Anche al Cairo diffidano di al-Sisi Renzi: «No alle verità di comodo»

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Anche al Cairo diffidano di al-Sisi Renzi: «No alle verità di comodo»
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CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00
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art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013
ANNO XLVI . N. 73 . DOMENICA 27 MARZO 2016
EURO 1,50
Arrestati in Belgio due «pesci grossi» della cellula terroristica: un franco-algerino coinvolto nell’attentato
al generale Massoud in Afghanistan e un reporter che si occupava di migranti. Giallo sull’omicidio di un
agente della centrale nucleare. A Bruxelles annullata la marcia contro la paura per motivi di sicurezza PAGINE 2, 3
GUERRA AI MIGRANTI
I migliori
reclutatori dell’odio
Marco Revelli
P
La centrale
del terrore
L’OMAGGIO PER LE VITTIME DELLE STRAGI A BRUXELLES FOTO AP
BIANI
L’ENNESIMO DEPISTAGGIO EGIZIANO SUL CASO REGENI
Anche al Cairo diffidano di al-Sisi
Renzi: «No alle verità di comodo»
I
l premier Renzi ha fatto sapere che all’Italia non bastano «verità di comodo». E la coperta egiziana è corta sia per chi in Italia
pretende la verità dal presidente-alleato al-Sisi sia per i tanti egiziani che in queste ore inondano di commenti i social network e i giornali
online. Le domande, le nostre e le loro, sono
le stesse. Perché una banda di criminali avrebbe dovuto torturare per giorni uno straniero a
fini di rapina, perché la polizia rifiuta di rispondere alle legittime domande poste dalla stampa alternativa, perché i malviventi avrebbero
tenuto con sé i documenti di Giulio per due
mesi
CRUCIATI, PREZIOSI |PAGINA 4
SIRIA
Assad e Isis, scontro
decisivo per Palmira
Kamikaze Daesh colpisce
in Iraq, 41 le vittime
SERVIZIO |PAGINA 3
MIGRANTI | PAGINA 6
iù passano i giorni dalla doppia strage di Bruxelles, più appare chiaro come la principale vittima di quell’atrocità, oltre alle
donne e agli uomini le cui vite sono
state cancellate come fossero cose,
sono loro: la moltitudine di migranti spalmati sui confini d’Europa o
appena filtrati al suo interno, che
ne avranno – ne hanno già! - la vita
sconvolta. E con loro i 20 milioni di
musulmani che abitano le città
d’Europa, a cui con voci sempre più
sguaiate si chiede di negare status
di cittadini eguali (il che la dice lunga sul cinismo con cui questo jihadismo senza princìpi gioca con le vite
di coloro nel nome del cui dio dice
di combattere).
Dovrebbero essere loro, migranti
vecchi e nuovi, i nostri migliori alleati, in questa che si vuol chiamare
guerra, se solo un barlume d’intelligenza (foss’anche d’intelligenza
strategica) c’illuminasse. Quelli più
interessati, in nome della tutela del
proprio «stile di vita», a disseccare
questa radice velenosa dell’odio da
cui hanno tutto da perdere. Così come, simmetricamente, dovrebbe essere chiaro che i migliori alleati dei
nostri nemici, quelli che ne moltiplicano le potenzialità di reclutamento e ne consolidano l’illusoria identità non sono tanto, o comunque
non sono solo, i «loro» imam radicali, i predicatori di banlieu facilmente controllabili anche dal più scalcinato servizio d’intelligence, ma i
«nostri» seminatori d’odio. Quelli
della guerra santa simmetrica e reciproca. Sono loro a precostituire
nell’immaginario collettivo le condizioni per la crescita esponenziale di
Daesh come materializzazione della guerra. A costituirne le basi psicologiche per l’arruolamento.
Se è vero che la «guerra» in corso
è, soprattutto e in primo luogo, una
guerra di «narrative» (una proiezione dello storytelling sul terreno devastante del conflitto estremo), in
cui il raggruppamento lungo il discrimine amico/nemico avviene in
rapporto alla forza d’attrazione di
un «racconto». E se il «racconto» del
nostro nemico si alimenta della retorica dell’Occidente crociato, nemico mortale dell’islam, in guerra
preventiva con i seguaci dell’unico
e vero dio – retorica tanto più ferocemente aggressiva quanto più intensamente vittimistica -, allora
ogni parola di guerra pronunciata
dal nostro campo, tanto più se non
sostenuta da azioni conseguenti ed
efficaci (e come potrebbero esserlo
oggi?), è manna dal cielo per
quell’identità ostile. Ne fornisce la
materia prima di cui strutturarsi e
consolidarsi.
CONTINUA |PAGINA 3
LO SHOW | PAGINA 7
ADDIO AL MAESTRO
Grecia, a Idomeni
tra chi resiste e chi
sceglie di andare via
La lezione civile
di Paolo Poli
GIANFRANCO CAPITTA l PAGINA 8
TRIVELLE | PAGINA 6
Il referendum che non
si vede. I dati Agcom
CINA | PAGINA 6
Bufera nel Partito
Lettera contro il boss
Xi Jinping: «Dimettiti»
Rolling Stones,
L’Avana in delirio
con 600 mila fan
ALIAS DOMENICA
Accolti con un entusiasmo superiore a quello
per l’arrivo di Obama, Mick e compagni
ritrovano un po’ della perduta trasgressione
CORRADO BOLOGNA l NELL’INSERTO
Also sprach
Marcel Proust
pagina 2
il manifesto
LA CENTRALE DEL TERRORE
Bruxelles •
BELGIO
Lo spettro
della crisi politica
che minaccia l’Ue
Gabriele Annicchiarico
BRUXELLES
È
un vero e proprio uragano
quello che si è abbattuto sul
Belgio. Lo spettro della crisi
politica, dopo le dimissioni (poi respinte) dei ministri degli Interni,
Jan Jambon, e della Giustizia, Koen Geens, unita alle falle oramai
evidenti nei servizi di sicurezza sono una miscela esplosiva che rischia di generare una crisi di governo che potrebbe destabilizzare l’intera comunità europea.
La falla dei servizi di sicurezza di
mezza Europa (non dimentichiamo che Salah Abdeslam in fuga da
Parigi dopo gli attentati è stato fermato ben tre volte dalla polizia
francese prima di raggiungere Bruxelles) ha colpito in particolare il
governo belga, colpevole di non
aver colto i segnali sui potenziali
terroristi nel proprio territorio.
Secondo i media locali, sarebbe
stato il primo ministro Charles Michel, in quota Mr (partito liberale
francofono), a insistere perché i
due ministri restassero al loro posto in un momento tanto delicato
per il paese. La partenza di Jan Jambon, pezzo grosso del più grande
partito di maggioranza di governo,
la Nva, un partito separatista fiammingo di estrema destra (dalla retorica simile a quella della nostra Lega), avrebbe probabilmente messo
in discussione l’esecutivo e aperto
una crisi dalle conseguenze difficilmente prevedibili.
Il Belgio è un paese in cui la formazione di un governo non è cosa
semplice. L’equilibrio di un esecutivo deve tener conto non solo degli
orientamenti politici dei partiti ma
anche delle divisioni linguistiche
fra la comunità fiamminga e la comunità francofona, senza contare
l’esistenza di una minoranza di lingua tedesca. È di qualche anno fa il
triste record della crisi politica più
lunga della storia, con 541 giorni
consecutivi senza governo. Un vero record mondiale, a cui aveva fatto seguito un accordo di «larghe intese» (tipico nel panorama belga)
per poi arrivare a una coalizione di
centro-destra guidata dalla Nva.
Il cuore della crisi politica (non
ancora sventato ma solo sospeso
dalla situazione di emergenza che
vive il paese) è dovuto principalmente alla strategia della Nva, partito anti-immigrazione e dalle politiche di tagli alla spesa sociale, favorevole a una regione fiamminga indipendente. La critica verso i partiti francofoni, accusati di lassismo e
di aver creato il terreno ideale per
lo sviluppo di cellule terroristiche,
sembra ora ritorcersi contro lo stesso partito separatista fiammingo.
Se Jan Jambon, esponente di
spicco della Nva deve rispondere
di superficialità nella gestione delle informazioni venute dal governo turco (sulla cui genuinità le autorità belghe nutrono molti dubbi), Bart de Wever, leader storico
del partito, deve invece rispondere
del fatto che le più importanti reti
di reclutamento di foreign fighters
sono proprio sul territorio fiammingo. In particolare la nota associazione (a quanto pare) madre del
fondamentalismo belga, Sharia4Belgium, sciolta nel 2012, è stata fondata ad Anversa, locomotiva
economica fiamminga di cui lo
stesso Bart De Waver è sindaco.
La debolezza dell’esecutivo belga e la sua possibile caduta (in perenne crisi di identità fra l’unità nazionale e la deriva separatista della
Nva) sembra ora assurgere a simbolo di un’Unione Europea che fatica a trovare un’identità, una strategia comune nella lotta al terrorismo e nelle politiche d’accoglienza
dei richiedenti asilo, con effetti imprevedibili su tutta l’Europa.
DOMENICA 27 MARZO 2016
Due arresti: «l’uomo con il cappello», freelance che si occupava di
migranti, e Ameroud condannato per l’attentato al generale Massoud
La rete dei
pesci grossi
A. Mas.
BRUXELLES
I
l «pesce grosso» ferito alla fermata del tram a Schaerbeek è un
personaggio già condannato in
Afghanistan a sette anni di carcere
per la complicità nell’assassinio del
comandante Ahmad Shah Massoud, il «Leone del Panshir», eroe
della resistenza anti-sovietica e anti-talebana, ucciso all’immediata vigilia dell’attentato alle Twin Towers
di New York, nel settembre 2011. Si
chiama Abderahmane Ameroud ed
è un franco-algerino. Ma la figura
più singolare è quella del cosiddetto «uomo col cappello», il giovane
immortalato al fianco dei fratelli el
Bakraoui nell’aeroporto di Zaventem la mattina dell’attentato. Si trat-
Giallo sull’omicidio
di una guardia nella
centrale nucleare.
Annullata marcia di
oggi contro la paura
terebbe di Faysal Cheffou, un attivista mediatico che si era occupato,
tra le altre cose, dei maltrattamenti
sui migranti musulmani detenuti
nel centro 127 bis di Steenokkerzeel, nelle Fiandre. Il 21 luglio 2014
aveva postato su YouTube un servizio nel quale si sentivano le grida
degli internati e Faysal spiegava
che essi protestavano perché «privati del cibo». Il giornalista spiegava
che nel centro i pasti venivano serviti tre volte al giorno, l'ultima delle
quali alle 19, troppo presto per i detenuti musulmani che, durante il
Ramadan, potevano mangiare solo
dopo le 22, quando il cibo era già
stato ritirato. Anche lui non era sconosciuto alle cronache: suo fratello
Karim fu ucciso dalla polizia nel
2002 durante una perquisizione nella sua casa di Schaeerbek, alla ricerca degli autori di una rapina. All’interno dell’appartamento vennero
trovati una borsa piena di granate e
alcuni mitra. Faysal era stato accusato più volte di ricettazione, associazione a delinquere e anche di
omicidio per un episodio del 2003,
quando un amico aveva preso una
pistola dentro casa sua, credendola
scarica, e l’aveva puntata alla testa
di un’altra persona, uccidendola.
