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Fabio Folgheraiter
(Università Cattolica di Milano)
La scuola e il lavoro di rete
1. La Scuola, tra le altre cose, è sempre più anche un servizio sociale (o socioassistenziale). Gli insegnanti sono sempre più anche operatori sociali. Sono tutor di
resilienza, come si sente sempre più spesso ripetere. Oltre che insegnare e trasmettere il
sapere codificato, essi devono insegnare ai bambini e ai ragazzi a gestire il loro vivere.
A volte, nei casi più sfortunati, si trovano a dover insegnare loro anche a sopravvivere
rispetto a esperienze familiari e sociali traumatiche e ingiuste. Questo compito da
assistente sociale o da terapeuta è particolare e per sostenerlo è necessario praticare la
regola della reciprocità: per insegnare a vivere e a sopravvivere gli insegnanti (come
tutti) devono imparare a vivere e a sopravvivere essi stessi, nelle loro classi e anche
fuori. Questo speciale apprendimento avviene in modo contestuale e simultaneo all’atto
di insegnarlo. Tutto il processo di apprendimento/insegnamento del vivere è
contestuale, avviene “in situazione”. Le manifestazioni di disagio – di tutti i tipi – che la
società scarica dentro le aule di scuola costituiscono delle sfide che si rinnovano e che
chiedono immediatezza e prontezza di reazione, e naturalmente anche un po’ di metodo
nell’essere affrontate.
Faccio riferimento, qui, al metodo di rete, che ci rimanda a un pensiero e a
competenze sociologiche. In generale, questo metodo ci sollecita a comprendere bene
che cosa è una relazione sociale.
È finita – io credo – l’epoca di un certo pedagogismo tutto centrato a evidenziare gli
indubbi danni procurati dall’atteggiamento autoritario e repressivo. Ma né il lassismo né
il tecnicismo sono l’antidoto a traumi di questo tipo. Ci dobbiamo interrogare a fondo e
in chiave interdisciplinare su ciò che caratterizza un’educazione solida. Dico “solida”
per definire un’educazione capace di portare al massimo le potenzialità del bambino,
senza farlo diventare un egocentrico schizzato. Un’educazione capace di solidificare la
personalità individuale ma non a scapito di un certo radicamento sociale. Capace, in
altre parole, di pensare a un individuo, ma con le sue radici.
2. I bambini e le bambine crescono se hanno solide radici sociali, se sono inseriti in
reti sane, capaci di sostenere e, allo stesso tempo, di porre dei paletti al loro senso di
onnipotenza. L’ambivalenza delle relazioni è l’ambivalenza del vivere. Questa
ambivalenza va rispettata e valorizzata. Prima di tutto va capita incrociando più ottiche.
Veniamo dall’esperimento modernistico che ha messo il bambino al centro di tutto.
Forse in modo incauto, anche se doveroso, abbiamo reclamato per lui ogni sorta di
diritti perdendo di vista la reciprocità, cioè le cose irrinunciabili che noi adulti –
ponendoci in relazione – dobbiamo chiedergli e pretendere da lui. Quando rinunciamo a
chiedergli ciò che gli va chiesto, quando lo comprendiamo addirittura oltre ciò che lui
stesso pretenderebbe, lo svalutiamo. Gli facciamo mancare l’appoggio, la possibilità di
reggersi sul nostro essere adulto, e lo spiazziamo. Diventiamo operatori di resilienza al
contrario. Lo demoliamo innalzandolo troppo, sollevandolo al di fuori delle radici,
estraniandolo dal senso di realtà dato dalla presenza dell’altro. Che cosa rischiamo di
produrre andando su questa strada? Rischiamo di formare “esserini” egocentrici e
fragili, deboli di nervi e di pazienza, incapaci di lavorare sodo e di perseverare, di
dilazionare le soddisfazioni, di stringere i denti dentro le difficoltà e venirne fuori.
Stiamo forse operando senza volerlo per produrre – invece che persone solide e solidali
– atomi. L’atomo sociale è il perfetto materiale umano di un tipo inquietante di società
che chiamiamo postmoderna perché nella sua corsa è andata oltre ogni limite previsto
dal pensiero moderno, troppo ingenuo e anche un po’ accecato nel suo ottimismo
scientista e tecnocratico. La società postmoderna ci appare individualizzata e confusa.
Essa vede l’auspicata e giusta liberazione di tanti progetti di vita che però diventano
slegati e sciolti (absoluti). Appare come un guazzabuglio di itinerari casuali, ognuno
ripiegato su se stesso. In una società postmoderna la tensione primaria di ogni individuo
è rivolta alla propria soddisfazione diretta tenendo meno in conto l’esigenza dell’altro,
innescando con ciò il ciclo perpetuo dell’insoddisfazione. E parlo, in realtà, della madre
di ogni insoddisfazione, quella generata dalle troppe facili soddisfazioni a buon
mercato.
