Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla `montanina` di Dante (Rime

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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla `montanina` di Dante (Rime
Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla
‘montanina’ di Dante (Rime, 15)
ENRICO FENZI
I
Un recente volume di Paola Allegretti torna a riproporre uno
dei casi più intriganti entro il corpus delle rime dantesche: quello
della canzone cosiddetta ‘montanina’, Amor, da che convien pur
ch’io mi doglia (già CXVI nell’ordinamento Barbi, tra le Rime
varie del tempo dell’esilio; ora n. 15 nella recente edizione critica
di Domenico De Robertis, in quanto ultima della famosa serie del
Boccaccio)1. Sì che intorno ad essa sarà bene richiamare
brevissimamente qualcosa. Per esempio, che normalmente la si dà
come l’ultima lirica composta e divulgata da Dante, e da lui
mandata al marchese Moroello Malaspina di Giovagallo quasi
certamente nel 1307, o primi mesi del 1308, insieme alla lettera
accompagnatoria Ne lateant dominum (Epist. IV), che ne
costituisce una sorta di razo2. In qualche modo, questa iniziativa
sembra dunque raddoppiare l’altra, di poco precedente (1303-1306,
ma più vicino alla seconda data che alla prima), costituita
dall’invio a Cino da Pistoia della lettera Eructavit incendium
(Epist. III, Frugoni: 532-535), che accompagnava il sonetto Io sono
stato con Amore insieme (104: CXI Barbi), responsivo al suo
CXXVIII, Dante, quando per caso s’abandona3. Né ad avvicinare
le due doppie missive è solo la presenza della prosa latina
esplicativa, ma anche una notevole affinità di contenuto, dal
momento che sia il sonetto che la canzone celebrano l’ineluttabile
fatalità di un Amore che afferma il proprio potere su ragione e
virtù, sbaragliando il libero arbitrio del soggetto innamorato. Di
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più, va anche osservato che a far da ponte tra l’uno e l’altra sta la
circostanza che Cino, nello stesso giro d’anni, rivolge al marchese
Moroello assai probabilmente il sonetto CXXI, Signor, e’ non
passò mai peregrino (che sembra essere molto vicino alla
‘montanina’), e certamente il sonetto CXXIX, Cercando di trovar
minera in oro, e che Dante a nome del marchese gli risponde con il
suo Degno fa voi trovare ogni tesoro (106: CXIII Barbi).
Proprio questa tarda corrispondenza tra Dante e Cino, con il
Malaspina sullo sfondo, insinua tuttavia i primi gravi motivi di
perplessità, dal momento che le retrospettive considerazioni
dantesche sullo strapotere di Amore, affidate alla virtuosistica
tessitura verbale e ritmica dei sonetti, inclinano presto verso il
rimprovero mosso a Cino di «volgibile cor» e dunque di scarsa
sincerità e serietà amorosa, cui s’aggiunge nel terzo dei sonetti, Io
mi credea del tutto esser partito (107: CXIV Barbi), l’esplicita e
definitiva presa di distanza da quella rimeria amorosa, ormai
riguardata come un occasionale relitto del passato: «Io mi credea
del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino, / ché si
conviene omai altro camino / alla mia nave più lungi dal lito; / ma
perch’i’ ho di voi più volte udito / che pigliar vi lasciate a ogni
uncino, / piacemi di prestare un pocolino / a questa penna lo
stancato dito ...». Ma ecco che la canzone rompe con i modi
minori di questa tarda squisita e marginale accademia, e
inaspettatamente restituisce al tema dell’irrazionale e soverchiante
forza di Amore tutta la sua attuale ed eloquente grandezza. Donde
appunto quella perplessità, ché non ci si aspetterebbe da un Dante
ormai fatto cantor rectitudinis e, a quell’altezza, già impegnato
nella Comedia, una canzone come questa, così anacronistica nel
suo pessimismo erotico di tipo cavalcantiano e nella ripresa di
motivi già svolti con ben altra potenza e tensione espressiva nelle
‘petrose’, composte, a quanto pare, undici-dodici anni prima, e
prima, soprattutto, del formidabile spartiacque dell’esilio.
Insomma, secondo gli schemi che, dal più al meno, tutti abbiamo in
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testa, è chiaro che solo Tre donne e Doglia mi reca potrebbero
fregiarsi del titolo di Ultime Liriche ...: ma tant’è, le cose stanno
proprio così, e non resta che farsene una ragione. Come è avvenuto
in passato, del resto, quando si sono escogitati reconditi significati
allegorici (la donna starebbe per Firenze, o per la Comedìa, o per
Beatrice rediviva)4, soprattutto per aggirare la curiosa circostanza
di Dante che, nel congedo, invia la canzone a Firenze affinché vi
proclami che il suo presente stato di asservimento amoroso è tale
da impedirgli addirittura il ritorno, nell’ipotesi che la città «vota
d’amore e nuda di pietate» mitighi la propria crudeltà e decida di
richiamarlo dall’esilio. E come più recentemente ha fatto Gorni
che, in una eccellente messa a punto delle questioni sollevate dalla
canzone, ha finito per dichiararsi insoddisfatto di quelle ipotesi
allegoriche ma non dell’idea che un qualche significato nascosto ci
debba pur essere, e soprattutto ha avanzato una sua personale
proposta che ha il merito di cogliere perfettamente il senso di
disagio che la canzone suscita: quella cioè che Amor da che
convien «potrebbe essere una specie di falso d’autore – forse una
vecchia canzone d’amore, recuperata durante l’esilio a fini
allegorici non evidenti, e come tale spacciata a Moroello e
provocatoriamente indirizzata alla città: in tal caso, solo il congedo
sarebbe degli anni dell’esilio»5. E l’ipotesi, autorevolmente fatta
propria da Domenico De Robertis nella sua edizione delle Rime,
III: 226, è ora accolta anche dalla Allegretti (in part. 66-68), che
non ne fa però un motivo centrale del suo discorso.
Ho citato Gorni studioso in proprio della ‘montanina’ prima
che prefatore. Ma, a completare l’accenno agli essenziali poli di
riferimento critici, occorre anche che si ricordi il bel saggio di
Giorgio Stabile6, nel quale lo studioso mostra come Dante dedichi
la canzone all’analisi di un classico coup de foudre amoroso, e
assuma come struttura portante del suo itinerario introspettivo
proprio quanto la filosofia naturale del tempo insegnava circa la
formazione dei tuoni e dei fulmini: un approccio, dunque,
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importante ma del tutto diverso da quello di Gorni, così come è
ancora diverso quello della Allegretti la quale, per parte sua, non
considera le difficoltà suscitate dalla posizione che la canzone
occupa entro il corpus delle rime, e addirittura, tout court, entro la
complessiva vicenda intellettuale e umana di Dante; non l’analisi
del nucleo tematico sul quale la canzone si regge, ma piuttosto
l’indagine sottile e la ricostruzione della tradizione letteraria sulla
quale il lessico e le immagini dantesche puntualmente insistono.
Così, la studiosa offre una fitta serie di rimandi interni ad altri
luoghi danteschi, e di rimandi esterni, tra i quali hanno particolari
significato, direi, quelli a Ovidio tra i classici, e quelli a Cavalcanti
e Cino tra i volgari (ma sempre molto pertinenti sono pure le
citazioni da Guittone, da Monte Andrea, da Guinizzelli, da Dino
Frescobaldi ...). Abbiamo così squadernato sotto i nostri occhi un
vasto repertorio che ad ogni passo suggerisce spunti decisivi
all’interpretazione e che, di là dai molti rinvii alla Vita nova,
conferma quanto pesi l’ipoteca cavalcantiana (ma anche quella
delle paure e degli sbigottimenti ciniani) su un testo dedicato a un
amore tirannico che distrugge ogni contrario «argomento di
ragion» (v. 26), e precipita il soggetto in una attonita condizione
spirituale di «ignoranza ed oblio» di sé (v. 50). In perfetta antitesi,
dunque, con quell’Amore che, nella Vita nova, 2, 4, sempre
«comandava secondo lo consiglio de la Ragione»: non però con i
sonetti del ‘gabbo’, sempre nel libello, e, fuori, con le canzoni
dell’amor doloroso E’ m’incresce di me e Lo doloroso amor, alle
quali anche la ‘montanina’ priva del posteriore congedo andrebbe
riportata, almeno secondo la già considerata ipotesi di Gorni (ma
anche De Robertis, nel luogo sopra citato: «essa sembra piuttosto
riportarsi alla tematica dell’amor doloroso, con particolari contatti
con E’ m’incresce di me», e così già Foster e Boyde, in particolare
II: 331), alla quale indubbiamente la minuziosa schedatura della
Allegretti fornisce un’ampia rete indiziaria di supporto.
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Ciò detto, è però vero che non solo la canzone pone molti
problemi, sin qui ben individuati ma non risolti: lo fa anche
l’epistola che l’ha accompagnata al marchese Moroello. E proprio
da questa, quale ‘cappello’ o razo della canzone, vorrei
cominciare, anche perché è qui, nella prosa, che Dante ci indica
quale sia la prospettiva entro la quale siamo invitati a collocare e
intendere i suoi versi.
II
Ecco, per comodità, il testo dell’Epist. IV, che suddivido in
brevi paragrafi, per facilitare i riscontri con quanto dirò :
[1] Ne lateant dominum vincula servi suj quam affectus
gratuitas dominantis et ne alia relata pro alijs que falsarum
opinionum seminaria frequentius esse solent negligentem
predicent carceratum, ad conspectum Magnificentie vestre
presentis oraculj seriem placuit destinare. [2] Jgitur michi a
limine suspirate postea curie seperato in qua velut sepe sub
admiratione vidistis fas fuit sequi libertatis offitia, cum
primum pedes iuxta Sarnj fluenta securus et incautus
defigerem, subito heu mulier ceu fulgur descendens apparuit
nescio quomodo, meis auspitijs undique moribus et forma
conformis. [3] O quam in eius apparitione ostupui: sed stupor
subsequentis tonitruj terrore cessavit. Nam sicut diurnis
coruscationibus illico succedunt tonitrua, sic inspecta flamma
pulcritudinis huius amor terribilis et inperiosus me tenuit. [4]
Atque hic ferox, tanquam dominus pulsus a patria post
longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius
contrarium fuerat intra me vel occidit vel expulit vel ligavit.
Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus suis
cantibus abstinebam, ac meditationes asiduas quibus tam
celestia quam terrestria intuebar quasi suspectas impie
relegavit, et denique, ne contra se amplius anima rebellaret,
liberum meum ligavit arbitrium, ut non quo ego sed quo ille
vult me verti oporteat. Regnat itaque Amor in me nulla
refragante virtute, qualiterque me regat inferius extra sinum
presentium requiratis.
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Non ne farò un commento puntuale, per non occupare troppo
spazio, in questa sede, con questioni già da altri affrontate e non
direttamente pertinenti al proposito. Per esempio, quella che
riguarda l’identità non perfettamente certa del destinatario (il
giovane Moroello marchese di Villafranca, cugino di Franceschino,
per conto del quale Dante trattò la pace con il vescovo di Luni
nell’ottobre del 1306, o piuttosto, come ormai si conviene,
Moroello di Manfredi marchese di Giovagallo, il «vapor di Val di
Magra» di Inf. XXIV 145, sposo di Alagia Fieschi, della quale
Purg. XIX 142-143), o la data, sulla quale mi pare che ormai tutti
concordino, una volta respinta la vecchia ipotesi di Torraca (e più
recentemente di Hardie) che pensava che la Curia fosse quella di
Enrico VII e spostava epistola e canzone al 13117. O quelle che
riguardano il testo, bisognoso di qualche emendamento (per il caso
più notevole, vedi appena sotto). Altre sono invece le cose che
vorrei precisare e aggiungere, come quelle che sono più
interessanti per l’interpretazione della canzone.