Durante la perquisizione, in cucicina furono trovati passamontagna
Mephisto, manette, divise e altra refurtiva rubata alla stazione di polizia di Molenbeek. Nel settembre
scorso Cheffou aveva ricevuto una
sanzione amministrativa dal comune di Bruxelles per impedirgli di frequentare il parco Maximilien, dopo
diverse denunce delle autorità municipali che lo avevano ritenuto «pericoloso» perché cercava di reclutare immigrati e rifugiati. A riconoscerlo sarebbe stato il tassista che
l’ha trasportato all’aeroporto.
Il terzo arrestato di due giorni fa
si chiama invece Rabah M., mentre
dell’uomo fermato nella banlieue
parigina di Argenteuil, Reda Kriket,
si sa invece che era stato condannato nel luglio scorso insieme ad Abdelhamid Abaaoud (uno degli organizzatori degli attentati di Parigi il
13 novembre) per aver reclutato
jihadisti per la Siria e che sul suo capo da agosto pendeva un mandato
d’arresto europeo. Proprio in computer e una chiavetta usb all’interno di un appartamento di Atene
nel quale aveva soggiornato Abaaoud a gennaio sono stati alcuni disegni e una mappa dell’aeroporto
di Bruxelles. Una notizia che confermerebbe come gli attacchi siano
stati pianificati per tempo e come
dietro ci sia un’unica regia. Dagli
Stati Uniti è filtrata invece la notizia
(riportata dalla Cnn) che i fratelli el
Bakraoui erano in una lista nera
dell’antiterrorismo già da prima degli attentati di novembre a Parigi.
Intanto, gli organizzatori hanno
annullato, su richiesta del ministero dell’Interno e del comune, la
«marcia contro la paura» prevista
per oggi a Bruxelles, con partenza
dalla piazza della Borsa. Motivo: la
difficoltà di garantire la sicurezza,
«data la capacità della polizia sul
terreno e visto che la priorità è l’inchiesta».
Infine, c’è un piccolo giallo legato
a possibili attacchi alle centrali nucleari del Belgio: dopo la chiusura
dell’impianto di Liegi, le indiscrezioni che la vedevano nel mirino dei
terroristi e la sospensione del badge per undici dipendenti, giovedì sera è stato ucciso un agente di sicurezza che prestava servizio in una
centrale. Ma la procura ha smentito ogni legame con il terrorismo
islamico: Didier Prospero sarebbe
stato assassinato giovedì sera con il
suo cane per «motivi personali».
LA CAPITALE EUROPEA · Un abisso di rabbia e sospetti tra Molenbeek e i palazzi del potere
Nella «green zone» dell’Unione
Raffaele K. Salinari
BRUXELLES
L
a statua dorata di San Michele, uccisore del drago,
protegge ancora la Gran
Place di Bruxelles con i suoi
simboli alchemici e la conchiglia di San Giacomo incastonata
nelle pietre del selciato a indicare ai pellegrini l’inizio del cammino per Santiago di Compostela.
Ma, anche se i locali che danno
sulla piazza sono pieni come
sempre, l’aria che si respira trasmette un senso di normalità forzata, sorvegliata dalla presenza
delle forze dell’ordine. Un’atmosfera che vira bruscamente verso la tensione quando si passa
l’invisibile confine che separa la
parte storica da quella degli edifici dell’Unione europea, che
appaiono come enucleati dal resto, parte di una geografia del
potere che, anche attraverso la
militarizzazione del territorio,
sembra riaffermare la sua alterità rispetto al resto della città.
Percorrendo le strade che
collegano il Parlamento alla
Commissione, il Consiglio alle
sedi delle rappresentanze diplomatiche, si avverte l’aura sinistra di questo gigante ferito,
ridotto oramai a un insieme di
dispositivi economici che non
riescono a spiegare come mai
dalle periferie di quella stessa
città da cui governa il destino
di un intero continente, siano
nati i mostri che lo attaccano.
L’aria di assedio è palpabile,
Passeggiare per la
città è osservare
stati d’animo
opposti, tra
solitudine e orrore
ma non è generata tanto dai
blindati agli angoli delle strade
o dai militari all’entrata della
metropolitana, né dalla cintura dei quartieri etnici che sembrano circondare come un accampamento permanente gli
scintillanti edifici dai nomi
che ricordano un ideale di inclusione troppe volte tradito
in nome della ragione mercantile per suscitare il rispetto di
chi li osserva solo da lontano.
Se qualcosa questi attentati
hanno svelato, a cui cioè hanno tolto il velo, è invece la distanza tra eurocrazia e cittadinanza, non solo quella immi-
grata, ma tutta quanta, inclusi
i cittadini autoctoni.
E’ da questa separatezza che
nasce il senso dell’assedio. La
cittadella delle istituzioni comunitarie si arrocca nelle sue
prerogative circondandosi di
apparati difensivi che la isolano dal flusso della vita corrente. Anche chi condanna senza
riserve il terrorismo, infatti,
non può non chiedersi come e
perché questi stessi palazzi,
con le loro logiche, abbiano
contribuito a generare l’odio e
il fanatismo che ora li prendono di mira. Bruxelles si svela
dunque a se stessa come un
microcosmo ridotto a una
enorme scacchiera, come oramai lo sono tutte le megalopoli del mondo, in cui basta girare l’angolo per cambiare continente e tempo, in cui si confrontano le contraddizioni di
una costruzione europea incompiuta, che esclude le sue
stesse periferie e si chiude in
se stessa senza sapere però
chi è veramente. La caccia alle
cellule dormienti del Califfato
ha scuoiato la pelle superficiale della capitale europea per
mostrare i suoi nervi più sensibili, le contraddizioni che vivono tra le maglie dei suoi territori marginali.
Avventurarsi poi nei quartieri di immigrazione araba, a Molenbeek, significa sperimentare
tutto il peso della distanza che
si è accumulata negli anni tra le
differenti culture. Mentre in
centro, e nella zona dei palazzi
europei, le forze dell’ordine si
mostrano in modalità «difensiva» qui invece l’attitudine è
chiaramente offensiva, deterrente, quasi provocatoria, come
muoversi attraverso una perquisizione permanente.
Dalle finestre le donne e i
bambini scrutano ansiosi le strade, mentre gli uomini restano
distanti e taciturni, si allontanano quando un «forestiero» gli si
avvicina. Il sospetto e la diffidenza verso i volti sconosciuti si rendono palpabili e fanno capire
che qui vigono dinamiche peculiari, che gli attentati hanno fatto degenerare in tutta la loro radicalità. Camminando per le
strade sembra che tutta la popolazione si interroghi sul suo essere in quella situazione, colpevolizzata dall’appartenenza religiosa, sospettata per la fede che
professa. In certi momenti si rivivono le pagine dello Straniero
il manifesto
DOMENICA 27 MARZO 2016
LA CENTRALE DEL TERRORE
Palmira •
pagina 3
L’antica città patrimonio Unesco è il bottino che il governo siriano vuole
ottenere per presentarsi come il difensore della civiltà contro le barbarie
SIRIA/IRAQ · Strage di Daesh in uno stadio a sud di Baghdad, 41 vittime
Isis e Assad si contendono
la «sposa del deserto»
Chia. Cru.
I
trofei stavano per essere consegnati ai giocatori, alla fine di
un torneo di calcio tra squadre locali. Ma l’apparente normalità di una partita di pallone è stata
devastata dalla cintura esplosiva
di un kamikaze dello Stato Islamico: almeno 41 i morti, 100 i feriti.
Tra le vittime ci sono anche 17
bambini: avevano tra i 10 e i 16 anni. In un video pubblicato online
si vede il sindaco, Ahmed Shaker,
chiamare a voce alta i nomi dei
calciatori. Gli applausi. Poi l’esplosione.
«L’attentatore si è infilato tra la
folla e si è avvicinato al centro del
campo, si è fatto saltare in aria
mentre il sindaco [anche lui tra le
vittime, ndr] consegnava il premio», racconta un testimone, il
18enne Ali Nashmi.
Nel mirino degli uomini del «califfato» è finito il villaggio di
Al-Asriya, vicino la città di Iskandariyah, 40 km a sud di Baghdad.
Mentre l’esercito governativo tenta con fatica di far partire l’operazione per liberare Mosul, l’Isis colpisce intorno alla capitale, a dimostrazione della capacità di infiltrarsi in ogni angolo del paese.
Poco dopo dieci kamikaze cercavano di colpire la base militare
occidentale di Ein Al-Assad, tra le
più grandi in Iraq: l’esercito ha
aperto il fuoco uccidendone otto,
ma perdendo 18 soldati.
Lo Stato Islamico è sotto pressione, sia in Iraq che in Siria, dalle
contemporanee avanzate dei due
governi. Ma non è affatto sconfitto, controlla ancora un terzo del
territorio in entrambi i paesi. A
IN ALTO, UNO STRISCIONE
NELLA PIAZZA DELLA BORSA
A BRUXELLES. A DESTRA,
LA LIBERAZIONE DI PALMIRA
FOTO REUTERS
di Camus.
Ma anche la rabbia si sente
attraverso i commenti ai fatti
di sangue da parte dei residenti. La rabbia per essere stati abbandonati quando si chiedeva
invece di essere considerati,
prima che l’integralismo mettesse radici nell’esclusione sociale. Tornando a fine giornata
verso l’aeroporto ormai riaperto ai voli, si finisce così per ricomporre in un quadro policromo tutte queste situazioni
accomunate da un grande senso di spaesamento, l’immagine di una città e dei suoi cittadini che riflettono quelli di tante
altre situazioni che ogni giorno
rischiano di esplodere in bagni
di sangue senza che i sintomi
siano rilevati con chiarezza e
possibilmente sradicati.
