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Bassam Tibi, Con il velo in Europa?, Salerno, Roma 2008
(Eurasia. Rivista di studi geopolitici. Anno VI, n. 3, vol. 18 , settembredicembre 2009, pp. 241-244))
di Aldo Braccio
Con il velo in Europa? La grande sfida della Turchia di Bassam Tibi è uno dei tanti testi
ispirati al sostegno dello scontro tra civiltà nella retorica della difesa dei diritti civili e della
democrazia: esso riveste comunque un certo interesse perché oggi è la Turchia – autentico ponte
eurasiatico il cui ruolo risulta tutto da giocare – ad essere avvertita dall’opinione pubblica europea
come terra di confine e interlocutrice immediata.
L’autore ha puntato la sua attenzione su un oggetto-simbolo carico di forte potere evocatorio
(nei termini indotti dai mass media) nei confronti del pubblico europeo : il velo, appunto.
“Intorno al velo si sta sviluppando, in Europa, un conflitto ideologico tra civiltà. In questo
contesto, la tolleranza non è altro che la razionalizzazione di una debolezza… Gli Europei di
orientamento postmoderno non vogliono capire che l’imperativo della tolleranza non obbliga ad
accettare tutto ciò che è diverso e che non rientra nei canoni. Questa è una concezione errata della
tolleranza, che ignora la minaccia totalitaria di fronte a cui si trova la società aper ta” (p.146-147).
Il conflitto ideologico è innestato : da una parte la “società aperta”, dall’altra la “minaccia
totalitaria” – la formula presuppone una dicotomia morale che Tibi riprenderà e illustrerà – come
vedremo - in altre pagine del libro.
Pietra dello scandalo e oggetto di anatema, intanto, è il velo, la cui natura è definita piuttosto
contraddittoriamente nel testo: esso (p.21-22) “si iscrive nella tradizione religiosa, ma è al contempo un
elemento del costume popolare, slegato dall’effettiva religiosità”. Però “la nuova (sic) usanza di
coprirsi il capo non ha nulla a che fare con il tradizionalismo” (p.145). Altrove si dice che “il velo
esprime, essenzialmente, la pretesa di far valere anche in Europa la shari’a, ossia il diritto islamico”
(p.23) ma anche che “il velo oltrepassa la problematica della shari’a, in quanto serve, soprattutto nella
diaspora, a marcare simbolicamente il confine tra la civiltà occidentale e il mondo musulmano”
(p.139). Alla fine l’autore sembra ritrovare qualche certezza : “Una cosa è certa : il velo è una
prescrizione della shari’a, sebbene nel Corano non sta scritto da nessuna parte che le donne debbano
portarlo. Ma, a scanso di equivoci, voglio anche dire che, se anche fosse vero il contrario, resterei
fermo nel mio rifiuto” (p.170). Infatti per il sedicente musulmano Bassam Tibi “ i diritti dell’uomo
stanno al di sopra della libertà religiosa” (ibidem).
La polemica contro il velo si estende a quella contro l’”islamismo” e, in particolare, contro
l’AKP, il partito al governo in Turchia in seguito a grandi vittorie elettorali (47 % dei voti all’ultima
tornata elettorale), vittorie elettorali che sembrano essere dispiaciute ad alcuni ambienti “democratici”
occidentali. Per Tibi il partito di Erdogan costituisce la fazione non terrorista dell’islamismo, mentre la
ormai leggendaria Al-Qaida ne è il versante terrorista. L’autore individua nella corruzione estrema dei
“partiti kemalisti” una delle cause dell’affermazione dell’AKP (p.112), riconosce anche che “i
kemalisti , prima di cedere il potere, hanno trattato gli islamisti in maniera assai dura” (p.100), e
tuttavia rifiuta ogni apertura al partito di maggioranza e all’attuale governo turco: Con il velo in
Europa? è pressoché interamente dedicato alla polemica contro il movimento di Erdogan.
In realtà, più che di ostilità all’”islamismo” (termine elastico e ambiguo) si può parlare di
un’ennesima – e poco mascherata - ostilità all’Islam tout court. L’autore prende le mosse dalle riforme
di Atatürk : “Nel 1924 ha abolito il califfato e attuato importanti riforme, avviando una trasformazione
decisiva, che però è rimasta in superficie. Tra il 1925 e il 1928 ha proibito l’educazione islamica,
facendo chiudere le scuole coraniche, abolito la shari’a (in turco seriat) e i tribunali religiosi, sciolto gli
awkaf (al singolare waqf/vaqf), le fondazioni pie, e vietato infine tutte le confraternite religiose dei
dervisci. In quanto laico, ammiro questi interventi volti a separare religione e politica, senza rinnegare
affatto la mia identità musulmana” (p.127-128).
Che strano tipo di musulmano sia Bassam Tibi risulta peraltro evidente da alcune sue uscite
“dottrinali” alquanto pittoresche: dopo avere liquidato la shari’a come incompatibile con il dialogo fra
civiltà, in quanto con essa si è “operata una polarizzazione ideologica” (!) (p.30), Tibi ci stupisce
informandoci che (p.132) “i musulmani sufi non sono sostenitori della shari’a, poiché ammettono la
pluralità (quindi la diversità dei sentieri dell’Islam popolare) e hanno una visione del mondo che tende
di norma a separare la religione dalle concezioni relative all’ordinamento politico”. Davvero difficile
rinvenire in tre righe tanta (voluta?) strampalata confusione sull’Islam.