[1] vincula [...] carceratum: Dante vuole far conoscere al
marchese Malaspina la sua presente condizione di uomo
‘incatenato’ e ‘carcerato’, per stornare l’eventuale accusa di
‘negligenza’ nei suoi confronti: non è infatti ‘negligente’, ma
impossibilitato a far fronte ai propri impegni e probabilmente,
come lasciano intendere le ultime righe, a tornare presso la sua
corte. Ma, a intendere il passo nella sua compiutezza, occorre
decidere circa un dubbio che riguarda la lezione. Il codice porta:
«gratuitatis dominantis» che la Allegretti, contravvenendo alla
scelta ormai invalsa, mantiene a testo traducendo la frase così:
‘Perché non restino nascoste al signore le catene del suo servo,
come i sentimenti verso la gratuità che lo domina’ (affectus,
nominativo plurale). Precedentemente, invece, aveva finito per far
testo l’emendamento suggerito dallo Zenatti e difeso da Parodi in
nome delle esigenze del cursus («si dica però che gratuitatis
dominantis è, dal punto di vista del ‘cursus’, in fine di periodo, non
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solo, ma proprio del primo periodo, quasi un mostro»), e introdotto
poi dal Pistelli nell’edizione del 1921 della Società Dantesca
Italiana, che corregge gratuitatis in gratuitas (Torraca invece
avrebbe voluto correggere in gravitas), che impone la traduzione:
‘... come la gratuità del sentimento che lo signoreggia’ (affectus,
genitivo singolare)8. In entrambi i casi non si dovrà tuttavia
intendere che il sentimento sia come una specificazione dei
vincula, quasi si dicesse: ‘Perché non restino nascoste al signore le
catene dell’affetto disinteressato che domina il suo servo’, ma
piuttosto
che abbia valore disgiuntivo rispetto ai vincula,
dovendosi riferire all’atteggiamento di Dante verso il marchese, al
quale lo lega un rapporto di dipendenza appunto ‘gratuita’, ‘non
condizionante’, e dunque essenzialmente diverso dalla sua attuale
condizione di schiavitù. Dunque, assai liberamente: ‘Perché non
restino nascoste al signore né le (nuove) catene del suo servo, né
l’affetto che tuttavia questo stesso servo continua a nutrire verso di
lui, fondato su un rapporto di dipendenza volontaria, liberamente
scelto e dentro il quale egli ha avuto salvaguardati i propri margini
di libertà’. E così appunto io intenderei, sulle orme di Parodi (cit.:
420): «è per me chiaro che egli intende contrapporre ai ‘ceppi’
l’affetto che, nonostante tutto, lo lega al suo Signore, e cioè
anticipare in altra forma la contrapposizione che segue:
carceratum, ma ... non negligentem!»), non solo perché il testo ne
riesce arricchito, ma soprattutto perché mi sembra che questo
stesso concetto, che contrappone un servizio liberamente accettato
e vissuto a una ben più radicale e costrittiva schiavitù nella quale il
soggetto è improvvisamente caduto torni avanti nel testo, nei
«libertatis offitia» del § 2 (vedi sotto).
-ad conspectum Magnificentie vestre presentis oraculi
seriem placuit destinare: fa difficoltà, qui, la presentis oraculi
seriem, che, d’accordo con altri, solo con forte banalizzazione
potremmo tradurre, come fa Frugoni, con ‘il testo del presente
scritto’ (meglio Allegretti: ‘la compagine della presente visione’).
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Il termine series, alquanto ridondante, torna solo un’altra volta in
Dante, nell’Epist. I al cardinale Niccolò da Prato, § 2: «vestrarum
litterarum series» (Frugoni: 524), che potremmo tradurre, con Frugoni,
‘le parole della vostra lettera’, ma forse meglio ‘il contesto’,
‘l’insieme’, ‘l’ordinato procedere’ (o infine, appunto, ‘la compagine
...’). L’espressione in ogni caso è comune, e basta per accertarsene una
scorsa al CETEDOC: «totam seriem visionis» (Actus Francisci 74, 9);
«attendenda et exponenda totius litere series» (Andrea di san Vittore,
Exp. hystorica in librum Regum 1, 13); «propheticae visionis series»
(s. Bernardo, Sermo in dom. inf. octavam assumptionis p. 5, 3, p 263,
22); «per totam seriem litterarum» (s. Bernardo, Epist. 87, 1), ecc. Ma
il vero problema è quel oraculum, che Dante usa solo in questo caso.
Nella tradizione, la parola da un lato designa il luogo fisico –la parte
più interna, più nascosta del tempio- dove ci si reca per avere i
responsi della divinità9, e, dall’altro, gli stessi responsi, onde
abbondano, nei testi, gli oracula delle Scritture, dello Spirito Santo,
dei profeti, dei patriarchi, ecc., e si tratta quasi sempre di oracula
definiti come ‘celesti’, ‘divini’, ‘profetici’, ‘sacri’, e così via.
L’oraculum è, insomma, un messaggio che la divinità fa giungere sino
a noi sia parlando mediante una voce umana, com’è il caso esemplare
della Sibilla (Andrea di san Vittore, Exp. in heptateuchum. In Numeros
r. 160: «Et est oraculum divinum per os hominis responsum»)10, sia, in
maniera più ribassata, mediante l’apparizione in sogno di persone
dotate di particolare carisma o specifiche funzioni, o della divinità
medesima. In questo senso, l’oraculum fa parte, con la visio e il
somnium, dei tre tipi superiori del sogno, mentre inferiori e fallaci
sono l’insomnium e il phantasma, secondo il celebre schema
classificatorio di Macrobio, nel Commento al Somnium Scipionis
ciceroniano, I 3, 1-11, che ha fatto testo per tutto il medioevo e che è
stato spesso ripetuto. In particolare, ecco le sue parole: «Et est
oraculum quidem cum in somnis parens vel alia sancta gravisve
persona seu sacerdos vel etiam deus aperte eventurum quid aut non
eventurum, faciendum devitandumve denuntiat»11. Non è dunque
semplice stabilire che cosa Dante abbia inteso. In ogni caso, anche a
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me non pare che ci si possa limitare alla lettera/oggetto in sé, come fa
appunto Frugoni e come faceva per la verità già Novati, per il quale
l’oraculum poteva significare una missiva qualsiasi, più o meno
importante che fosse, indipendentemente dal suo contenuto12, ma che
tutta l’espressione significhi che l’autore vuol mettere sotto gli occhi
del destinatario un’esperienza particolare che gli è avvenuto di subire,
carica d’un suo speciale alone di significato. A rigore, dunque, stante
il peso dell’auctoritas in materia, cioè appunto Macrobio, si potrebbe
addirittura sostenere che Dante riferisca al Malaspina il contenuto di
un sogno: un sogno, naturalmente, che l’ha profondamente
condizionato, sino a fargli mutar vita. Non mi pare che questa ipotesi
sia già stata fatta, e mi rendo conto come essa suoni azzardata, sia
perché non trova altri espliciti riscontri all’interno della lettera, sia
perché, soprattutto, non sembra in alcun caso applicabile al testo della
canzone. Sarà dunque meglio metterla tra parentesi, e ripiegare,
accogliendo la traduzione della Allegretti, su una più generica
‘visione’, che dovrà il suo carattere oracolare al fatto che, come
vedremo, attraverso l’apparizione della donna (un oraculum reale,
ricevuto a occhi aperti) è in realtà il dio d’Amore che si rivela e
rinnova il messaggio del suo invincibile potere.
[2] Igitur michi a limine suspirate postea curie separato, in qua
velut sepe sub admiratione vidistis fas fuit sequi libertatis offitia:
Dante si è allontanato, non è detto in quale circostanza, dalla ‘curia’
del Malaspina, nella quale il signore, con ammirazione, l’ha visto
spesso dedicarsi ai libertatis offitia, ed ha avuto presto a rimpiangerla.
Si osservi intanto un ossimoro analogo a quello già visto sopra, con la
gratuitatis dominantis: là, era questione di una dipendenza liberamente
accettata e non condizionante; qui, della rivendicazione della propria
autonomia di pensiero che sotto gli occhi ammirati del signore si
realizza in determinati offitia. Il concetto che sottostà a queste parole
può essere in parte spiegato con una citazione di Agostino, De vera
religione 111: «Illud etiam cuivis cognoscere facile est, quod sub
homine dominante liberas cogitationes habere concessum est», mentre
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quale sia il contenuto di tali ‘occupazioni liberali’ è detto poco avanti:
sono appunto le meditationes assiduas, gli studi filosofici. Ora importa
tuttavia sottolineare che tutto ciò Dante lo sta per perdere, precipitando
sotto il dominio di un ben diverso signore –Amore- che diversamente
dal Malaspina esercita su di lui un potere totalizzante e gli impedisce
di dedicarsi ai doveri di quell’uomo padrone di sé che ormai ha cessato
di essere. Va anche detto che esiste una diversa interpretazione
dell’espressione, o meglio, diversamente orientata, che risale a Panfilo
Serafini e poi allo Zenatti e a Zingarelli e che Torraca ha fatto propria
con piena adesione, e cioè che Moroello «si meravigliava di veder
Dante libero dalle cure di amore», che non mi pare accettabile. Per
ciò, vedi Torraca: rec. cit.: 141, nota 147 e 148 e ora in particolare
Allegretti: 128-13013.
- cum primum pedes iuxta Sarni fluenta securus et incautus
defigerem: ‘appena ho messo i piedi, sicuro e indifeso, lungo il corso
dell’Arno’. Se si raddoppiano queste parole con le altre, della canzone,
vv. 61-63: «Così m’ha concio, Amore, in mezzo l’alpi, / nella valle del
fiume / lungo ‘l qual sempre sopra me sè forte», e le si riportano agli
anni 1307-1308, si dovrà intendere che la scena sia collocata nell’alta
valle dell’Arno, il Casentino: ma si noti che nella lettera è del tutto
assente l’ambientazione ‘montanina’, che caratterizza così fortemente
la canzone (vedo che anche Gorni: 141-142, sottolinea questa curiosa
circostanza). In maniera molto intensa è qui presente il motivo
dell’amante ‘incauto’, catturato da Amore quando meno se lo aspetta
(per es., Inf. V 129: «soli eravamo e sanza alcun sospetto») che ha
qualche meno rilevato riscontro provenzale (Bernard de Ventadorn, Be
m’an perdut 10-11: «m’esslaissei eu vas trop amar un jorn, / c’anc
no·m gardei, tro fui en mei la flama»; Peire Vidal, Nulhs hom non pot
9-10: «Adoncs saubi pauc d’escrimir, / ni no·m gardei tro qu’eu fui
pres»): personalmente, non saprei dunque indicare nulla di più preciso
del passo dantesco a proposito dello sviluppo che esso avrà in
Petrarca, soprattutto in Rvf 3, 3 ss. («et non me ne guardai [...] però
m’andai / secur, senza sospetto [...] Trovommi Amor del tutto
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disarmato ...»); 8, 7; Tr. Pud. 14, ecc. (da vedere con i rimandi
forniti rispettivamente dalle edd. di Santagata e Pacca, che però
ignorano l’Epistola dantesca). Per ciò, vedi ancora sotto, n. 16.
-subito heu mulier ceu fulgur descendens apparuit nescio
quomodo meis auspitijs undique moribus et forma conformis:
l’apparizione improvvisa di questa donna/folgore è precisamente
l’oraculum che Dante vuole partecipare al Malaspina: e non c’è
dubbio, a mio parere, che in questi termini essa abbia i tratti di una
vera e propria ‘visione’, o, per usare le parole della Vita nova, di una
«forte ymagination» (Gorni: 28 1, ma vedi anche l’intero cap. 14, e,
per l’ymaginatione, anche 4, 7, e 15, 4). Lo fa pensare tra l’altro il
fatto che questa mulier appare come una sorta di proiezione e quasi
materializzazione di un fantasma interiore già presente, in potenza,
nello spirito di Dante, il quale scopre con istantaneo sbalordimento la
perfetta conformità che corre moribus et forma, ‘nei costumi e nella
bellezza’, tra il proprio segreto modello e questa apparizione. Il che –
va detto- non è precisamente lo stesso rapporto che nella canzone corre
tra l’immagine della donna ‘dipinta’ e ‘formata’ nel cuore e il suo
aspetto reale, dotato di una assai più forte potenza alienante e
distruttiva. Per quanto riguarda il carattere numinoso dell’apparizione,
esso appare affidato soprattutto alla folgore (ceu fulgur descendens), sì
che mi sembra inevitabile ricordarne gli archetipi biblici, secondo i
quali sono appunto i fulmini, i tuoni, le nubi e le tempeste montane a
segnalare la presenza di Dio, a cominciare dalla vetta del Sinai in
Esodo 19, 16: «et ecce coeperunt audiri tonitrua ac micare fulgura et
nubes densissima operire montem», e nei Salmi, per esempio 29, 3 e 7,
ove risuona come tuono «vox Domini intercidentis flammam ignis», o
18, 8 ss., ove l’irata presenza di Dio si manifesta nel tremar della terra
arsa dai fulmini, o 76, 18-19, ove ancora: «vocem dederunt nubes [...] /
vox tonitrui tui in rota; / illuxerunt coruscationes tuae orbi terrae, /
commota est et contremuit terra»14. Naturalmente tutto ciò non intacca
ma semmai arricchisce quanto ha spiegato Stabile, che ha messo in
rilievo la tradizione scientifica relativa alla fulminatio quale s’esprime
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negli scritti di Alberto Magno e, indietro, nelle Naturale quaestiones
di Seneca, che Dante conosceva e aveva già poeticamente sfruttato nel
gruppo delle ‘petrose’15. Per il motivo, in ogni caso, e facendo entrare
nel gioco anche il v. 57 della canzone ‘montanina’ («qual fu quel trono
che mi giunse addosso», ove il trono è appunto il fulmine), si veda
Guittone, 138, Ben mi morraggio 5-6: «Quando la veggio paremi uno
trono, / un foco ardente che mi fiere al viso» (Egidi: 208); il già più
volte allegato Guinizzelli, 1, Lo vostro bel saluto 9: «Per li occhi
passa come fa lo trono», e 3, Dolente, lasso 5: «come lo trono che fere
lo muro»; Cino da Pistoia, CLXXXI, Tardi m’accorgo 3: «come saetta
la qual vèn con trono»16. Ma soprattutto ha speciale significato il
rinvio alla seconda canzone del Convivio, Amor che nella mente 6367: «Sua bieltà piove fiammelle di foco, / animate d’un spirito gentile /
ch’è creatore d’ogni penser bono; / e rompon come trono [ceu fulgur] /
l’innati vizi che fanno altrui vile», detto della bellezza della
donna/Filosofia. Ne discute la Allegretti, pp. 104 ss., che allega altre
auctoritates bibliche (Apoc. 1, 14; 2, 18; 19, 12; Dan. 10, 6; Act. 2, 23) e classiche (Aen. VIII 680-681, e II 680-704: ma per Virgilio, si
veda anche quanto segue; Lucano, Phars. I 183-193, oltre all’inizio
del De consolatione di Boezio), per approdare alla possibilità che
anche la mulier della nostra canzone abbia valenze allegoriche. Il
punto è delicato, ma va lasciato un attimo in sospeso, perché, almeno a
mio parere, può essere risolto solo con l’aiuto dell’ultima parte della
lettera, che istituisce una forte dialettica proprio con il Convivio e le
sue canzoni.
