. Redemption di Miguel Gomes
4. 11-25 The Day Mishima close his own
faith (25 novembre, il giorno in cui Mishima
ha scelto il proprio destino) di Koji
Wakamatsu
5. La performance di Avi Mograbi e
Noam Embar al Gymnase Jemmapes,
Parigi, notte bianca.
6. L'Ultimo degli ingiusti di Claude
Lanzmann
7. Leviathan di Lucien Castagnan-Taylor
e Véréna Paravel
8. Dietro i candelabri di Steven
Soderbergh
9. House of Cards (E01-02) di David
Ficher
10. Théorie du drone di Gregoire
Chamayou, La Fabrique, 2013
Una lista di titoli troppo rari, mi
consola che quasi tutto si trova o si
troverà su internet. Il libro di
Chamayou, che è un saggio politico ma
si divora quasi fosse un romanzo di
fantascienza (lo stesso dicasi per il film
di Gomes), merita
di essere tradotto, come tutto quello
che pubblica l'editore Eric Hazan.
Mi sorprendo a trovare nella lista un
forte filo nel rapporto tra corpo e politica:
Bigelow, Cukor e Grifi-Vanzi creano
pressoché un trittico, e lo Schrader con
Lindsay Lohan, il Wellman con Louise
Brooks, lo Spielberg della parola
(rosselliniana-dreyeriana), il georgiano
ginnico e il Welles acrobatico li
estendono. I sublimi ultimi Dwan e
Matarazzo sanciscono che il cinema più
inattuale è il più lungimirante. Ho preferito
escludere i film presentati a I mille occhi,
mentre le riscoperte di Pordenone,
Bologna e Locarno si rivelano film del
futuro, non certo di un passato in cui
non trovarono tutti gli sguardi possibili.
E sono certo che Matarazzo, Wellman,
Castellazzi e altri saranno anche tra i
grandi cineasti del 2014.
(5)
CECILIA ERMINI
In un'annata con tanti ottimi film, sia visti
nei festival sia usciti in sala, è arduo
sceglierne dieci. Manca secondo me uno
italiano di quel livello. Segnalo Sangue di
Pippo Delbono e La mafia uccide solo
d'estate di Pif, che han trovato chiavi
originali e rischiose (e divergenti tra
loro) nel trattare temi ostici della nostra
società. Rappresentano i cineasti che
esplorano in forme nuove il reale e gli
esordienti (ricordo anche Valeria
Golino e Matteo Oleotto) e che sono
stati i segni migliori lasciati dal nostro
cinema nel 2013.
1. Lincoln di Steven Spielberg
2. The Canyons di Paul Schrader
3. Skurstenis di Laila Pakalnina
4. Only Lovers Left Alive di Jim Jarmush
5. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh
6. La moglie del poliziotto di Philip Groning
7. Sms. Save My Soul di Piergiorgio Curzi
8. Une autre Vie di Emmanuel Mouret
9. The Act of Killing di Joshua Oppenheimer
10. Our Sunhi di Hong Sang-soo
Hors catégorie: le Costellazioni di Helga
Fanderl e l'Attesa di un'Estate di Mauro
Santini Vecchie glorie: Le farò da padre
di Alberto Lattuada e Narcisz és Psyché
di Gabor Body
BRUNO DI MARINO
Le 10 migliori opere audiovisive, in
ordine sparso
1. Die Andere Heimat di Edgar Reitz
(lungometraggio a soggetto)
2. Storia di Sammontana di Virgilio
Villoresi (spot di animazione)
3. The Stars (Are Our Tonight) di Floria
Sigismondi (music video)
4. Doctor Fabre Will Cure You di Pierre
Coulibeuf (fiction sperimentale)
5. Summer 82 When Zappa Came to
Sicily di Salvo Cuccia (documentario)
6. Natura Oscura di Paolo Gioli (film
sperimentale)
7. Drew di Lisa Gunning (music video)
8. Salvo di Grassadonia e Piazza
(lungometraggio a soggetto)
9. La Vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche
10. Movie Drome Interior di Stan
Vanderbeek(installazione 1965 riallestita
alla Biennale di Venezia 2013)
DONATELLO FUMAROLA
(dieci geografie sentimentali)
1. Educaçao sentimental di Julio Bressane
2. Pays barbare di Yervant Gianikian e
Angela Ricci Lucchi
3. Hotel de l'univers di Tonino De
Bernardi
4. E agora? - Lembra-me di Joaquim
Pinto
5. Emmaus di Claudia Marelli
6. Marx tra di noi di Jurij Meden
7. An investigation on the night that won't
forget di Lav Diaz
8. Antropologhia di Malastrada
9. Un compte de Michel de Montaigne di
Jean-Marie Straub
10. Trudno byt' bogom di Aleksej
Guerman
I più vicini, in senso 'fisico'. Che poi, in
senso 'politico', direi Tarantino,
Schrader, Polanski, Kim Ki-duk,
Guiraudie, Wiseman, Wang Bing, Tsai,
Guy Lumbera, Teguia, Ferraro,
Makhmalbaf, Reitz, Gitai, Loznitza,
Minervini, Jarmush e l'incredibile Gravity.
RITA DI SANTO
1. Sacro Gra di Gianfranco Rosi
2. The Act of Killing di Joshua
Oppenheimer
3. 12 Years a Slave di Steve McQueen
4. The Canyons di Paul Schrader
5. Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke
6. The Wolf of Wall Street di Martin
Scorsese
7. Venere in Pelliccia di Roman Polanski
8. La vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche
9. The Selfish Giant di Clio Barnard
10. American Hustle di David O. Russell
ALESSANDRO CAPPABIANCA
Devo citare prima di tutto quattro film
che non avevo fatto in tempo a vedere
nel 2012: Django Unchained di Quentin
Tarantino, Lincoln di Steven Spielberg,
Flight di Robert Zemeckis, The Act of
Killing di Joshua Oppenheimer. Poi i 10,
in ordine di visione:
1. Ana Arabia di Amos Gitai
2. La jalousie di Philippe Garrel
3. Sacro GRA di Gianfranco Rosi
4. The Grandmaster di Wong Kar-wai
5. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh
6. Hard to be a God di Aleksej J. German
7. Venere in pelliccia di Roman Polanski
8. Le dernier des injoustes di Claude Lanzmann
9. The Canyons di Paul Schrader
10. Stop the Pounding Heart di Roberto
Minervini
EN 2013
(6)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
film
video
game
LUCA GUADAGNINO
1. L'inconnu du lac di Alaine Guirauide
2. Los amantes pasejeros di Pedro
Almodovar
3. Behind the candelabra di Steven
Sodebergh
4. Seventh code di Kyoshi Kurosawa
5. The wind rises di Ayao Myazaki
6. Tir di Alberto Fasulo
7. Paradise Faith/Paradise Hope di Ulrich
Seidl
8. L'image manquant di Rithy Pahn
9. A touch of sin di Jia Zangke
10. Norte, Hangganan Ng Kasaysayan di
Lav Diaz
LUIGI ABIUSI
In ordine sparso (e sono
necessariamente più di 10):
1. La jalousie di Philip Garrel
2. Stray Dogs di Tsai Ming Liang
3. Her di Spike Jonze
4. The Wind Rises di Hayao Miyazaki
5, Home from home -- Chronicle of a vision
di Edgar Reitz
6. Medeas di Andrea Pallaoro
7. I am not him di Tayfun Pirselimoglu
8. La vita invisibile di Vitor Goncalves
9. I corpi estranei di Mirko Locatelli
10. Dietro i candelabri di Steven Soderbergh
11. In Another Country di Hons Sang-soo
FABRIZIO GROSOLI
12. Historia de la meva mort di Albert
Serra
13. L'inconnu du lac di Alain Guiraudie
14. Stop the Pounding Heart di Roberto
Minervini
Due cose italiane: Minervini si conferma
il maggior talento che abbiamo (anche
se vive in Texas); a cui è adiacente
Pallaoro, anche solo per simili vicende
d'espatrio. E poi c'è Locatelli con un film
sorprendente e bellissimo, in cui le
immagini germinano (si presentano e si
raccontano da sè) ambiguamente.
1. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
2. Venere in pelliccia di Roman Polanski
3. Il caso Kerenes di Calin Netzer
4. Il tocco del peccato di Jan Zhang-ke
5. The Act of Killing di Joshua
Oppenheimer
6. Broken Circle Breakdown di Felix Van
Groeningen (Berlino)
7. L'image manquante/The missing Picture
di Rithy Panh (Cannes)
8. Pays Barbare di Yervant Giainikian e
Angela Ricci Lucchi
9. Stray Dogs di Tsai Ming-Liang (Venezia)
10. Ida di Pawel Pawlikowski (Torino)
MARIA GROSSO
1. Materia oscura di Massimo D'Anolfi
Martina Parenti
2. Facing mirrors di Negar Azarbayjani
3. Salvo di Fabio Grassadonia Antonio
Piazza
4. Un giorno devi andare di Giorgio
Diritti
5. Un chateau en Italie di Valeria Bruni
Tedeschi
6. Gloria di SebastiánLelio
7. Zero dark thirty di Kathryn Bigelow
8 Arrugas di Ignacio Ferreras
9 Il passato di Asghar Farhadi
10 Japan lies di Saburo Hasegawa
L'ordine non è fisso ma dinamico. Su
tutto l'aver potuto rivedere al cinema
To Be or not to Be di Ernst Lubitsch.
Ricorderò la visione con mia figlia de La
mafia uccide solo d'estate di Pierfrancesco
Diliberto.
ALBERTO CASTELLANO
1. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
2. Django Unchained di Quentin
Tarantino
3. The Master di Paul Thomas Anderson
4. La migliore offerta di Giuseppe
Tornatore
5. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
6. Miss Violence di Alexandros Avranas
7. Venere in pelliccia di Roman Polanski
8. Giovane e bella di François Ozon
9. Il passato di Asghar Farhadi
10. Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke
In ordine sparso
RITA DI SANTO
1. Sacro Gra di Gianfranco Rosi
2. The Act of Killing di Joshua
Oppenheimer
3. 12 Years a Slave di Steve McQueen
4. The Canyons di Paul Schrader
5. Il tocco del peccato di Jia Zhang-Ke
6. The Wolf of Wall Street di Martin
Scorsese
7. Venere in Pelliccia di Roman Polanski
8. La vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche
9. The Selfish Giant di Clio Barnard
10. American Hustle di David O. Russell
FRANCESCO MAZZETTA
ROBERTO TURIGLIATTO
(senza ordine)
1. Tokyo Kazoku / Tokyo Family di Yoji
Yamada
2. Trudno byt' bogom / Hard to be a God
di Aleksej German
3. Zanji Revolution di Tariq Teguia
4. Norte, the end of the History di Lav Diaz
5. Zero Dark Thirty (Kathrin Bigelow)
insieme a Lincoln (Steven Spielberg),
Django unchained (Quentin Tarantino) e
The Unknown Kown (Errol Morris)
6.The Three Disasters (Jean-Luc Godard)
e Pays barbare (Yervant Gianikian e
Angela Ricci Lucchi)
7. Já visto jamaís visto di Andrea Tonacci
8. Natura obscura e Tessitura calda di
Paolo Gioli
9. Too Much Johnson di Orson Welles
10. Educação sentimental di Julio
Bressane
11. The Canyons di Paul Schrader
12. Se Eu fosse Ladrão...Roubava di Paulo
Rocha
13. A vida invisível di Vítor Gonçalves
14. La jalousie di Philippe Garrel
15. Lo sconosciuto del lago di Alain
Guiraudie
16. Spring Breakers di Harmony Korine
17. At Berkeley di Frederick Wiseman
DONALD RANVAUD
1. Lunchbox di Ritesh Batra
2. Metro Manila di Sean Ellis
3. The Last Emperor 3D di Bernardo
Bertolucci
4. Lech Walesa - Man of Hope di Andrzej
Wajda
5. Nebraska di Alex Payne
6. La grande bellezza di Paolo Sorrentino
7. Miele di Valeria Golino
8. The Verdict di Jan Verheven
9. A Nagy Fuzet (Le grand cahier) di Janos
Szasz
10. Thirst di Dimitry Tyurin
Mi accorgo che questi film hanno in
comune una simbiosi totale di regista e
protagonista e mi sorprende anche il
fatto che ci siano molti italiani nella lista,
spero sia di buon augurio. Ovviamente
non li includo, ma vorrei segnalare
almeno i miei due film Las mariposas de
Sadourni di Dario Nardi (Argentina), ci
sono voluti dieci anni per farlo, miglior
regia a Guadalajara e Sta per piovere di
Haider Rashid uscito nel momento
delle discussioni più accese sullo «jus
soli»
I dieci giochi dell’anno (in rigoroso
ordine alfabetico):
1. 400 Years di Scriptwelder
(http://armorgames.com/play/14662/)
Cosa può fare una pietra per salvare il
mondo se non utilizzare il tempo a sua
disposizione? Intelligente, indie ed
ecologista.
2. Assassin’s Creed IV: Black Flag di
Ubisoft Montreal (Ubisoft)
Normalmente non sono un fan della
saga ma l’ultimo episodio si pone
abbastanza fuori dal corso da agganciare
chiunque ami una solida avventura
piratesca.
3. Beyond: Due Anime di Quantic Dream
(Sony) Forse troppo poco videogioco
per alcuni ma sicuramente una prova
d’autore, convincente e soprattutto
coinvolgente.
4. BioShock Infinite di Irrational Games
(2K Games) Ken Levine riprende in
mano la sua creatura e inventa un
personaggio potente ed indimenticabile
come Elizabeth che da sola riesce a farci
dimenticare che si tratta di un gioco in
cui si deve sparare.
5. DmC Devil May Cry di Ninja Theory
(Capcom) Tra i vari
reboot/prequel/riproposizioni più o
meno originali, riprendo qui quella
dedicata al più paraculo del mucchio,
non magari il più bello, ma senz’altro
quello con più stile!
6. Grand Theft Auto V di Rockstar North
(Rockstar Games) Anche solo per far
dispetto a quelli che ancora la menano
con la violenza nei videogiochi…
7. The Last of Us di Naughty Dog (Sony)
Solitamente non amo gli zombie, ma
questo è il gioco adatto – di un’intensità
incredibile – per farmi ricredere.