Eppure, come sempre, se si
va oltre le apparenze e i condizionamenti indotti dalle notizie di seconda mano, mediate
dai grandi mezzi di comunicazione di massa che si rivendono il terrore, a Bruxelles si possono, in questi giorni, trovare
sguardi limpidi, anche a Molembeek, anche nell’atrio del
Parlamento europeo. Sono gli
sguardi dei ragazzi che visitano le istituzioni europee, che
ascoltano la storia di Spinelli,
che vanno oltre il dramma contingente per ritrovare le ragioni fondative di un grande sogno, forse ferito a morte ma
che può ancora riservare delle
belle sorprese.
mancare sono istituzioni statali
forti e radicate, rosicchiate da anni di guerra civile, palese in Siria,
strisciante in Iraq. A Damasco il
presidente Assad resiste alle pressioni esterne, avanzando sul terreno. L’obiettivo è Palmira, la «sposa del deserto», porta verso oriente e verso una soluzione politica
più favorevole di quella immaginata da Occidente e Golfo.
Ieri gli scontri per l’antica città
patrimonio Unesco sono proseguiti. Le truppe governative continuano ad avanzare dopo aver liberato i quartieri settentrionali e occidentali. Venerdì, secondo l’agenzia di Stato Sana, il castello di Qalaat Shirkuh è stato raggiunto dai
soldati di Assad, immortalati in al-
GUERRE/TERRORISMO
I migliori reclutatori di Daesh
DALLA PRIMA
Marco Revelli
Non per nulla Daesh
usa, per la propria propaganda, i filmati con i comizi di Donald Trump. Ma lo
stesso potrebbe fare con quelli
di Matteo Salvini. E di Marine LePen. O dei variopinti demagoghi
populisti sparsi per l’Europa minore, non diversi peraltro dalla
retorica degli «stivali sul terreno» rispolverata da un riesumato Tony Blair e dalle guasconate
di un Hollande in stile guerriero
nonostante se stesso. Sono loro
oggi i migliori reclutatori di Daesh su scala globale, dobbiamo
dirlo con chiarezza. Sono loro i
ghost writers della narrativa jihadista, offrendo giorno per giorno
– nell’intreccio tra bellicosità verbale e impotenza reale - i materiali linguistici per la trama di
una storia infinita e sempre
uguale, che batte sempre sullo
stesso tasto: la distruzione
dell’Altro. E che prima o poi quel
vaso di Pandora che ha riempito
di veleni lo aprirà del tutto, perché sono i seminatori di tempesta quelli che oggi, sciaguratamente, dettano i termini del dibattito pubblico (basta leggere i
post in ogni angolo della rete) come se un meccanismo perverso
se ne fosse impadronito che finisce per premiare specularmente
le retoriche distruttive e irrazionali contro ogni lume della ragione. In una sorta di «vertigine».
Politica (il condizionale è d’obTorna in mente un vecchio
bligo), quando fosse capace di
saggio di Roger Caillois, scritto alrimanere fedele al proprio profila vigilia della Seconda Guerra
lo più nobile: la vocazione a perMondiale, intitolato appunto
seguire il «bene comune», per
Vertiges, dove s’intendeva con
arduo che ciò sia.
quel termine l’irresistibile attraPer questo noi de l’Altra Eurozione per cui «l’essere è trascinapa con Tsipras abbiamo messo
to alla rovina e come persuaso
al centro della nostra recente asdalla visione stessa del proprio
semblea nazionale a Milano la riannientamento» che «lo priva
flessione su cosa voglia dire «fadel potere di dire di no». È lo stesre politica in tempi difficili». Che
so istinto autodistruttivo per cui
non sono i tempi in cui l’avversal’insetto è attratto dalla fiamma
rio contro cui lottiamo è infinitache lo ridurrà in cenere, l’uccello
mente più forte
dallo sguardo del
di noi, a questo
serpente che lo
Nella
guerra
in
corso
siamo in fondo
divorerà. E l’uoabituati da semmo dalla fascina- dovremmo allearci
pre. Ma quelli in
zione
del
cui il quadro polivuoto… La forza con i migranti
tico e sociale –
cieca della sorte anziché perseguire
persino culturaper il giocatore
le, e potremmo
coattivo. L’inac- la strategia dell’odio
dire
cessibile impassi‘antropologico’ - in cui ci muobilità della femme fatale per l’inviamo si decompone e si sfarina.
namorato senza speranza, nel
Quando i fronti lungo i quali si
campo dei comportamenti indidefiniscono gli amici e i nemici
viduali. Per le società, invece, la
mutano rapidamente, si spezzaGuerra.
no e ricompongono, e la nostra
Il punto zero dell’esistenza in
stessa comunità rischia di decui ciò che si considera inevitabicomporsi e sfarinarsi, i rapporti
le trova infine compimento nel
di fiducia di logorarsi e spezzartrionfo del nulla. In ogni caso il
si, e si stenta a vedere gli alleati e
denominatore comune della
i compagni di strada. Quando si
vertigine è innanzitutto la difinisce per non riconoscersi
struzione dell’autonomia: una
più… l’un l’altro!
«fatale paralisi» di fronte alla solSono i tempi in cui si passa da
lecitazione dell’abisso. E l’antiuna situazione che Gramsci
doto – risorsa rara – è una volonavrebbe chiamato di «guerra di
tà capace di restare «padrona di
posizione» – in cui si confrontasé», conservando «l’indipendenno blocchi ancora strutturati (neza, l’energia e l’iniziativa». Cioè
oliberismo contro resistenza soquello che dovrebbe essere la
ciale), forme organizzate (Stati,
Partiti) ancora relativamente
stabili in lotta per l’egemonia –
a una di «guerra manovrata» o
«di movimento» in cui, appunto, le egemonie si sfaldano e tutto diventa a geometria variabile. Allora le consolidate strategie e le vecchie tattiche non solo non servono più ma diventano dannose. E conta la velocità
di pensiero.
In una situazione simile, ancora all’inizio degli anni ’40, ancora Caillois, pensando alla nascente resistenza, scrisse un breve testo intitolato Athènes devant Philippe in cui, di fronte al ritorno
dell’odio tra i popoli, ricordava
come, un tempo, Atene avesse
saputo, nella lotta contro il pericolo macedone, «rompere solennemente con quella tradizione
che metteva le nazioni le une
contro le altre» perché nessuno
potesse accusarla di preferire
«gli interessi di Atene al diritto altrui» («Nella lotta contro Filippo
avrebbe avuto le mani pulite»).
E avesse così proposto «ai forti,
agli audaci, agli austeri di unirsi
su tutta la terra per instaurare il
loro governo sulla moltitudine
dei soddisfatti e dei mediocri».
Ad Atene, il 18 e 19 marzo, si è
riunita la nascente nuova sinistra europea. Sul palco principale, alla conclusione, c’erano tutti i principali protagonisti di
quella rinascita. Un solo vuoto:
l’Italia. Perché qui ancora una sinistra alternativa non c’è. E il peso si sente.
cune foto di fronte all’ingresso della struttura, strategica perché in cima ad una collina da cui si può
controllare il sito archeologico: da
lì, ieri, partivano colpi di artiglieria verso la valle.
I media siriani riportavano della liberazione di buona parte di
Palmira, nonostante gli scontri
Al-Baghdadi e i suoi
non sono affatto
sconfitti e controllano
un terzo del territorio
in entrambi i paesi
con l’Isis siano tuttora in corso. Assad vuole Palmira, salvagente lanciato in mezzo ad un negoziato
che - nonostante l’ottimismo delle Nazioni unite - resta in standby
proprio a causa delle divergenze
sul destino del presidente.
«Dal punto di vista strategico la
perdita di Palmira non stravolgerà
i piani dello Stato Islamico - spiega ad Al Jazeera Aymen Jawad
al-Tamimi, analista del think tank
Middle East Forum - nel contesto
più ampio, la sua perdita potrebbe spingere l’Isis a rafforzare i
fronti nel deserto di Homs, per impedire altre avanzate governative.
Palmira è molto più importante
per il regime, simbolicamente,
perché gli permette di presentarsi
come il difensore della civiltà contro le barbarie».
Di certo ripulirà la faccia di Damasco che, continuando nelle
azioni militari per mangiare territorio al «califfo» al-Baghdadi, si
mostra come sola forza - insieme
alla kurda Rojava - impegnata contro il terrorismo islamista. La liberazione di Palmira arriverebbe,
inoltre, dopo il ritiro ufficiale di
buona parte delle truppe russe
dal terreno: sebbene nella città siriana i jet di Mosca abbiano aperto la strada alle truppe di Assad
con raid continui, la vittoria potrà
essere presentata come un punto
segnato soprattutto dal governo.
Sul campo non si combatte solo una battaglia tra eserciti e milizie paramilitari, si combatte una
battaglia fatta anche di propaganda e visibilità. E se le opposizioni
godono della protezione internazionale, questo scontro lo stanno
perdendo: a Ginevra l’Hnc, la federazione delle opposizioni nata
a Riyadh lo scorso dicembre, non
ha mai messo sul tavolo la questione al-Nusra né quella Isis, proponendo soluzioni politiche interne ma senza nominare l’impellente necessità di unire le forze
per vincere un nemico in apparenza comune.
pagina 4
il manifesto
DOMENICA 27 MARZO 2016
LA MESSA IN SCENA
A SINISTRA, IN PIAZZA PER LA VERITÀ SULLA MORTE DI GIULIO REGENI, A DESTRA, GLI OGGETTI PERSONALI RITROVATI AL CAIRO FOTO LAPRESSE E ANSA
Media alternativi,
attivisti e gente
comune invadono
il web di accuse
contro il governo:
sul caso
dell’omicidio
del giovane
ricercatore
italiano
il Ministero
racconta
solo «storielle»
Chiara Cruciati
L
a coperta egiziana è corta.
Lo è per chi in Italia pretende la verità dal presidente-alleato al-Sisi e lo è per i tanti egiziani che in queste ore inondano di
commenti i social network e i giornali online. Le domande, le nostre
e le loro, sono le stesse.
Perché una banda di criminali
avrebbe dovuto torturare per giorni uno straniero a fini di rapina,
perché la polizia rifiuta di rispondere alle legittime domande poste
dalla stampa alternativa, perché i
malviventi - descritti come dediti
a frodi e rapine, specializzati nelle
aggressioni a cittadini stranieri avrebbero tenuto con sé i documenti di Giulio per due mesi.
Il quotidiano online indipendente Tahrir News fa un passo in
più ed elenca le palesi contraddizioni della versione spacciata dal
governo: le fotografie dei cadaveri
dei quattro criminali, rese pubbliche poche ore dopo la loro uccisione dalla polizia e ripubblicate dal
giornale, mostrano volti di ragazzi
sui 20-30 anni.
Eppure, nel post di giovedì notte sulla pagina Facebook del Ministero degli Interni, agli uccisi vengono attribuite altre età: 26, 40, 52
e 60 anni. Chi sono quindi, si chiede il quotidiano, quei quattro ca-
EGITTO · Il depistaggio su Regeni ridicolizzato dalla stampa indipendente
Neanche al Cairo credono
alla «verità» di al-Sisi
daveri? Perché accanto ai loro corpi non si vedono armi da fuoco?