[3] O quam in eius apparitione ostupui! sed stupor subsequentis
tonitruj terrore cessavit. Nam sicut diurnis coruscationibus illico
succedunt tonitrua, sic inspecta flamma pulcritudinis huius amor
terribilis et inperiosus me tenuit: si tratta di un ulteriore scatto nella
oraculi serie, mediante il quale il racconto abbandona il contenuto
dell’apparizione –di fatto la mulier, della quale non si dirà più nulla- e
ne analizza invece le conseguenze, che consistono nell’istantanea
caduta sotto lo spietato dominio di Amore: un Amore che sembra
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aver animato di vita autonoma un fantasma muliebre partorito dal
desiderio solo per tornare ad avere Dante in suo potere. Billanovich ha
scritto che la matrice di questa raffigurazione risale senza dubbio al De
consolatione di Boezio, e precisamente al suo inizio, pr. 1, 1, con
l’apparizione al prigioniero della bellissima Filosofia17. Penso si possa
essere d’accordo, ma solo in parte. La matrice vera, infatti, sta altrove,
ed è denunciata clamorosamente da quel obstupui, ribattuto dallo
stupor che immediatamente lo segue: sta in Virgilio, nella tragica
vicenda di Enea e Didone, nel primo e nel quarto dell’Eneide. Per lo
stupor che la pervade, appunto, sin dall’inizio, quale suo momento
fondante (I 613: «Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido», che Servio
annota affermando che «iam futuri amoris est signum», un signum che
noi potremmo qui opportunamente ritradurre con oraculum ...), e per
l’ineluttabile progressione che travolge i protagonisti dimentichi dei
loro obblighi e gettati dallo stupor in potere di un amore davvero
terribile e imperioso. E infine per quell’epifania di amore che vede
insieme il congiungimento di Enea e Didone nella spelonca e
l’esplosione della tempesta (IV 167-168: «fulsere ignes et conscius
aether / conubiis summoque ulularunt vertice nymphae»), che fa di
quel connubio tra fulmini e tuoni una sorta di sposalizio tra cielo e
terra ben più forte e misterioso e fatale di quello che possano
realizzare, qui nella lettera di Dante, le meditazioni filosofiche delle
quali poco sotto si parlerà. Tutto sommato, dunque, ritengo che questo
rimando, per tutte le sue suggestive implicazioni, debba prevalere sugli
altri, e in particolare su quello pure importante ad Aen. VIII 388-394,
là dove Venere riaccende le voglie amorose del marito, Vulcano, per
convincerlo a forgiare nuove armi ad Enea: «Ille repente / accepit
solitam flammam notusque medullas / intravit calor et labefacta per
ossa cucurrit: / non secus atque olim tonitru cum rupta corusco / ignea
rima micans percurrit lumine nimbos» (vedi Allegretti: 38, con la
citazione di Servio ad loc. : «alii rima micans fulgetram dicunt: et hoc
ad velocitatem amoris qui momento Vulcanum percussit»).
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[4] Atque hic ferox tamquam dominus pulsus a patria post
longum exilium sola in sua repatrians quicquid eius contrarium fuerat
intra me vel occidit, vel expulit vel ligavit. Occidit ergo propositum
illud laudabile quo a mulieribus suis cantibus abstinebam, ac
meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar
quasi suspectas impie relegavit: siamo a una ulteriore svolta del
discorso, che finisce per distinguere nettamente il testo dell’epistola a
Moroello dalla canzone, alla quale il tema presente resta del tutto
estraneo (cosa importante –ripeto- ma sin qui non osservata). Si dice
qui che Amore torna come chi rientri in patria da dominatore dopo un
lungo esilio, e faccia piazza pulita di quanto aveva avuto la pretesa di
sostituirlo: ergo distrugge il pur lodevole proposito di Dante di
astenersi dalla lirica amorosa e colpevolmente, impie, lo allontana
dalle meditazioni filosofiche alle quali si era dedicato con assiduità.
Una minima chiosa, prima di tutto. Se non si supplisce la congiunzione
mancante nel codice: suis[que], come invece fa l’edizione della
Società Dantesca italiana e dunque Frugoni, si dovrà tradurre, con la
Allegretti (ma vedi già Gorni: 144 nota 34): ‘dalle sue [di Amore]
canzoni per donne’. Ma, di là da ciò, esiste traccia, in Dante, del
propositum di abbandonare la lirica amorosa? Sì, esiste, com’è noto,
anche se si esprime in modi abbastanza particolari e, per dire così, in
due tempi. Prima (semplifico risolutamente), attraverso le prime due
canzoni del Convivio nelle quali il perdurante ossequio alle
convenzioni del linguaggio amoroso copre la realtà del passaggio
all’amore per la Filosofia; poi, in forma ormai dispiegata, con la terza
canzone commentata nel trattato, Le dolci rime, che si apre
precisamente proclamando quell’abbandono, provvisorio sì, ma netto:
«Le dolci rime d’amor ch’i’ solia / cercar ne’ miei penseri / convien
ch’io lasci; non perch’io non speri / ad esse ritornare [...] E poi che
tempo mi par d’aspettare, / diporrò giù lo soave stile / ch’i’ ho tenuto
nel trattar d’amore ...». Ed a sistemare tutto ciò, ed a proiettarlo entro
l’orizzonte di una fondamentale scelta intellettuale e morale è appunto
il Convivio, che spiega i modi del passaggio dall’età giovanile dedita
all’amore e alle sue espressioni a quella matura, ormai volta
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Enrico
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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all’impegno e alla responsabilità del sapere scientifico e filosofico18. In
questa luce, l’avverbio impie ben si spiega, in opposizione a laudabile:
e in effetti non può che apparire colpevole non solo il relegare in un
canto le meditazioni filosofiche, ma impedire e propriamente
distruggere un intero progetto di vita filosofica che proprio attraverso
quel passaggio aveva acquistato tutta la propria pienezza di senso e la
sua prospettiva di valore. Ma resta un punto: le meditationes asiduas
quibus tam celestia quam terrestria intuebar davvero indicano lo
studio della filosofia? La cosa ovviamente è già stata detta, ma, mi
sembra, sempre con qualche timidezza, quasi fosse pur sempre
soverchiata dalla forza della ripresa che Dante ne ha fatto nella
Comedìa, nell’esordio di Par. XXV, raddoppiata da un’altrettanto
forte ripresa dei versi del congedo della canzone19. Eppure, non c’è
dubbio che abbia di nuovo ragione Gorni: 144, nota 33, quando
scrive che meditationes non può designare la Comedìa, suggerendo
invece che possa trattarsi del Convivio, interrotto al suo quarto
libro in quel giro d’anni. È senz’altro così, per più ragioni, a
cominciare dal fatto che non si è sin qui osservato che
l’espressione di Dante altro non è che una trasparente variante
della definizione canonica della filosofia, per esempio in un testo
che gli era particolarmente presente quale il ciceroniano De
officiis, nel quale leggeva che la sofìa, è cioè «illam autem
sapientiam, quam principem dixi, rerum est divinarum et
humanarum scientia» (I 153). Ma questa definizione, di origine
stoica, è assolutamente basilare, e torna ancora, per esempio, nello
stesso De officiis, II 5: «sapientia autem est, ut a veteribus
philosophis definitum est, rerum divinarum et humanarum
causarumque, quibus eae res continentur, scientia», e, con le stesse
parole, nel De oratore I 212, nelle Tusculanae IV 57, e nel De
finibus II 37; in Seneca, Epist. 89, 5, e poi in Gerolamo, Ephes. I
1, 9, e in Agostino, Contra Acad. I 6, 16, e De Trinitate 14, 1,3, e,
più volte, in Isidoro, Diff. 2, 39, 148, e Ethym. 2, 24 e 8, 6, ecc20.
E credo ci sia una ragione se Dante, senza troppo mutare la
sostanza, varia la coppia degli aggettivi: non ‘cose divine e
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umane’, ma ‘celesti e terrene’, sulla scorta di quanto leggeva nella
Praefatio, 2, alle Naturales quaestiones di Seneca: avere la
filosofia due parti, delle quali «altera docet quid in terris agendum
sit, altera quid agatur in caelo». Egli infatti si riferisce proprio al
Convivio, al quale meglio si adatta l’inflessione più ‘naturale’ o
comunque leggermente meno impegnata sul piano del divino della
seconda coppia. Circa l’assiduità delle meditazioni, si può forse
ricordare che lo studio eccessivo della filosofia già aveva creato a
Dante alcuni problemi di vista, come ricorda nel Convivio, III 9,
15: «E io fui esperto di questo [dell’indebolimento della vista]
l’anno medesimo che nacque questa canzone [Amor che nella mente
mi ragiona], che per affaticare lo viso molto a studio di leggere, in
tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno
albore ombrate», mentre Amore che vel occidit vel expulit vel ligavit
tutto ciò che lo contrasta, non fa in fondo che vendicarsi di quanto
egli stesso aveva dovuto subire, quando Dante aveva rinunciato alla
poesia d’amore e si era convertito alla filosofia, come ancora il
Convivio spiega, II 12, 7: «... cominciai ad andare là dov’ella [la
filosofia] si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi
e alle disputazioni delli filosofanti; sì che in picciolo tempo, forse di
trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo
amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero» (corsivo mio). Di
qui, con ogni evidenza, quel quasi suspectas, ove non è l’aggettivo
che fa problema ma, semmai, l’attenuazione del quasi, visto che il
dio d’Amore ristabilisce su Dante il potere che in passato aveva
perduto proprio per la forza di quelle meditationes che erano giunte
al punto di soppiantarlo, ed erano dunque ‘sospettate’ di poterci
riprovare.
-et denique ne contra se amplius anima rebellaret liberum
meum ligavit arbitrium ut non quo ego sed quo ille vult me verti
oporteat: varrà la pena di sottolineare sùbito che quel amplius
conferma quanto si diceva appena sopra a proposito del suspectas.
L’avverbio, infatti, altrimenti incongruo, trattiene il senso di
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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‘ancora’, ‘di nuovo’, e insieme: ‘con forza ancora maggiore’, e
insomma alludere a una passata ribellione al dominio di Amore,
quella che appunto aveva già avuto il provvisorio successo di
cacciare in esilio il dio, ma che nel presente è stata da lui stroncata
mediante la folgorante apparizione della nuova donna. Si osservi
come Dante finisca qui di spiegare la serie occidit, expulit, ligavit,
attribuendo via via ad ogni verbo il proprio oggetto: occidit
propositum; relegavit (per expulit) meditationes; ligavit arbitrium.
