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Palma d’oro, e non alla carriera, ma al miglior film, per l’ottentanne Ken Loach, che firma insieme al fido Paul Laverty (con lui da La canzone di Carla) un’altra umanissima storia che ci mostra il destino degli ultimi, di chi subisce l’ingiustizia sociale e burocratica, in un’Inghilterra che, anche dopo la Brexit, rappresenta così bene gli orientamenti non virtuosi delle società europee. scheda tecnica un film di: Ken Loach; con: Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana Shann, Kate Runner; sceneggiatura: Paul Laverty; montaggio: Jonathan Morris; Regno Unito, Francia, 2016, 100’. Distribuzione: Cinema di Valerio De Paolis. premi e nomination: Palma d'oro al Festival di Cannes 2016 (miglior film). Ken Loach Kenneth Loach è nato a Nuneaton, nel Warwickshire (Inghilterra), il 17 giugno 1936. I suoi primi anni di vita sono stati segnati da continui trasferimenti, resi necessari dai bombardamenti nazisti sulla Gran Bretagna. A venticinque anni, dopo aver prestato servizio nella Royal Air Force, si è iscritto alla St. Peter's Hall di Oxford per studiare legge e fino alla laurea ha partecipato come attore agli spettacoli del gruppo teatrale universitario. Nel 1961, ha ottenuto una borsa di studio della rete televisiva ABC per lavorare come assistente alla regia al Northampton Repertory Theatre, e nel 1963 è entrato alla BBC come tirocinante. Dopo alcune regie televisive […] Loach ha girato il suo primo film per il grande schermo, Poor Cow (1967) […]. Seguono pellicole con cui il regista si impone all'attenzione della critica per il suo linguaggio audio-visivo duro, asciutto, alienante e nevrotico, tipico di chi è immerso e/o prigioniero in una società borghese. Per vent'anni continua la sua carriera con documentari, film e pellicole che trovano difficoltà distribuzione per ragioni politiche […]. Maestro indiscusso di quelle storie piene di contraddizioni, di doppie vite che sfociano poi in casi estremi che portano addirittura a rompere ogni tipo di legame con la società di appartenenza, Loach realizza film che continuano ad attaccare ferocemente qualsiasi proiezione dell'elemento sociologico dell'Istituzione: la burocrazia del welfare, le dittature e l'apparato politico. La parola ai protagonisti Intervista al regista A 80 anni lei mantiene ancora il vigore della collera per le ingiustizie sociali Il mio è solo un film. Non faccio politica. Tutto quello che vogliamo è che gli spettatori escano dal cinema ponendosi alcune domande, in preda a un senso di rabbia che potrebbe guidarli a condividere il problema. Due anni fa lei stesso ha dichiarato che si sarebbe ritirato e che Jimmy's Hall sarebbe stato il suo ultimo film... Ed è stata una cosa stupida da dire. Perché poco dopo il mio socio, Paul Laverty, sceneggiatore di tanti miei film, mi ha chiamato al telefono proponendomi un'altra storia. Improvvisamente ero al lavoro su “Io, Daniel Blake”. Non ho idea di quanto continuerò, perché la cosa più difficile di questa professione è il periodo di riprese: quei giorni in cui la sveglia suona alle sei del mattino. Se sopravvivi a quelli, allora puoi fare tutto! Come mai è tornato ad alzare di qualche tacca il suo livello di "cineasta arrabbiato"? Perché non puoi fare finta di niente quando vedi quello che il mio paese sta facendo a persone come Daniel Blake. Noi tutti glielo stiamo facendo. E' un senso di sdegno quello che si prova. Quella di Daniel è una situazione che abbiamo visto più volte mentre andavamo in giro per diverse città inglesi durante la preparazione del film: in ogni location c'era sempre una "banca del cibo" per i poveri che non possono permettersi nemmeno di comprare una scatoletta di tonno. Tutte le città inglesi hanno tantissimi spaccati di vita disperata. Le statistiche parlano chiaro: negli ultimi quattro anni ci sono stati dai due ai tre milioni di persone che sono praticamente alla fame. Non se ne parla più di tanto, anzi, non se ne parla affatto! Sai anche cos'è la cosa che mi colpisce? Vedi una banca del cibo e ti sorprende, ma ventiquattro ore dopo le persone ci fanno già l'abitudine. Girare un film sull'inefficienza della burocrazia sembra facile come concetto, ma trasformarlo in immagini sembra quasi impossibile. Come avete fatto a mantenere un senso cinematografico in questa storia? Se ci pensi la traiettoria di Daniel Blake è molto rapida. Abbiamo individuato dei punti principali: quando parliamo di malfunzionamento della burocrazia, ci facciamo spesso