E perché la polizia non ha avvertito gli investigatori italiani al Cairo dell’intenzione di compiere un
raid per catturare gli assassini di
Giulio Regeni, ma li ha massacrati
senza tentare neppure di arrestarli? Eppure, aggiunge il quotidiano,
avrebbero potuto confermare la
versione governativa, liberando Il
Cairo dei sospetti che da due mesi
gli pesano sul capo.
Ci prova anche Ziad al-Emainy,
ex parlamentare di sinistra, che
usa la propria pagina Facebook
per porre 12 domande ironiche e
rispondersi da solo: «Perché la
banda ha tenuto i documenti dello studente che aveva ucciso? Perché era nota per collezionare souvenir delle proprie vittime. Perché allora non ha tenuto souvenir delle precedenti vittime? Perché questo hobby è cominciato
RADICALI
Orlando visita Pannella
con quattro detenuti
ROMA
N
on se l’aspettava, Marco Pannella, era stato informato solo
di una visita «speciale». Ma del resto non sarebbe stata una
novità: da due settimane a casa sua, in via della Panetteria
vicino a Fontana di Trevi, vengono a salutarlo e omaggiarlo senza
interruzione le più alte cariche dello stato, a partire dal presidente
del consiglio Matteo
Renzi; oltreché politici,
vecchi amici e militanti. Così alle 11 di mattina chi era presente racconta che il vecchio leone radicale, consumato nel fisico ma lucido
nella mente e persino
pronto nelle battute,
ha cambiato faccia
quando ha visto entrare nel suo salotto il ministro della Giustizia
Andrea Orlando. Anche perché era accompagnato da quattro detenuti di Rebibbia. Il fatto è che ogni anno Pannella fa una visita in
carcere per Pasqua (anche per Natale e Capodanno). Stavolta la
malattia non glielo permetteva, e per questo il ministro ha avuto
l’idea di portare un pezzetto di carcere da lui. «Ci è sembrato il modo migliore per ricordare chi vive nelle carceri e l’impegno di Pannella, nel corso degli anni, su questo fronte», ha detto Orlando. I
quattro detenuti, due uomini e due donne scelti dal carcere romano di Rebibbia fra quelli che già lavorano all’esterno e accompagnati da Marco Grasselli e Gabriella Pedote (rispettivamente vicedirettori del carcere e del femminile) hanno ringraziato il leader radicale dell’impegno di una vita a favore della popolazione ’ristretta’. La visita è durata un’ora, con tanto di colomba e uovo di Pasqua. «Grazie grazie grazie ai detenuti e ai detenenti, e al ministro
Andrea Orlando per la splendida riunione di oggi», è quello che alla fine della mattinata ha postato Pannella sul suo profilo twitter.
Per il ministro le visite a sorpresa non sono finite là. Nel pomeriggio il guardasigilli si è presentato nella casa circondariale di La
Spezia, la sua città. Auguri a detenuti e polizia penitenziaria e giro
nel carcere, nell’infermeria e nel reparto dedicato ai bambini
quando vanno a trovare i genitori, ristrutturato di recente sulla base del lavoro degli studenti del liceo artistico di Carrara. È la terza
struttura che Orlando visita a sorpresa dopo quella di Poggioreale
e quella di Regina Coeli il giorno dell’Epifania. d.p.
proprio con Regeni. Perché lo
hanno torturato? Per farsi dare il
codice della carta di credito».
Scorrendo i media egiziani, almeno quelli meno vicini al governo di al-Sisi, le critiche si affollano. «Storiella», «commedia», «Hollywood movie», le parole più frequenti nei titoli delle ultime edizioni.
Masr al Arabiya racconta le torture, tipiche della brutalità di polizia e servizi segreti; Asharq Al-Awsat si domanda perché le autorità
egiziane rifiutino ancora oggi di
fornire alla controparte italiana le
intercettazioni delle telefonate intercorse quella notte nella zona
del rapimento di Giulio.
Sui social network la gente comune si scatena, tra insulti al ministro degli Interni Ghaffar e commenti ironici sui 15 grammi di
hashish che la signora Rasha, sorella di uno dei criminali, si sarebbe già fumata da tempo se li avesse davvero avuti dentro casa.
Oppure sulle 5mila sterline egiziane mai spese. Il leitmotiv è lo
stesso: il Ministero ci sta prenden-
do in giro, sta coprendo le solite
nefandezze. E per farlo non ha esitato ad uccidere quattro persone
che, il commento più comune, sono state giustiziate senza processo.
Simili i commenti di attivisti per
i diritti umani: «Davvero interessante che una gang, specializzata
in rapine, abbia torturato Regeni
fino alla morte e poi abbia deciso
di tenersi i suoi documenti a casa
come souvenir», scrive Wael Ghonim. Torna a parlare anche il noto
comico tv Bassem Youssef, che si
rivolge direttamente al governo:
«Sembra un bambino colto in fallo che prova a nascondere la sua
colpa con una storia incredibile.
Bassa qualità».
Diverso il tono dei quotidiani filogovernativi che si limitano a riportare la versione delle autorità
senza farsi venire troppi dubbi,
mentre nei media si affollano le dichiarazioni di parlamentari che difendono l’operato del ministro
Ghaffar: «Rifiutiamo il tentativo di
attribuire alla polizia questo crimine, volto solo a incitare la comuni-
tà internazionale contro l’Egitto»,
dice Mostafa Bakry.
Intanto, in collaborazione con
gli investigatori italiani, le indagini proseguono, fa sapere la procura egiziana che finora pare essersi
più volte discostata dalla «verità»
a senso unico del governo.
Ieri quattro parenti del capo della banda, Tarek Abdel Fattah, sono stati arrestati. La moglie, la sorella, il fratello e il cognato sono accusati di complicità e favoreggiamento, per aver coperto un criminale e averne nascosto la refurtiva. Ad inchiodarli, secondo gli investigatori, sono gli effetti personali di Giulio Regeni ritrovati in casa
di Rasha, sorella di Tarek.
Proprio lei, però, insieme alla
moglie di Abdel Fattah, avrebbe affermato durante l’interrogatorio
che la banda non ha mai ucciso
Giulio. Lo riporta il quotidiano egi-
ziano al Masry al Youm che aggiunge che, nelle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti egiziani, la
moglie ha sì menzionato la borsa
rossa ma per dire che era stata
consegnata al marito pochi giorni
prima «da un amico». Quella famosa borsa rossa – dentro cui erano ridicolmente nascosti documenti, occhiali da sole, hashish,
un portafoglio da donna, telefoni
cellulari e carte di credito – non appartiene al ricercatore friulano.
Ad affermarlo sono gli amici del
giovane ricercatore che, intervistati da Tahrir News, dicono di non
avere mai visto quella borsa né gli
occhiali da sole. Non appartenevano a Giulio, spiega Mohammed
Sayed, il suo coinquilino nell’appartamento di Dokki. Come non
era suo, aggiunge un altro amico,
Amr Asaad, l’hashish: Giulio non
fumava.
IN ITALIA · Boldrini: ennesima versione scoraggiante. E le opposizioni ora chiedono di riferire in aula
Da Renzi solo parole sulla farsa del Cairo
Daniela Preziosi
ROMA
C
resce di ora in ora l’imbarazzo del governo italiano di
fronte alle verità-farsa apparecchiata dal governo «amico» del
dittatore al Sisi sulla tortura e
dell’omicidio di Giulio Regeni. Negli scorsi giorni il presidente Matteo Renzi, dopo le promesse di collaborazione «da padre» del generale golpista a Repubblica, aveva parlato di «passi avanti». Come uno
sberleffo, una macabra beffa, dal
Cairo sono arrivate le presunte prove dell’uccisione di Regeni da parte
di una banda di cinque rapitori, a
loro volta uccisi. Ieri dagli stessa
media egiziani sono piovute smentite definitive a questa versione.
Per il nostro paese lo smacco è
profondo. «L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo»
assicura Renzi nella sua e-news.
Ma sono parole, per ora. «Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che
i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri. Ma proprio per
questo potremo fermarci solo davanti alla verità. Non ci servirà a restituire Giulio alla sua vita. Ma lo
dobbiamo a quella famiglia. E, se
mi permettete, lo dobbiamo a tutti
noi e alla nostra dignità».
Le cose però non stanno così.
Persino ai vertici del partito del presidente del consiglio la versione corrente è tutt’altra. «Il governo egiziano si decida a collaborare», dice la
vicepresidente Pd Debora Serracchiani. E sul fronte della mancanza
totale di cooperazione e persino di
dialogo fra inquirenti dei due paesi
è stato proprio il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a ammettere, con tanto di un comunicato ufficiale, che i magistrati italiani stanno ancora aspettando «le informazioni e gli atti da tempo richiesti e
sollecitati». Una smentita chiara alla versione della collaborazione delle due magistrature che il premier
prova ad accreditare per non dover
ammettere una verità lampante:
che negli scorsi due mesi nessun reale «passo avanti» è stato fatto nelle
indagini; e che l’Italia non ha ottenuto nulla dal generale golpista, se
non «l’oltraggio» - così lo definiscono molte forze politiche - di una
«messa in scena» - questa definizione invece è della famiglia Regeni di una storia che non sta in piedi.
In un incontro che si terrà il prossimo 5 aprile gli inquirenti romani
chiederanno alla polizia egiziana di
ricostruire ed approfondire l’iter
che ha portato i documenti di Regeni «nella disponibilità della persona
presso la quale sono stati trovati».
Quelli fotografati su un piatto d’argento e mostrati alla pubblica opinione. Sarebbe già accertato invece
che il borsone rosso ugualmente
mostrato dai media egiziani, di Giulio non era, né il tocco di fumo «ritrovato» fra i suoi effetti personali.
«Infamanti depistaggi» di fronte ai
quali lo sgomento è «nostro e
dell’Italia intera», secondo l’avvocata della famiglia Regeni Alessandra
Ballerini. Che però non dubita
dell’azione italiana: «Allo sgomento
si unisce la soddisfazione e la fierezza di essere italiani e di avere il sostegno delle istituzioni, delle tante
associazioni umanitarie e soprattutto dei cittadini».
Una convinzione che sembra vacillare persino nelle massime autorità dello stato. «L’ennesima versione dei fatti sull’omicidio di Giulio
Regeni è scoraggiante e getta
un’ombra sul rigore delle indagini
svolte in Egitto», dice la presidente
della camera Laura Boldrini. Ma la
parola ’ombra’ è un chiaro eufemismo del linguaggio istituzionale.