E in quest’ultimo caso –il libero arbitrio– è inevitabile andare al
sonetto responsivo a Cino, più o meno scritto in quello stesso torno
di tempo, Io sono stato con Amore insieme, citato all’inizio
insieme all’Epist. III dalla quale era accompagnato21. Quanto Dante
afferma nel sonetto corrisponde perfettamente a queste righe finali
della lettera. Per lunga esperienza egli sa che Amore affrena e
sprona a suo piacimento, e che usare contro di lui ragione o virtù è
altrettanto inutile che suonare le campane per far cessare un
temporale: «Chi ragione o virtù contra gli sprieme / fa come que’
che ‘n la tempesta suona / credendo far colà dove si tuona / esser le
guerre de’ vapori sceme» (5-8: il che, si vede, è esattamente quanto
accade anche ora, dopo l’apparizione della donna ‘montanina’ tra
folgori e tuoni). Ma ancora, con preciso rapporto tra i testi: «Però
nel cerchio della sua palestra / libero albitrio già mai non fu franco,
/ sì che consiglio invan vi si balestra. / Ben può co· nuovi spron
punger lo fianco; / e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’adestra, /
seguitar si convien, se l’altro è stanco» (9-14). Ho citato per esteso
i versi affinché sia del tutto chiaro che le righe finali della lettera a
Moroello ne costituiscono una chiosa, come già ho detto, perfetta,
e certo più puntuale di quanto non sia l’epistola che accompagnava
il sonetto, nella quale il caso in questione, «utrum de passione in
passionem possit anima transformari», è trattato con maggior
distacco speculativo. Ma anche perché sia altrettanto chiara la
natura della contrapposizione, che vede da una parte ragione, virtù,
consiglio, libero arbitrio, e dall’altra il potere assoluto e
incondizionato di un Amore che di tutto ciò si fa beffe perché non
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gli appartiene e non lo riguarda, così come nulla ha a che fare il
temporale con il suono delle campane. La cosa può apparire ovvia, ma
finisce per non esserlo se si volesse allegorizzare un amore siffatto, dal
momento che ogni intenzione, appunto, allegorizzante deve fare i conti
con una situazione che in qualche modo può ricordare quella della
‘donna gentile’ della Vita nova, ove già la caratterizzazione negativa
dell’episodio sia sul piano morale che su quello intellettuale sbarra la
strada a ogni interpretazione nobilitante, a dispetto di quanto Dante
vorrà poi far intendere nel Convivio22. E in questo gioco di riprese e
contrapposizioni che configurano un vero e proprio rovesciamento
della situazione di partenza, anche l’anima ha il suo posto, visto che è
proprio a lei che uno spiritel d’amor gentile si rivolgeva, in Voi che
‘ntendendo, per strapparla dallo stato di tristezza ed abbattimento nel
quale era precipitata dopo la morte di Beatrice e per indirizzarla verso
il nuovo e severo amore per la Filosofia (vedi, in questa canzone, v.
11, l’anima trista, e, v. 19, l’anima che vuole morire, e, v. 30, l’anima
che piange, e finalmente le rampogne dello spiritel, vv. 40 ss.: «Tu non
sè morta, ma sè ismarrita, / anima nostra che sì ti lamenti ...»). Sì che
ora quella stessa anima che aveva saputo immergersi nelle ‘assidue
meditazioni’ della filosofia e gustare i suoi piaceri è impedita in ciò
che costituisce il suo funzionamento, che prevede che dal giudizio di
ragione discenda appunto la volontà e la libera capacità di scegliere,
guidata da quella Filosofia «la quale veramente è donna piena di
dolcezza, ornata d’onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade»
(Convivio II 15, 3: corsivo mio). Certo, la capacità di giudizio le
rimane, ed è importante. Solo in virtù di un giudizio che per essere
impotente non cessa di essere retto, infatti, la lettera intera può
assumere la sua struttura antitetica, che lucidamente contrappone
l’immediato passato della libertà e della dedizione filosofica al
presente nel quale il poeta si definisce via via incatenato, carcerato,
schiavo di un Amore assoluto e tirannico, incapace di mantenere i
propri lodevoli proponimenti, ‘empiamente’ impedito a filosofare,
privo del libero arbitrio e di ogni sia pur residua forza di resistenza
(appena sotto: nulla refragante virtute). Sì che, infine, la lettera intera
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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la si potrebbe definire come una ‘palinodia negativa’, o il resoconto di
una ‘ricaduta’, al modo, per ricorrere a un esempio efficace, del: «et
veggio ‘l meglio, et al peggior m’appiglio» (Rvf 264, 136), o, con più
precisa corrispondenza, con il: «Novum propositum mos vetustus
opprimit; et cum recta placuerint, relabor ad solita» (Psalm. penit. VII
10) di Petrarca23.
III
Con le osservazioni fatte circa la seconda metà della lettera
–già lo si è accennato- siamo precipitati al centro della grave questione
che ha a lungo affaticato gli studiosi: quella del delicato passaggio,
dopo la morte di Beatrice, dall’amore per lei a quello per la Filosofia,
descritto essenzialmente nelle prime due canzoni allegoriche
commentate nel Convivio, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete e
Amor che nella mente mi ragiona, e quella, appena successiva,
dell’ulteriore passaggio a un linguaggio tecnico e raziocinante e a
contenuti più specificamente dottrinali, quali quelli espressi nelle due
canzoni Le dolci rime (la terza commentata nel Convivio), sul concetto
di nobiltà, e Poscia ch’Amor (che certamente sarebbe stata
commentata, se l’opera non fosse stata interrotta) sul concetto di
leggiadria. Ed è appunto il Convivio ad aver raccolto e sviluppato
quanto le vecchie canzoni implicavano, configurando in termini assai
netti quel passaggio e attribuendo un forte valore progressivo alle
nuove scelte e alla loro connotazione etica. Ora, a me sembra
indubitabile che la lettera a Moroello attraverso l’immagine di Amore
che torna dall’esilio e riconquista il suo potere si riferisca in maniera
esplicita e diretta a tutto questo, denunciando un nuovo ribaltamento
della situazione legato all’interruzione del Convivio e alla chiusura
dell’esperienza e della stagione che per comodità potremmo
riassumere come ‘filosofica’. In tal senso, e per essere del tutto chiari,
il parallelo ch’è stato istituito con l’apparizione della Filosofia nel De
consolatione di Boezio andrà inteso in senso proprio a proposito della
canzone Voi che ‘ntendendo, prima24, e in senso perfettamente
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rovesciato dopo, a proposito della lettera a Moroello, ché se in Boezio
la Filosofia sopraggiungeva a scacciare le Muse, qui succede
esattamente l’opposto, perché ora è Amore che torna e scaccia la
Filosofia. L’apparizione della donna, insomma, ceu fulgur descendens,
non va interpretata come qualcosa che stia a sé e che, isolato dal
contesto, possa essere piegato alle più diverse intenzioni allegorizzanti,
dal momento che essa non è che lo strumento del vittorioso ritorno
sulla scena di Amore che azzera i propositi e gli impegni
‘lodevolmente’ assunti in precedenza.
Mi rendo ben conto che, in questo modo, le difficoltà che la
lettera e la canzone presentano non si risolvono: addirittura, si
aggravano, e sempre per la solita ragione. Ricorriamo, per una facile
analogia, al capitolo finale della Vita nova. È evidente che quando
Dante scrive: «Appresso questo sonetto [Oltre la spera] apparve a me
una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di
non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più
degnamente tractare di lei», egli apre una fase d’attesa destinata a
chiudersi quando gli sarà possibile un complessivo innalzamento di
contenuti, di genere, di linguaggio, al quale proprio quell’attesa è
chiamata a contribuire: «E di venire a·cciò io studio quanto posso ...».
Allo stesso modo, quando ne Le dolci rime dichiara di essere costretto
a lasciare contenuti e stile amorosi, si preoccupa anche di sottolineare
che si tratterà di un abbandono provvisorio, in attesa che si creino le
condizioni per un ritorno potenziato e definitivo che saprà crescere e
farsi forte proprio attraverso l’esperienza di pensiero diversa e in
qualche modo propedeutica che per il momento si prepara ad
affrontare. Ed è dunque stupefacente e intimamente contraddittorio che
il ritorno di Amore, proclamato nella lettera a Moroello, appaia come
un ritorno affatto regressivo, come un salto all’indietro che senza
alcuna possibile mediazione nega sin la minima possibilità di un
rapporto dialettico e positivo con il momento dell’approfondimento
filosofico e dottrinale e dunque con l’esercizio virtuoso dei libertatis
officia. L’opposizione è dura, precisa, ed esclude interferenze
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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reciproche, parziali sovrapposizioni. Il testo, letto senza pregiudizi,
non lascia scampo al proposito. Ma non è tutto. Sin qui, con qualche
fatica, ho limitato il discorso alla lettera, e ho cercato di parlare il
meno possibile della canzone. Se ora, finalmente, se ne parla, è di
nuovo per complicare le cose più che per risolverle.
Il primo elemento che salta agli occhi -ai miei occhi, almeno- è
di tipo negativo. Se la struttura della lettera, infatti, è interamente
guidata dal fitto gioco delle contrapposizioni tra il prima e il dopo, e dà
corpo a una vicenda che prevede rapidi e intensi ribaltamenti di scena
(ripeto: la gratuità del servizio presso il Malaspina da una parte, e i
‘ceppi’ e il ‘carcere’ dall’altra; la dedizione ammirevole agli officia
libertatis e la loro brusca interruzione; il ritorno dirompente di Amore
che stravolge la vita e le occupazioni di Dante, lo allontana dagli studi
filosofici e ne rende impotente la ragione ...), ebbene, la canzone
stranamente ignora tutta questa dialettica, limitandosi alla dettagliata
diagnosi di uno stato di asservimento erotico assolutamente
considerato, senza alcun riguardo per il complessivo e tormentato iter
spirituale del personaggio. La canzone, insomma, ignora la speciale
contestualizzazione fornita dalla lettera, e semmai gliene sostituisce
un’altra. O meglio, due altre: quella che percorre le vie tutte interne del
coup de foudre amoroso e dell’alienazione da sé che comporta, e
quella, confinata entro il congedo, che incomprensibilmente fa della
descrizione della fenomenologia amorosa una sorta di messaggio
rivolto dal poeta alla Firenze che l’ha mandato in esilio. In altre parole,
siamo davanti a un rompicapo fatto di tre pezzi che non riusciamo a
mettere insieme: il primo pezzo sta nella lettera, che ci prospetta la
ricostruzione di un percorso fortemente scandito da cesure e
capovolgimenti che riguardano lo scontro tra Amore e Filosofia, e cioè
tra passioni e affezioni sensibili da una parte, e ragione e libero arbitrio
e scelte etiche dall’altro. Il secondo sta nel corpo della canzone,
dedicata a una analisi ‘materiale’ della passione di tipo schiettamente
cavalcantiano (si tratta, senza ombra di dubbio, del testo più
rigorosamente cavalcantiano di Dante). Il terzo sta nel congedo, che in
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maniera inaspettata e del tutto irrelata conferisce alla canzone un
misterioso e però non scansabile sovrappiù di significato politico. Ma
vediamo un poco più da vicino anche il testo della canzone, in maniera
assai rapida, facendo continuo e implicito riferimento a quanto già
detto da altri, e soprattutto alla minuziosa analisi della Allegretti, e
aggiungendo solo pochissime cose.
Stanza prima. Lo stesso Amore di cui Dante ha a dolersi è
invocato affinché conceda al poeta di riuscire ad esprimerere
adeguatamente tutto il dolore che sente e la sua condizione d’uomo
«d’ogni vertute spento» (corrisponde al «nulla refragante virtute»
della lettera a Moroello, e al «d’onne valor voto» del sonetto Spesse
fiate: Vita nova 9). Egli è infatti contento di morire, ma non sopporta
l’idea di non ‘saper dire’ e di non essere perciò credibile. Ma,
aggiunge, se Amore gli concederà «parlar quanto tormento», la
donna, «questa rea» (è così ch’egli la presenta, v. 13) non dovrà
ascoltarlo, perché, se lo facesse, «pietà faria men bello il suo bel
volto». Questo tratto fortemente masochistico, contrasta con l’ampia
e tradizionale casistica, ampiamente documentata dalla Allegretti:
23, che prevede o spera di cogliere almeno una traccia di pietà nel
volto di lei, magari in morte del soggetto innamorato. Scopriremo
sùbito, però, che è tratto perfettamente congruente con il carattere
ossessivo dell’immagine mentale che si è costituita come oggetto del
desiderio, sottratto per definizione al divenire ed emblema
dell’alterità assoluta e immedicabile che del desiderio custodisce
appunto il nucleo più segreto. In questo senso, l’antecedente
dantesco più appropriato è rappresentato dalla ‘pargoletta’, la cui
forza seduttiva è strettamente intrecciata alla sua radicale incapacità
di ‘sentire’ l’amore, data la sua troppo giovane età.