8. Metro: Last Light di 4A Games (Koch
Media) Prosegue la saga di Metro in un
gioco che riesce a farci provare –
ancora – la claustrofobia dell’apocalisse
atomica.
9. noitcelfeR 2 di Sims5000
(http://armorgames.com/play/14673/)
Semplicemente una meraviglia di
platform non solo da giocare ma da
creare e condividere.
10. Tom Clancy’s Spliter Cell: Blacklist di
Ubisoft Toronto (Ubisoft) Menzione
particolare per il multiplayer
cooperativo che consente di diventare
veri e propri “pard” sul campo di
battaglia.
TOP TEN 2013
FEDERICO ERCOLE
Dieci sono sempre troppo pochi,
considerando che nel 2013 ho finito più
di trenta giochi e termino solo quelli
che amo davvero. Tra questi Monster
Hunter 3 Ultimate è ancora da
completare, ma sono a trecento ore e,
da solo, ho raggiunto il sesto grado di
cacciatore nelle missioni della Gilda,
pensate per essere cooperative.
La classifica non è in ordine di merito
tranne il primo posto. O forse sì. In
ogni caso ho optato per tanti pari
merito per non rischiare di escludere
nessun preferito.
Non cito remake eccellenti come The
Legend of Zelda Windwaker, Kingdom
Hearts HD, Deus ex Human Revolution
Wii U, Deadly Premonition, la riedizione
in “pacchetto” di The Walking Dead e
Diablo 3 per Playstation 3. Non metto
nella lista Animal Crossing New Leaf
perché non è un videogioco ma una
vera dimensione parallela.
The Last of Us
Grand Theft Auto V e Ni No Kuni
Bravely Default e Legend of Zelda Link
Between World
Bioshock Infinite e Super Mario 3D World
Monster Hunter Ultimate e Metal Gear
Rising
Rayman Legends e Beyond
Puppeteer e DmC
Pikmin 3 e Tomb Raider
Tearaway e Assassin’s Creed IV Black Flag
Dead Space 3 e Dragon’s Crown
Mario & Luigi Dream Team e The
Wonderful 101
Pokemon X e Metro Last Light
Batman Arkham Origins e Luigi’s Mansion
2
Fire Emblem Awakening e Skylanders
Swap Force (con mio figlio)
Remember Me e Tales of Xillia
Ma non è finita qui! Siccome la vecchia
generazione di console ufficialmente si
esaurisce con l’avvento della nuove
macchine ecco i miei quattordici giochi,
con 2 extra-bonus, dell’era Playstation
3, XBox 360, Wii.
The Last of Us
Dark Souls
Red Dead Redemption
Lost Odissey
Metal Gear Solid IV
The Witcher 2
Bayonetta
Grand Theft Auto V
Heavy Rain
Ni No Kuni
Castlevania Lords of Shadow
Legend of Zelda Skyward Sword
Uncharted 2
Star Ocean The Last Hope
JohnWoo’s Stranglehold
Bonus: Limbo e Journey
Bonus 2: Brutal Legend e Vanquish
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
(7)
DISCRIMINAZIONE
SPORT
INTERVISTA ■ MAX GALLOB E NICOLA SACCON DI «SPORT ALLA ROVESCIA»
Finalmente da oggi
gioco anch’io:
abolito l’articolo 40
di PASQUALE COCCIA
●●●L’articolo 40, comma 11 e
11 bis è abolito. Detta così,
sembra una delle tante note
burocratiche che invadono le
sedi delle associazioni sportive,
costrette a districare nel
complesso mondo degli obblighi
normativi e burocratici. La nota
emanata dalla Federazione
italiana gioco calcio (Figc), ha un
valore storico perché apre le
porte a tutti i figli di immigrati
extracomunitari, che non
potevano calcare i campi di
calcio perché non sono cittadini
italiani, né possono fare richiesta
fino all’età di 18 anni. Una norma
discriminatoria, che di fatto
escludeva gli extracomunitari di
seconda generazione da qualsiasi
possibilità di partecipare ai
campionati di calcio delle serie
minori fino alla maggiore età.
Protagonisti della battaglia per
l’abolizione della norma sono
state una serie di associazioni
sportive e palestre popolari che
fanno riferimento ai centri sociali
di tutta Italia e si ritrovano sotto il
cartello di Sport alla Rovescia. Ai
promotori di questa battaglia
abbiamo chiesto di spiegarci qual
è stato il loro percorso di lotta,
che ha messo fuori gioco la Figc,
e di fatto spinto ad abolire la
norma discriminante verso i
giovani extracomunitari.
«Il percorso politico delle
esperienze dei centri sociali a
difesa dei migranti ci ha portati a
individuare lo sport come terreno
più facile per portare avanti la
lotta sui diritti negati agli
extracomunitari - dice Max
Gallob attivista di Sport alla
Rovescia – e a gennaio del 2012
tutte le polisportive di calcio,
volley, rugby, cricket, che
avevano come comune
denominatore l’impegno politico
su questo fronte, si sono ritrovate
ad Ancona, e uno dei primi
elementi emersi è stata la
difficoltà di accesso allo sport da
L’azione vittoriosa condotta
dall’associazione «Sport alla
rovescia» per consentire
agli extracomunitari l’accesso,
finora negato, ai campionati
parte degli extracomunitari, in
particolare ai campionati di
calcio indetti dalla Figc.
Decidemmo di studiare i
regolamenti delle varie
federazioni e di promuovere in
tutta Italia campagne di denuncia
per la modifica delle norme
discriminatorie, accompagnate
da appelli ad associazioni e
dirigenti di società sportive di
base, per il diritto allo sport degli
extracomunitari, perché lo sport
aiuta a superare le barriere
razziali. Chiedevamo perché i
bambini giocano a calcio tra loro
al di là del colore della pelle e
dopo non possono?».
Al convegno di Ancona
aderirono 15 polisportive
provenienti da Napoli, Bologna,
Roma, Parma, Rimini, Trieste,
Vicenza, Padova, Taranto,
Venezia e Torino. Le polisportive
avendo più squadre, impegnate
in diverse discipline non si
limitarono ai semplici appelli,
durante i campionati esponevano
striscioni a sostegno del diritto
allo sport dei ragazzi
extracomunitari e con azioni di
volantinaggio denunciavano
nello specifico tutte le norme
discriminatorie contenute nelle
disposizioni delle varie
federazioni sportive. Le
polisportive aderenti a Sport alla
Rovescia, all’interno del loro
percorso di lotta, hanno
organizzato anche presentazioni
di libri, convegni dibattiti e
manifestazioni pubbliche sul
tema del diritto allo sport per
tutti.
A maggio del 2012 le azioni di
lotta di Sport alla Rovescia
ricevono un largo consenso
all’interno di una vasta platea:
«Fummo invitati a Roma a una
riunione della rete Fare (Football
against racism in Europe ndr),
che si teneva in una sala
adiacente a quella del Consiglio
dei ministri, tra i presenti anche
Giancarlo Abete, presidente della
Figc, che nel suo intervento non
mancò di elogiare con belle
parole le azioni del mondo del
calcio nostrano contro il
razzismo. Intervenni subito dopo
e smascherai l’ipocrisia di Abete,
avevamo studiato lo statuto della
Figc, e dissi che le norme che
caratterizzavano quello statuto
erano le più razziste d’Europa e
che sarebbe stato bello se proprio
la sua federazione avesse dato un
segnale di controtendenza, fosse
stata la prima ad invertire la
rotta. Da parte della platea vi fu
un lungo applauso, la maschera
di Abete era caduta, il presidente
della Figc venne a cercarci voleva
parlare e rabbonirci, gli dicemmo
che la nostra denuncia sarebbe
proseguita e che lo avremmo
giudicato dai fatti».
Le azioni di Sport alla Rovescia
non si limitano alla denuncia nei
confronti dei dirigenti della Figc
come Giancarlo Abete, che nulla
fanno per favorire l’integrazione
attraverso lo sport degli
extracomunitari, e nell’autunno
del 2012 promuovono la
campagna «Gioco anch’io» che
consente ai giovani
extracomunitari di giocare a
calcio nei tornei promossi dalle
polisportive dei centri sociali. A
Napoli organizzano il torneo di
calcio 3 contro 3, a Bologna
squadre di calcio a 11, a Padova il
torneo di calcio a 5 e a Vicenza
partecipa al torneo una squadra,
la Porcenese, costituita
interamente da calciatori
extracomunitari di Porcen in
provincia di Belluno, dove la Lega
ha consensi pari al 98%, ma quei
ragazzi parlano tutti i dialetto
veneto, tanto è il tempo in cui
risiedono in Italia. E se quei
calciatori dalla pelle scura
possono giocare nei tornei indetti
in tutta Italia dalle polisportive
aderenti a Sport alla Rovescia,
perché mai non potrebbero farlo
nei campionati organizzati dalla
Federcalcio?
A dicembre del 2012 i ragazzi
delle polisportive di Sport alla
Rovescia si presentano ai
presidenti dei rispettivi comitati
della Figc delle regioni in cui
operano maggiormente Veneto,
Marche, Emilia Romagna e
Campania: «Erano presidenti
appena eletti ai quali facemmo
presente la necessità di abolire
una serie di articoli e con nostra
grande sorpresa trovammo una
certa disponibilità - continua
Max Gallob - ma ci chiesero
anche se in caso contrario
avremmo alzato il tiro.
Rispondemmo loro che con tutte
le nostre squadre ci saremmo
iscritti ai campionati della Figc e
avremmo fatto giocare nel corso
delle partite extracomunitari che
non avevano la cittadinanza
italiana, sostituendoli con gli
italiani, in questo modo
avremmo fatto saltare l’impianto
discriminatorio che era alla base
delle norme dell’organizzazione
dei campionati. Aggiungemmo
che ce ne saremmo ampiamente
Foto di Giacomo Carlotto
fregati delle sanzioni disciplinari
e delle partite perse a tavolino».
Guidati da Nicola Saccon, un
pool di avvocati aderenti all’Asgi,
che nulla ha a che fare con i
centri sociali, mette a
disposizione le proprie
competenze, perché vuole
ribadire che quelle
discriminazioni cui sono soggetti
gli extracomunitari non hanno
ragione di esistere e lo sport è un
diritto di tutti. Gli avvocati
studiano nei particolari gli statuti
di ogni singola federazione e
tutte quelle norme
discriminatorie che vietano
l’accesso ai ragazzi di colore, la
partecipazione ai campionati
promossi dalle federazioni del
Coni: «Le maggiori difficoltà
erano costituite dalle norme che
prevedevano per i ragazzi che
giocavano il permesso di
soggiorno valido fino a giugno.
Chi lo aveva fino a marzo non
poteva giocare, gran parte del
tempo, circa 5 mesi andava via
per il rinnovo, saltavano sempre i
primi mesi di campionato –
afferma Nicola Saccon anima
giuridica di Sport alla Rovesciala prima domanda che ci siamo
posti è stata «perché la Figc
chiede il permesso di soggiorno?
Non può farlo, è illeggittimo». Un
altro problema riguardava i
ragazzi che avevano già giocato
all’estero, come nel caso di due
fratellini rumeni, che avevano
disputato il torneo «pulcini» in
Romania, in questo caso solo
uno può giocare in una squadra,
le norme Figc prevedono che
non possano giocare in due.
Oltre al calcio anche gli statuti
delle altre federazioni sono
discriminatori, per esempio
quello della federazione di
pallavolo o di pallacanestro, che
impongono limiti numerici alla
presenza di extracomunitari in
squadra. Una ragazza che
gareggiava nel nuoto
sincronizzato non ha potuto
passare di categoria per la
presenza di altre ragazze
extracomunitarie sottoposte al
limite numerico. All’estero in
Germania, Francia, Inghilterra, i
ragazzi extracomunitari di
seconda generazione giocano
nelle nazionali giovanili, qui non
è possibile». E alla Figc come
hanno reagito? «Hanno abolito
l’articolo 40, come avevamo
chiesto, ma continueremo a
tenerli d’occhio, la nostra
battaglia non è finita, dopo il
calcio si sposterà sugli altri sport
e le loro federazioni» conclude
Saccon. Sport alla Rovescia
questa volta ha saputo rovesciare
il Palazzo del calcio.
(8)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
REPORTAGE
LO SMANTELLAMENTO
DELLE RADICI
In pagina: ritratto di Mulugeta
Gebrekidan e alcune sue opere,
in alto: Traditional house in
Wolkilo, sotto: Good Carrier
in basso: Wax and Gold
performance art.
A pag 9 in alto: particolare di
Boundaries Bound (2009), sotto:
Addis in change
Eredità africana
di Gebrekidan
DI VINCENZO MATTEI
ADDIS ABEBA
●●●Eredità, questo potrebbe
essere lo slogan con il quale
etichettare Mulugeta Gebrekidan.
Il percorso storico dell’Etiopia si
ritrova nelle sue foto, nei suoi
video, nei suoi quadri, nelle sue
installazioni e nelle «azioni»
politiche che porta avanti ad Addis
Abeba per criticare l’azione del
governo. La sua visione critica lo
smantellamento delle radici etiopi,
prese d’assalto dalla speculazione
edilizia che, partendo dal suo
modello da esportare (Dubai), e
dopo aver smembrato intere
comunità urbane in Medio
Oriente, ora punta decisamente
verso il Sud, verso l’Africa
subsahariana. Mulugeta ha fatto
mostre e performance in
Germania, Usa, Angola, Senegal,
Belgio, Italia, Sud Africa .... usando
diversi linguaggi artistici
(http://mulugetart.tumblr.com/).
Bounderies Bound è un quadro su
tela avvolto da filo spinato che
rappresenta le frontiere degli
emigranti, dei rifugiati, di coloro
che scappano dalla miserie e
dall’ingiustizia. Il video, dallo
stesso titolo dell’opera, ne
ripercorre il momento
dell’esecuzione; un frastuono di
vento e di tempesta fa da
sottofondo, è il suono delle
difficoltà oggettive e ambientali
che gli emigranti devono
affrontare per arrivare a
destinazione. Sul filo spinato ci
sono oggetti dilaniati e macchie di
rosso, a rappresentare quei corpi
mutilati abbandonati alla morte.