Ma in questione non è solo l’atteggiamento del Cairo. È piuttosto
quello del governo italiano nei confronti di al Sisi e dei suoi. La «messa
in scena» dimostra che poco è stato
fatto per ottenere la verità sull’atro-
ce morte di Giulio, e quel poco non
è stato efficace. «L’ultima versione
offerta dalle autorità egiziane non
solo è priva di ogni credibilità, ma è
un’offesa alla famiglia di Giulio e
all'intelligenza di tutti coloro che attendono la verità», attacca Alfredo
D’Attorre (Si), e «la reazione del governo italiano è burocratica e inadeguata». Palazzo Chigi attutisce i colpi, ma è ormai evidente che ha nutrito un eccesso di fiducia nella già
discutibile «amicizia» con il dittatore. Ora deve trovare una maniera
per uscirne fuori. Ora che però le
prove dell’omicidio sembrano fatalmente svanite o inutilizzabili. A
questo punto serve un dibattito in
aula secondo Alessandro Di Battista (m5s): «Ministro Gentiloni, ti degni di venire in Parlamento per dirci due parole su Regeni? Senza fare
il democristiano possibilmente».
il manifesto
DOMENICA 27 MARZO 2016
SOCIETÀ
pagina 5
GRECIA · Almeno diecimila richiedenti asilo sono ancora bloccati alla frontiera, sempre chiusa, con la Macedonia
Una tendopoli sul binario morto
RIFUGIATI NEL CAMPO DI IDOMENI FOTO MIRCO FONTANELLA
C’è chi accetta
di essere trasferito
in un campo del
governo e chi spera
ancora di riuscire
ad arrivare in nord
Europa. Il futuro di
Idomeni a un bivio
Ernesto Milanesi
IDOMENI (GRECIA)
A
lexandra è una ragazza greca che studia giurisprudenza a Bologna. Era a bordo
del traghetto Ancona-Igoumenitza “monopolizzato” dalla carovana #Overthefortness con tanto di
assemblea sul ponte più alto. Ha
deciso di non proseguire il viaggio con il padre verso Atene. Si è
aggregata a Igoumenitza alla carovana italiana e ieri ha portato a
destinazione due borse cariche
di pannolini, medicinali e scarpe
in una delle centinaia di tende
del campo.
Con la pettorina arancione, a
gruppetti
controllati
anche
dall’elicottero della polizia greca,
la delegazione di attivisti e volontari italiani è approdata a Idomeni nel primo pomeriggio. Ciascuno con un compito preciso a seconda delle attitudini: distribuire
aiuti, far giocare i bambini, verifi-
il manifesto
DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri
CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco
DESK
Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi,
Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
Benedetto Vecchi (presidente),
Matteo Bartocci, Norma Rangeri,
Silvana Silvestri
il nuovo manifesto società coop editrice
REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A.
Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191
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iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di
Roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale
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Pubblicazione a stampa: ISSN 0025-2158
Pubblicazione online: ISSN 2465-0870
ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 320e
semestrale 165e versamento con bonifico bancario
care legalmente la situazione dei
profughi, tradurre dall’arabo o
dall’inglese, monitorare la solidarietà. In 150 a darsi da fare, anche
se il furgone con il materiale atteso dai profughi (a cominciare dalle scarpe) ha subito una perquisizione da parte della polizia.
Nella tendopoli, che resta l’emblema del calvario europeo senza
resurrezione, il clima sembra come il cielo sempre sospeso fra la
minaccia di un temporale o il sole che combatte con le nuvole.
È nato un bambino da una parte, mentre dall’altra la piccola
folla assalta il vecchio camion
con il cibo. Nella tenda curda si
sorseggia tè con la musica tradizionale, ma al confine con la Macedonia la protesta non si smorza. Si improvvisa una “vera” partita a calcio con la polisportiva
San Precario, tuttavia nella strada che scende dal piccolo paese
si gioca sempre il business nel
bazar dei disperati.
Chi conosce la «città dei migranti» parla della possibilità di
un esodo dei siriani verso le strutture che il governo Tsipras ha
concordato con Bruxelles e barattato con Erdogan.
Tuttavia, il resto del Medio
oriente in quest’angolo di Grecia
rinnova la promessa di trovare
un pertugio verso Skopje se non
addirittura la rotta verso Tirana.
Le famiglie, tantissime, dignitose
nonostante tutto, provano comunque a nutrire la speranza
«europea» con la cena nei vassoi
di plastica.
Idomeni, tendopoli sul binario
morto resta comunque la residen-
presso Banca Etica intestato a “il nuovo manifesto
società coop editrice” via A. Bargoni 8, 00153 Roma
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del 09-02-2015
chiuso in redazione ore 22.00
tiratura prevista 38.514
PASQUA
Migranti, terrorismo e guerre
nella Via Crucis di papa Francesco
Migranti, terrorismo, guerre, ma anche i preti pedofili, sono
stati al centro dei gesti e delle parole di papa Francesco nei
giorni del «triduo pasquale» che si conclude oggi con la messa e la benedizione Urbi et Orbi a San Pietro. «O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nel nostro Mediterraneo e nel mar
Egeo divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra
coscienza insensibile e narcotizzata», ha detto Francesco nella
preghiera che ha recitato venerdì notte, al termine della Via
Crucis al Colosseo. Il giorno prima, giovedì, nella messa al
Centro accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto – durante la quale ha lavato i piedi a 11 profughi di varie
religioni e ad una operatrice del Cara, «fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace» – aveva ricordato gli attentati di Bruxelles, «un gesto di guerra, di distruzione». Terrorismo e guerre, figli degli stessi padri, ha ricordato ancora alla
Via Crucis: i «fondamentalismi» e il «terrorismo dei seguaci di
qualche religione che profanano il nome di Dio e lo utilizzano
per giustificare le loro inaudite violenze»; ma anche i «potenti»
e i «venditori di armi che alimentano la fornace delle guerre».
Luca Kocci
za di non meno di 10 mila persone cui bisogna aggiungere la decina di campi cresciuti intorno alle
stazioni di servizio, fino a quelli
«ufficiali» intorno a Salonicco.
Qui la vita quotidiana si misura
con la preghiera nella moschea
improvvisata, la spola delle squadre con badili e sacchi neri (Medici senza frontiere garantisce così
pulizia e igiene), il censimento legale cui partecipano anche gli studenti del corso di protezione internazionale Asgi di Roma, i bambini che continuano a sorridere e
giocare, l’infopoint che offre il testo dell’ultimo accordo Ue con altre notizie in arabo per chi vuol
aggiornare la bussola, l’odore pervasivo della cenere di ogni genere di fuoco alimentato con tutti i
materiali a disposizione.
Finché c’è luce, ci si sforza tutti
di immaginare la “normalità”
dentro questa specie di follia.
Ma da troppo tempo profughi
di guerra, migranti d’ogni tipo,
volontari più o meno accreditati
e perfino Unhcr sanno bene che
sarà impossibile perpetuare lo
stato d’eccezione autogovernata.
È scritto, prima o poi, anche il destino di Idomeni: come la giungla
di Calais. Dipenderà dal governo
di Atene, che per il momento continua a trattenere gli agenti in assetto anti-sommossa: venerdì
c’erano i primi bus a beneficio
dei siriani, usciti a spinta dal fango ma pur sempre un precedente
su cui far leva…
Con la carovana #Overthefortness sono tedeschi, catalani, inglesi, francesi (e perfino giapponesi) a far da specchio all’Europa
che non discrimina né piazza cavalli di frisia. Bruxelles è davvero
lontanissima, anche se qui i cartelli di «scuse» rispuntano puntuali a rimarcare la differenza
abissale fra chi sopporta le conseguenze delle guerre e chi terrorizza anche l’esodo biblico.
Quando cala il buio, arriva puntuale il freddo. Soprattutto
nell’anima della tendopoli emblema d’Europa. Lo si combatte con
l’ultimo girotondo di decine di ragazzini, accendendo il simulacro
di un focolare davanti a «casa»,
con il pellegrinaggio al generatore che carica i cellulari ultimo filo
di affetto per tante famiglie divise
o stringendo le spalle nella notte
che si ripete uguale.
Nemmeno oggi i diritti fondamentali risorgeranno a Idomeni.
Ma almeno dall’alba si ricomincia a mantenere vivo il rispetto
della vita di tutti: anche solo con
un paio di scarpe, matite colorate, pannolini e cibo caldo.
LA GUERRA IN CASA
Immigrati,
la favola
dell’ «integrazione»
Emanuele Giordana
T
utte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi
islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno
e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare
la risposta che vada bene all’intervistatore,
ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi
è ospite in un Paese deve infatti rispettarne
le regole, le leggi e le tradizioni ma non per
questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto:
il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a
noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per
amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici
che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti.
Possiamo osservare le leggi ma nessuno può
costringerci ad approvare la pena di morte o
il rito del pub al sabato sera che impone di
ubriacarsi sino a stare male.
Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li
condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre
società sono la terra dei miscredenti e che
quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola
e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché
ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure
di rimanere convinto delle sue convinzioni.
Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle
tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma
questo è un mondo di frontiere, per lo più
chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si
è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha
ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo «provincializzare l’Europa»,
renderci conto che non siamo il Verbo, che
la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro.
INFORMAZIONE · Nonostante le direttive, di referendum si parla poco e negli spazi di minor ascolto
I dati dell’Agcom: in tv le trivelle non fanno rumore
Andrea Fabozzi
D
el referendum non si parla. O se ne parla assai poco, in televisione. Venerdì
l’Autorità garante per le comunicazioni ha diffuso i primi dati utili per valutare quanta informazione si stia (non) facendo sul prossimo appuntamento con le urne:
il 17 aprile gli italiani sono chiamati a esprimersi sulle trivellazioni in mare entro le 12 miglia. Anche su questi dati è calato un sostanziale silenzio.
L’Agcom ha fatto monitorare
tutte le tv nazionali, dalla Rai a
Mediaset, da La7 a Sky a Mtv e
Deejay tv e ha diviso la rilevazione in due blocchi. Il primo va dal
16 febbraio al 4 marzo (per la tv
pubblica) e al 7 marzo (per le private), il secondo parte da queste
ultime date e arriva al 20 marzo.
La ragione è semplice: soltanto
dai primi giorni di marzo sono
applicabili le direttive con le quali la commissione di vigilanza
(per la Rai) e la stessa Agcom hanno prescritto alle tv di informare
sul referendum. Naturalmente
nulla vietava che un po’ di infor-
mazione ci fosse anche prima,
tantopiù che la conferma ufficiale che andremo al voto sulle trivellazioni è arrivata il 16 marzo
con la firma di Mattarella al decreto di indizione del referendum. Invece (quasi) niente, fino
a che l’informazione non è diventata obbligatoria: per venti giorni
tra la metà di febbraio e i primi
di marzo, i tg Rai hanno parlato
del referendum per non più di 12
minuti, tutti gli altri niente, zero,
silenzio. Dopo le cose sono mi-
gliorate. Appena un po’.