Stanza seconda. Il poeta non può impedire che l’immagine
della donna si installi nella sua mente perché non può impedirsi di
pensarla. Egli dunque si procura follemente da sé il proprio male,
perché è insieme la bellezza e la durezza di lei ch’egli «dipinge e
forma» nel proprio animo, e la contempla poi in un crescendo
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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irrefrenabile di desiderio che sfocia in un impulso autodistruttivo,
essendo ben consapevole non solo che sua è la responsabilità per
avere acceso e alimentato il fuoco che lo brucia, ma addirittura che
quell’immagine è così intimamente sua ch’egli può distruggerla solo
distruggendo se stesso. Con una bella e tragica applicazione, dunque,
del principio enunciato ne Le dolci rime 52-53: «poi chi pinge figura,
/ se non può esser lei, no·lla può porre». Né esiste «argomento di
ragion» che possa opporsi allo scatenamento di una siffatta tempesta
interiore, che finisce per sfogarsi in sospiri e lacrime (30: «e anche
agli occhi lor merito rende [l’angoscia]». Non vedo che sia stato
allegato, per questo verso, il riscontro assai pertinente con Vita nova
28, 5: gli occhi «della loro vanitate furono degnamente
guiderdonati»). Per i primi versi della stanza si è spesso rinviati al
topos di origine siciliana dell’immagine dipinta nel cuore (Notaro,
Meravigliosamente 8-12 e 19-24, e Pier della Vigna, Amando con fin
core 9), che non è però sufficiente, perché qui l’immagine ha perso il
suo esclusivo carattere topico e ha assunto quello di un’analisi
dinamica e dialettica scientificamente fondata, onde valgono
soprattutto i rimandi alla finezza psicologica di Cino (I 2; XLIV 1-4;
CII 16-18; CXXI 9-10 [vedi avanti]) e alle competenze medicofisiche di Cavalcanti e soprattutto del suo commentatore Dino del
Garbo circa la formazione dei phantasmata amorosi. Ma si veda
Dante stesso, in versione ancora tradizionale: Volgete gli occhi 9-11
(45 = LIX Barbi), e La dispietata mente 21-22 (12 = L Barbi). E si
veda in ogni caso la fitta serie di rimandi fornita da Aldo Menichetti
in Chiaro Davanzati, Rime, edizione critica con commento e
glossario a cura di A. M., Bologna, Commissione per i testi di
lingua, 1965, pp. 145-146 = XL 11 e nota, con altri riscontri in Dante
da Maiano, Panuccio, e Lapo Gianni.
Stanza terza. L’immagine vittoriosa e feroce della donna che
domina la volontà del poeta e lo fa andare dov’ella vuole (si ricordi
l’Epistola a Moroello: «ut non quo ego sed quo ille vult me verti
oporteat») lo obbliga a cercarla «colà dov’ella è vera», con la stessa
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forza con la quale in natura le cose simili si attraggono tra loro. Per
intendere il testo, occorre precisare, a questo punto (come, ch’io
sappia, non è stato fatto) la natura paradossale della similitudine, dal
momento che nulla è in verità più dissimile del poeta e della donna,
rispettivamente neve e sole nella nuova similitudine che
immediatamente segue, sì ch’egli, trascinato da un potere a lui
esterno, «va co’ suo’ piedi al loco ov’egli è morto» (v. 40: ovvio il
rinvio, con la Allegretti: 33, a Cino, CLXII, Io son sì vago della
bella luce 3-8). Qui, egli ha l’impressione di udire una voce che
avverte: ‘costui sta per morire’, ed ha un attimo di esitazione, e si
volge in cerca d’aiuto: troppo tardi! ché gli occhi, questa volta reali,
della donna già l’hanno colpito.
Stanza quarta. Cosa istantaneamente avvenga il poeta non è in
grado di descriverlo, dal momento che lo shock subìto lo lascia
tramortito, senza vita, e solo Amore, che assiste alla scena, potrebbe
renderne testimonianza. E quando egli rinviene (v. 49: «e se l’anima
torna poscia al core») non è in grado di ricordare nulla, ché quanto
gli è accaduto è coperto da «ignoranza ed oblio». Può però, nel
risorgere, constatare l’entità della ferita e i suoi perduranti effetti, sì
che continua a tremare di paura, mentre il volto mostra attraverso il
suo pallore quale fosse stata la potenza del fulmine (trono) che gli è
piombato addosso: né vale a rassicurarlo, onde rimane pallido a
lungo, che tale fulmine abbia avuto origine dal dolce riso di lei.
Come si vede, l’attimo culminante dell’esperienza d’amore è
inconoscibile e indescrivibile, coincidendo con un dominio della
passione tanto concentrato e assoluto da alienare e spossessare il
soggetto da sé, bruciando ogni residuo margine di personale autoconsapevolezza. Sì che, infine, si può girare attorno al fenomeno,
descriverne la formazione e la dinamica interna e le conseguenze, ma
esso, in quanto tale, resta fondamentalmente misterioso, connotato
da ignoranza e oblio, sì che, davvero, «imaginar nol pote om che nol
prova» (Cavalcanti, Donna me prega 53). Tutte notabili sono le
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corrispondenze di questa stanza con il sonetto Spesse fiate (Vita
nova 9 = XIII Barbi).
Stanza quinta. Qui, con visibile stacco, è il momento più
propriamente narrativo, che fornisce le essenziali coordinate spaziali
e temporali. Amore ha colto il poeta nel mezzo delle montagne
(Alpi), lungo quella valle dell’Arno che sempre ne ha favorito i
poteri (e dunque nel Casentino), e qui appunto continua a
tormentarlo attraverso il fulgore micidiale degli occhi di lei. Né ci
sono, in quel luogo, donne o «genti accorte» con le quali il poeta
possa sfogarsi con la speranza di essere compreso: egli è solo con la
sua passione e se non sarà dalla donna medesima, da nessun altro gli
può venire qualche aiuto. Ma lei, bandita com’è dalla corte d’Amore
(Foster-Boyde, ad loc.: «because disobedient to the law of Love that
‘a nullo amato amar perdona’, Inf. V 103»), è armata d’una tale
corazza d’orgoglio e insensibilità che mette il suo cuore al sicuro
dalle saette del dio (e qui è particolarmente marcata la ripresa di
moduli tipici delle ‘petrose’).
Congedo. Dante si rivolge alla canzone («O montanina mia
canzon ...») ordinandole di partirsene da lui: nel suo cammino forse
vedrà Firenze, la mia terra, che, così come fa la donna, «vota
d’amore e nuda di pietate» gli chiude le porte in faccia. E se mai
riuscirà a entrare, vada dicendo ai suoi cittadini che chi l’ha scritta
non è più in grado di far loro guerra, e che al presente è trattenuto da
una catena così forte che gli impedirebbe persino di tornare in patria,
nell’ipotesi che venga meno la crudele sentenza che lo condanna
all’esilio: «là ond’io vegno una catena il serra / tal, che se piega
vostra crudeltate, / non ha di ritornar qui libertate» (vv. 82-84).
Dante, in Par. XXV 1-6, citato sopra, nota 19, riformulerà proprio
questi versi e ridarà corpo all’ipotesi di un venir meno della crudeltà
che lo serra fuori dalla patria. Ma lo fa in prospettiva rovesciata,
perchè nella canzone si direbbe che il ritorno possa essere favorito
da quella stessa schiavitù amorosa che lo distoglie tanto dagli studi
filosofici che da ogni idea di ‘guerra’. Nella Comedìa, invece, è
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proprio il poema «al quale à posto mano e cielo e terra» che potrebbe
meritarglielo. Insomma, le riprese di lessico e immagini sono forti e
indubitabili ma non tutto torna, e soprattutto non pare lecito fare dei
versi del Paradiso la prova per altro assai tarda che permette di
allegorizzare a ritroso lettera e canzone vedendovi un annuncio della
Comedìa, sia diretto, come voleva Pascoli, sia indiretto, mediato da
una rinnovata apparizione di Beatrice, come vogliono altri (da
Zingarelli a Ricolfi a Hardie: circa l’idea di Adolfo Bartoli, che nella
donna si celi l’immagine ideale di Firenze, vedi la risolutiva, e
negativa, discussione di Gorni: 134-137).
Partiamo dal fondo, allargando un poco il discorso appena
fatto sul congedo. Quello che vi si dice è chiaro, e non si presta a
contorcimenti interpretativi. Ma non è affatto chiaro quello che le
parole sottintendano, né come si leghino al resto, né infine come
avvenga che Dante mandi a Moroello, come cosa che lo riguarda
direttamente, una canzone ch’è invece indirizzata ai fiorentini. Su un
piano generale, in ogni caso, ha ragione Stabile: 395: «In questa
fredda nube di muraglie, simile e contrapposta alla vergine armata
che ormai lo possiede, lo spirito esiliato di Dante tornerà penetrando
(se dentro v’entri, v. 80) non come il ferox dominus della lettera a
Moroello che pulsus a patria post longum exilium sola in sua
repatrians, quicquid eius contrarium ... vel occidit vel expulit vel
ligavit, ma col messaggio della sua canzone annunciatrice di un
vittorioso perdono (vv. 80-84). Camera di perdon savio non serra, /
ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra dice la chiusa di Tre donne
(Rime CIV 106-107), e il congedo della montanina, in voluta
opposizione con la saetta vendicatrice di Rime CIII (vv. 79-83) [Così
nel mio parlar], è una freccia scoccata come segnale di pace». Ma un
segnale di pace che non riusciamo a collocare, e che resta
strettamente legato alla figura della donna, chiamata in qualche
modo a fare da garante del mutato atteggiamento di Dante ormai
lontano da propositi di guerra (il senso della frase relativa, notano
Foster e Boyde, p. 339, «would be compatible with any period in D’s
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Enrico
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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exile», ma sembra in ogni caso che essa sia comunque da porre dopo
la sconfitta dei fuorusciti Bianchi e dei ghibellini alla Lastra, nel
luglio 1304). Ma naturalmente si potrebbe anche dubitare che ci sia
un reale sottofondo politico, e, per quanto la cosa mi paia difficile,
intendere l’ultima ‘scandalosa’ affermazione della canzone come
l’iperbolico culmine di un processo di alienazione amorosa, se non
addirittura come «un omaggio di alta cortigianeria verso i suoi ospiti
del Casentino, ipotesi che ben si concilia con l’altra che tutta la
canzone sia un omaggio a una nobildonna dei conti Guidi» (così
Pernicone, ma per molte ragioni la cosa è inverosimile: e poi, che
omaggio sarebbe quello di descrivere un Casentino al tutto privo di
donne e genti accorte?). In tanta incertezza, occorre dire, trova
spazio l’ipotesi di Hardie, che pensa all’apparizione del fantasma di
Beatrice (ma che dire di quel: « dov’ella è vera»?), e, sullo sfondo,
all’imminente e totalizzante impegno riversato sulla Comedìa, dato
che solo qualcosa del genere potrebbe bilanciare la rinuncia a
Firenze e renderci ragione di un’affermazione tanto azzardata. Ma, di
nuovo, i testi s’oppongono, perché nella canzone non c’è nulla che
faccia pensare a un risolutivo e a suo modo salvifico ritorno di
Beatrice e all’eventuale forte dialettica che esso instaurerebbe,
mentre nell’Epistola tale dialettica esiste ma è di segno opposto, e le
connotazioni etiche dell’episodio sono tutte pesantemente negative.
Allora? Già ho citato sopra le parole di Gorni («potrebbe essere
una specie di falso d’autore – forse una vecchia canzone d’amore,
recuperata durante l’esilio a fini allegorici non evidenti, e come tale
spacciata a Moroello e provocatoriamente indirizzata alla città: in tal
caso, solo il congedo sarebbe degli anni dell’esilio»): confesso che,
dopo una prima reazione d’incredulità, mi sono pian piano avvicinato
a questa intelligente ipotesi, anche se estrema, e ne ho forse tratto
qualcosa. Per esempio, anche alcune controindicazioni, dal momento
che si sarebbe tentati, anche se la cosa non è a rigore indispensabile, di
attribuire agli anni dell’esilio anche l’ambientazione casentinese
dell’ultima stanza, e che qualche sfumatura di senso si perde25. Senza
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contare, poi, che esiste la rete abbastanza solida dei sonetti di
corrispondenza con Cino e dei comuni rapporti col Malaspina, la
quale, detto in maniera assai generale, dà l’impressione di legare la
‘montanina’ agli anni dell’esilio. Al proposito, non penso che si
potrà andar molto avanti con le ipotesi, sin qui abbastanza libere di
muoversi in più direzioni, se finalmente tale rete non la si
riconsidererà in toto, sciogliendo i nodi che ancora restano. Per
esempio, il sonetto di Dante Perch’io non trovo chi meco ragioni (e
la risposta di Cino, Dante, i’ non so in qual albergo soni) sembra
molto vicino ad alcuni tratti precisi della nostra canzone, tant’è che
Torraca associa strettamente i due testi, riportati entrambi al 1311
(più genericamente agli anni d’esilio tra il 1303 e il 1306 riferisce lo
scambio Zaccagnini): ma càpita anche che Barbi ammetta la
possibilità che sia stato precedente, e che il rio loco nel quale Dante
si trova sia appunto Firenze, il che mi pare assai improbabile (che
senso avrebbe che Dante dica a Cino: ‘il fatto di essere a Firenze mi
scusi se non ti ho scritto prima ...’?)26. Il caso, va detto, è sollevato
da Gorni: 140-141, che però non s’azzarda, con eccessiva prudenza,
direi, a trarne conclusioni di natura cronologica. Eppure, a guardare
le cose dal punto di vista della ‘montanina’, esso fa il paio con Io
sono stato, e insomma entra a buon diritto a far parte dei nodi di
quella tale rete... Ma ancora. Ho ricordato in apertura il sonetto
CXXI di Cino, che mi piace riferire per intero:
Signor, e’ non passò mai peregrino,
o ver d’altra manera viandante,
cogli occhi sì dolenti per cammino,
né così greve di pene cotante,
com’i’ passa’ per lo mont’Appenino,
ove pianger mi fece il bel sembiante,
le trecce biond’ e ‘l dolce sguardo fino
ch’Amor con l’una man mi pone avante;
e coll’altra nella mia mente pinge,
a simil di piacer sì bella foggia,
che l’anima guardando se n’estinge.