una risata come prima reazione. Poi però siamo veramente frustrati. Poi, se la cosa continua, si arriva alla disperazione. E in alcuni casi la disperazione può portarti anche alla distruzione. Quando stavamo creando i protagonisti di questa storia, avevamo una certezza: non volevamo personaggi che dessero subito l'impressione di essere vittime. Il nostro protagonista è un brav'uomo. Una persona positiva. Un professionista nel suo lavoro, stimato dai suoi colleghi. Uno intelligente. Ma anche lui precipita. L'altra protagonista è una ragazza piena di energia: una che vorrebbe finire gli studi. Un altro personaggio luminoso. Perché mai dovrebbero finire in questo modo? Mi interessava raccontare questo. E non è una storia inventata: facendo ricerche per il film ho scoperto storie perfino più tristi di quella che raccontiamo. Come mai scegliere un comico come protagonista? Amo i comici perché spesso sono parte della working class. Tanta commedia viene dalla resistenza, dalla povertà. Il nostro attore, Dave Johns, è un comico spassoso, ma ci sono anche tante coincidenze interessanti: ha l'età giusta per il ruolo e suo padre, come lui nel film, era un falegname. Quindi Dave conosce il contesto sociale che raccontiamo e come se non bastasse vive proprio nelle strade in cui abbiamo girato il film. Tutto torna, alla fine. Da una parte dunque il suo film suscita la collera dello spettatore, dall'altra però c'è il rischio che chi lo guarda possa provare quella sensazione di sconfitta. Una cosa che porta a pensare che tanto non vale la pena combattere... Questa è la questione. La burocrazia non è efficiente, ma non è un caso. C'è uno scopo. Non funziona perché vuole dimostrare alle persone che la povertà è colpa loro. Vuole umiliarle. Questa sensazione viene caricata ancora di più dai media: in TV, ad esempio, ci sono tanti programmi che prendono in giro le persone. "Lei è grassa, loro hanno troppi figli...". Questo fenomeno si chiama "poverty porn" ed è un nuovo genere televisivo incentrato sull'umiliazione delle persone. Se danno la colpa alla gente, vuol dire che non la danno ai veri responsabili […]. Quanto Ken Loach si sente come Don Chisciotte? Ha mai cambiato le cose e vinto battaglie con il suo cinema? Sono solo uno che fa film. Tutto qui. E in un certo senso sì, mi sento così davanti al corso del capitalismo. E' una cosa che continua da anni e anni, da quando Margaret Thatcher è stata eletta e ha condotto la campagna neo-liberale. Oggi viviamo la conseguenza logica di quel periodo. Abbiamo avuto milioni di disoccupati da quando c'era lei al potere. Blair ha continuavo l'operato della Thatcher. Come fare a combatterli? Il problema è che anche quelli di sinistra sono stati sempre frammentati: nel mio paese ci sono brave persone che vogliono difendere i più deboli e i loro diritti e che vogliono migliorare il sistema. Ma sono soli. Se fossero uniti allora potremmo parlare di una vera battaglia che si può vincere. Recensioni Teresa Scarale. Il Cineocchio.it Lunga vita al cinema civile. Quello pulito, senza nessuna retorica, talmente vero che a un certo punto qualche bugia forse la si vorrebbe pure. Siamo a Newcastle. [...] La regia di Ken Loach è eccezionale, perché lo spettatore non la percepisce. Si è dentro alle vite dei protagonisti di “Io, Daniel Blake” in punta di piedi; si ha l’impressione di essere con loro in ogni momento, in bilico fra il volerne prendere la mano e la paura di disturbare Katie nel lettone che rassicura la figlia Daisy o Daniel, che in silenzio guarda che cosa poter mai vendere dei suoi ricordi di una vita, in attesa che il sussidio arrivi. La delicatezza della macchina da presa del regista britannico si fa spazio nelle anime di questi ultimi d’Occidente senza morbosità, senza rumore. Nessun piagnisteo, nessuna lagna, solo la forza e la dignità di gente perbene che continua a lottare a viso alto per un posto nel mondo, per i propri sacrosanti diritti. Loach non cerca mai lo squallore, non c’è traccia dell’usuale compiacimento nel contemplare “i poveri” che hanno alcuni registi. L’immersione rarefatta e costante che lo spettatore vive grazie a questo film non è mai un pugno nello stomaco, piuttosto è un attivatore di coscienza. La sceneggiatura è affidata ad uno dei collaboratori più importanti del regista, Paul Laverty (Jimmy’s Hall, Sweet Sixteen, Il vento che accarezza l’erba, altra Palma d’oro a Cannes), ed è ricca di freschezza e realismo, resa viva da attori bravissimi, bambini inclusi. Roberto Nepoti. La Repubblica