Boundaries, confini, linee di
demarcazione che segnano il
numero interminabile e sempre
approssimativo di gente che ha
pagato per il sogno di una vita
migliore. Chi ce l’ha fatta racconta
di torture, di stupri e di violenze
nel carcere di detenzione in Libia,
in Algeria e in Marocco. Un
messaggio forte quello di
Mulugeta, che grida nella sordità
della comunità internazionale,
incapace di affrontare una
calamità che non riguarda solo
l’Africa, ma un mondo intero
impreparato alle sfide del 21˚
secolo. È possibile ammirare
Boundaries Bond presso il museo
del CAM di Casoria (Napoli), dove
l’artista è stato ospite di una
collettiva «africana». Il video
Inside out è una denucia contro i
poteri speculativi che stanno
distruggendo lo skyline di Addis
Abeba. Interi quartieri sono stati
distrutti, completamente
smantellati per far posto ad alti
palazzi a specchio, senza alcun
riferimento alla storia e alla
tradizione dell’Etiopia. Il video,
completamente girato in mezzo
alla distruzione lasciata dai
bulldozer delle compagnie di
costruzione, lega i fili e le vite di
tre generazioni. Quella degli
anziani, rappresentata da un
uomo di colore ben vestito che
legge il giornale in mezzo alle
macerie; finita la lettura l’uomo si
toglie gli occhiali, i suoi occhi
sono un pozzo nero indecifrabile,
come indecifrabili sono i
cambiamenti intorno a lui.
Seguono quattro ragazzi che
mangiano una pizza su un tavolo,
tra i resti di quella che una volta
era una pizzeria; sorridono allegri,
incuranti della trasformazione
della città. «È infatti la nuova
generazione che ha perso il
legame con il passato, con la
storia del paese, con le sue
tradizioni e modi di vivere. Vuole
la modernità, incurante di tutte
quelle trasformazioni sociali che
comporterà, vuole uno sviluppo
incapace di portare avanti un
benessere collettivo», afferma
Mulugeta. L’ultima parte è
dedicata a una coppia di giovani
che, seduta sul divano, guarda la
televisione in mezzo alle rovine.
La donna è incinta, le mani
dell’uomo e della donna
s’intrecciano sul pancione, sul
futuro del nascituro, sulla
generazione che verrà e su quello
che erediterà dall’attuale presente.
Mulugeta non guarda solo al
sociale, ma attraverso la sua arte
descrive il popolo etiope, e forse
tutto il continente africano,
proponendo usi e costumi della
vita quotidiana che non hanno
tempo e che rappresentano la
base per costruire il futuro.
Nel corto Unity Mulugeta mette
in risalto l’importanza della
collaborazione tra uomini. Una
canoa ricavata scavando un
tronco di albero deve essere
trasportata dalla foresta fino al
vicino lago di Wenchi, impresa
impossibile per un solo uomo.
Ecco allora tutta la comunità
locale, in segno di rispetto alla
tradizione, che si adopera per
trascinare il mezzo fino alle acque
del lago. La zattera sarà il mezzo
di trasporto dell’intera collettività
rurale per attraversare il lago, che
altrimenti, impiegherebbe quasi
due giorni per percorrerlo a piedi
via terra. Sono i suoni che
spiazzano e trasportano
l’osservatore. Un trasporto a volte
cinico, a volte melodico. La
costruzione del suono è la perla
che mette in risalto la capacità
dell’artista di conoscere il proprio
lavoro, la dimestichezza con cui
maneggia le proprie opere e che
lo rende un artista completo nel
suo campo. Non sono solo le
inquadrature complessive ad
attrarre, ma anche la capacità di
focalizzare su un volto,
trasmettendo tutto il lato umano
della solitudine ma anche della
forza di lottare. Come è il caso di
Yeshitila, un paraplegico che
dipinge supino dal suo letto, o di
Sentayehu Teshale, un artigiano
disabile che fa lavori di
manifattura con i propri piedi.
Mulugeta ha la capacità di
denunciare attraverso la poesia
delle immagini e dei colori.
●Che cosa ti ha spinto verso la
pittura? E perché ti sei spostato
sulla fotografia e i video?
C’è solo un’Accademia di Belle Arti
in Etiopia, ad Addis Abeba, non
avevo altra scelta che studiare
pittura. Tuttora dipingo, anche se
meno e in maniera differente.
Prima volevo esprimere le mie idee
attraverso i quadri, ora no, mi
confronto con la tela con la testa
libera. Normalmente uso tele di
grandi dimensioni, inizio a
dipingere, mi immergo e mi perdo
dentro il quadro fino a diventarne
parte vivente, in una realtà a 3D.
Solo alla fine scopro l’immagine
completa. Con il tempo, volevo
Attraverso la sua
arte descrive
il popolo etiope,
proponendo usi
e costumi della
vita quotidiana
che rappresentano
la base per
costruire il futuro
qualcosa che andasse oltre la tela.
La «piattezza» della tela stava
diventando una limitazione, così
ho iniziato a sperimentare con il
collage, per avere più spessore, poi
ho aggiunto oggetti. Ad un certo
punto ho sentito la necessità di
muovere verso i video, con i quali
mi sono trovato subito a mio agio
perché mi danno una libertà
maggiore, mi permettono di
esprimere idee, di parlare dei valori
e dei problemi sociali. Poi ci sono
altre forme di arte più facili per
esprimersi, come per esempio le
performance, perché sono spesso
in un luogo pubblico e aperto, dove
tutti possono partecipare,
interagire e condividere.
●Perché «Boundaries Bound»?
Il dipinto di Casoria è stato solo
il primo passo di uno sviluppo
successivo in cui il quadro è
diventato video e poi
performance. L’idea è quella
rappresentare, l’impossibilità
dell’individuo di muoversi, di
emigrare. Nel 2010 ho partecipato
alla biennale di Dakar con un
lavoro simile a quello che è
esposto a Casoria, in aggiunta
volevo fare una performance in
cui chiudevo l’entrata del museo
con del filo spinato, indossavo un
uniforme militare e imbracciavo
un mitra vero ma scarico. Il
presidente del Senegal doveva
venire per inaugurare l’apertura
della biennale. L’idea era quella di
sorprenderlo all’ingresso e
dichiarare: «Lei non ha il
permesso di entrare, a meno che
non abbia un pass». Poi porre una
serie di domande, interrogandolo:
«Perché è venuto in questo
museo? Che cosa è venuto a fare?
…». Volevo fargli provare la
sensazione di essere escluso.
Quando si mette un quadro in
mostra, l’osservatore lo assorbe in
quel momento, ma spesso,
appena uscito dal museo, si
dimentica dell’immagine. Invece,
sperimentando sulla propria pelle
un’esperienza, anche solo
costruita artificialmente, non è
facile dimenticarsene, la si
assorbe fino al profondo.
●Mi racconti la performance
che hai fatto al centro di Addis
Abeba vestito da statua?
[/VINT_RISPOST]«International
workshop in Addis». Il progetto
s’incentrava sulla libertà di
espressione degli artisti e sulla
censura, perché spesso capita che
in Etiopia vengano
indiscriminatamente sequestrate
le camere fotografiche e cancellati
video e foto da parte della polizia.
La nostra proposta si chiamava
Wax and Gold (Cera e Oro), che
nella tradizione etiopie significa
criticare con ironia e velatamente
l’autorità costituita. In Etiopia ci
sono molte piazze pubbliche che
non sono ben conservate, dove
non ci sono né sculture, né
fontane … niente di niente.
Alcune multinazionali hanno
sponsorizzato la rivalutazione di
questi luoghi pubblici e hanno
messo i loro loghi permanenti,
come se la piazza fosse un posto
addetto alla pubblicità. Purtroppo
anche gli etiopi hanno
incominciato a chiamare la piazza
con nome del brand che l’ha
ristrutturata, senza pensare di
nominarla con il nome di qualche
personaggio famoso della nostra
storia. Ero vestito come una statua
vivente, e sono stato trasportato
con un furgone alla piazza
«Samsung». Molte persone
vedendomi hanno incominciato a
seguirmi gridando se fossi Tedros
(eroe etiope del 19˚ secolo, ndr). I
bambini hanno incomiciato a
rincorrere il camion. Quando
sono arrivato alla piazza sono
rimasto fuori, come se lo sponsor
commerciale mi avesse scalzato
dal posto che mi competeva di
diritto. Alla fine della performance
sono entranto nel giardino
recintato e tutti i bambini mi
hanno seguito entusiasti.
●Quale è il leit motiv del
progetto fotografico sui
resettlement delle famiglie?
C’è una massiccia costruzione
edilizia che sta avendo luogo ad
Addis Abeba, non ce ne rendiamo
conto, ma stiamo perdendo i
nostri spazi vitali. Costruiscono da
tutte le parti, e le persone sono
costrette a essere ricollocate
forzatamente in altri posti, ad
alcuni vengono dati rimborsi
mentre ad altri no. Quest’ultimi
iniziano così a vivere sulla strada,
in tende di buste, legno e cartoni.
Mulugeta segue delle famiglie,
le fotografa nel mezzo della
desolazione cittadina con i
monumenti della speculazione
edilizia alle spalle, modelli di
ricchezza impiantati nel mezzo
della città che sradicano
tradizioni, culture, consuetudini
abitative … identità. «Siamo
quattro artisti che lavoriamo sui
cambiamenti di Addis Abeba. Io
mi concentro su due famiglie e su
due bambine di 11 anni, Betti e
Jerry, che vivono in una tenda e
vanno a scuola, nel pomeriggio
vendono gomme da masticare o
fazzoletti in strada per aiutare il
budget familiare. Le bambine
appartengono alla città ma allo
stesso tempo no, come se fossero
fantasmi, la loro identità è
confusa, sfumata»
●Come è la reazione della
popolazione a questo «Modello
Dubai» messo in atto in Etiopia?
Perché hai girato il video
«Inside out»?
Contrastante. Gli architetti etiopi e
le comunità come quella di B&J,
sono completamente contrari a
questo modello speculativo di
costruzioni massive, perché la
gente è cosciente di perdere la sua
identità. I costruttori cancellano
tutto ed esodano la gente in un
ambiente completamente diverso
che non coincide con il loro stile di
vita. Per esempio le famiglie di B&J
vivevano al centro della città,
riuscivano a tirare avanti vendendo
piccole cose per soddisfare il
fabbisogno quotidiano. Se vengono
spostate fuori dalla città, in un
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
(9)
I nuovi edifici a specchio
riflettono il sole accecante
dell’equatore rendendo la
temperatura insopportabile
Foto di Addis Abeba di
Vincenzo Mattei
ETIOPIA ■ SPECULAZIONE EDILIZIA
Gli idoli di cemento
del modello Dubai
sbarcano in Etiopia
contesto alieno, non hanno più la
possibilità di avere un reddito, sono
condannate alla rovina. Nessuno si
può opporre allo sviluppo
cittadino, ma deve essere giusto ed
equo, rispettare l’equilibrio
ambientale e culturale di un luogo.
Mi piace la diversità e anche il
senso di unità, ma non mi piace
vedere solo grattacieli e cemento.
●Pensi ci siano soluzioni?
Alcuni architetti all’avanguardia
stanno proponendo nuovi piani di
urbanizzazione che rispettano le
radici del luogo. Lavorano sugli
spazi vuoti, perché non si può
pensare solo alla costruzione
senza pensare agli spazi
«negativi». Questi architetti
disegnano prima il vuoto, solo sul
rimanente si può costruire. Un
architetto americano è andato a
Merkato (è il più grande mercato
di tutta l’Africa, ndr), ed è rimasto
impressionanto per due motivi. Il
primo perché là tutto viene
riciclato, il secondo perché
bisogna contrattare per ogni
acquisto e questo dà alle persone
la possibilità di parlare, di
socializzare!
●Pensando alla parte finale di
«Inside out», quale è il futuro
dell’Etiopia?
Nella nostra esperienza come
artisti, nelle mostre, come nei
seminari di arte e di architettura
cerchiamo di esporre le nostre
idee e suggerimenti all’opinione
pubblica e ai governanti. Sono
convinto che questo movimento
porterà a una discussione e in un
certo modo a un sistema migliore
per attuare lo sviluppo. I
governanti hanno aperto le porte
agli investimenti edilizi, ma c’è
bisogno di un piano regolatore
urbanistico. Gli architetti sono
quelli che patiscono di più questa
situazione e cercano di mediare
con il governo, senza opporsi, per
non essere tacciati di essere
contro lo sviluppo del paese. Gli
investitori vogliono che gli
architetti copino gli edifici tutto
specchi costruiti dai cinesi o in
stile Dubai. I palazzi sono tutti
diversi e non hanno niente a che
vedere con l’aspetto paesaggistico
dell’habitat della città. Una certa
consapevolezza tra i cittadini sta
nascendo, perché soffrono il caldo
riflesso da tutti questi edifici e per
la mancanza di parcheggi.
L’attuale generazione invece vive
in uno stato di costruzioni urbane
permanenti che dà un senso di
precarietà. Con il video voglio
esprimere la mia speranza che la
futura generazione possa avere
uno spazio «umano» dove vivere.
●Quale è il panorama artistico
in Etiopia?
Per diversi motivi l’Etiopia è
Un messaggio forte
alla sordità della
comunità
internazionale,
incapace
di affrontare
una calamità
che riguarda
il mondo intero
geograficamente e politicamente
isolata, non è facile conseguire un
visto per visitare altri paesi vicini.
Gli artisti africani di altre nazioni
hanno possibilità maggiori di
viaggiare e d’incontrarsi, sia per
possibilità economiche che per
migliore comunicazione stradale.
Solo pochi etiopi hanno la
possibilità di confrontarsi con
altre realtà e la comunità di artisti
è molto ristretta ed è concentrata
solo nella capitale.
●La tua arte sembra inglobare
tutti gli strati sociali dell’Etiopia
Non è intenzionale. Quando
qualcosa colpisce la mia
attenzione, diventa naturale
lavorarci sopra. Sul corto del
carpentiere disabile che lavora il
legno con i piedi, voglio mostrare
il suo impegno e le sue capacità,
senza che la gente si senta a
disagio guardandolo, voglio
mostrare la sua forza interiore.
●Quale è il messaggio?
In Etiopia le condizioni di vita
sono difficilissime, voglio dire alle
persone di incoraggiare chi ha
problemi motori a non perdere la
fiducia, perché possono fare cose
straordinarie. Ora sto lavorando
su un corto di una donna che non
può muovere le mani e cuce con i
piedi riuscendo a fare degli abiti
tradizionali etiopi eccezionali.
Pensa che con le dita del piede
riesce ad infilare l’ago e fa dei
modelli favolosi.