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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Questa dagli occhi mie’ men’ una pioggia,
che ‘l valor tutto di mia vita stringe,
s’i’ non ritorno da la nostra loggia.
Ora, il motivo del passar l’alpe / l’appennino è ben ciniano,
per ragioni squisitamente geo-biografiche e raddoppiate dalla
circostanza che i Vergiolesi si erano ritirati in esilio proprio nella
montagna pistoiese, alla Sambuca, e che lì Selvaggia era morta fra il
1306 e il 1310 e lì era stata sepolta (CXXII, Oimè lasso 36-38:
«condutta fosti suso gli aspri monti, / dove t’ha chiusa, oimè, fra duri
sassi / la morte», ma ancora, per esempio, CXXIV, 1 ss.: «Io fu’ ‘n
su l’alto e ‘n sul beato monte, ch’i’ adorai baciando ‘l santo sasso / e
caddi ‘n su quella petra [...] l’alpe passai con voce di dolore»). Può
ben essere, dunque, che il poeta racconti al Signore, Moroello
Malaspina come, valicando ancora una volta l’Appennino, fosse
stato assalito dall’imagine di lei con tanta forza da morirne di
dolore, sì che il ritorno presso l’ospitale dimora di lui, la nostra
loggia, gli si presenta come l’unico scampo possibile27. Quello che
vorrei osservare, in ogni caso, è che non siamo troppo lontani
dall’Epistola e dalla canzone di Dante: per l’ambientazione
‘montanina’; per l’omaggio al Malaspina dalla cui corte anche Dante
deve rimpiangere d’essersi allontanato («a limine suspirate postea
curie separato»); per la centralità di quell’immagine ‘dipinta’ nella
mente che proprio lì, in quella cornice montana, di colpo rivela tutta
la sua forza ossessiva e distrugge la vita del poeta. Questa
impressione di una sorta di circolarità di motivi organizzati secondo
moduli narrativi affini, che finisce per legare testi diversi quasi in un
corpo unico, si rafforza ancora se si legge un altro sonetto di Cino di
più difficile interpretazione, il CLVI, Perché voi state forse ancor
pensivo.
Perché voi state forse ancor pensivo
d’udir nòve di me, poscia ch’i’ corsi
su quest’antica montagna de gli orsi,
de l’aere e di mio stato vi scrivo.
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Già mi percosse sì un raggio vivo,
che ‘l mio camino a veder follia torsi,
e per mia sete temperare a sorsi
chiar’acqua visitai di blando rivo.
Ancor, per divenir sommo gemmieri,
nel lapidaro ho messo ogni mio ‘ntento,
interpognendo vari desideri.
Ora su questo monte è tratto un vento,
e studio sol nel libro di Gualtieri
per trarne vero e novo intendimento.
Ed ecco quella che a me pare sia la parafrasi interpretativa, e
dunque piuttosto libera, più accettabile, anche se non del tutto
soddisfacente nei confronti della trama allusiva del testo: ‘[1-4]
Poiché voi siete ancora in ansiosa attesa di mie notizie da quando io
m’inoltrai su per questa antica montagna popolata dagli orsi, vi
scrivo del tempo che vi fa e della mia situazione. [5-8] In passato
sono stato folgorato dal vivo raggio della bellezza di una donna, al
punto che ho deviato per lei dal mio cammino ed ho constatato quale
inutile follia ciò sia stato: allora, per soddisfare il mio desiderio, l’ho
suddiviso in parti più piccole ed ho frequentato donne più piacevoli e
disponibili, [9-11] e addirittura ho fatto quello che fa il gran
collezionista di gemme, che vorrebbe possedere l’intero lapidario e
per questo concentra il suo desiderio ora su questa ora su quella
pietra. [12-14] Ma adesso è avvenuto che su questo monte si sia
alzato il gran vento della passione allora suscitata da quel lampo di
luce, sì che mi trovo costretto a cercar di capire davvero che cosa sia
l’amore, tornando a studiare il De amore del Cappellano
(Gualtieri)’.
Naturalmente, qualche minima chiosa è necessaria. Al v. 3 lo
Zaccagnini ha supposto che si alluda al passo appenninico
dell’Orsigna, per il quale passava la via Francesca che portava da
Pistoia a Bologna28. Potrebbe essere, ma in ogni caso è sufficiente
intendere che si tratti di una montagna particolarmente selvaggia,
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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quale quella, per esempio, che Cenne da la Chitarra raccomandava
per il mese di febbraio: «Di febbraio vi metto in valle ghiaccia / con
orsi grandi vecchi montanari, / e voi cacciando con rotti calzari ...»,
ch’è l’opposto della gradevole «valle d’alpe montanina» di Folgore,
Di agosto 2. Ai vv. 7-8 (ma ciò vale anche per la prima terzina, che
dilata il concetto mediante la nuova similitudine) ha senz’altro
ragione Zaccagnini: «per temperare a sorsi la mia sete d’amore,
ricorsi a meno crudeli e più agevoli amori», ed è specialmente
azzeccato e per noi interessante il rimando alla terzina finale del
sonetto CXXX, con il quale Cino risponde ai rimproveri di Dante in
Io mi credea giustificando la sua volubilità erotica in nome di una
sorta di trascendente fedeltà al ‘vero’ e irraggiungibile amore:
«ch’un piacer sempre me lega ed involve, / il qual conven che, a
simil di beltate, / in molte donne sparte mi diletti»29. Ancora, a
conferma, la chiara acqua è in evidente opposizione con il topico
motivo, in Cino, della donna oscura, nero-velata, ecc. Al v. 12 il
vento che ora soffia così forte «su questo monte» va assieme al
lampo di quel raggio vivo, e torna a ricomporre nell’unità del
fenomeno l’unicità della passione, minacciando in aggiunta, a norma
di metereologia (si veda ancora il saggio di Stabile), il ripetersi della
folgorazione (per l’associazione folgore-vento, vedi per esempio,
completando una citazione già fatta sopra, Guinizzelli, 3, Dolente
lasso 5-6: «come lo trono che fere lo muro / e ‘l vento li arbor’ per li
forti tratti», e poi Dante, Inf. III 133-134: «La terra lagrimosa diede
vento, / che balenò una luce vermiglia»).
Ma che cosa si ricava, infine, da questa assai parziale
divagazione ciniana? Alcune cose sicure. La prima: sullo sfondo
alluso dell’esilio e del ‘peregrinare’ e della dipendenza dalla
protettiva ospitalità del signore, una situazione di spaesamento, di
solitudine e incomunicabilità che incrementa il gioco dello scambio
incrociato di notizie e che ha il suo luogo topico in un Appennino
aspro e selvatico. La seconda: in questa situazione, il lacerante e
complesso recupero oppure il rinnovarsi per istantanee folgorazioni
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del rapporto amoroso, che riapre nel cuore dell’esiliato la ferita per
ciò che ha perduto e insieme lo riscatta con la violenza stessa della
sua luce da ciò che lo circonda. Siamo insomma in un àmbito
tematico che soprattutto Cino rappresenta molto bene, ma che al
fondo è lo stesso della canzone di Dante. La quale sarà sì, come
Gorni pensa e mi ha convinto a pensare, qualcosa di pasticciato, per
usare questa parola, ma pure finisce per corrispondere a quella
situazione. La mia opinione è dunque che per ridurre i margini di ciò
che non si riesce proprio a capire sia almeno utile ripartire dal troppo
trascurato Cino, indispensabile per disegnare quella stessa rete nella
quale anche Dante pare impigliato. In questo senso, la divagazione
non è nulla più di un dito puntato su un campo ricco di sollecitazioni
e sorprese (la catena dei possibili rimandi che balena a una lettura
appena attenta di Cino è lunga, e sopra non se ne ha che un breve
saggio, pieno di obbligate rinunce), e però già individua, credo,
quella che potrei definire la questione centrale: che significa per due
poeti d’amore come Dante e Cino precipitare nella condizione di
esiliati. Che significa, voglio dire, perdere la certezza di ogni
riferimento acquisito e insomma il luogo stesso in cui è nata e si è
sviluppata ed ha abitato la propria vicenda poetica, e l’ha resa
comprensibile e, vorrei dire, ‘comunale’ al suo pubblico naturale. La
frattura è troppo grave e definitiva, in particolare per Dante, e la
poesia non può non dar conto di questa violenta soluzione di
continuità, magari per poco, il tempo di assimilare il trauma: essa
non può non ripartire da zero, nel vuoto di una situazione minima
che richiede, quanto meno, che sia rinnovato il rito di iniziazione ad
Amore. Può essere un atto di fedeltà e continuità, può essere
qualcosa d’altro ... l’importante è che il rito ancora una volta abbia
luogo, sì che l’energia di quella prima folgore che era scoccata là,
oltre lo spartiacque dell’esilio, nel mondo ormai perduto, torni a
brillare anche nell’aspro deserto montano del presente e a rifluire
nelle vene della poesia. Il caso di Dante, ripeto, è diverso da quello
di Cino, che è prima di tutto il sommo giurista garantito da una fama
universale: tanto diverso che il momento regressivo –niente di più
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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innaturale, per Dante!- che la sua lirica amorosa deve attraversare
finisce rapidamente per ucciderla, se è vero, come tutto lascia
credere, che proprio la ‘montanina’ sia la sua ultima canzone. E da
questo punto di vista è senz’altro significativo che proprio la
regressione al più semplice e diretto e ‘cavalcantiano’
riconoscimento di Amore come forza, sia in lui come sovraccaricata
di intenzioni nobilitanti, di forzate trasposizioni. È insomma curioso
(è il caso di ricordare che il Convivio, I 5, 2, condanna con più
ragioni il fatto che si chiosi una poesia volgare mediante un testo
latino?) che proprio un sonetto come Io sono stato diventi il
pretenzioso «sermo Calliopeus» dell’Epistola a Cino, e che una
canzone come Amor, da che convien dilati le proprie ambizioni e i
propri significati sia attraverso le incongruenze di una riscrittura che,
ipotesi per ipotesi, ha forse toccato, con il congedo, anche l’ultima
stanza, sia attraverso l’eccezionale partitura dialettica dell’Epistola a
Moroello. Tutto è cambiato, drammaticamente. La lirica d’amore
evidentemente non basta più a se stessa, ed è ricondotta alle proprie
origini e gravata di pesi non suoi solo per certificarne la morte: ed è
forse in questo estremo fascio di contraddizioni che si nasconde il
segreto della ‘montanina’ e, sotterranea e implacabile, la lucidità di
Dante.
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NOTE
1
Dante Alighieri, La canzone montanina, a cura di Paola Allegretti, con una
prefazione di Guglielmo Gorni, Verbania, Tararà Edizioni, 2001, pp. viii-138. Per le
edizioni citate: D. A., Rime della maturità e dell’esilio, a cura di Michele Barbi e
Vincenzo Pernicone, Firenze, Le Monnier, 1969, pp. 642-652; D. A., Rime, a cura di
Domenico De Robertis, Firenze, Le Lettere [Società Dantesca Italiana. Edizione
Nazionale], 2002, vol. 3, pp. 225-235.
2
Dante Alighieri, Epistole, a cura di Arsenio Frugoni e Giorgio Brugnoli (di
Brugnoli è la cura dell’ Epistola a Cangrande; di Frugoni quella delle altre), in D.
A., Opere minori. Tomo II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, pp. 536-539. Ma qui la
si cita secondo il testo fornito dalla Allegretti, p. 2 e pp. 11-14, che ha ricontrollato
il manoscritto Vaticano Palatino Latino 1729, f. 60r., unico testimone della lettera.