I tg Rai hanno dedicato servizi
al referendum per un totale di 3
ore e 38 minuti. Quasi tutti, circa
i due terzi, a carico dei tg con il
minore ascolto, quelli di Rai
news (2 ore e 13 minuti). Fuori
dai tg l’informazione Rai è stata
quasi assente, solo un’ora e 29
minuti nelle trasmissioni di approfondimento, che poi sono
quelle con un audience più vasta, oltre che quelle che dovrebbero dare la possibilità di farsi
un’idea ascoltando le diverse opinioni. Questa ora e 29 minuti va
divisa esclusivamente tra Raiuno
e di nuovo Rai news. Le reti due
e tre hanno dedicato al referendum la miseria di 9 minuti. Un disastro? Aspettate di leggere
com’è andata nelle tv private.
In due settimane di informazione a ciclo continuo, Skytg24 canale all news ma anche canale
solidamente governativo - se l’è
cavata dedicando al referendum
38 minuti nei tg e 21 fuori dai tg.
Mediaset 2 ore e 14 minuti nei telegiornali, ma quasi tutti (un’ora
e 18 minuti) a carico del poco seguito Tgcom 24. Fuori dai tg appena un quarto d’ora di approfondimento di nuovo su Tgcom.
Mentre La7 almeno ha dedicato
al referendum 2 ore e 41 minuti
nelle trasmissioni di approfondimento. Compensando così il
quasi vuoto nel tg, appena 14 minuti. Tutto questo nei giorni in
cui valgono o dovrebbero valere
le delibere che impongono alla
tv di «assicurare all’elettorato la
più ampia informazione sui temi
e sulle modalità di svolgimento
della campagna referendaria».
pagina 6
il manifesto
DOMENICA 27 MARZO 2016
CINA
PECHINO · Una lettera firmata da «membri fedeli del Partito» chiede a Xi di abbandonare il timone
Al di qua
della Muraglia
il miracolo cinese
ha cominciato
a perdere smalto
e tira una brutta
aria. Nel mirino
finisce il numero
uno del Pcc.
Arresti
e sparizioni sono
la risposta
«Compagno Presidente
è ora di dimettersi»
Alessandra Colarizi
«C
hiediamo per il bene
del Partito, per la salvezza a lungo termine della
Nazione, per il tuo bene e per
quello della tua famiglia, di dimetterti da ogni incarico statale e di
Partito. Di lasciare nelle mani del
popolo cinese e del Partito la scelta di un'altra persona capace che
possa guidarci attivamente verso
il futuro». Firmato: «I membri fedeli del Partito».
È una bomba a orologeria la lettera comparsa qualche settimana
fa sul sito specializzato in diritti
umani Canyu.org e ripresa nel giro di poche ore da altre piattaforme online, compreso il filo-governativo Watching.cn.
Lo è davvero dal momento che
il destinatario della missiva è nientemeno che il presidente cinese Xi
Jinping, l’uomo che dal novembre
2012 guida il gigante asiatico sullo
scivoloso sentiero delle riforme
economiche con pungo di ferro e
tolleranza zero verso le voci del
dissenso politico.
L’appello comincia con un plauso dei successi ottenuti dal leader
(con riferimento alla campagna
anti-corruzione e all’implementazione delle riforme economiche)
per poi degenerare in un’aspra critica contro l’erosione dell’indipendenza degli organi statali, l’aggressività inconcludente della politica
estera, e l’incapacità gestionale
manifestata di fronte all’altalena
dei mercati finanziari, al problema disoccupazione e alla svalutazione dello yuan, la moneta locale. Come spesso accade in caso di
contenuti sensibili, la lettera è stata fatta sparire dal web in un tardivo ripensamento dello staff di Watching.cn. Il problema è che a sparire non è stata soltanto la lettera.
Il 15 marzo, il giornalista Jia Jia
(87mila follower su Twitter) scompare nel nulla mentre si trova
all’aeroporto di Pechino in viaggio verso Hong Kong. Di lui si perdono le tracce per giorni fino a
quando domenica scorsa è arrivata la conferma del suo avvocato:
Jia è stato trattenuto per «un’indagine», non è ben chiaro se come
sospettato o per collaborare alle ricerche.
Ma i bene informati non hanno
dubbi sul fatto che esista un collegamento tra la sua sparizione,
quella di un’altra quindicina di
persone e la lettera, sulla cui pubblicazione Jia aveva espresso molti timori. La notizia del suo rilascio, circolata venerdì e confermata dal suo legale, per il momento
non basta a fare luce sul caso. Chi
ha scritto veramente la lettera? E
soprattutto, come è finita su un sito finanziato dal governo?
Jia è l’ultima vittima di un giro
di vite che non sembra avere fine.
Attivisti, avvocati, dissidenti e giornalisti. Chiunque metta in discussione l’operato dell'amministrazione Xi Jinping si ritrova dietro le
sbarre o sulla Cctv, l’emittente di
Stato con il pallino per le autocritiche a telecamere accese.
Tira un’aria tesa a Zhongnanhai, il Cremlino d’oltre Muraglia, da quando il «miracolo cinese» ha cominciato a perdere smalto. Secondo un'analisi basata su
una serie di direttive interne, tra il
2012 e il 2014 l’economia si classificava soltanto settima tra gli argomenti considerati più sensibili nel-
IL PRESIDENTE CINESE XI JINPING SALUTA I MILITARI, SOTTO INCONTRA I GIORNALISTI DELL’AGENZIA UFFICIALE XINHUA /LAPRESSE
MEDIA
Gli ultimi casi
di censura
REN ZHIQIANG il «Donald
Trump cinese» ha criticato sul suo
account Weibo, il Twitter locale,
l’informazione nazionale.
La Cyberspace Administration of
China gli ha chiuso l’account
sul social network cinese
la lista nera dei censori. L’anno
scorso - quando il Pil è cresciuto
ai minimi da 25 anni - era già salita al secondo posto.
Perché, come si sa, il rallentamento della crescita minaccia
l’agognata «armonia sociale», lo
dimostra l’impennata del numero
delle proteste sul lavoro registrate
negli ultimi tempi, circa 500 solo
nel mese di gennaio.
Va da sé che, in tempi di intolleranza, l’editoria risulta tra i settori
più colpiti. Introdotta inizialmente nell'ambito della campagna anti-corruzione (in Cina il silenzio
stampa non di rado viene indotto
attraverso generose mazzette), la
mordacchia viene ormai applicata con mezzi decisamente più
grezzi.
Ancora prima di Jia Jia a volatilizzarsi nel nulla erano stati i cinque librai di Hong Kong legati alla
Causeway Bay Bookstore, libreria
nota per i suoi testi scandalistici
sull’establishment cinese. Una sto-
ria dai contorni ancora poco chiari, specie per quanto riguarda
l’inettitudine dimostrata dalle autorità dell’ex colonia britannica in
un momento in cui il Porto Profumato avverte più che mai l’ingerenza della mainland dopo il fallimento delle manifestazioni democratiche degli Ombrelli.
E non sembra strano se nel
2015 l’Hong Kong Journalists Association ha registrato un ulteriore
deterioramento della libertà di
stampa per il secondo anno di fila. Sulla terraferma, il nuovo anno
si è aperto con una storica visita
di Xi Jinping presso le sedi dei
principali media di Stato, la prima
da quando ha assunto l’incarico
di presidente.
Il messaggio risuona forte e
chiaro: i media devono «allineare
la loro ideologia, il pensiero politico e le azioni a quelle del Comitato centrale del Partito e debbono
aiutare a forgiare le ideologie e le
linee del Partito», ha dichiarato il
numero uno di Pechino. Come
spiega David Bandurski su China
Media Project, il tour di Xi inaugura una nuova linea politica per i
media nazionali.
Bandurski paragona la visita di
Xi a quella realizzata dal suo predecessore, Hu Jintao, nella redazione del People's Daily. Correva
l'anno 2008 e per l’ex presidente i
media avevano il compito di «incanalare l’opinione pubblica», mentre ora Xi predilige la linea definita dei «48 caratteri» che implica
una quasi completa aderenza ai
valori del Partito.
Un approccio non più «strategico e selettivo» come ai tempi di
Hu Jintao, ma «senza esclusione
di colpi». Quello della lealtà a tutti
i costi. Funziona? Per il momento
parrebbe proprio di no. E a poco
sono serviti i cartoni animati e i
motivetti orecchiabili con cui la
propaganda ha tentato di umanizzare i leader agli occhi dei cittadini. Gli ultimi attacchi sono partiti
direttamente dal cuore del sistema. All’indomani del tour mediatico di Xi, Ren Zhiqiang, il «Donald
Trump cinese», riversava su Weibo la sua disillusione verso le sorti
dell’informazione oltre Muraglia,
non più al servizio del popolo bensì del Partito. Bersagliato dalla
stampa ufficiale, il magnate è stato infine silenziato dalla Cyberspace Administration of China che ne
ha chiuso l’account sul Twitter cinese. Un evento grave ma non raro nell'era della «nuova normalità» di Xi Jinping.
Sarebbe potuta rimanere una
delle innumerevoli purghe 2.0 inflitte dai censori ai surfisti della rete: la blogosfera insorge, i gendarmi di Internet fanno pulizia e si ricomincia. Invece no. Una lettera
aperta - stavolta indirizzata al
«parlamento» cinese - ha preso le
difese di Ren accusando i dipartimenti governativi di aver, negli ultimi anni, «completamente ignorato la Costituzione e lo Stato di diritto». A differenza di quanto si potrebbe pensare, dietro l'audace
messaggio (che riporta tanto di firma, numero di telefono e Id) non
c’è un attivista bensì un dipendente dell’agenzia statale Xinhua.
E non è l’unico «insider» ad
aver lanciato il guanto di sfida. Ad
inizio mese anche la nota rivista finanziaria Caixin, diretta da Hu
Shuli (una che in passato ha sempre saputo mantenersi sul filo del
lecito con maestria funambolica),
ha puntato i piedi portando allo
scoperto un eclatante caso di censura ai propri danni.
«Il Partito ha cominciato a perdere la lealtà degli intellettuali sulla scia del movimento antidestrista del 1957. Dalle riforme e l'apertura anni '80 si è avuto un qualche
miglioramento, ma da quando Xi
Jinping ha preso il potere la situazione è nuovamente peggiorata»
spiega al manifesto Qiao Mu, docente della Beijing Foreign Studies University, editorialista, nonché amico di Jia Jia.
«Molti accademici, giornalisti e
avvocati considerano il presidente una specie di «guardia rossa»
che ha riportato in vita il culto della personalità con mezzi da Rivoluzione Culturale. Un ipocrita bugiardo che ha nella sua discendenza dall'aristocrazia comunista
l’unico fattore di legittimazione».