●Quanto la tua religione Bahai
influenza il tuo lavoro?
Molto, cerco di vivere la mia vita
seguendo gli insegnamenti degli
oltre cento libri che la mia
religione impartisce. Alla fine
siamo tutti fiori differenti nello
stesso giardino, il colore bianco
della tua pelle non è un ostacolo
per me, perché cerco di guardarti
nell’anima e non nell’aspetto
esteriore ed è quello metto dentro
il mio lavoro, senza demarcazioni
e ... confini.
di V.M.
ADDIS ABEBA
●●●«Il 21˚ secolo appartiene
all’Africa», è l’immagine proiettata
da gigantografie che bombardano il
viaggiatore appena arrivato
all’eroporto di Addis Abeba.
Cartelloni pubblicitari di famiglie
etiopi sorridenti danno l’idea di un
continente proiettato verso un
futuro roseo e uno sviluppo
inarrestabile che sembra non
preoccuparsi delle crisi cicliche
dell’economia mondiale. Negli
ultimi sette anni la capitale è
cresciuta demograficamente, con le
forti migrazioni dalle campagne, ed
economicamente, con indici di
crescita che in alcuni periodi sono
stati a doppia cifra. Ma, come
spesso accade, ciò non ha portato a
un miglioramento sostanziale delle
condizioni di vita dell’intera
popolazione (secondo Wikipedia il
reddito pro-capite ancora si colloca
al 168˚ posto). Come ogni paese in
ascesa, l’Etiopia ha voglia di
dimostrare la propria crescita, e
quale modo migliore se non la
vetrina di una città in pieno
sviluppo edilizio? E quale modello
mettere in pratica se non quello di
Dubai? Dopo gli Usa, i paesi del
Golfo Persico e il Medio Oriente,
dove le continue rivolte hanno
ormai disincentivato ogni tipo di
investimento, la speculazione
edilizia sembra indirizzata verso
altri confini, verso sud. L’Africa, e le
sue infinite possibilità di sviluppo,
è l’obiettivo naturale per erigere gli
idoli di cemento da innalzare in
onore del neocapitalismo che non
trae alcun insegnamento dai propri
errori. Il Modello Dubai sradica il
tessuto storico-sociale che
caratterizza una nazione. Se si
guarda ai paesi nord africani del
mondo arabo, il tipo di politiche di
sviluppo messe in atto non ha
portato i giovamenti economici
sperati se non ad una ridotta
minoranza della popolazione. Anzi,
le sperequazioni sono aumentate,
l’assistenza sanitaria inesistente o
accessibile solo per pochi ricchi,
l’istruzione fallimentare, la
pensione un miraggio. Il Modello
Dubai, che funziona solo nei Paesi
del Golfo perché supportati dagli
introiti del petrolio, sottintende
l’adozione di un sistema di valori
non solo economici, che
prenetrano la società e le istituzioni
statali, spazzando via qualsiasi
teoria neokeynesiana.
Wrapped, incartati ... verdi, blu,
gialli, sono i colori con i quali
vengono cellofanate le impalcature
delle costruzione ad Addis Abeba.
Interi rioni storici della capitale
(Kazanchis, Merkato, il quartiere a
ridosso della Greek School, Bole ...)
sono stati rasi completamente al
suolo per far spazio a questi
monumenti variopinti da scartare
una volta terminati i lavori. Lo
skyline della città sta cambiando
radicalmente in tutte le zone, le
nuove fabbricazioni si arrampicano
addirittura ai piedi dei monti
circostanti. Ogni area della città è
un cantiere a cielo aperto. Il
problema di fondo è il confuso
piano di sviluppo urbanistico, che
non stabilisce regole precise e
rigide da seguire e rispettare. Il
governo etiope ha assunto
consulenti inglesi e cinesi per
strutturare al meglio il piano
regolatore, ma questi impongono
politiche poco lineari con la realtà
etiope e spesso con lo scopo di
favorire le multinazionali straniere.
I nuovi edifici a specchio, con
design di architetti cinesi e
americani, riflettono il sole
accecante dell’equatore
aumentando di molto le
temperature in città e rendendole
insopportabili per i passanti. Per
legge palazzi a sei/dieci piani si
erigono nelle prime tre file a
ridosso dei grandi boulevard che
vengono costruiti per aiutare la
viabilità, ma che tagliano a metà
interi quartieri. Non ci sono
parcheggi sulle nuove ampie strade
perché lo Stato concede in
costruzione spazi ristretti
(normalmente 400 m2 quando un
vecchio edificio viene raso al
suolo). Così i costruttori
ottimizzano la cubatura a
disposizione costruendo quasi a
ridosso del terreno limitrofo e
riducendo al minimo la distanza
tra le vie e i palazzi.
I nuovi stabili di cemento e vetro
hanno parzialmente rimpiazzato le
baraccopoli metropolitane ma
senza rispettare la storia del
territorio e lo stile africano di vivere
in estensione più che in altezza. Il
tipo di piano urbanistico
impiegato, sradica completamente
le regole di convivenza pacifiche tra
il ricco e il povero che per quasi un
secolo hanno caratterizzato la vita
ad Addis Abeba, alimentando
tensioni e delinquenza. Entrambi
erano figure ben integrate nel
quartiere, si conoscevano a vicenda
permettendo quel controllo sociale
che riduceva al minimo i casi di
teppismo. Le disparità esistevano
ma non erano così marcate. Spesso
i meno fortunati/e andavano a
lavorare nelle case delle famiglie
più agiate come guardiani,
giardinieri, portieri, donne delle
pulizie. Oggi si assiste al sorgere di
veri e propri compound per ricchi
sparsi a macchia di leopardo nella
città, dove ogni casa è recintata con
filo spinato e con uomini di
sorveglianza privati. Tutto un
modus vivendi è stato cancellato
con lo smantellamento di molti
quartieri. La gente è stata rilocata
nei sobborghi periferici della
capitale con indennizzi ridicoli,
dove vivono in condomini e
devono percorrere più di 50 km al
giorno per andare a lavorare. Molte
famiglie per far fronte alle spese
condividono lo stesso
appartamento e gli stessi bagni, a
discapito di tutte le norme
igeniche. Le tradizionali case etiopi
sono a un solo livello, dotate di un
forno esterno dove le donne
cucinano a legna, a carbone o a
kerosene! Riversare queste
abitudini in uno spazio ridotto
quale quello di un condominio è
pericoloso sia per la salute che per
la sicurezza.
Un altro modo del governo
etiope per attrarre capitali stranieri
è stato incentivare la voglia di molti
espatriati a investire i propri
risparmi nella terra d’origine. Ma la
nuova borghesia etiope, soprattutto
quella cresciuta in America, ha
perso completamente gli stili di vita
africani. Ciò è particolarmente
evidente nella seconda e terza
generazione che, al rientro in
Etiopia, non ne conosce la storia e
la cultura, rifiutandone persino la
dieta culinaria, come il kitfo, carne
macinata cruda speziata con
berberé piccante, sostituito da
hamburger abbrustoliti del
McDonald. Questa perdita
dell’eredità culturale fa credere
all’emigrato di poter mettere in
pratica una filosofia economica
nuova, senza rendersi conto delle
conseguenze negative e
dell’impatto ambientale che può
avere in un paese quale l’Etiopia.
Ciò è particolarmente visibile nelle
vicinanze della capitale, dove
migliaia di ettari sono stati dati in
concessione alle multinazionali
pronte a investire nel paese. Alle
porte di Addis Abeba si trovano
fabbriche cinesi che si estendono
per chilometri e chilometri
quadrati. Ma non sono gli unici,
anche olandesi, francesi, inglesi e
russi puntano sul continente
emergente e sulle normative molto
accomodanti dei governi africani.
Il progresso deve andare avanti,
ma non può esistere un modello
universale valido per tutti e per
tutte le aree geografiche del
pianeta. Nessuno è contro il
miglioramento delle condizioni di
vita dell’essere umano, ma le
ridondanti prediche per proteggere
la cultura e la tradizione di un
popolo vengono sempre lasciate
inascoltate. L’Etiopia, come tutto il
continente africano, si trova
davanti ad una sfida che segnerà in
maniera irreversibile il cammino
del paese: quella di non seguire gli
stessi errori commessi dai paesi
industrializzati. Nel secolo scorso,
spesso l’Occidente ha inseguito
uno sviluppo insensato senza
curarsi dello smantellamento
urbano e della devastazione sociale
e ambientale che poteva causare e
di cui si pagano ancora le
conseguenze. Sarà importante
seguire un percorso che riesca a
rispettare l’identità culturale del
paese, anche se al momento ad
Addis Abeba sembra accadere il
contrario. Purtroppo è l’eredità del
colonialismo. Per quanto gli stati
africani se ne vogliano affrancare,
non hanno altri modelli di
riferimento se non quelli
occidentali, con tutta una serie di
errori che tristemente sembrano
ripercorrere. Forse la nuova
generazione ha più prospettive di
riuscire ad estirpare questo pesante
retaggio, ma dovrà evitare di
rompere troppo bruscamente con
le tradizioni del passato, per non
fare la fine della Cina, dove
mangiare al McDonald è come
andare a un ristorante di lusso!
(10)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
ARTI ORIENTALI
LASCIARE IL CORPO LAVORARE
ATTRAVERSO IL PROPRIO INVOLONTARIO
●Il pensiero del Maestro Itsuo
Tsuda è ampiamente espresso
nei suoi 9 libri. Ce ne può
consigliare uno in particolare?
Sì, tutti.
Intervista a Régis Soavi Sensei,
maestro di Aikido che da oltre
trent’anni fa conoscere il «Katsugen
undo», pratica giapponese che ci fa
ritrovare le capacità naturali
di MANOLA DI PASQUALE*
●●●Oggi molte persone con
idee politiche diverse o anche
prive di una idea politica definita,
si preoccupano di come i loro
comportamenti individuali
possono influire sull'ambiente:
acquistare prodotti biologici e a
«km-zero», riciclare meglio i
rifiuti, scegliere fornitori di servizi
più rispettosi dell'ambiente,
ridurre il consumo energetico,
ecc. A livello di dibattito politico
comunque, la retorica ecologista
funziona sempre, anche in tempo
di crisi.
In ogni caso, l'attenzione
collettiva verso le condizioni e la
qualità della terra, dell'aria e
dell'acqua, per diverse ragioni,
che sia per senso di
responsabilità o a volte,
semplicemente per business, è
alta. Ci si preoccupa delle
sostanze con cui tutti gli esseri
viventi entrano in contatto:
piante, animali ed esseri umani,
siano queste nutritive, medicinali
o tossiche. Oltre agli esperti che
siano ecologisti, naturalisti,
veterinari, medici, molte sono le
persone che si interrogano su
come e in che misura tutto ciò
abbia un impatto sul nostro
corpo e le sue capacità di
reazione e di adattabilità.
Ne parliamo con Régis Soavi,
maestro di Aikido che, da oltre
trenta anni, attraverso stage e
conferenze fa conoscere il
Katsugen Undo (una pratica
messa a punto in Giappone da
Haruchika Noguchi),
continuando il lavoro del suo
maestro Itsuo Tsuda che per
primo lo aveva proposto in
Europa a partire dagli anni 70.
●Lei insegna ormai da più di
trent'anni Aikido e Katsugen
undo e sicuramente il meno
conosciuto è il secondo. Ci può
dire in poche parole di che cosa
si tratta? Che cos'è il Katsugen
undo?
È una maniera di ritrovare
l'istinto naturale del corpo. È un
esercizio, una ginnastica,
dell'involontario che si fa per
ritrovare le capacità naturali.
Normalmente nessuno dovrebbe
Per un’ecologia
del corpo umano
ha fatto il legame tra queste due
vie.
fare il Katsugen undo, nessuno,
assolutamente nessuno. Ma
siccome i corpi non funzionano
più in modo normale, ora
abbiamo bisogno di ritrovare le
capacità che abbiamo perso. È
per questo che il maestro
Haruchika Noguchi ha messo a
punto qualche esercizio che
permette al sistema involontario
di attivarsi ed agire di nuovo nei
corpi, cosicché i corpi possano
regolarsi da soli.
●C'è un rapporto tra il
Katsugen undo e l'Aikido?
Sono due vie diverse, ma si può
dire che tutte le vie normalmente
dovrebbero andare verso la stessa
cosa. Non avrei mai potuto
praticare l'Aikido come lo pratico
adesso, se non avessi conosciuto
e praticato il Katsugen undo.
Praticare Katsugen undo significa
lasciare il corpo lavorare
attraverso il proprio involontario
e così il corpo si normalizza e
ritrova le capacità innate, fisiche
e psichiche. Ho conosciuto
queste due pratiche, Aikido e
Katsugen undo, attraverso il mio
Maestro Itsuo Tsuda ed è lui che
●Il maestro Itsuo Tsuda invece
del termine Aikido usava
l'espressione «Pratica
respiratoria del maestro
Ueshiba». Perché questo nome?
Soprattutto perché il termine
Aikido è diventato un «marque
déposé» e poi lui preferiva parlare
di respirazione. L'Aikido adesso è
soprattutto visto come un'arte di
lotta o di difesa contro un
avversario. Per il Maestro Tsuda
la maniera di praticare l'Aikido, e
quindi la maniera di oggi di
parlare dell'Aikido, non è ciò che
lui aveva sentito dal maestro
Ueshiba. Aveva sentito qualcosa
di molto diverso, più vicino alla
respirazione, ovvero il
movimento del ki. Per questo
non voleva più usare il termine
Aikido, preferiva parlare di
respirazione. Parlava sempre di
Ka e Mi, inspirazione ed
espirazione, parlava di unione e
di fusione più che di lotta l'uno
contro l'altro o di difesa
personale; è dunque per questo
che il tipo di Aikido che faceva
era molto diverso da tutto quello
che avevo visto fino al momento
in cui l'ho incontrato. All'epoca
ero iscritto alle federazioni, in
Francia. Ho conosciuto diversi
maestri ed alcuni di quelli che ho
incrociato, come ad esempio i
Maestri Yamaguchi e Shirata,
erano molto vicini a quello che
faceva lui. Probabilmente ce ne
sono altri che non conosco, che
non ho mai incontrato. Ma le
scuole di Aikido adesso sono
sempre più delle scuole di arti di
lotta marziale ed invece il
Maestro Tsuda seguiva una via
molto diversa. Parlava spesso di
come il Maestro Morihei Ueshiba
faceva Misogi: penso quindi che
sia per questo che lo chiamava
«Arte della Respirazione» ed ha
anche chiamato la propria scuola
«Scuola della Respirazione».