Palma d'oro a Cannes, il nuovo film di Ken Loach arriva ai tempi supplementari nella filmografia del regista inglese. "Ken il rosso", infatti, aveva deciso di chiudere bottega. Però l’indignazione per come stanno andando le cose in Gran Bretagna, e nel resto dei paesi tecnocratici, lo ha convinto a realizzarne un altro capitolo, che condensa in forma di epitome tutta la sua poetica e la sua militanza cinematografica. Il Daniel Blake del titolo è un carpentiere di Newcastle che, all’alba della sessantina, si ritrova senza la possibilità di guadagnarsi la vita a causa di un problema di salute. Dopo un arresto cardiaco, il medico gli ha proibito di lavorare e Daniel si rivolge all’assistenza pubblica (appaltata dallo Stato a società private che hanno tutto l’interesse a non assegnare sussidi) per ottenere il riconoscimento dell’invalidità. Non sa a cosa va incontro. Maltrattato e umiliato, l’uomo è preso in una trappola burocratica infernale […]. Nella sua avventura kafkiana, un ostacolo quasi insormontabile si rivela l’informatica, autentico strumento di dissuasione di massa usato dal potere per fregare meglio i proletari digiuni di tecnologia. Per lui, che non conosce il web e non sa usare un mouse, compilare una domanda è impresa impossibile: e il film ce lo mostra in scene tinte di amaro humour, in cui anche spettatori meno inesperti del protagonista potranno riconoscersi. Scritto dal fedele Paul Laverty Io, Daniel Blake è un film nobilmente indignato, impegnato e frontale […]. Emiliano Morreale. L'Espresso Con “Io, Daniel Blake” l’ottantenne Loach ha vinto quest’anno, per la seconda volta, la Palma d’oro a Cannes. Il film non è però una novità per chi conosce il regista, che qui continua il suo discorso sulla disperazione della classe operaia inglese, dagli anni della Thatcher in poi […]. A rendere sempre efficace l’insieme è il fatto che il vecchio Loach, a differenza di molto cinema “impegnato”, sembra davvero credere a ciò che racconta, a un cinema ben fatto, realistico, drammaturgicamente solido e tradizionale, senza sfumature, che coinvolge il pubblico con metodi sicuri. L’umanesimo di fondo si manifesta in una fiducia nel prossimo nonostante tutto, presupposto della solidarietà di classe (ma non solo: c’è una piccola borghesia su cui si può contare, a quanto pare, specie se sono donne). E soprattutto, Loach ha dalla sua degli attori straordinari come il protagonista Dave Johns: se il film non avesse vinto la Palma d’oro, il premio per la miglior interpretazione maschile non gliel’avrebbe tolto nessuno. Giancarlo Zappoli. Mymovies.it […] È bello ogni tanto verificare che i registi si contraddicono. Era accaduto qualche anno fa con Ermanno Olmi che, presentando Centochiodi, aveva dichiarato che non avrebbe girato più film di finzione […]. Lo stesso succede ora per Ken Loach che sembrava, a sua volta, rivolto al documentario e invece ci regala un film di quelli che solo lui può offrirci. Carico cioè di uno sguardo profondamente umano e al contempo con le caratteristiche del grido che invita a ribellarsi a quello che sembra uno status quo inscalfibile. Per farlo è ritornato, insieme al fido Paul Laverty, per documentarsi, nella sua città natale, Nuneaton, in cui partecipa all'attività di sostegno di chi si trova in difficoltà. Già dal titolo ritorna alla necessità inderogabile di non cancellare la forza dell'identità individuale di coloro che stanno tornando ad assumere le caratteristiche di classe sociale dei diseredati come nell'800 dickensiano. I nomi di persona hanno segnato alcuni dei suoi film più importanti (La canzone di Carla, My Name is Joe, Il mio amico Eric e il precedente Jimmy's Hall). Perché è la dignità della persona quella che si vuole annullare grazie a un sistema in cui dominano i 'tagli' alla spesa sociale e dove gli stessi funzionari che debbono applicarli si rendono conto della crudeltà (è questo il termine giusto) delle regole che debbono applicare […]. Ken Loach continua a proporci le esistenze di persone qualunque con la forza di chi non descrive ma partecipa attivamente al dolore di chi subisce una delle umiliazioni più profonde (la perdita o l'impossibilità del lavoro). Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa Un carpentiere di Newcastle, dichiarato inabile al lavoro per via di una grave malattia di cuore, non riesce a ottenere la pensione di invalidità perché agli occhi anaffettivi di una burocratizzata macchina sanitaria non risulta tale. Sembra un’odissea molto italiana, invece tutto ciò accade in Gran Bretagna, paese che prima di questo film (e prima della Brexit, e di certe disastrose gaffe «linguistiche») reputavamo più civile del nostro. Invece Kafka abita anche là, e nel resto del pianeta: dove i diseredati sono destinati a sempre maggiore emarginazione; e il Potere assomiglia sempre più a un inafferrabile Grande Fratello. Palma d’oro a Cannes, “Io, Daniel Blake” non ha convinto tutti, ma a nostro avviso il britannico Ken Loach ha aggiunto alla sua filmografia un ennesimo gioiello: un sobrio dramma umano abitato da personaggi più veri del vero che, mentre denuncia gli implacabili meccanismi dell’ingiustizia sociale, esalta dell’uomo il bisogno di dignità e la forza dei sentimenti. Commuovendo e indignando, come sa fare lui. Massimo Lastrucci. Ciak Magazine [...]Concreto, diretto, veloce. Un micidiale cazzotto di un boxeur si potrebbe definire così, proprio come è il cinema di Ken Loach, un Autore che non ha mai fatto uno sconto sui contenuti ma li ha sempre accompagnati dalla elegante scioltezza dello stile e la compassione partecipata verso i personaggi/persone di cui racconta. «Hai fatto il soldato Dan?» «Ho fatto una cosa più pericolosa, il carpentiere!»: tutto il pensiero di Loach potrebbe sintetizzarsi in questa battuta, del resto una delle tante di un film che scorre agile tra le contraddizioni di una società capitalista contemporanea che non è evidentemente solo quella inglese […]. Alessia Starace. Movieplayer.it Ken Loach non rinuncia alla sua vocazione unica e preziosa nel panorama cinematografico internazionale; l'urgenza di raccontare, denunciare, dare voce agli ultimi e agli invisibili è più forte della voglia di andare in pensione […]. Egli affianca a una delle figure tradizionalmente più deboli, l'anziano solo, malato e impossibilitato ad accedere a una pensione, un'altra delle situazioni economicamente più a rischio nella nostra "società del benessere": la madre single. Invece di concentrarsi sui propri problemi, Daniel si guarda intorno per vedere se c'è qualcuno che ha bisogno di una mano, e incontra la giovane mamma di due bambini (una deliziosa e intensa Hayley Squires) costretta a trascinare i piccoli da Londra a Newcastle per tirarli fuori da un ostello e in procinto di incorrere in una delle temute "sanzioni" […]. Ma quello che nasce come un sodalizio tra deboli un po' programmatico si trasforma in questo equilibrato, garbato e poetico script in una sincera e toccante amicizia che ci porta, se possibile, ancora più vicini ai personaggi: piccoli gesti, dettagli ricchi di significato, le parole di Daniel su una moglie che gli ha dato gioie e pene ugualmente infinite, una piastrella che si stacca dalla parete del bagno vanificando gli sforzi di una madre che cerca disperatamente di dare una dimora decorosa ai suoi figli, ci regalano personaggi a tutto tondo, figure memorabili e legami credibili e una delle lezioni più importanti di “Io, Daniel Blake”: quando vi dicono che siamo solo molle in un ingranaggio, numeri in un elenco, vittime designate di un sistema che passa per tali e tanti ciechi e snervanti passaggi da perdere qualsiasi umanità, non credeteci. Siamo persone e le persone si aiutano a vicenda. Simona Santoni. Panorama.it "Il mio nome è Daniel Blake, sono un uomo, non un cane. E in quanto tale esigo i miei diritti. Esigo che mi trattiate con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino, niente di più e niente di meno". È ai diritti base dei cittadini, calpestati con indifferenza da uno Stato che uccide, che guarda il nuovo film di Ken Loach, premiato con la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes. “Io, Daniel Blake” è un film crudo, elementare, pulito, potente. Che afferra l'anima e la stringe. Che commuove e fa arrabbiare. Che riporta il regista "rosso" ai temi a lui cari, con quello stile asciutto ed essenziale che non concede recriminazioni […]. Io, Daniel Blake non è però un film senza speranza. La speranza zampilla qua e là, vigorosa, come un balsamo caldo. Eccola nell'unione tra i disperati, tra Daniel e Katie, nei gesti accoglienti e premurosi delle donne che gestiscono il banco alimentare, nel volto partecipe dell'impiegata statale (Kate Rutter) che cerca di aiutare Daniel di nascosto, nell'ostinazione con cui la piccola Daisy (Briana Shann) bussa alla porta di Daniel, nella clemenza del direttore del supermercato verso Katie. Leopardi invocava una solidarietà nel dolore, che unisca gli uomini nella comune lotta contro la natura nemica. Ken gli dà ascolto.