3
Cito Cino da Pistoia da Poeti del Dolce stil nuovo, a cura di Mario Marti, Firenze,
Le Monnier, 1969. Si veda al proposito la messa a punto della Allegretti, pp. 114118, insieme alla precedente e fine analisi di Corrado Calenda, ‘Potentia
concupiscibilis, sedes amoris’: il dibattito Dante-Cino, nel vol. Appartenenze
metriche ed esegesi. Dante, Cavalcanti, Guittone, Napoli, Bibliopolis, 1995, pp.
111-124 (in particolare, per Io sono stato, pp. 119 ss.), che non tocca della
‘montanina’ ma centra il punto fondamentale di un momento particolare del tutto in
controtendenza all’interno dell’esperienza dantesca, per cui addirittura «la continuità
tra libello e poema viene
espressamente interrotta dal nostro sonetto»,
contraddicendo «la linearità di un itinerario maggiore precocemente intuito e
perseguito». E si veda anche il denso contributo di Elisabetta Graziosi, Dante a
Cino: sul cuore di un giurista, «Letture classensi», 26, 1997, pp. 55-91. La studiosa,
salvo un breve accenno, non tratta della nostra canzone, ma anch’essa affronta la
questione complessiva della compatibilità o meno di siffatte esperienze liriche,
apparentemente divaganti e ‘irresponsabili’ ma paradossalmente dotate di pesanti
pezze giustificative in latino, con le posizioni di Dante tra Convivio e Commedia
(vedi in particolare pp. 67 ss.). Da questo punto di vista, la sua tesi mi pare tuttavia
un po’ riduzionista, tendendo a disinnescare le contraddizioni più che ad esaltarle:
anche, mi pare, con qualche forzatura cronologica (ma per ciò, vedi avanti, nota 21).
4
Per l’interpretazione allegorica, si veda soprattutto Adolfo Bartoli, La nuova lirica
toscana, nella sua Storia della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1881, tomo IV,
pp. 277-290, e Giovanni Pascoli, L’Alpigiana, in La mirabile visione. Abbozzo di
una storia della Divina Commedia, Bologna, Zanichelli, 1913, in part. pp. 289-309.
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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Ma occorre anche dire, a questo punto, che esiste pure l’ipotesi opposta, dotata di
ferrea ed economica consequenzialità, e cioè che un nuovo e tempestoso amore
abbia distolto Dante «dalle meditazioni e dalla tensione creativa per la stesura del
poema». Dante, «il quale, ridotto a mal partito dalla passione per questa donnafolgore, si vergogna della propria umiliazione e confessa per intero al nobile
protettore il suo stato d’animo [...] Fino ad allora, dal 1302 al 1307, le donne e la
relativa poesia erotica erano state bandite dalla sua vita di esule; ora Amore è
rientrato come un terribile padrone nella sua anima e la tiranneggia facendo tabula
rasa di tutto. Il preciso riferimento alle “meditationes assiduas, quibus tam celestia
quam terrestria intuebar”, escluse ora dalla sua anima, certifica come sia proprio la
Commedia a essere violentemente interrotta, quasi mandata in esilio». Le parole
citate sono di Emilio Pasquini, che ha formulato la sua interpretazione già nel saggio
La terzultima palinodia dantesca, negli «Atti della Accademia delle Scienze
dell’Istituto di Bologna», Rendiconti, LXXII, 1983-1984, pp. 73-82, poi rifuso nel
capitolo La parabola dell’esilio, nel suo recente volume Dante e le figure del vero.
La fabbrica della Commedia, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 122-148 (le
citazioni, da p. 128). Dico sùbito che non mi sento di accogliere questa ipotesi, come
implicitamente risulta dal corso stesso di questo mio intervento: ma anche che
occorre aspettare a discuterla con tutta l’attenzione che merita quando si potrà
leggere, nella miscellanea che si sta confezionando in onore di Gennaro Barbarisi, il
nuovo saggio nel quale Pasquini riprende e sviluppa i suoi argomenti.
5
Guglielmo Gorni, La canzone “montanina”, «Letture classensi», 24, 1995, pp.
129-150: la cit., p. 136, ma vedi anche pp. 141 ss.: restando naturalmente evidente
che non solo il congedo ma anche la lettera a Moroello è degli anni dell’esilio, sì che
la questione del doppio e apparentemente inspiegabile invio, a Moroello e a Firenze,
aggiunge problema a problema.
6
Giorgio Stabile, Modelli naturali e analisi della vita emotiva. Il caso di Dante,
Rime CXVI, nel vol. misc. Studi sul XIV secolo in memoria di Anneliese Maier, a
cura di Alfonso Maierù e Agostino Paravicini Bagliani, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1981, pp. 379-393. Altri importanti studi sulla canzone sono quelli di
Francesco Maggini, La canzone “montanina” di Dante [1956], in Due letture
dantesche inedite (Inf. XXIII e XXXII) e altri scritti poco noti, con una bibliografia
ragionata a cura di Antonio di Preta e un ricordo biografico di Giovanni Nencioni,
Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 50-57; Colin G. Hardie, Dante’s “canzone
montanina”, «The Modern Language Review», 55, 1960, pp. 359-370; Fausto
Montanari, La canzone “Amor da che convien pur ch’io mi doglia”, «Letterature
Moderne», XII, 1962, pp. 359-368; Vincenzo Pernicone, voce Amor da che convien
pur ch’io mi doglia, in ED, I, pp. 219-221; Giorgio Barberi Squarotti, La canzone
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‘montanina’, in L’artificio dell’eternità, Verona, Fiorini, 1972, pp. 157-185; Guido
Capovilla, Petrarca e l’ultima canzone di Dante [1994], in «Sì vario stile». Studi sul
Canzoniere del Petrarca, Modena, Mucchi, 1998, pp. 103-202 (pur affrontandolo in
un’ottica del tutto particolare, si tratta di un saggio che analizza minuziosamente il
testo dantesco: vedi in part. pp. 106-146). Qualcosa di più resta da dire del saggio di
Hardie, il quale ha cercato di dimostrare che la canzone risale, d’accordo in ciò con
Torraca, al 1310-1311, e che la folgorante apparizione della donna altro non è che la
ritornante immagine di Beatrice morta, che riconduce Dante alla grande poesia
d’amore e, in definitiva, alla Comedìa. Queste ipotesi, pur ben argomentate, sono
tuttavia efficacemente discusse e respinte da Kenelm Foster e Patrick Boyde nella
loro edizione: Dante’s Lyric Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1967, vol. II,
Commentary, pp. 330-331 e 338-340.
7
Francesco Torraca, rec. a Oddone Zenatti, Dante e Firenze. Prose antiche con note
illustrative ed appendici, Firenze, Sansoni, 1900, «Bullettino della Società Dantesca
Italiana», n. s., X, 1903, in part. pp. 139-160. Ma che la Curia sia per forza quella di
Arrigo VII (argomento centrale per Torraca) è stato con ragione contestato da
Salvatore Santangelo, Dante e i trovatori provenzali, Catania, Giannotta, 1921, pp.
161-162. In ogni caso, di là dal fatto che le ipotesi dello studioso –quella relativa
alla data, come quella che unisce in un sol gruppo le ‘petrose’, pur esse riportate,
dunque, al 1311, e la ‘montanina’- non hanno avuto fortuna, occorre dire che queste
pagine restano tra le più importanti che il dantismo di cent’anni fa abbia prodotto
sull’argomento.
8
Oddone Zenatti, Dante e Firenze, cit., pp. 439-440, sulla base dell’errata lettura:
gratuitatio (contro Witte che emendava: affectus gratuitae generositatis; ma già il
Torri leggeva correttamente e manteneva a testo: gratuitatis); Ernesto Giacomo
Parodi, Intorno al testo delle epistole di Dante e al cursus [1915], in Lingua e
letteratura, a cura di Gianfranco Folena, Venezia, Neri Pozza, 1957, pp. 399-442 (in
part. p. 419, per la citazione). Si veda una ulteriore conferma dell’emendamento:
gratuitas, generalmente fatto proprio dagli studiosi, in Laura Rossetto, Per il testo
critico della Epistole dantesche: l’uso del “cursus”, nel vol. Tre studi danteschi,
Roma, Jouvence, 1992, pp. 61-131 (in part., p. 86 e n.: l’argomento è ancora quello
di Parodi). Gli altri due studi del volume sono rispettivamente di Michele Bordin,
Sulle rime dubbie di Dante. Per la restituzione a Cino del sonetto X [Bernardo, io
veggio ch’una donna viene], pp. 9-32, e di Paolo Fusco, “Se ‘l viso mio a la terra si
china”: un sonetto attribuibile a Dante, pp. 33-59.
9
Per l’oraculum come il luogo fisico nel quale si danno gli oracoli, si veda già
Cicerone, De divinatione 1, 37: «illud oraculum Delphis tam celebre et tam clarum»,
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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla ‘montanina’ ...
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ma soprattutto, nella famosa descrizione di Reg. I 6, il tempio di Salomone, che ha
al suo interno l’oraculum, ‘cella’ o ‘tabernacolo’, di cui tanto hanno parlato anche
gli esegeti medievali (ancora, per esempio, Pietro di Celle, Tract. de tabernaculo I
11, r. 35: «Oraculum nichil aliud est quam propitiatorium, sed ideo dicitur oraculum
quia divina ibi dabantur responsa»).
10
Ancora, per esempio, Andrea di san Vittore, Exp. hyst. in librum Regum 3, 6, r.
51: «Oraculum est divina vel angelica ad hominem allocutio vel divinum per
hominem responsum».
11
Ne ripete alla lettera la definizione, per esempio, Alchero di Chiaravalle / pseudoAgostino, De spiritu et anima 25, 798, r. 18. E appena sopra: «Omnium quae sibi
videre videntur dormientes, quinque sunt genera, videlicet oraculum, visio,
somnium, insomnium et phantasma».
12
Francesco Novati, L’epistola di Dante a Moroello Malaspina, nel vol. misc.
Dante e la Lunigiana. Nel sesto Centenario della venuta del Poeta in Valdimagra,
MCCCVI-MDCCCCVI, Milano, Hoepli, 1909, pp. 507-542 (in part., pp. 527-529: in
questo saggio, aggiungo, è compresa una tavola fuori testo con ottima riproduzione
della pagina del codice che contiene la lettera). Ma anche Zenatti, Dante e Firenze,
cit., pp. 452-453, dopo aver allegato vari esempi dai Codici di Teodosio e di
Giustiniano nei quali l’oraculum vale per rescriptum principis, intendeva ‘breve
scritto’, ‘biglietto’, e insomma qualcosa di meno di una epistola. Dall’Epistola
dantesca e dall’Apologia di Apuleio è poi noto che Boccaccio nel 1339 ha
confezionato a mo’ di centone la sua Epist. II, Mavortis miles extrenue,
verisimilmente indirizzata a Petrarca: qui, § 11, egli invoca una risposta alla sua
lettera con l’espressione: «deprecor affectanter, quatenus gratia vestri oraculi
possim admissum solatium reassumere». Ancora, si ripete nell’altra esercitazione
dettatoria ad ignoto, costituita dall’ Epistola IV, Sacre famis, dello stesso anno: qui,
§ 35: «clamito ego ad te, et deploro [...] quatenus bene merite tue consolationis
oraculum mihi mittas». Nei due casi, Boccaccio vuole enfaticamente dire che le
risposte avrebbero avuto per lui valore di vero e proprio oracolo (vedi Giovanni
Boccaccio, Epistole, a cura di Ginetta Auzzas, in Giovanni Boccaccio, Tutte le
opere, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1992, vol. V, rispettivamente
pp. 514 e 538). Tornando a Dante, concordo quindi con Gorni, p. 143 nota 29, che
per parte sua propone una ‘testimonianza profetica’, o ‘profezia visionaria’.
13
Ma si veda anche quanto scrive Francesco Mazzoni in D. A., Epistole I-V. Saggio
di edizione critica a cura di F. M., Milano, Mondadori, 1967, p. 82 (citato dalla
Allegretti al proposito): si è inteso che questa espressione «indicherebbe lo stupore
di Moroello nel vedere Dante, fedele d’Amore, libero da ogni sua catena e dedito ad
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altro. Ma sub con l’ablativo può anche indicare le circostanze prossime che
accompagnino genericamente un fatto; e sub admiratione può ben segnalare non
tanto lo stupore di Moroello quanto il contesto di ammirato compiacimento nei
confronti della agiata ‘curialitas’ malaspiniana. In tal caso libertatis officia indicherà
gli uffici liberali cui Dante attese presso Moroello».
14
Spiega Agostino, En. in Psalmos 76, 20: «Orbis terrarum est rota [...] Vox tonitrui
tui in rota; apparuerunt fulgura tua orbis terrarum. Nubes illae in rota circuierunt
orbem terrarum; Nubes illae in rota circuierunt tonando et coruscando, abyssum
commoverunt, praeceptis tonuerunt, miraculis coruscaverunt ...».