●Il suo Maestro, Itsuo Tsuda,
parla di una filosofia pratica.
Ci può spiegare cosa significa?
In occidente le filosofie sono
sempre delle cose pensate, uno
pensa e scrive. «Io penso dunque
sono», questa è la filosofia. La
filosofia di cui parla Itsuo Tsuda è
basata veramente su di una
pratica, su una pratica del vuoto
mentale. Da un certo punto di
vista si potrebbe dire che sia
piuttosto una non filosofia, ma
non esiste una non filosofia. Il
maestro Tsuda parla di cose
pratiche, per lui non è più
pensare, e poi fare. Non fare, non
filosofare e non pensare non vuol
dire essere decerebrato. C'è
un'unione tra il pensiero e il fatto
di fare, non c'è più separazione: è
la stessa cosa, come nello Zen.
Una filosofia pratica non è
separata dal corpo, da tutto ciò
che c'è intorno, non è una
filosofia che si inventa. Non è
una filosofia astratta, che
raggiunge solo la testa.
●Quanto ha contato per lei il
contatto diretto con il suo
Maestro Itsuo Tsuda, che a sua
volta è stato allievo diretto dei
Maestri Morihei Ueshiba e
Haruchika Noguchi?
È stato essenziale. È l'essenza
perché attraverso di lui, il mio
Maestro Itsuo Tsuda, si
potevano sentire H. Noguchi e
M. Ueshiba. Si sentivano le cose
nel non dire, nel non fare, nello
sguardo, nei gesti. La presenza di
un Maestro è importante fin nei
suoi silenzi. Ciò che poteva
insegnare, lui lo ha fatto, ma la
cosa più importante era la sua
presenza e quello che noi come
allievi potevamo sentire
attraverso ciò che emanava e che
si trasmetteva tutto intorno a lui,
qualcosa che si sentiva, che... si
respirava.
●Lei è stato l'ispiratore, il
creatore della Scuola Itsuo
Tsuda. Che cosa è esattamente
questa Scuola?
La Scuola Itsuo Tsuda è stata
creata per far conoscere la
filosofia pratica del Maestro Itsuo
Tsuda e per permettere alle
persone interessate da questa via
di praticare l'Aikido e il Katsugen
undo così come sono stati
trasmessi dal Maestro Tsuda.
Questa Scuola riunisce degli
individui i quali, nella maggior
parte dei casi, hanno creato delle
associazioni indipendenti che
hanno come sede dei dojo. Ad
oggi ve ne sono a Roma, Milano,
Ancona, Torino, Amsterdam,
Parigi, Tolosa e Mas d'Azil
(Francia). Queste associazioni
collaborano a diversi progetti
della Scuola Itsuo Tsuda, come
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
(11)
organizzare stage, conferenze
pubbliche, esposizioni, scrivere
articoli o pubblicazioni, ecc. Il
mio rapporto di insegnamento
con alcune di queste associazioni
dura da oltre 30 anni.
●La filosofia pratica di cui
abbiamo parlato fino ad ora
viene da maestri orientali,
secondo lei c'è una possibilità
per noi occidentali di
comprendere qualcosa di così
specifico che viene dall'oriente?
Assolutamente! Gli esseri umani
sono esseri umani che vengano
dall'oriente o dall'occidente, dal
sud o dal nord, sono sempre
esseri umani. È vero che in
occidente noi, nelle società
iperindustrializzate, abbiamo
perso qualcosa di primordiale, è
per questo che ci giriamo verso
l'oriente, c'è anche chi si gira
verso il sud o verso il nord o
verso gli Eschimesi, per ritrovare
delle cose che comunque sono
prima di tutto umane. Noi
abbiamo trovato questa filosofia
pratica: non è difficile da
imparare, in realtà non c'è niente
da imparare. Lasciare il corpo
fare ciò di cui ha bisogno: è una
pratica semplice, è di una
semplicità straordinaria. Venite
un po' a provare durante uno dei
nostri stage... Vedrete!
«Ho conosciuto
queste due
pratiche, Aikido
e Katsugen undo,
attraverso il mio
Maestro Itsuo
Tsuda ed è lui che
ha fatto il legame
tra queste due vie»
●È stato Tsuda che ha fatto per
primo il passaggio tra oriente e
occidente?
Bodidarma si è girato verso
l'oriente e Tsuda verso
l'occidente: ha reso così possibile
capire delle cose che all'inizio
potevano sembrare esoteriche,
lui le ha rese exoteriche. I libri di
Itsuo Tsuda (si possono leggere
anche a dieci anni) hanno diversi
livelli di comprensione. La sua
grande capacità è stata quella di
rendere accessibili alla mentalità
occidentale concetti facilmente
comprensibili da un orientale,
perché fanno parte della sua
cultura, o almeno ne facevano
parte prima
dell'occidentalizzazione
dell'oriente.
●Si sente parlare ogni giorno di
ecologia, di stili di vita
ecologici, di materiali
ecocompatibili, di cibi naturali,
di medicine naturali, di come e
cosa dovremmo e potremmo
fare per salvare il nostro
pianeta. Lei ha parlato in una
recente conferenza di ecologia
del corpo umano. Che cosa
intende?
Prima vorrei definire di cosa si
parla quando si parla di ecologia:
per esempio quando si parla
dell'agricoltura, si fanno pesanti
interventi sulla terra per uccidere
gli insetti. Ma rispettare la natura
vuol dire non intervenire sulle
manifestazioni naturali della
terra: per esempio l'esperienza
che Masanobu Fukuoka ha
descritto in La rivoluzione del filo
di paglia è interessante dal punto
di vista dell'ecologia e per quanto
riguarda il corpo è la stessa cosa:
tutti oggi vogliono assolutamente
intervenire sul corpo, su tutte le
fasi, dall'inizio alla fine.
Dall'inizio, quando l'essere
umano nasce, fino a quando
muore. Tra questi due momenti
ci sono interventi di tutti i tipi
che rendono le persone uniformi
o che sopprimono tutte le
risposte che dà il corpo. Un
corpo sano è un corpo che
reagisce. Un corpo sano non ha
bisogno di niente di speciale per
reagire alle malattie, o anche
semplicemente per crescere, per
invecchiare... per invecchiare
normalmente. Dunque l'ecologia
umana è rispettare il corpo del
neonato, del bambino, dei
giovani, dell'adulto, delle persone
anziane, ed è lasciare la
possibilità ai corpi di reagire. È
questa l'ecologia umana. Adesso
tutti i corpi sono completamente
imbottiti di medicine. Vengono
imbottiti con tante cose, non
solamente medicine, ma anche
cibo, che è pieno di sostanze
chimiche. Dunque i corpi non
hanno più niente di naturale.
Ritrovare la natura del corpo vuol
dire anche eliminare tutti i
prodotti chimici, che sono inutili.
Dunque quando io parlo di
ecologia umana non voglio dire
solo mangiare sano, ma anche
ritrovare la capacità umana di
sentire, di prendere le cose di cui
si ha bisogno senza esagerazione
LE BIOGRAFIE
RÉGIS SOAVI
Durante la sua formazione da
professionista nelle federazioni di
Aikido, Régis Soavi incontra il Maestro
Itsuo Tsuda e segue il suo insegnamento
per dieci anni. L'Aikido del M˚ Tsuda
corrisponde molto di più a quello che
cerca e si orienta definitivamente in
questa direzione verso gli anni '80. Si
dedica da più di trenta anni all'Aikido e
al Katsugen Undo insegnando tutte le
mattine al dojo Tenshin di Parigi.
Conduce stage regolari nei dojo che
sono riuniti nella Scuola Itsuo Tsuda, a
Parigi, Tolosa, Milano, Roma,
Amsterdam. Conferenziere durante gli
stage, è chiamato anche in altre
occasioni a tenere delle conferenze
pubbliche.
e solo quelle cose di cui si ha
bisogno. Così i corpi possono
ritrovare la capacità di dare le
risposte di cui hanno bisogno e
di vivere normalmente.
●Il filosofo tedesco dello scorso
secolo Hans Jonas scrive in
«Sull'orlo dell'abisso»: «Siamo
diventati più pericolosi per la
natura di quanto la natura sia
mai stata per noi». Lei è
d'accordo?
In un certo senso sì, ma noi
facciamo parte della natura,
dunque non c'è una separazione.
ITSUO TSUDA
Itsuo Tsuda, nato nel 1914, arriva in
Francia nel 1934 e compie i suoi studi
con Marcel Granet e Marcel Mauss fino
al 1940, anno del suo ritorno in
Giappone. Dopo il 1950 si interessa agli
aspetti culturali del Giappone, studia la
recitazione del Nô con il M˚Hosada, il
Seitai con il M˚ Noguchi e l'Aikido con il
M˚ Ueshiba. Itsuo Tsuda torna in
Europa nel 1970 per diffondere il
Katsugen undo (movimento
rigeneratore) e le sue idee sul Ki. La sua
morte è avvenuta nel 1984, ma la
filosofia pratica e l'insegnamento che ha
trasmesso attraverso le sue opere e il
suo lavoro continuano a vivere in
Europa nei dojo della Scuola Itsuo
Tsuda.
www.scuolaitsuotsuda.org
Su questo punto non sono
d'accordo con l'interpretazione
che si fa di ciò che ha scritto
Jonas: detto così sembra che
faccia una separazione tra
l'uomo e la natura, ma l'essere
umano fa parte della natura.
Dunque è come se noi come
natura lottassimo contro noi
come esseri umani. Adesso
effettivamente siamo più
pericolosi, perché c'è una parte
negativa della nostra natura che
è diventata assolutamente
pericolosa. Lui parla della natura
come se fosse una parte esterna,
ma non si può definire la cosa
così, è una questione dialettica.
L'essere umano è completamente
nella natura, senza la natura non
esisterebbe e la natura senza
l'essere umano sarebbe qualcosa
d'altro, qualcosa che noi non
possiamo conoscere. Dunque se
una parte della natura tra
virgolette è stata pericolosa per
noi, per esempio animali selvatici,
piante velenose, ecc. ...
effettivamente adesso noi siamo
più che pericolosi: distruggiamo la
natura, distruggiamo tutto, persino
l'essere umano. Forse la natura
sopravviverà all'essere umano, io
lo spero, altrimenti sarebbe
terribile. Stiamo distruggendo più
l'essere umano che la natura
stessa. La natura comunque
sopravviverà in un'altra maniera
senza l'essere umano, senza
animali, non so. Anche i dinosauri
si sono estinti... e forse all'uomo
accadrà la stessa cosa.
●Potremmo parlare di una
cultura ecologica del corpo
umano da trasmettere?
Io non parlo di una cultura
ecologica da trasmettere, ma di
ritrovare le capacità naturali
dell'essere umano, qualcosa che
abbiamo dimenticato, qualcosa
che non sentiamo più, ma che c'è
ancora. Non è una cultura nuova,
è qualcosa da ritrovare, è
qualcosa che abbiamo
dimenticato, è qualcosa che non
conosciamo più. Il primo passo
sarebbe già smettere di pensare
troppo, e ritrovare le capacità
naturali dell'essere umano.
●Ci sono momenti nella vita di
ogni individuo che sono
fondamentali per l'essere
umano?
Sì, la nascita. Quando uno nasce
è fondamentale e poi quando
uno muore, ma si può dire che
quello che c'è tra questi due
momenti non sia fondamentale?
Io che sono tra i due penso che
sia fondamentale. Un altro
momento importante è quello
della malattia.
●La malattia si può affrontare
in modo «ecologico»?
Deve fare questo tipo di
domanda agli ecologisti. Io non
sono un ecologista, dunque io
non penso in termini di
«affrontare la malattia», forse gli
ecologisti la affrontano e usano
metodi dolci o altre cose, non
so...
Quello che posso dire è che io
non vado contro la malattia, non
affronto la malattia. La malattia è
una funzione naturale del corpo,
soprattutto se si pensa alla
malattia in termini di sintomi. La
gente pensa alla malattia come
qualcosa che va verso la morte,
sempre. Io direi che non devo
affrontare la malattia, io vivo la
malattia, per me è una maniera
di rigenerarsi, per trovare il modo
di vivere ancora. E poi
evidentemente c'è un momento
in cui non si vive più. La malattia
non è una cosa da affrontare o
contro cui lottare, è qualcosa da
attraversare.
*omotossicologa
Al centro, in alto e nel secondo taglio, il
maestro Régis Soavi in azione nel centro
(dojo) di Roma.
In basso due esempi di combattimento di
Aikido tradizionale. A pag 11, al centro, il
maestro Itsuo Tsuda e, sopra, una sua
calligrafia che indica il Ki, la espirazione
concentrata
(12)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
PAGINE ■ È USCITO IL VOLUME «FREAK OUT! LA MIA VITA CON FRANK ZAPPA»
20 anni dalla parte
di Frank Zappa
Il 4 dicembre 1993 moriva Frank Zappa, uno dei musicisti più completi del Novecento, capace di passare
dal rock alla musica concreta, dal jazz al pop arguto di pezzi come Camarillo Brillo. Frank e il resto del
mondo. Un libro illuminante, edito da Arcana, scritto da un punto di vista del tutto esterno all'artista che
però diventa con il passare dei capitoli centrale per capire il personaggio, la sua avversione per censure,
modi e stili dominanti. La storia di una dattilografa «scioccata» dal disco Absolutely Free che si trasferisce
con Zappa a Hollywood, conosce una teoria di artisti-colleghi, gestisce il fan club, si prende cura delle
GTO's. E si lega per sempre al maestro. Eccolo Zappa, maestro isolato, spesso asociale, eppure così
centrale per tanti suoni e spostamenti culturali del Novecento. Si ringrazia l’editore per aver concesso gli
estratti che seguono.
di PAULINE BUTCHER*
Il giorno in cui conobbi Frank
Zappa iniziò come ogni altro dei
cinque anni precedenti. Avessi
saputo quanto sarebbe stato
epocale, mi sarei agganciata i
pendenti alle orecchie con più cura,
avrei attraversato Londra più alla
svelta, e avrei risposto al telefono in
ufficio con più solerzia. Ma in quel
piovoso e piatto pomeriggio
d’agosto del 1967, non potevo certo
immaginarlo. Guadagnavo 10
scellini l’ora in una copisteria di
Dover Street. Non c’erano grandi
macchinari e orde di uomini, bensì
un grosso ufficio con macchine da
scrivere Selectric e venti ragazze
sedute in quadrati da quattro.