D’altra parte i riferimenti teorici dell’autore sono quelli propri della superiore “civiltà
occidentale”, veicolati come “valori europei”: “Se l’Europa vuole difendere la propria identità civile e
culturale, deve imporre a chiare lettere, contro ogni tentativo di islamizzazione, il criterio dei valori
europei” (p.36).
Quale è l’identità civile e culturale europea, qual è il criterio dei valori europei, e quali sono tali
valori? “Dagli inizi dell’epoca moderna (Riforma, Rinascimento, Illuminismo e Rivoluzione francese),
l’Europa si è caratterizzata principalmente in senso laico e occidentale” (p.29); “E’ bene ribadire in
maniera inequivocabile, e senza alcuna esitazione multiculturalista, che la modernità culturale – vale a
dire la democrazia laica, fondata sul pluralismo e sui diritti individuali – sta alla base della civiltà
europea, e rappresenta il vincolo che lega l’Europa e il Nord America” (p.233 – 234).
Ecco puntualmente riaffermato, nelle parole di questo sedicente musulmano, il fronte atlantico
europeo-statunitense, di fronte alla barbarie premoderna, rappresentata … dal velo : “Ci sono molti
Turchi europeizzati che rifiutano – come me – la shari’a e quindi anche il velo, che ne costituisce il
simbolo, perché temono un ordine totalitario basato sulla legge divina” (p.139) – d’altronde il velo
serve a “marcare simbolicamente il confine tra la civiltà occidentale e il mondo musulmano” (ibidem).
Occorre evidentemente rimarcare e sottolineare questo confine contro ogni ipotesi di fuoriuscita
dalla prospettiva euroatlantica, e per questo Bassan Tibi si affida alle lezioni neocons di Robert Kagan
e di Bernard Lewis: il primo individua nella “nuova tolleranza” degli europei il sintomo della loro
incapacità (incapacity) di rispondere alle minacce (si potrebbe dire : alla minaccia di non sottostare
all’egemonia israelo-statunitense), mentre il secondo, “il grande storico dell’Islam di origine ebraica”,
“ha indicato chiaramente il pericolo rappresentato dall’Islam politico” (p.48).
Nel mirino c’è in primo luogo la Turchia “islamista” a guida AKP, da eliminare a tutto vantaggio di
una Turchia allineata o, nell’espressione dell’autore del libro “coinvolta nella civiltà europea, se
vengono soddisfatte determinate condizioni, cui non bisogna tuttavia guardare con atteggiamento
romantico” (p.43).
Per favorire tale “coinvolgimento” – ma meglio sarebbe parlare di vera e propria colonizzazione
-viene elaborata la nuova categoria di euro -Islam, che Tibi inquadra in un passaggio che merita
particolare attenzio ne : “Grazie a Karl Mannheim, lo studioso tedesco di origine ebraica che ha fondato
la sociologia della conoscenza, sappiamo che ogni forma di sapere corrisponde a una ‘costituzione
concreta’ (Seinslage). La mia costituzione concreta di musulmano trapiantato in Europa mi induce a
difendere questo continente, ‘isola di libertà’ (Horkheimer) e mia seconda patria, da coloro che lo
minacciano, dai nemici della società aperta. Poiché l’Europa mi garantisce la libertà, sulla base della
laicità e della democrazia, mi riconosco nei valori europei, opponendomi a qualsiasi prospettiva di
islamizzazione dell’Europa. Senza fare tanti giri di parole, gli Europei devono pretendere dai
musulmani una simile professione di fede. (…) La mia concezione dell’euro-Islam si colloca nella
tradizione del mio maestro, Max Horkheimer, che ha difeso l’Europa dal fascismo hitleriano, stalinista
o di altro genere. E nella stessa linea si inserisce la mia battaglia contro l’islamismo, (che ho definito
come) ‘nuovo totalitarismo’” (p.65-66).
Euro-Islam, dunque, come fenomeno “capace di riconoscersi in una prospettiva democratica e
occidentale” (p.234).
Sarebbe facile obiettare che l’Islam è l’Islam, senza aggettivazioni e condizionamenti imposti
da chi propone e impone modelli di civiltà ad esso estranei; da chi occupa militarmente paesi islamici
(l’Afghanistan, l’Iraq, la Palestina) e ha impiantato basi militari e multinazionali finanziarie e
commerciali in decine di altre nazioni a “sovranità limitata”.
Il recupero della Turchia in chiave atlantica si inserisce in quella strategia di annientamento
delle differenze (la “globalizzazione”) che non riguarda soltanto l’Islam ma anche ogni altra fastidiosa
specificità etnica, religiosa o politica. L’autore dimostra del resto tutta la sua fa ziosità quando giunge
ad affermare (p.177) che la Turchia “ha conosciuto una nuova marginalizzazione geopolitica a seguito
della guerra contro l’Iraq del 2003, giacché il conflitto è stato vinto senza la sua partecipazione
militare”.
E’ vero esattamente il contrario: la sua non partecipazione a quella guerra di aggressione (peraltro più
fallimentare che coronata da successo) ha costituito per Ankara il punto di partenza per un ruolo
geopolitico di rilevante spessore; tutt’altro che marginalizzata, la Turchia “islamista” ha recuperato una
posizione di dialogo e di intermediazione con tutti i vicini di casa, dall’Europa alla Russia alla Siria e
all’Iran.