In un certo senso, siamo di fronte alla rottura del tacito accordo
tra media e potere suggellato
all'indomani dei fatti di piazza Tiananmen, quando Pechino concesse maggiore libertà imprenditoriale e manageriale in cambio di obbedienza.
Non a caso, secondo il Washington Post, l’escalation repressiva
ha innalzato il livello d’allarme
presso la comunità diplomatica internazionale a livelli mai visti dai
tempi dello storico massacro.
STAMPA E POTERE
Debolezza dei firmatari e «giornalismo di stato»
HU SHULI direttrice della rivista
Caixin, è una delle giornaliste
di inchiesta più note in Cina.
Di recente ha deciso di pubblicare
un resoconto sull’operato
della censura e della propaganda
ai danni della sua rivista
JIA JIA è l’ultima vittima
della repressione in fatto
di informazione in Cina. Sparito
poco dopo la pubblicazione
della lettera contro Xi, è stato
rilasciato ieri. Il giornalista
ha 87mila follower su Twitter
L
a lettera che chiede le dimissione del presidente cinese (nonché segretario del Partito comunista) Xi Jinping e le sue conseguenze immediate, gli arresti e le detenzioni di
persone ritenute coinvolte se non nella sua stesura, quanto meno nella sua diffusione, indicano una difficoltà della leadership di Pechino a
rendere omogeneo tutto il Partito, di fronte alla
figura di un numero uno che si è via via rivelato
accentratore anche più dei suoi predecessori.
Significa che quelle lotte intestine diventate
pubbliche durante lo scandalo Bo Xilai sono ancora lì, non sopite e pronte a scattare a ogni segnale di debolezza del Partito. L’impressione è
che si tratti di tentativi che finiranno per consolidare ancora di più la posizione di Xi Jinping,
leader che si è saputo armare di validi scudieri
in grado di eliminare anche rivali contrari alla
sua politica. I firmatari per altro hanno inserito
nella loro lettera alcuni avvertimenti macabri,
come quelli che si riferiscono all’integrità fisica
di Xi e dei suoi famigliari, che pongono perfino
dubbi sulla veridicità del testo. Prendendolo
per buono, al presidente cinese vengono evidenziati tre problemi della sua azione: in primo
luogo il disastro economico dovuto al tonfo in
borsa e la perdita di soldi da parte di tante persone; in secondo luogo una politica estera eccessivamente aggressiva, a dire loro, che avrebbe finito per riportare gli Stati uniti ad un ruolo
piuttosto pericoloso nell’area (abbandonando
Simone Pieranni
così - secondo i firmatari - la teoria della politica estera di Deng Xiaoping che puntava a «nascondere» la potenza cinese sotto forma di una
diplomazia più subdola e apparentemente più
accomodante). Xi Jinping viene infine accusato
di aver coltivato un culto della personalità che
avrebbe finito per sradicare la «guida collegiale» del Partito.
I «fedeli membri del Partito» con questa lettera finiscono però per dimostrare poca forza, prima di tutto. Nella liturgia tutta cinese fatta di
messaggi trasversali, quanto esce pubblicamente - di solito - ha lo stampo della debolezza, al
contrario di imboscate interne capaci di partire
del tutto silenti, salvo poi ottenere risultati. In
secondo luogo la lettera appare densa di conservatorismo e volontà di mantenere lo status
quo e quindi, dato il percorso comunque intrapreso dal paese, i desiderata di chi l’ha scritta
sembrano inesorabilmente destinati a soccombere di fronte alla storia.
Più interessante appare una lettura di tipo
«comunicativo» che permette di scorgere la necessità, da parte di chi contesta la presidenza,
di armarsi di strumenti in grado di incidere
quella realtà ovattata creata dal sistema informativo cinese, oggi ancora più sottoposto al potere rispetto al passato. E questo secondo aspetto indica il sentiero di una riflessione che avvicina Pechino alla gestione del consenso che possiamo ritrovare anche in altri sistemi politici.
Xi Jinping di recente ha compiuto una visita
nel quartier generale dell’agenzia di stampa cinese, la Xinhua, invocando la «fedeltà al partito» e ribadendo una più generale necessità che
i mezzi di informazione funzionino come cassa
propagandistica delle azioni di governo. Si tratta di qualcosa che ben si inserisce nella considerazione, si permetta la generalizzazione, che
tanti cinesi hanno del giornalismo (compresi
molti addetti ai lavori). Ma in generale richiedere alla stampa una narrazione capace di supportare, anziché puntellare e imporre al potere
una condotta attenta, non sembra oggi un desiderio esclusivo del leader cinese.
il manifesto
DOMENICA 27 MARZO 2016
INTERNAZIONALE
pagina 7
ROLLING STONES · In 600 mila nel campo della Ciudad Deportiva per lo show delle «pietre rotolanti»
La macchina del tempo
si ferma per una notte
Luca Celada
INVIATO A L’AVANA (CUBA)
«G
uarda, se solo penso
che sono qui e che io
sto per vederli dal vivo mi vengono i brividi» mi aveva detto Librado, 45 anni, un colosso di uomo, meccanico di
«almendrones» (le auto americane anni 50 che miracolosamente deambulano per Cuba) e guida turistica per arrotondare. Per
confermare mostrava la pelle
d’oca che effettivamente ricopriva il braccio. Forse solo in questa Cuba macchina del tempo,
un concerto dei Rolling Stones
poteva tornare ad essere un
evento «epocale». Librado è del
’71 (l’anno di Sticky Fingers) e mi
racconta di quando con gli amici si riunivano attorno al transistor ad onde medie per ascoltare le pietre rotolanti di nascosto,
perchèsull’isola i loro dischi erano al bando. L’altroieri, nel venerdì santo che su richiesta di
papa Francesco è stato decretato festivo per la prima volta in decenni, Librado e altri 600 mila
Cubani si sono stipati nel campo della Ciudad Deportiva
dell’Avana per assistere infine allo storico primo concerto dei mitici Rolling «Estones».
Certo i tempi sono cambiati
da quando l’unica fonte per il
rock degli Stones era l’etere pirata ma in cambio del concerto
gratuito aggiunto in extremis al
programma della tournée, Mick
e compagni hanno ritrovato un
po’ della trasgressione da tempo
appannata dal peso della loro
macchina ben oliata (c’è stata
perfino una nota di disappunto
della diocesi per la concessione
del permesso alla band di Sympathy for the Devil proprio in
questo venerdì di Pasqua riconquistato di fresco). Ma la sensazione preponderante nella settimana storica iniziata con la visita di Obama, è stata un entusiasmo e un aspettativa per il concerto che ha superato anche
quella per l’arrivo del presidente
americano.
Appena partito Obama all’Avana per giorni non si è parlato
d’altro, sulle «guagua» (gli autobus sgangherati che fumano come ciminiere), sui taxi collettivi,
nei paladar della città vecchia e
nelle file di avventori dei negozi
«el concierto» è stato argomento
fisso. Nella casa particular dove
ho alloggiato ho assistito a un
lungo dibattito fra le addette delle pulizie sull’opportunità o meno di affrontare la folla (una, Rosa, ha deciso che un evento di tale importanza non si poteva
mancare, Aliana alla fine ha preferito soprassedere). La televisione nazionale ha dedicato un numero speciale del programma di
approfondimento «mesa redonda» alla storia della band con la
stessa dovizia con cui qualche
giorno prima aveva ripercorso i
punti salienti dei rapporti fra Cu-
ba e Stati uniti). Gli unici forse in
parte meno partecipi dell’attesa
sono stati i ragazzi più giovani,
quelli che nei punti internet della città, come i loro coetanei dei
Caraibi e dei quartieri ispanici in
Usa, semmai scaricano i successi «reggaeton» e i videoclip di Pitbull. La legge globale del turnover generazionale perchèmalgrado tutto il tempo non sta dalla
parte nemmeno di chi ha scritto
...Time is on my side...
Detto questo il boato che ha
accolto le prime note di Jumping Jack Flash dal palco della
Ciudad Deportiva ha detto tutto
su un emozione che è chiaramente andata oltre il normale tifo da «stadium rock». Dopo l’obbligatorio «Buenas Noches Habana» Mick Jagger ha apostrofato la folla in Spagnolo: «So che
tempo fa è stato difficile trovare
i nostri dischi qui. Eppure eccoci
qua a suonare per voi nel vostro
bel paese. Io credo che le cose
stiamo finalmente cominciando
a cambiare . No?» Il nuovo boato
è sembrato quantomeno segnalare la speranza che sia così.
ALCUNE
IMMAGINI
DELLO
STORICO
CONCERTO
DEI ROLLING
STONES
ALL’AVANA/
FOTO LA
PRESSE
Mick e compagni
ritrovano un po’
della perduta
trasgressione
in un concerto
accolto con
un entusiasmo che
ha superato anche
quello per l’arrivo
di Barack Obama
Un contingente di giovanissimi vistosamente tatuati e con
mohicani artigianali mi confida
«somos punks cubanos» esibendo le maglie dei Misfits e dei Ramones. Victor che ha vent’anni
e l’intelligenza intensa dei ragazzi di qua ma anche l’innata diffidenza cubana verso le versioni
ufficiali dice, «qui forse si sta rivoluzionando qualcosa. Vediamo che cosa». Aggiunge: «un
concerto così lo aspetto da quando sono nato. Certo mio padre
anche di più, purtroppo lui ora è
in Florida e non l’ha potuto vedere». Accanto a loro in questo
pubblico sterminato ed eterogeneo ci sono tre casalinghe sulla
quarantina con a seguito figli di
13-14 anni («devono conoscere
SOTTO IL PALCO · Intere famiglie e una marea di giovani
Sempre e solo «Satisfaction»,
Cuba risponde con energia
Roberto Livi
L’AVANA (CUBA)
C
uba ha avuto satisfaction. Non solo una
notte «inolvidable» di rock, con i Rolling
Stones, in un concerto gratuito e con tutti i crismi di un gran evento moderno, schermi,
luci, altoparlanti con 1,3 kilos di suono, una cosa mai vista prima. Ma una specie di riconciliazione generazionale, tra mayores, con i capelli
brizzolati o decisamente bianchi , occhiali da vista, che hanno per decenni sognato un concerto rock di questo tipo e i giovani reguetoneros
che però hanno gridato e ballato. Insomma, venerdì notte nella Ciudad Deportiva, è sembrata
scomparire la frattura generazionale che molte
volte divide Cuba. Intere famiglie al concerto, i
giovani alla scoperta del nuovo e propensi –
spesso sbagliando- a cercarlo solo fuori dall’isola e i più anziani che vedevano concretizzato un
sogno che per anni è stato impossibile tradurre
in realtà.