3. Nel linguaggio sociologico diciamo che la Scuola ha a che fare con il capitale
sociale, cioè con le risorse relazionali della fiducia e della cura reciproca. Ci ha a che
fare in due modi. La Scuola può consumare capitale sociale – cioè ne ha bisogno per
funzionare come una macchina ha bisogno della benzina – e può produrre capitale
sociale nel suo funzionare.
La Scuola, di fatto, funziona come un modello relazionale per i bambini. Da come
vedono relazionarsi le persone per loro significative dentro la Scuola, i bambini possono
“immaginare” se stessi come futuri adulti di una società. Come sempre, un modello può
essere tale in bene o in male. La Scuola può essere un modello positivo quando il
bambino, specchiandosi in quello che la sua Scuola fa, si vede in proiezione come un
adulto connesso e radicato, felice nella felicità degli altri. La Scuola può essere un
modello negativo quando il bambino capisce, da come viene trattato, che dovrà
attrezzarsi a essere in futuro un creatura solitaria in perenne competizione, sempre
intento a difendersi e contrattaccare. Vede un proprio futuro dove la sua felicità si
realizzerà a danno di quella dei suoi attuali e provvisori amici.
Tocca alla Scuola decidere quale modello vuole proporre, se, dando esempio di
cooperazione, vuole essere matrice di capitale sociale, o se, dando esempio di
competizione e ostilità, vuole essere matrice del capitale e basta.
4. Per non lasciare questo discorso in sospeso nell’astrazione, dato il poco tempo,
vorrei esemplificare riflettendo su come la Scuola affronta le difficoltà e i disagi
esistenziali dei suoi bambini. Mi chiedo: come si dispone la Scuola ad affrontare i
problemi psico-sociali suoi tipici, che si manifestano in disturbi del comportamento dei
bambini, i quali a loro volta creano disturbi nel suo stesso comportamento istituzionale
e nella sua ecologia umana? Tutto dipende da qual è il ragionamento implicito che
circola nella Scuola. Di fronte alla perturbazione scatenata dall’insorgere di un disagio,
è interessante vedere come reagiscono mentalmente le persone su cui quei problemi
umani impattano (il dirigente, gli insegnanti, i genitori, i bidelli, i ragazzi stessi, ecc).
Che cosa pensano? Vi sono due strade. Possono pensare alle relazioni in positivo.
Possono muoversi pensando di risolverli attraverso e per mezzo delle relazioni sociali.
Possono pensare che le relazioni sociali saranno il motore e la benzina della possibile
soluzione. Oppure possono pensare in negativo. Possono muoversi screditando le
relazioni sociali, ad esempio trattandole come cause “sociologiche”, esterne e lontane,
della difficoltà contingente che riguarda tutti. Il ragazzino fa il bullo ed è maleducato e
provoca i compagni? È perché la sua famiglia è disgraziata o perché il suo quartiere è
degradato, perché accede all’aula sprovvisto di una decente dote di capitale sociale.
Seguendo questi ragionamenti di comune buon senso la Scuola si impantana in un
determinismo sciatto che svilisce le relazioni assegnando loro un esclusivo ruolo
patogenetico (che pure spesso è evidente). La Scuola diviene così un modello
relazionale perdente e depresso.
Al contrario, la difficoltà che perturba una classe può creare relazione e capitale sociale.
Può essere l’occasione di una riflessione comune di tutti gli interessati su come
risolverla, o, per essere più precisi, su come fronteggiarla. Può diventare un’opportunità
relazionale. Ogni problema di comportamento è sintomo di una mancanza palese di
capitale sociale (rimanda senz’altro a una storia di relazioni povere o distorte) ma
proprio questa mancanza potrebbe divenire l’occasione per generare nuovo capitale
sociale: un’occasione preziosa per mostrare ai bambini come produrne di nuovo,
riparando i danni delle carenze passate. Lo stress e il trauma che un problema
esistenziale crea nella classe può stimolare uno sforzo condiviso e paritario di
fronteggiamento, diventando quindi un’occasione per crescere tutti in termini di
umanità e di consapevolezza dei reciproci diritti/doveri. Spesso, in realtà, le cose vanno
già per loro conto in questo modo. Spesso si vede che alcuni tra i vari interessati al
fronteggiamento di un problema si ritrovano con le maniche rimboccate per “fare”
assieme. Essi cooperano alla pari, ragionano e cercano di capire, imparando, strada
facendo, a conoscersi e a valorizzare ciascuno le risorse dell’altro. Il problema non è
solo una disgrazia. Il problema può unire, creare coesione progettuale, sviluppare
intelligenza sociale e fiducia. In una rete sociale che si attiva nella fiducia, lo stesso
bambino che – disturbando – “provoca” il problema, potrebbe alla fine finirvi coinvolto,
e se così fosse – se egli davvero si sentisse nell’intimo accomunato a tutti coloro che
amano migliorare la situazione difficile in cui sono coinvolti – vedremmo l’inizio del
suo auspicato percorso di recupero volontario.