Dattilografavamo menù,
programmi di sala, pubblicità,
sceneggiature, e talora anche
romanzi di scrittori pieni di
speranza. In fondo alla stanza,
dietro a un vetro, due ragazzi
azionavano delle enormi
fotocopiatrici. Noi ragazze non
eravamo però semplici dattilografe.
Niente affatto. Ci affrettavamo da
un capo all’altro della città con
macchine da scrivere portatili e
taccuini, tra hotel e case private. I
nostri clienti potevano anche essere
persone molto importanti. Solo una
settimana prima, avevo lavorato per
il nipote dell’Imperatore d’Etiopia,
Hailé Selassié. Quando era crollato
ubriaco nel water, avevo chiamato
il portiere dell’hotel, pensando che
fosse morto. E avevo lavorato anche
con Margaret, duchessa di Argyll,
che era tremendamente affranta
per via del suo scandaloso divorzio.
Alcune foto che la ritraevano nuda
con una serie di aristocratici erano
state spiattellate da vari tabloid. (...)
La Forum Secretarial Services, un
posto chiassoso, quasi assordante,
apparteneva a Miss Bee e a quel
piccoletto di suo marito, il dottor
Lederer, entrambi scappati dalla
Rivoluzione ungherese nel 1956. (...)
Quel giorno, il 16 agosto, Miss Bee
era dal parrucchiere, perciò risposi
io al telefono. «Royal Garden
Hotel», mi disse il portiere. «Un
nostro cliente vuole una
dattilografa per le sei e mezza».
«Attenda». Misi una mano sulla
cornetta e cercai una volontaria, ma
le ragazze scossero il capo. Avevo
preso io la telefonata, pertanto ero
io a dover andare. (...) «È per il
signor Zappa. Stanza 412». Il signor
Zappa. Che nome noioso! A volte
lavoravamo per stelle del cinema
come Gregory Peck (e stranamente
avevo trovato suo figlio, un
teenager, più seducente di lui). Tra
gli altri clienti celebri avevo avuto il
mimo Marcel Marceau e degli
affascinanti politici israeliani o di
Buenos Aires, ma la maggior parte
della clientela era formata da alti
dirigenti di multinazionali, e
credevo che il signor Zappa fosse
uno di loro. (...) Trotterellai lungo il
corridoio fino alla stanza 412,
appoggiai le borse sul pavimento, e
bussai. (...) Sulla scrivania, mi
aspettava un registratore a bobine.
Mentre tiravo fuori la macchina da
scrivere, il signor Zappa mi disse:
«Voglio che tu dattiloscriva i testi
dei brani nel nastro. Mi servono per
domani». Premette play per
accertarsi che il registratore
funzionasse. Ne uscirono strani
rumori. Mi aspettava una lunga
notte. (...) Gli chiesi: «Dovrei
conoscerla? È famoso?». Sentii delle
risatine dei tizi nell’altra stanza. «A
Londra ci conoscono in pochi», mi
rispose con umiltà. «Questo l’hai
mai visto?». Mi porse la copertina di
un Lp, Freak Out!; cinque uomini in
una foto colorata in modo confuso.
Quello in mezzo, malgrado la
distorsione dell’immagine, era
senza dubbio il signor Zappa.
«Mothers of Invention?», lessi ad
alta voce. Strano nome per una
band. «Siamo noi», mi disse. «Quelli
brutti». Cercando di essere gentile,
gli risposi: «Oh, non direi». Mi
contraddisse con un gesto. «Scelgo
tutti i membri della mia band per la
loro bruttezza. Tutti gli altri gruppi
cercano di essere belli. Noi
facciamo soldi essendo brutti, visto
che la società è proprio così,
brutta». Mi passò un secondo
album, Absolutely Free. Stavolta era
l’espressione severa del signor
Zappa a riempire la copertina,
mentre le altre Mothers spuntavano
dal basso. All’interno, una fascetta
pubblicitaria chiedeva ai fan di
inviare un dollaro in cambio dei
testi. Qui a Londra, l’International
Times, un giornale underground
che non avevo mai letto, aveva
accettato di pubblicarli
gratuitamente. Il mio compito era
quello di trascriverli.
Mentre il signor Zappa mi
chiedeva se ero comoda e mi
portava il caffè - gesti gentili quasi
senza precedenti tra i miei clienti premetti play, e partì uno
sproloquio incomprensibile.
Mentre stava uscendo, lo chiamai:
«Signor Zappa!». Tornò indietro.
«Ehm, sì?». «Questa lingua è inglese?».
Sorrise sarcastico, arricciando un
angolo della bocca. Era bello che
capisse il mio umorismo. Gli risposi
a mia volta sorridendo. Mi diede
un’ultima occhiata e poi raggiunse
gli altri. Lo fissai mentre se ne
andava, desiderando che rimanesse
ancora a parlare con me. Il primo
brano si intitolava Plastic People.
Gente di plastica? La voce cool e
profonda del signor Zappa
presentava il presidente degli Stati
Scelgo i membri
della mia band
per la loro
bruttezza.
Tutti gli altri
gruppi cercano
di essere belli.
Noi facciamo soldi
essendo brutti
Uniti, e io incominciai a
dattilografare. Ma che cosa stava
dicendo? Era «he had sex» o «he’s
been sick»? Nessuna delle due
aveva senso. Continuai a scrivere.
Seguirono altri sproloqui, e dovetti
riascoltarli in continuazione. Perché
non poteva trattarsi dei Beatles o
dei Rolling Stones, con testi facili e
parole che capivo? Tenni duro. Il
brano seguente, The Duke of
Prunes, mi confuse ulteriormente.
Era divertente e satirico, e mi fece
sorridere, ma perché quel canto
lamentoso e i continui cambi di
ritmo? I suoni discordanti mi
tormentavano le orecchie. Poi,
fortunatamente, nel bel mezzo
arrivò un lungo segmento jazzy, da
big band, e in men che non si dica
cominciai a tenere il tempo col
piede e mi appoggiai alla sedia per
lasciarmi avvolgere dal suono. Mi
piacevano. Quell’uomo aveva
talento. Dalla porta, potevo sentire
brindisi e chiacchiere a bassa voce.
(...) Cominciò a raccontarmi della
sua istruzione, di come suo padre
fosse passato da un lavoro all’altro,
facendo trasferire la sua famiglia in
Maryland, in Florida e in California.
«Non mi piaceva affatto», mi disse.
«A quindici anni, ero già stato in sei
diverse scuole superiori. Hai idea di
che effetto abbia? Non è divertente
quando soffri di acne. Ti rende
davvero difficile farti degli amici».
Nessun altro uomo per il quale
avessi lavorato mi aveva parlato in
modo tanto intimo. Mi fece sentire
importante. Non mi illudevo di
essere speciale, ma sembrava che
gli piacessi. (...)
Frank sobbalzava sul letto a
bocca aperta, battendosi le mani
sulle ginocchia e ridendo tanto
forte da far tacere il mormorio nella
stanza accanto. «Oh, cielo, fa più
ridere dell’originale». Sentendomi
incoraggiata, gli dissi: «Non ho
capito tutto, così l’ho inventato».
«Una bambolina fa la cacca
puzzolente? («A baby dool makes a
filthy poo»)». «Come dovrebbe
essere?». «Una cassa di colla per
aeroplani («A case of airplane
glue»)».«Ah!». Sfogliai le pagine per
cercare il punto esatto, e
timidamente dissi: «Immagino che
ce ne siano altre», ma era già
andato avanti con la lettura.
«Stando a quel che hai fatto,
dovresti scrivere anche tu». (...) «Ma
se lo facessi, sarei meno volgare».
«Volgare?». «Be’, Brown Shoes Don’t
Make It è piuttosto forte per un
disco». «Lo pensi davvero? È una
delle nostre canzoni più popolari».
Risi. «Probabilmente perché è così
volgare».
Mi guardò con indulgenza:
«Questo è il tuo punto di vista,
Pauline, e mi dice più di te che della
canzone». Un po’ colpita, gli dissi
con tutta l’autorità possibile: «Non
posso essere stata l’unica a dirlo.
Devi ammetterlo, sono testi ben
poco edificanti. Se non sono
volgari, sono quantomeno
licenziosi». «Non per il nostro
pubblico». Mi aveva contraddetto,
ma ero determinata a non
indietreggiare. Scorsi le pagine per
trovare quella giusta. Lessi ad alta
voce dei versi su una tredicenne e
un uomo di mezza età con le scarpe
marroni. Fanno sesso sul prato
della Casa Bianca e giocano a
«padre e figlia». Cercai di scorgere
una reazione sul viso di Frank, ma
mi fissava inespressivo. «Non è
carino», gli dissi. «Non è carino?».
«No». Il suo sorriso scomparve. «Se
vuoi sentire canzoncine carine con
parole insignificanti, ci sono un
mucchio di persone che fanno al
caso tuo. Non ho alcuna intenzione
di scrivere roba del genere. Non c’è
motivo di affollare quel settore».
Non volevo perdere la sua
benevolenza, quindi acconsentii:
«Immagino che tu venda
abbastanza dischi, e perciò non
debba preoccuparti di quel che
pensa la gente». «Vendiamo
abbastanza. Abbiamo un buon
pubblico di nicchia, malgrado le
radio si rifiutino di mandarci in
onda, e malgrado i tentativi della
nostra casa discografica». «Di certo
sei in affari per fare soldi, come
tutti. Perché ti saboti da solo
scrivendo canzoni che i dj si
rifiutano di suonare?». Non mi
rispose e si fece serio, pensoso.
Forse avrei dovuto fermarmi, ma
d’impeto continuai a pressarlo:
«Forse i tuoi fan sono più grandi e
navigati di me». «Affatto». «Quanti
anni hanno?». Annoiato, mi rispose:
«Tra i tredici e i quarantacinque.
All’incirca». «Tredici! Così giovani!
Be’, se mi permetti, non penso che i
tredicenni debbano sentire cose
simili». Sembravo mia madre, ma
non potevo farci niente, le parole
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
(13)
Alcune immagini di Frank Zappa
e la copertina del libro di Pauline Butcher.
Qui accanto l’autrice del libro accanto
all’artista (C) Ed Caraeff
Se vuoi sentire
canzoncine carine
con parole
insignificanti,
ci sono un mucchio
di persone
che fanno al caso
tuo. Non ho alcuna
intenzione di farlo
venivano da sole. «Oh, non so», mi
disse. «Dovresti discuterne con un
tredicenne. Se li fa felici, devono
pur trovare qualcuno di loro
gradimento. Per quel che so, non
hanno niente da obiettare».
«Ma potrebbero obiettare i loro
genitori». Mi contraddisse con un
gesto. «Chi compra i nostri dischi
non si cura di quel che pensano i
genitori. A quanto pare
prosperiamo dove c’è contrasto
generazionale, perché abbiamo la
tendenza a rendere tutto più
animato». Proseguii: «Corri il rischio
di corrompere le menti di
un’intera generazione». «Lo pensi
davvero?». «Sì». Scosse il capo.
«Rifletti. La maggior parte delle
canzoni che trasmettono in radio
parla d’amore. In radio non
sentiamo altro che messaggi
d’amore, pertanto se i testi
influenzassero davvero la gente,
quale sarebbe il risultato? Un
mondo di fiaba. Ma non è così».
«Ma la maggior parte delle persone
crede davvero nell’amore, non è
vero? Pertanto puoi dare la colpa
alle canzoni, perché forse
influenzano davvero le persone».
Mi studiò con aria interrogativa, tra
le capriole del fumo. Perlomeno
non mi stava cacciando via.
Rincuorata, insistetti: «Questo
verso». Indicai un altro segmento
della canzone che parlava di
scopare sul prato della Casa Bianca.
Lessi ad alta voce: «“Ricoprire mia
figlia di cioccolata e farmela di
nuovo”. Onestamente, credo che
sia immorale». «Come lo leggi tu,
col tuo accento, lo fai sembrare
piuttosto strano». Il tiremmolla
proseguì: più lo criticavo, più
sembrava divertirsi. Mi sentivo
inebriata, ogni sfida mi incitava a
vedere quanto in là potessi
spingermi. «Stai insinuando
metaforicamente che il presidente
degli Stati Uniti, il presidente
Johnson, se la faccia con le
ragazzine?». Questo lo spinse
finalmente ad alzarsi dal letto con
un balzo, e a schiacciare il
mozzicone della sua sigaretta nel
posacenere. «No, non sto puntando
il dito contro una persona in
particolare, ma in generale, contro
gli stronzi che ci governano». Bah,
pensai, non prendendo in
considerazione le sue parole. I
politici facevano del loro meglio e
noi avremmo dovuto elogiarli.
Cambiai rotta: «Ho fatto leggere i
tuoi testi a una collega. Pensa che
questa canzone parli di incesto». Le
sue sopracciglia andarono su e giù:
«Ha le tette grandi?». Risi:
«No-o-o-o». Si mise seduto in fondo
al letto, accanto a me, e mi sentii
imbarazzata e affannata, come se
avessi corso i cento metri. Accennò
col capo al mio taccuino sul tavolo,
e con cortesia mi disse: «Scrivi quel
che ti detto». Incrociò le gambe e
poggiò un gomito sul suo
ginocchio, appoggiando la sigaretta
mentre raccoglieva i pensieri. Forse,
vista la confusione che mi avevano
causato alcuni testi, si sentiva in
dovere di dettarmi la spiegazione di
ogni brano. «Plastic People sono gli
stronzi bugiardi che governano
quasi tutti gli Stati. Vegetables sono
le persone che non hanno un ruolo
nella società e che non sono
all’altezza delle proprie
responsabilità. The Duke of Prunes
è una canzone d’amore surrealista,
e le parole “prugnami,
formaggiami” sono una
trasformazione del classico
“scopami, succhiamelo fino a
mandarmi in estasi, baby”». Non
avevo mai stenografato delle
parolacce, perciò inizialmente
esitai, aggiungendo poi le vocali in
tutta fretta per essere sicura di
capire in seguito quello che avevo
scritto. Andò avanti spedito,
evidentemente divertendosi,
mentre teneva un piede scalzo
appoggiato al ginocchio. «Brown
Shoes Don’t Make It è una canzone
su quelle persone sfortunate che
confezionano leggi e ordinanze
inique, forse inconsapevoli del fatto
che le restrizioni che impongono ai
giovani siano il risultato delle loro
frustrazioni sessuali. I vecchi
sporcaccioni non dovrebbero
guidare il vostro paese». Gli feci
segno di aspettarmi e lui fece una
pausa, mentre fissava i segni e
riccioli che la mia penna lasciava
sul foglio. «Uncle Bernie’s Farm è
una canzone che parla di brutti
giocattoli e della gente che li
costruisce. Suggerisce la possibilità
che chi compra brutti giocattoli sia
brutto come i giocattoli stessi». Gli
lanciai un’occhiata di
disapprovazione: non si salvava
nessuno? «Son of Suzy Creamcheese
è l’avvincente saga di una giovane
groupie. Agisce con lo scopo di
essere sempre in. Pertanto eccede
con la droga: si fotte la mente con
troppo Kool-Aid». Si fermò. «Sto
parlando dell’acido, Pauline, ok?».