15
Giorgio Stabile, Modelli naturali, cit., passim. Ma vedi p. 384: la lettera a
Moroello vuole «dichiarare quello che è il tema a base della canzone: cioè la
sequenza naturale coruscatio / fulgur-tonitruum duplicata, sul piano figurale, in
quella omologa mulier / flamma pulchritudinis-Amor terribilis. E il fatto di indicare
nello stupor l’effetto dell’apparire del fulgur e nel terror quello della percossa del
tonitruum preannuncia già l’intenzione di travalicare dal piano della descrizione
esteriore a quello dell’analisi interiore. La traccia offerta da Dante presenta tutti i
caratteri di una fulguratio seguita dal succedersi improvviso di fulmen e tonitruum»,
ecc. Aggiungo qui che d’ora in poi sarà opportuno allegare anche il sonetto Se ‘l
viso mio alla terra si china, già conteso tra Dante e Cino e ora più risolutamente
dato a Dante nell’edizione critica di De Robertis (n. 51 = Dubbie XI Barbi), che ha
risolto in senso positivo i dubbi espressi in Il Canzoniere Escorialense e la
tradizione «veneziana» delle rime dello stil novo, «Giornale storico della lett.
italiana», Supplemento n. 27, 1954, pp. 57-58. A questa stessa conclusione invitava
anche la minuziosa analisi di Paolo Fusco, nel secondo dei Tre studi danteschi, cit.,
pp. 35-59. Anche l’analisi di De Robertis lo conferma assai vicino alla serie già
segnalata dell’ ‘amor doloroso’, con tratti più cavalcantiani che ciniani (vedi
l’Introduzione, pp. 985-986), e pure alla ‘montanina’, per le sue «piogge di troni»
(v. 11), come appunto lo studioso segnala. Ma vedi pure Se ‘l viso 2: «e di vedervi
[il viso] non si rassicura», insieme con Amor da che convien 60: «perché lo spirto
non si rassicura» (e non osa dunque tornare a guardarla) (vedi anche Allegretti: 39).
16
Cito Guinizzelli dalla recente edizione delle Rime a cura di Luciano Rossi, Torino,
Einaudi, 2002 (si veda qui, p. 42, la nota a I 3). Si veda ancora Petrarca, 110, 9:
«Come col balenar tona in un punto», riferito agli occhi e al saluto di Laura, che
Santagata nel suo commento, pp. 515-516, riporta proprio alla lettera a Moroello,
osservando che il passo dantesco è noto al Sennuccio del sonetto Punsemi il fianco
Amor, 5-6: «Subitamente come son li troni / mi mostrò donna di tanta biltate». Il
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Enrico
FENZI
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che rafforza l’impressione che anche il motivo sopra già considerato dell’amante
‘incauto’ e ‘indifeso’ derivi a Petrarca proprio da questa lettera.
17
Giuseppe Billanovich, Restauri boccacceschi, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1945, p. 53.
18
Fondamentale al proposito è soprattutto il capitolo 12 del secondo libro del
Convivio. Per il ‘passaggio’ di cui s’è detto, mi permetto di rimandare a Enrico
Fenzi, Boezio e Jean de Meun, Filosofia e Ragione nelle rime allegoriche di Dante,
nel vol. Studi di filologia e letteratura II-III, dedicati a Vincenzo Pernicone,
Genova, Istituto di letteratura italiana-Tilgher ed., 1975, pp. 9-69.
19
Par. XXV 1-6: «Se mai continga che ‘l poema sacro, / al quale à posto mano e
cielo e terra, / sì che m’à fatto per molti anni macro, / vinca la crudeltà che fòr mi
serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nemico ai lupi che li danno guerra ...».
20
Per la diffusione della formula, vedi Jacques Fontaine, Isidore de Seville et la
culture classique dans l’Espagne wisigotique, Paris, Études augustiennes, 1959, II,
pp. 604-606; Marie-Thérèse d’Alverny, Note sur Dante et la Sagesse, «Revue des
études italiennes», XI, 1965, pp. 5-24 (in part., pp. 6 ss.) [ora, con la stessa
numerazione delle pagine, è il saggio n. IV nel vol. della studiosa Études sur le
symbolisme de la sagesse et sur l’iconographie. Edited by Charles Burnett, with a
Preface by Peter Dronke, Aldershot, Variorum, 1984].
21
Per il ‘libero arbitrio’ in Dante, mi limito a rimandare alla voce arbitrio di Sofia
Vanni Rovighi, in ED I, pp. 345-348; alle considerazioni di Elisabetta Graziosi,
Dante a Cino, cit., pp. 65-67, e alle recenti della Allegretti, pp. 89-95. Per quanto
riguarda l’Epistola e il sonetto a Cino Io sono stato, osservo, a margine, che la
Graziosi gioca su una indimostrata anticipazione del sonetto a Cino rispetto al
Convivio, dal momento che ripetutamente parla di un Convivio che, tra il 1304 e il
1307, ne prenderebbe le distanze «attraverso una serie di riprese lessicali e di
divaricazioni concettuali che sembrano comportare una palinodia più prossima e più
precisamente deliberata dei testi presi in esame, che anticipa la grande ritrattazione
concertata della Commedia» (p. 65). Poco avanti, p. 67, parla ancora di «massicce
riformulazioni operate nel Convivio delle nozioni-chiave poste in campo dal sonetto
indirizzato a Cino», e ancora, p. 69, scrive che l’Epistola a lui diretta insieme al
sonetto appare «come la sinopia latina di Tre donne intorno al cor mi son venute,
databile forse al 1302» (e dunque, come sinopia, sarebbe addirittura precedente?).
La questione non può essere affrontata qui: basti dunque ricordare che Tre donne
pare assai vicina all’ Epistola I, Preceptis salutaribus, a Niccolò da Prato, scritta la
primavera del 1304, e che il 1303 di solito assegnato quale termine più alto allo
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scambio in questione con Cino ha un valore prudenziale, dato che tutti gli studiosi
tendono in realtà ad abbassarlo verso il 1306 (e al 1310-1311 il Torraca). Del resto,
anche l’indubbia vicinanza tra Io sono stato e la lettera a Moroello mi pare deponga
per una data più bassa.
22
Si tratta della famosa questione della ‘donna gentile’ della Vita nova, trasformata
in figura della Filosofia nel Convivio, intorno alla quale tanto è stato scritto. Qui,
rinvio riassuntivamente a Enrico Fenzi, «Costanzia de la ragione» e «malvagio
desiderio» (V. N. XXXIX, 2): Dante e la donna pietosa, nel vol. La gloriosa donna
de la mente. A commentary on the Vita Nuova. Edited by Vincent Moleta, Firenze,
Olschki-The University of Western Australia, 1994, pp. 195-224. Quanto ai
contenuti di Io sono stato, il loro irredimibile ‘materialismo’ ha permesso a Cecco
d’Ascoli di far le bucce a Dante, ne L’Acerba III 1974-1983, dopo averle fatte, pochi
versi sopra, al Cavalcanti di Donna me prega (nell’ed. a cura di Achille Crespi,
Ascoli Piceno, Cesari, 1927, p. 249, ma da leggere ora nell’ed. critica a cura di
Marco Albertazzi, Lavis [TN], La Finestra, 2002, pagine del testo non num.: vedi
Calenda, ‘Potentia concupiscibilis’, cit., pp. 121-122; Graziosi, Dante a Cino, cit.,
pp. 78-79)
23
Oppure, più correttamente, con Ovidio, Met. VII 20-21: «Video meliora
proboque, / deteriora sequor», o con san Paolo, Rom. 7, 19: «non enim quod volo
bonum, hoc facio: sed quod nolo malum, hoc ago» (vedi la nota di Marco Santagata
ai citati versi di Petrarca nella sua edizione del Canzoniere, Milano, Mondadori,
1996, p. 1056, e F. P., Salmi penitenziali, a cura di Roberto Gigliucci, Roma,
Salerno Editore, 1997, pp. 56 e 77, e soprattutto Giuseppe Goletti, «Volentes unum
aliud agimus»: la questione del dissidio interiore e il cristianesimo petrarchesco,
«Quaderni petrarcheschi», VII, 1990, pp. 65-108).
24
Già Gorni ridimensionava il parallelo con la Filosofia del De consolatione, per
escludere che la donna dell’Epistola possa subire un analogo processo di
allegorizzazione (p. 145: «come avrebbe potuto interrompere le meditationes
assiduas del Convivio, se la nuova seduttrice non era che lei, la beneamata e
asperrima Filosofia?»). Per i rapporti sicuri, invece, tra la figura boeziana e la donna
delle rime allegoriche, vedi Fenzi, Boezio e Jean de Meun, cit., in part. pp. 39 ss.
25
Ciò avviene, contraddittoriamente, già nella lettura dello stesso Gorni, che
proprio in chiusura, p. 146 nota 39, osserva a proposito dei vv. 37-40 della canzone
(«Ben conosco che va la neve al sole ...», ecc.) che «non va qui taciuto il
parallelismo con la condizione stessa dell’esiliato condannato a morte dalla sua
città».
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Enrico
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26
Vedi Francesco Torraca, rec. allo Zenatti, cit., p. 158; Guido Zaccagnini, Le rime
di Cino da Pistoia, Genève, Olschki, 1925, p. 210. Per Barbi invece i due sonetti
«potrebbero essere stati scambiati mentre i due amici erano ancora in patria» (Una
nuova opera sintetica su Dante [1904: si tratta del ‘Dante’ vallardiano dello
Zingarelli], in Problemi di critica dantesca. Prima serie, Firenze, Sansoni, 1965, p,
47 nota 1), cosa della quale non sono affatto sicuri Foster e Boyde, ed. cit., p. 312,
soprattutto per il tono della risposta di Cino. Ai termini di Zaccagnini torna poi
Marti (Contini non prende posizione), che giudica «inverosimile» che il sonetto
dantesco possa riferirsi a Firenze (nell’ed. citata, p. 726). E a Barbi torna invece
Pernicone, nel suo commento, sottolineando più volte che l’abbassamento della data
non poggia su basi sicure (ma l’argomento gli si può facilmente ritorcere contro,
anche a proposito del riscontro, già fatto da Barbi, dei vv. 12-14 del sonetto con la
canzone Poscia ch’amor, vv. 48-57: ed. cit., pp. 445-446). Ma infine, personalmente
sottoscrivo il reciso giudizio di Aurelio Roncaglia: «Allo stesso periodo dell’esilio e
del De vulgari Eloquentia appartengono –come credo debba ormai riconoscersi,
correggendo la cronologia proposta dal Barbi- tutti i sonetti di corrispondenza tra
Cino e Dante a noi pervenuti» (Cino tra Dante e Petrarca, in Cino da Pistoia.
Colloquio (Roma 25 ottobre 1975), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei [Atti ...,
18], 1976, pp. 7-31 [p. 24]).
27
Nell’interpretazione, mi avvicino allo Zaccagnini, Le rime, cit., pp. 242-243, con
l’aggiunta che vi fa Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, t.
II, p. 646, secondo il quale è probabile che il Signor sia appunto Moroello
Malaspina. Così, l’omaggio al signore elegantemente s’annoda al tema dell’esilio
che obbliga a dolorose peregrinazioni e a quello dell’ossessione amorosa che lo
stesso peregrinare, nel caso, fomenta. Condivido anche l’idea che non si tratti di un
sonetto in morte, come pure si potrebbe pensare, perché non gli converrebbe la forza
ancora diretta della seduzione amorosa, nei vv. 5-11, e non certo per la ragione
avanzata da Contini, che lo esclude in forza del v. 14, ch’egli chiosa così «La
salvezza è, dunque, che il poeta riveda in Pistoia la casa dell’amata (detta perciò
nostra), o al massimo la sua propria» (lo segue Marti: ma darei per certo, invece, che
nostra chiuda il cerchio aperto all’inizio, con Signor).
28
Zaccagnini, Le rime, cit., pp. 234-235: ma vedi già, dello stesso, Cino da Pistoia.
Studio biografico, Pistoia, Pagnini, 1918, p. 153 nota 2, ove si intende, credo senza
ragione, che il vento del v. 12 alluda alle guerre tra fazioni, che infestavano tutto il
territorio (cade invece, da un testo all’altro, la bizzarra idea di correggere Gualtieri
in Guarnieri, cioè il giurista Irnerio).
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Si osservi la stretta corrispondenza tra il simil di beltate di questo sonetto con il
simil di piacer del sonetto considerato sopra, CXXI 10. Per il motivo della possibile
pluralità degli amori pur nella fedeltà all’amore unico e vero, rimando a Fenzi,
«Costanzia de la ragione», cit., in part. pp. 208-211 (e pure, dello stesso, Note
petrarchesche: Rvf 16, “Movesi il vecchierel” [1996], nei suoi Scritti petrarcheschi,
Firenze, Cadmo, 2003, pp. 17-39 [pp. 29-30]).
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