5. Nei problemi sociali più complessi ci sono spesso vari professionisti coinvolti.
Oltre agli insegnanti, ci possono essere psicologi o pedagogisti o terapeuti o assistenti
sociali. Spesso questo loro stare assieme crea un ulteriore problema, costituito dalle loro
esigenze di coordinamento. A volte, dalla loro interazione, può nascere un’accozzaglia
di progetti tecnici sconnessi. Ma nulla vieta che anche i professionisti possano, se
vogliono, fronteggiare le difficoltà relazionalmente invece che pretendere di risolverle
in via definitiva a proprio modo. Nulla impedisce che i professionisti si mettano
anch’essi in relazione piuttosto che esercitare isolatamente delle competenze
specialistiche, o per meglio dire, nulla vieta loro di esercitare le proprie competenze
tecniche e nello stesso tempo stare in relazioni alla pari con le persone interessate. Un
conto è fare trattamenti (o fare solo trattamenti) presupponendo di sapere con esattezza
come si fa; un altro è disporsi a ragionare alla pari nel presupposto che ciascuna persona
con cui ci mettiamo in relazione, a partire dal cosiddetto “utente”, ci potrà dare una
mano a capire meglio le prospettive di fuoriuscita dal problema o anche solo di una sua
accettabile rielaborazione (nel senso di una resilienza che a questo punto diviene
“sociale”, cioè condivisa). A volte siamo tentati di partire dal presupposto che i disagi
sociali che si insinuano dentro le classi possono essere risolti solo da “superdotati” di
competenze (da tecnici distanti e spesso introvabili). In questo modo alimentiamo
attorno a noi aspettative individualistiche e non relazionali.
Chiunque sia
quell’individuo che si fa carico di risolvere individualmente, egli rischia di farsi
bruciare dai problemi. Rischia il burn out e rischia anche di mandare in burn out
l’istituzione di cui fa parte.
6. Il lavoro di rete è un metodo di accompagnamento della riflessione congiunta
delle persone in relazione, alle prese con una difficoltà di vita. Il metodo di rete
presuppone un operatore che sa guardare le relazioni e le sa fluidificare, una sorta di
mentore o stimolatore di resilienza. Il comune riflettere su un problema e sulle sue vie
d’uscita potenziali può risultare, allora, grazie a un tale accompagnamento, in qualche
modo facilitato. Il lavoro di rete è un modo molto tecnico di operare che però si rivolge
a sostenere l’operare delle relazioni sociali, e quindi a liberare l’intelligenza diffusa di
tutti. Non è una combinazione ingegneristica di sapienze predefinite e rigide, un patto
tra specialisti per fare bella figura con gli “utenti” e apparire coordinati. È un modo di
facilitare il mettersi in gioco di tutti alla pari, nel presupposto che la sapienza e
l’ignoranza sono spesso mescolate. Sapere di non sapere – e però aver voglia di
imparare assieme – è il presupposto di ogni relazione e di ogni rete.
Quando diciamo che la chiave di tutto è imparare assieme (più che curare o guarire o
trattare o diagnosticare) entriamo in realtà in un campo nuovo. Immaginiamo un modo
di concepire i disagi e i problemi al momento inusuale, sebbene ci appaia come l’unico
vero e praticabile nel sociale.
Nel campo dell’integrazione scolastica, fare lavoro di rete in questa accezione vuol dire
dare finalmente per superata l’idea semplice che noi siamo bravi perché ci
preoccupiamo di integrare nelle nostre classi i disabili sfortunati. Accediamo a
un’intuizione più alta. Quel metodo ci dice che se siamo in grado di relazionarci con i
cosiddetti disabili alla pari sulla base della nostra comune umanità e del doveroso
rispetto delle loro esperienze e delle loro capacità riflessive, essi ci saranno maestri nel
facilitare la nostra stessa integrazione scolastica. Saranno “tecnici” pieni di esperienza,
che ci insegneranno come integrare noi stessi nelle classi dove lavoriamo e studiamo,
come alunni, come insegnanti o come specialisti, consulenti.
A questo punto le classi saranno ambienti che riproducono la vita autentica, disetichettata, dove in effetti tutti siamo disabili per qualcosa e abili per qualcos’altro.
Integrare vuol dire non creare barriere e separazioni. Pretendere di voler creare
integrazione sulla base di una drammatica separazione mentale tra chi aiuta e chi è
aiutato è un paradosso che prima o poi, insistendo il dovuto, riusciremo a superare.
Bibliografia
Folgheraiter F. (1998), Teoria e metodologia del servizio sociale: la prospettiva di rete,
Milano, Angeli.
Folgheraiter F. (2002) L’utente che non c’è: empowerment e lavoro di rete nei servizi
alla persona, Trento, Erickson.
Raineri M. L. (2004), Il metodo di rete in pratica, Trento, Erickson.