Annuii. «E ruba la riserva del suo
ragazzo. La riserva è una scorta
segreta di droga. Mettilo tra
parentesi».
Era arrivato alla fine. Si
stiracchiò, allungando le braccia
verso l’alto. Non mi piacevano le
sue generalizzazioni, ma avevo
capito che ci voleva coraggio a
trattare certi temi, e mi piacevano il
suo approccio da uomo d’affari, la
sua intelligenza e la sua lucidità.
Anche se non fosse stato un
intellettuale, era comunque di gran
lunga più sveglio e navigato delle
popstar che avevo visto in tv. Certo,
John Lennon e Paul McCartney
sapevano tirare fuori delle risposte
brillanti quando venivano
intervistati, ma quest’uomo
emanava saggezza e cultura. Chi
l’avrebbe immaginato che quel
pagliaccio che ieri mi aveva aperto
la porta mi avrebbe dettato dei testi
in modo tanto serio e fluente.
Mentre mi preparavo a trascrivere i
miei appunti, Frank cominciò a
leggere il resto dei testi e ad
apportare correzioni. Erano le dieci
e mezzo di sera quando estrassi
l’ultimo foglio dalla macchina da
scrivere e gli porsi il conto. Mi aiutò
con la giacca e mi disse: «Tra non
molto io e alcuni del gruppo ce ne
andiamo allo Speakeasy. Ti
piacerebbe uscire con me?». Le sue
sopracciglia fecero di nuovo su e
giù, nella parodia di un’espressione
da seduttore. Cercai di nascondere
le mie emozioni, ma mi sentivo
raggiante. Aveva un harem di
donne a sua disposizione: Londra
era piena di belle ragazze. Nel foyer,
considerammo l’idea di andare con
la mia macchina, ma alla fine
scegliemmo un taxi. Mentre ci
mettevamo comodi sui larghi sedili,
gli raccontai della mia Mini. «L’ho
comprata nuova. Mi è costata più di
500 sterline, e il primo giorno, un
uomo che camminava col carretto
del latte è uscito da dietro l’angolo e
si è schiantato sulla portiera del
passeggero. Mi ha speronata!». «Un
carretto del latte?». Risi. «Sì. Non è
stato divertente». La fila si
estendeva per tutta Margaret Street,
e anche dietro l’angolo, lungo
Oxford Circus, ma qualcuno ci fece
entrare subito per le scale che
conducevano all’interno. Superato
il lungo bar in legno, ci
accomodammo al nostro tavolo in
fondo al ristorante, apparecchiato
con una tovaglia a scacchi rossi. Lì
dietro, la musica era un po’ più
clemente con le mie orecchie, ma
dovemmo comunque urlare le
nostre ordinazioni al cameriere:
whisky con ghiaccio per Frank,
whisky con acqua per me. Mentre i
miei occhi si abituavano
all’oscurità, mi accorsi che la gente
ai tavoli davanti al nostro si voltava
e si dava di gomito, facendo
attenzione a non indicarci
direttamente. (...) Mi strinse forte.
Ero rossa di emozione, ma mi
sentivo orgogliosa. Poi mi disse
all’orecchio: «Vuoi fare una cosa
veramente strana?», e prima che
potessi rispondergli cominciò a
piegare le ginocchia e a saltellare in
modo strano, come un russo. Non
ero una gran ballerina, ma
conoscevo i passi base. Non
conoscevo però passi del genere.
Era un tango? Ci trovammo guancia
a guancia, e mi fece estendere il
braccio, spostandolo su e giù.
Voleva deliberatamente
comportarsi da idiota, per essere
all’altezza della sua reputazione di
persona bizzarra? In passerella ero
abituata alle attenzioni, ma sotto
quelle luci lancinanti, rimasi
paralizzata dall’imbarazzo.
Ridacchiando e cercando di
nascondere la faccia, gli rimasi
aggrappata, mentre Frank, con uno
strano sorrisetto, accelerava il ritmo
di salti e piroette, a beneficio di un
pubblico sempre più numeroso.
Colsi delle risatine soffocate e degli
sguardi meravigliati. Il disco
finalmente sfumò, e con gran
sollievo caracollai fino al tavolo,
inebriata da tante giravolte. Ancora
con l’impermeabile addosso, Frank
si lasciò cadere accanto a me. Dal
buio emerse una figura con la
zazzera e le basette lunghe. «Frank,
Frank, è un piacere vederti, amico
mio». Chiunque fosse, si accomodò.
Frank si rivolse a me. «Pauline, Eric
Clapton. Eric, lei è Pauline
Butcher». Gli strinsi la mano, e
protesa verso di lui come
un’insegnante di musica dai modi
gentili, gli chiesi: «E tu che cosa
suoni?». I suoi occhi strisciarono
verso quelli di Frank e poi
tornarono da me. Si avvicinò e mi
disse, come fosse un segreto:
«Suono la chitarra». «Che bello», gli
dissi. Seguì un momento di silenzio
imbarazzato, mentre Frank tossiva
e Eric sprofondava nella propria
sedia. Evidentemente avevo detto la
cosa sbagliata.
Frugai in cerca di sigarette nella
mia borsa patchwork appoggiata
sul pavimento, le trovai e le spinsi
di nuovo sul fondo, sempre
restando a testa bassa. Nel
frattempo sentivo Eric che
raccontava a Frank della sua
imminente esibizione al Fillmore di
San Francisco. Frank lo mise in
guardia dai figli dei fiori: «Se la
gente cerca di mettermi delle
perline al collo, io rispondo
vaffanculo».
*Un estratto da Pauline Butcher,
«Freak Out! La mia vita con Frank
Zappa» (Arcana, pp. 380, euro
23,50) (C) Pauline Butcher. Si
ringrazia l'editore e l'autore
(14)
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
PAGINE
Nella foto grande Franco Micalizzi.
Qui sotto la copertina della sua
autobiografia «C’est la vie d’artiste»;
in basso locandine di alcuni film di cui il
compositore ha curato la colonna sonora
di FRANCO MICALIZZI*
Era il 1970 e tra i rapporti che avevo
intessuto con i produttori
cinematografici ce n’era uno
particolarmente stretto. Parlo di
Italo Zingarelli. (...) Un giorno lo
sento parlare di un film che sta per
produrre. È il solito western di
recupero, almeno così sembra. In
pratica si useranno dei set già
utilizzati per altri film più
importanti, non si andrà in Spagna
per gli esterni, e saranno scritturati
attori poco costosi. Mi sembrava
l’occasione perfetta per un
debuttante come me. Iniziai a fare
delle sommesse e ripetute richieste a
Italo che, sornione, volle farmi un
po’ sospirare, ma alla fine mi diede
l’incarico. Era il primo vero impegno
ufficiale che ottenevo per scrivere il
commento di un... piccolo film. Si
diceva di quanti produttori avessero
tenuto a lungo nei loro cassetti la
sceneggiatura di questo western
anomalo. Già: anomalo, perché, pur
contenendo molte scene d’azione,
non prevedeva facce insanguinate o
morti violente, com’era la norma dei
western di Sergio Leone, e inoltre i
dialoghi erano densi di un humour
popolare ma non banale; chi poteva
credere in un film del genere?
L’ideatore dell’originalissima storia e
regista del film era Enzo Barboni (in
arte E. B. Clucher), già ottimo
direttore della fotografia di film
impegnati e film commerciali di
successo. Anche lui alla sua prima
esperienza come regista. (...) La
scena iniziale del film, che mostra il
protagonista mangiare con gran
gusto un tegame di fagioli e che
predispone subito lo spettatore al
divertimento, Barboni l’aveva scritta
pensando, giustamente, all’atavica
fame che gli italiani hanno ancora
nella loro memoria inconscia. Ne
sapeva qualcosa lui che nella sua
umana esperienza era sopravvissuto
alla disastrosa ritirata in Russia
dell’esercito italiano di cui aveva
fatto parte, tra gelo, fame e
disperazione. Insomma il film che,
forse lo avrete già capito, si intitolava
Lo chiamavano Trinità, fu girato in
poche settimane tra il Tevere, la
Magliana e l’Abruzzo. I protagonisti
erano due favolosi e italianissimi
attori: Terence Hill e Bud Spencer,
Mario Girotti e Carlo Pederzoli, già
grande campione di nuoto. Io, dopo
aver letto la sceneggiatura avevo
composto un tema canzone un po’
swing, non privo di ironia e
divertimento. Il testo in inglese lo
avevo affidato a Lally Stot, un artista
di Liverpool che era venuto a Roma
anni prima con un gruppo che si
chiamava I Motowns. (...)
Stavo mettendo giù la pasta con
l’acqua che bolliva e sento partire il
tema dell’Ultima neve di primavera
con la voce di Giancarlo
Guardabassi (conduttore del noto
programma radiofonico Dischi
caldi) che l’annuncia come nuovo
disco caldo pronto per la hit parade.
Non ci credevo e anche questa volta,
poiché le grandi emozioni ci
colpiscono nel profondo e sono
incontrollabili, non riuscii a
trattenere una certa commozione,
dopo la nascita dei figli era la nascita
del successo che mi dava una
scarica di adrenalina. Il disco entrò
puntualmente in hit parade dove
rimase a lungo. (...) Il tema di Ultima
neve cominciò a viaggiare per il
mondo, ricordo che in Argentina
restò ai primissimi posti in classifica
per più di un anno e che in Brasile
divenne la sigla di una telenovela
seguitissima con molte centinaia di
puntate, si chiamava: Os gigantes e
sono ormai moltissime le versioni
discografiche sia suonate che
cantate, realizzate da molti artisti nel
mondo. (...) Nel ’75 feci un incontro
decisivo per la mia carriera.
Umberto Lenzi, affermato regista,
mi chiese di scrivere la musica di
uno dei suoi primi polizieschi con
Thomas Milian protagonista. Il film
era Il giustiziere sfida la città. Reduce
dalla prima esperienza americana
avevo cominciato a utilizzare i synth
AUTOBIOGRAFIA ■ UN ESTRATTO DAL LIBRO «C'EST LA VIE D'ARTISTE»
Franco Micalizzi,
ciak si suona.
Da Trinità al Monnezza
Autore di temi
da classifica come
«L’ultima neve
di primavera»
e di una sequela
indimenticabile
di poliziotteschi.
Anche Tarantino
lo ha omaggiato
e soprattutto il clavinet (penso di
essere stato il primo in Italia) e le
ritmiche che scrivevo per i film
d’azione erano particolarmente
moderne e trascinanti. Il tema che
avevo composto piacque a Lenzi e
anche tutto il commento andò bene.
Il film ebbe un buon successo e
inaugurò le collaborazioni con
Umberto con il quale feci poi molti
altri film sempre più del genere
poliziesco (molto imitati dagli altri
registi). I polizieschi di Lenzi
piacevano molto e mi davano la
possibilità di scrivere per gli ottoni
della big band. Ecco che nasceva lo
stile funky jazz all’italiana che tanti
ammiratori ha trovato nel mondo.
Le mie musiche appartenenti a
questo genere arrivarono persino
negli Stati Uniti dove diversi rapper
le campionarono per le loro
incisioni. È divertente pensare che il
suono e lo stile delle big band
americane che tanto mi avevano
influenzato nella mia formazione
ritornavano all’origine (gli Usa) con
le mie composizioni ed esecuzioni,
insomma, il cerchio si chiudeva.
Con Umberto Lenzi ho lavorato a
lungo e sempre con molta
soddisfazione, sostenuto dalla sua
competenza e dalla sua capacità di
valutare subito l’efficacia di un
brano musicale nel commento di
una sequenza. I principali film di
Lenzi di cui scrissi la musica sono: Il
giustiziere sfida la città, Il cinico
l’infame il violento, Roma a mano
armata, Napoli violenta, Il grande
attacco, La banda del gobbo, Da
Corleone a Brooklyn. Quello che
colpiva in questi film era la capacità
di realizzare scene anche complesse
e di grande effetto, senza disporre di
grandi mezzi. Ad esempio ricordo,
nel film Napoli violenta, le
efficacissime soggettive girate a
grande velocità dalla moto del
cattivo che doveva fare una rapina e
in brevissimo tempo presentarsi per
firmare in questura. Per questa
sequenza Umberto si servì di un
campione di motociclismo. Dopo
aver assicurata la macchina da presa
al parafango della moto gli chiese di
girare per la città a velocità
sostenuta. L’effetto nel film (anche
la musica fa la sua parte) è
eccellente. E ancora nello stesso film
c’è una sequenza che io amo molto
perché mi riporta al clima
drammatico del neorealismo, in cui
un grande mercato viene
attraversato da un sontuoso funerale
con la carrozza e i cavalli neri con i
pennacchi, seguita da un lungo
corteo. Contemporaneamente il
cattivo del film è inseguito dal
poliziotto. I due devono passare
attraverso questo vasto mercato e,
soprattutto, attraverso questo lungo
e dolente corteo. La scena è
bellissima, di un meraviglioso
realismo. In seguito Umberto mi ha
raccontato che la sequenza è stata
come dire, rubata, poiché il mercato
e il funerale erano autentici e loro,
dopo aver istruito gli attori sul da
farsi, appostati su un balcone,
avevano ripreso tutta l’azione.
Ditemi se questo non è «cinema
verità»? Restando nel genere
poliziesco, scrissi anche la musica
per film di altri registi come Marino
Girolami, Italia a mano armata e
Bruno Corbucci, Delitto
sull’autostrada, Delitto a Porta
Romana con Thomas Milian nei
panni del «Monnezza». (...) Mi ricordo
che quando cominciarono a
pubblicare su cassette Vhs i vecchi
film, avendo saputo che circolava una
copia di Lo chiamavano Trinità, andai
a cercarlo in un negozio specializzato.
Poiché non lo trovavo sugli scaffali
principali, chiesi ad una commessa
che, senza battere ciglio, mi indicò
delle mensole sul fondo del negozio:
«Vede quegli scaffali laggiù con il
cartello “trash movie”, ecco lo trova
sicuramente là». Temo che arrossii, un
po’... Che grande soddisfazione, i
western, i polizieschi e ogni altro film
di «genere» italiano, noi lo
classificavamo «trash movie». Meno
male che, come spesso accade qui in
Italia, qualcuno dall’estero ci ha fatto
sapere che i nostri «trash movie»
erano invece più che rispettabili film,
a volte addirittura geniali. Noi non lo
avevamo capito finché questo
qualcuno dagli Usa non ce l’ha
comunicato. Parlo di Quentin
Tarantino che è stato il grande
«sdoganatore». Per noi che abbiamo
lavorato molto per il cinema di
«genere» italiano è stato il momento
della rivalutazione. Senza il suo
intervento saremmo rimasti,
sicuramente, nella spazzatura. Devo,
inoltre, ringraziare Tarantino per aver
utilizzato più volte i miei temi musicali
nei suoi film. La prima volta ha scelto
il tema di Italia a mano armata e lo ha
inserito nel fantastico finale del suo
film Grindhouse-A prova di morte, il
risultato è notevole e non posso che
esserne soddisfatto. Ultimamente ha
scelto il tema di Lo chiamavano
Trinità e più esattamente la canzone
dei titoli di testa, Trinity, per il finale
del bellissimo e spettacolare film
Django Unchained vincitore di ben
due Oscar. Non posso che ringraziarlo
augurandomi che individui altri miei
temi per i suoi prossimi film. Grazie
Quentin!
* Un estratto (si ringrazia l'editore)
da Franco Micalizzi, «C'est la vie
d'artiste. I miei primi cinquant'anni
di musica» (Editori internazionali
riuniti, pp. 144, euro 15). Oltre
all'autobiografia, l'artista ha
pubblicato di recente il disco «Miele»
(New Music Company/ Goodfellas)
che rappresenta la complessità di stili
e generi che da sempre lo caratterizza
ALIAS
28 DICEMBRE 2013
(15)
ULTRASUONATI DA
STEFANO CRIPPA
LUCIANO DEL SETTE
GIANLUCA DIANA
GUIDO FESTINESE
GUIDO MICHELONE
BRIAN MORDEN
LUIGI ONORI
ROBERTO PECIOLA
FOLK
Ponente ligure,
i tesori nascosti
L'estremo Ponente d'Italia, quella
porzione di terra che è (ed è stata)
contemporaneamente montagna, mare,
terra di passo verso i cugini d'Oltralpe e
zona di forte radicamento per chi cercava
la fuga, ha dato al folk revival molte
occasioni per rivelare piccoli tesori
nascosti. Ancor più interessante, però,
che continuino anche oggi le
testimonianze, in libera declinazione fra
culture liguri d'estremo occidente, e
culture provenzali o «occitane». Al
secondo gruppo appartiene il gran lavoro
di Silvio Peron, Eschandihà de vita
(Peron/Felmay): diciassette musicisti
coinvolti, anche da Marsiglia, 11 racconti
(sempre in prima persona) via via
affrontati con le parole specifiche e le
varianti delle diverse valli. La Ramà,
invece, in Mascharias (FolkClub
Ethnosuoni) racconta storie di incanti e di
tenebre delle medesime zone con sagge
aperture alla world music, e molto buon
gusto. Sono le stesse parole che
useremmo per QB, opera prima dei liguri
ponentini Uribà (FolkClub Ethnosuoni):
che recuperano canti e filastrocche
popolari, il tutto ben sapendo d'essere nel
terzo millennio. (Guido Festinese)
RANDY BRECKER
THE BRECKER BROTHERS BAND REUNION
(Moosicus)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Celebre negli anni Settanta il
gruppo dei Brecker Bros vedeva una
front-line aggressiva con Michael (sax
tenore) e Randy (tromba) sostenuta da
ritmiche elettriche a proporre una
fusione tanto romantica quanto talvolta
imparentata persino con l'heavy metal.
Tali perculiarità - dolcezza un po'
smooth jazz e vigore anche in stile hard
bop - vengono oggi ribadite da Randy
(Michael è mancato nel 2007) in un
disco autocelebrativo con undici
musicisti (come Mike Stern o David
Sanborn) amici o ex membri di una
band comunque da ricordare. (g.mic.)
VITTORIO GENNARI
BLUES (Red Records)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Bisogna ringraziare l'etichetta
milanese per aver dato fiducia a quel
ragazzo scanzonato, irriverente e
passionale che risponde al nome di
Vittorio Gennari. Ottantuno primavere
addosso, sessanta di meno quando
imbraccia il suo contralto con foga
parkeriana, o alla Cannonball Adderley.
Qui la scelta è tutta, come da titolo,
attorno al blues: con un quartetto
d'accompagnatori preciso come un
orologio, a partire da Daniele Di
Gregorio al vibrafono. (g.fe.)
KAYHAN KALHOR/ERDAL
ERZINCAN
KULA KULLUK YAKISIR MI (Ecm/Ducale)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Kalhor è un affermato musicista
iraniano virtuoso del kamancheh, il
violino tradizionale del suo paese. Il
sodale turco Erzincan ha invece nel
baglama, sorta di oud del Bosforo, il
suo strumento. Assieme registrano 14
momenti in cui proseguono il discorso
artistico iniziato nel 2004 con The Wind.
Ora in duo rispetto ad allora, eradicano
ancor più la parte visionaria del loro
incontro. Da ascoltare a luce spenta, un
viaggio che porta davvero lontano nel
tempo e nello spazio. (g.di.)
LUCY LOVE
DESPERATE DAYS OF DYNAMITE (Super
Billion)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ La cantante danese ha le carte
in regola per il salto di qualità nel music
business, e lo dimostra con questo
terzo lavoro in cui unisce pop, electro e
hip hop in maniera egregia. Brani che
potrebbero esser passati in rotazione
nelle radio commerciali, e non, di tutto
il mondo, perché non hanno molto da
invidiare ad artiste più celebrate e note.
Ascoltate l'ncedere del ritornello di
Surrender o il singolo Prison per darvi
un'idea, anche se il pezzo migliore, V,
arriva in chiusura di album. (r.pe.)
INDIE ITALIA
JAZZ
TRIBUTI
INDIE ITALIA/2
Celebrazioni
capitoline
Gaia Matiuzzi,
poetica sorpresa
Dalla e Jannacci
per natale
Lo sguardo rock
dell’adolescenza
Excursus nella scena musicale romana.
Partiamo dall'indie rock molto british dei
The Singers, che pubblicano il secondo
lavoro, omonimo, per CoseComuni. Un
dischetto godibile, con coretti pop e
qualche inserto electro che non guasta.
Garage rock è invece quello a cui si
dedicano i Drifting Mines in uscita a
gennaio con Comeback (Autoprod.). Qui
lo sguardo è rivolto dall'altra parte
dell'oceano, al delta del Mississippi, con
brani registrati in presa diretta.
Chiudiamo la tappa capitolina con i
celebratissimi Il Muro del Canto, di
nuovo in pista con un secondo disco,
Ancora ridi (Goodfellas). Purtroppo, così
come per l'esordio, non riusciamo a
unirci ai peana della critica specializzata, e
a noi il loro folk rock in salsa romanesca
non convince. Nulla da eccepire sulle
liriche, ma musicalmente troviamo il tutto
alquanto banale e legato a cliché triti e
ritriti. Infine, citazione per i ravennati
Actionmen che tornano dopo annicon
Ramadama (Autunno Dischi). Evidente il
riferimento ai Queen, ma se il paragone è
azzardato e perdente, il disco risulta non
male e le influenze non si limitano a
Freddie Mercury e c. (Roberto Peciola)
Il canto jazz femminile si colora in Italia di
nuove giovani interpreti che
rappresentano al meglio l'intera gamma
espressiva del moderno vocalismo
conteporaneo, lavorando, in tre casi
esemplari, su materiale tematico
conosciuto, attraverso il quale si sprigiona
una ricerca sonora variegata, a
cominciare dalla sorprendente Gaia
Matiuzzi che in Laut (Doppia I), assieme
a Fabrizio Puglisi e Cristiano Calcagnile
rilegge Eisler e Copeland, Steve Lacy e
Nina Simone, intonando poesie di
Beaudelaire o Dickinson, con un
vocalismo futiristicheggiante da new thing
cameristica. Il jazz da camera di Steve
Swallow invece con Lara Iacovini di
Right Together (Abeat) diventa vivace e
swingante grazie all'ggiunta delle liriche su
temi originali, completati da melodie di
Strayhorn, Harrell, Mazzarino. Alla
classica song si dedica infine Federica
Foscari in The Nearness of You (Egea)
affrontando jazz standard, bossanova,
canzoni italiane con raffinato umore
mainstream in compagnia di Fabrizio
Bosso e del trio del citato Giovanni
Mazzarino, qui soprattutto encomiabile
arrangiatore. (Guido Michelone)
Quando arriva l’aria del natale si scatena
una forza creativa senza eguali. Anche le
case discografiche cercano di approfittare
del momento per promuovere nuovi e
vecchi prodotti. E siamo felici però di
trovarne un paio che servono a lenire
l’assenza di Enzo Jannacci e di Lucio
Dalla. Forse non è proprio una festa
ascoltare la voce dell’ultimo Jannacci nel
cd L’artista (Alabianca) fortemente voluto
dal figlio Paolo e da Tony Verona.
L’ultimo sforzo è racchiuso in 11 canzoni
che partono da lontano per arrivare fino
agli eventi della maturità, in quella che si
stava delineando come una profonda
vecchiaia. In questo viaggio di memoria
non può mancare la strenna natalizia
dedicata a Lucio Dalla. I solerti familiari
d’intesa con gli eredi di Roberto Roversi
presentano un mega cofanetto con 4 cd
che ripercorre l’intensa e discussa
carriera a quattro mani dei due autori.
Con Nevica sulla mia mano (Sony Music) la
storia dei tre mitici lp è ripercorsa con
tanto degli inediti di Automobili che tanto
fecero incavolare Roversi, tanto da
firmarsi Noriso. In più, la vera chicca è in
una manciata di canzoni tratte dalla
rappresentazione Enzo Re. (Marco Ranaldi)
In occasione dell'uscita del
cortometraggio Sports di Pietro Borzì
recuperiamo l'ep che l'ha ispirato, uscito
la scorsa primavera per We Were
Never Being Boring: Sports dei Love
the Unicorn. Il dischetto è «un inno
all'età giovane, alla voglia di perdersi»,
all'amore, alle gite al mare, alle estati
che sembrano non finire mai. L'unica
«pecca» che possiamo attribuire a
questi sei brani deliziosi è forse
un'eccessiva uniformità, ma ci sta.
Rende omaggio all'adolescenza anche il
recente Forever Young dei Tiger! Shit!
Tiger! Tiger! (To Lose La Track).
L'influenza di Sonic Youth, My Bloody
Valentine, e Jesus and Mary Chain si
sente tutta, ma il trio umbro schiva con
maestria l'effetto-fotocopia. Sparso degli
Altro (La Tempesta) raccoglie i quattro
7” dedicati alle stagioni che la band
pesarese ha pubblicato negli ultimi anni,
e due brani inediti. Diciotto tracce per
meno di mezz'ora di musica, ma più
idee di quante altre band hanno nel
corso di un’intera carriera. Affrettatevi
perché Sparso esce in edizione limitata,
con solita bellissima copertina di
Alessandro Baronciani. (Jessica Dainese)
LUI SONO IO
STORIA DI UNA CORSA (Brutture Moderne/
Audioglobe)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Tra la via Emilia e il west il
progetto capitanato da Federico
Braschi e Alberto Amati, pur scontando
qualche ingenuità di fondo, ha un
background solido e un'attenzione nei
dettagli che spesso sul versante rock
cantautorale si perdono. Una grossa
mano in fase produttiva arriva da Jd
Foster (già con Calexico e Capossela) e
da un'ottima registrazione effettuata al
Country Side in Virginia. (s.cr.)
SHANTEL
ANARCHY & ROMANCE (Essay/Audioglobe)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Il musicista e dj tedesco, ma di
origini romene, torna senza la sua
Bucovina Club Orkestar. Un disco in
cui l'anima gitana (e flamenca) si fonde
con il pop anni Sessanta, una miscela
che riesce sicuramente meglio quando a
prendere il sopravvento è l'anima pop.
Ma nel suo complesso un album che
non cattura, lasciando nell'ascoltatore
un senso di incompiutezza, della serie
vorrei ma non posso. O forse potrei
ma non voglio? (b.mo.)
THOMAS WANDER/HARALD
KLOSER
WHITE HOUSE DOWN (Varese Sarabande)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ In pieno vigore da adrenalina
filmica, i due compositori Wander e
Kloser si divertono a scrivere la
partitura per White House Down. Nella
carrellata di luoghi o meglio di suoni
comuni di una storia tappezzata di
tensioni, lo score scorre benissimo così
come è; è divertente immaginarsi un
tourbillon di situazioni e in tempi di pre
elezioni, fra scaffalature apolitiche e
tormenti post berlusconiani. (m.ra.)
ZUFFANTI
LA QUARTA VITTIMA (Ams/Btf)
❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Da vent’anni Fabio Zuffanti
nuota nel mare della musica, e la
corposità della sua discografia ne è
dimostrazione eloquente. La quarta
vittima, tributo al prog nella sua forma
più classica e pura, lancia citazioni metal
e rap, sguardi a Zappa, assoli floydiani.
L’impasto è denso di atmosfere scure e
gotiche, sospeso in una morbidezza
quasi liquida. 7 brani da inchino, 12
compagni forgiati da jazz, folk, metal,
funk. E naturalmente dal prog. (l.d.s.)