Insomma, ci ha preso Mick Jagger quando ha
detto: «Sappiamo che prima era difficile per voi
ascoltare la nostra musica, però ora siamo in
questa bella terra. I tempi stanno cambiando,
vero?». In risposta un coro misto di molti «sì»
ma anche di sonori «no». Anche questa differenza di opinione gridata a tutto volume è cosa non
da tutti i giorni nell’isola, sempre più scossa da
una settimana che passerà alla storia, prima la
visita del presidente degli Stati uniti, per di più
favorevole alla fine del «bloqueo», poi gli Stones.
«Forse è proprio vero che a Cuba le pietre iniziano a rotolare» commentava il mio vicino Luis.
«Cuba saca la lengua», sosteneva Yerena, con
il simbolo della banda dipinto nella faccia: «È
un evento – dice - che segna un’impronta positiva nella storia dei concerti a Cuba. È un prima e
un poi, non ho dubbi. E il pubblico dell’isola lo
merita. Viva gli Stones».
Al concerto, nella tribuna Vip, hanno partecipato ministri, funzionari della Nomenklatura,
tra cui il consigliere culturale del presidente Abel
Prieto, membri del Comitato centrale del partito
comunista, i più giovani membri della famiglia
Castro, molti musicisti, fra i quali i rockeros Da-
vid e Ernesto Blanco, umoristi e artisti che vanno
per la maggiore.
Ma la maggiore diversità era nel pubblico,
enorme, oltre mezzo milione di persona. Si potevano vedere rappers, rastafaris, reguetoneros, repas, tutti i tipi di rockeros, heavys, punks pieni di
ferraglia. In una marea di giovani e di cubanos de
a pié, gente comune. «Mai vista tanta gente differente», insiste Luis. La grandissima parte partecipa per divertirsi, per ballare e sentire gratuitamente la musica di un gruppo famosissimo. Anche se questa musica non la conoscono, o l’han-
questa musica»). E poi migliaia
di stranieri molti venuti a Cuba
solo per questa sera.
«Sono stato a Woodstock» afferma Kevin, sessantacinquenne
spilungone di New York, con la
soddisfazione del reduce decorato. «Francamente non avrei pensato di ritrovarmi in un campo
così simile». Se per i molti Americani che hanno fatto il viaggio
tramite Canada o Messico predomina il brivido dell’isola proibita, per i tantissimi europei, canadesi e latinoamericani sbarcati
in una Avana zeppa di turisti, c’è
generale solidarietà e l’emozione di siglare la settimana storica
cominciata con la visita di Obama. Le conversazioni poliglotte
durante la lunga attesa nel po-
no ascoltata solo in parte, magari hanno nelle
orecchie Satisfaction e poco altro. Molti sono lontani dalla cultura rock, almeno «vecchia maniera», dal grido di libertà che lo caratterizza; altri,
sono per il rock duro, molto metallico, anarchico. La grande maggioranza vuole muovere «la
cintura», divertirsi. Così è stato per Carl Luis, accompagnato da «un amigo del barrio» al quale
non piace il rock. «Il mio socio è un repa, dice,
pensavo che sarebbe rimasto quemado, morto
di noia, invece si è divertito più di me»
Per alcuni però, come Mato, il concerto significa un cambiamento dell’immagine del rockero
nella società cubana: « Noi rockeros siamo sempre stati malvisti, io ho avuto problemi con i vicini di casa che protestavano per la musica che
ascoltavo». «Dove sta il rock sta la libertà, prosegue. Speriamo che questo concerto sia il segnale
di un’apertura». E soprattutto si augura che agli Stones seguano altre band,
magari di heavy metal o rock alternativo. «Bisogna che continui, perché qui
la gente ascolta la stessa roba: reguetón».
Buona musica, ballo, lacrime e gioia
e soprattutto «tanta energia». E senza
che vi sia stato un incidente di rilievo.
Lo ha detto apertamente Armando, un
giovane mulatto, che viene da un barrio duro, dove spesso il sabato sera dopo ore di musica, ron e cerveza, i giovani tirano fuori il ferro e ci scappa il ferito. «Non sono fanatico degli Estones.
Però questa sera sento che qui c’è stata buona energia. Pensavo che probabilmente sarebbe scoppiata una bronca però così non è stato. Tutto il mondo se l’è goduta, divertendosi assieme agli altri».
E proprio questo è stato un altre grande e importante risultato e insegnamento. Centinaia di migliaia di persone accalcate nella Città sportiva ad
ascoltare una musica che parla di ribellione, ricerca di libertà, con relativamente poca polizia e
poi ore per defluire –vi erano punti segnalati in
precedenza dove attendevano le guaguas per riportare a casa la gente- e senza una rissa di rilievo. «Hola Avana», aveva salutato Jagger all’inizio
del concerto. E la Habana ha risposto con calore,
energia e simpatia.
meriggio sono state quasi tutte
su quale dei due eventi avesse
più rilevanza storica.
Intanto sul palco Jagger & co.
si sono messi all’opera. Dopo
Jumping Jack, ecco It’s Only
Rock n’Roll, un altro inno che infiamma la platea sui cui sventolano più bandiere che alle nazioni
unite. Mick è scatenato, un folletto settuagenario dall’energia apparentemente inesauribile: balla, salta, incita il pubblico che impazzisce quando brandisce una
bandiera cubana roteandola
mentre percorre di corsa il palco
in lungo e in largo. Il set è un sussidiario di Stones che sembra fatto per riepilogare la discografia
completa e supplire ai 50 anni di
assenza da Cuba. L’excursus passa per il periodo d’oro con Paint
it Black, poi Angie; tocca i classici assoluti con Honky Tonk Woman e si tuffa in Let it Bleed
(Gimme Shelter, con uno straordiario assist vocale di Sacha Allen). La band ci prende gusto:
Ron Wood imperversa sulla slide guitar e duetta con Keith Richards che passa in rassegna
l’impressionate assortimento di
chitarre con un sorriso stampato. Perfino l’impassibile, granitico, Charlie Watts se ne lascia
scappare uno due. «Noche inolvidable» aveva detto Mick all’inizio del concerto e sembrerebbe
che per loro almeno, non siano
solo parole.
È il momento di Keith che imbraccia l’acustica e attacca You
Got The Silver - i due brizzolati
del Quebec accanto a me sembrano addirittura commossi, e
non hanno tutti i torti. Intanto i
tredicenni montati in spalla alle
mamme non mollano i cellulari
puntati sui nonni indiavolati
che non mollano: Start Me Up, I
Miss You, Brown Sugar, Sympathy For The Devil. Il pubblico è
scatenato ma soprattutto felice;
le forze d’ordine quasi non si vedono. Diffcile pensare ad una città migliore che questa Avana solare, umana per assemblare pacificamente mezzo milione di persone senza ombra di incidente.
Sul palco sale il coro e attacca il
gran finale di You Can’t Always
Get What You Want.
Volendo ci si potrebbe leggere
un riferimento al paese ospite e
alla leggendaria arte dei cubani
per ottenere ciò di cui ha bisogno. D’altra parte in questa settimana a Cuba tutto è diventato
metafora, simbolo. E allora il forse neanche il bis è casuale - I
Can’t Get No.....«Satisfaction!» risponde all’unisono il pubblico
di questa Cuba divisa fra l’orgoglio della propria storia antagonista e i sacrifici patiti, la quasi carestia dei tempi più bui, gli anni
90 in cui il ritiro della Russia
post sovietica è coinciso con la
stretta crudele dell’embargo della legge Helms Burton voluta dalla diaspora assecondata dalla destra repubblicana (e da Bill Clinton). Con tutte le sfumature e le
distinzioni generazionali del caso, è chiaro che qui, oggi, per
questo popolo dall’incomparabile intelligenza, la simpatia e capacità, c’è ancora sete di un po'
più di «satisfaction» (e di viaggi, e di internet, e di qualche peso in più....).
Ieri gli Stones, come Obama,
hanno lasciato questa città unica, in cui c’è un parque Lenin e a
poca distanza il parque Lennon
- con tanto di statua di John seduto su una panchina. Gli abitanti dell’Avana hanno vissuto
una settimana storica, per usare
un termine inflazionato ma accurato. Ora dovranno aspettare
di vedere se diplomazia e
rock’n’roll incideranno sulla loro vita e su quella del paese.
pagina 8
il manifesto
DOMENICA 27 MARZO 2016
ULTIMA
teatro
L’attore fiorentino, scomparso venerdì a 86 anni,
ha raccontato in scena attraverso la sua cultura
multiforme e sterminata, l’Italietta e le sue
istituzioni, i pregiudizi e i suoi comportamenti
fascisti. Tutto questo pur rivolgendosi agli abbonati
dei palcoscenici più tradizionali. Dagli esordi con la
compagnia genovese la Borsa d’Arlecchino agli
incontri romani, l’amicizia con Laura Betti e la
lunga parentesi televisiva. Dai ’60 assurge a
grande star del palcoscenico nazionale, con storie
comiche, eppure di respiro intellettuale e politico
Gianfranco Capitta
S
Irriducibile
PAOLO POLI
e ne è andato con discrezione Paolo Poli, un mese
dopo che un ictus l’aveva
costretto al ricovero nell’ospedale romano Fatebenefratelli,
dove la sua fibra fortissima era
riuscita anche a superare una
broncopolmonite. Stava per
compiere 87 anni (era nato nel
maggio del 1929), ma era ancora un «ragazzo», asciutto e scattante, lasciati da due anni i palcoscenici perché era difficile tenere in piedi una compagnia
quando anche un teatro di quelli cosiddetti primari, non gli aveva pagato i cachet, pur dopo un
mese di sala esaurita. Non era
impossibile fino ad allora, incrociarlo su qualche marciapiede
ferroviario attorniato da un bel
numero di valigie e borsoni. Gli
piaceva assai fare l’attore, e adFOTO GRANDE
dossarsene fatiche e difficoltà,
UNA SCENA
anche quelle di spostamento.
DA «ALDINO,
Ora che non ci colpirà più
MI CALI UN
con le sue battute, sferzanti coFILINO» (2001),
me frustate, forse qualcuno si
UN RITRATTO
dedicherà a studiarne seriamenDI POLI (2007)
te lo straordinario talento, la
E UN’IMMAGINE
cultura multiforme e sterminaTRATTA
ta, l’arte ipnotica con cui ha fatDA UNO SHOW
to polpette di istituzioni e nazioTELEVISIVO
nalismi, pregiudizi e comportaCON LAURETTA
menti fascisti, esibizioni machiMASIERO
ste e valori consolidati sui ruoli
e sui poteri. Tutto questo, pur rivolgendosi in maniera privilegiata ad abbonati ed abbonate
dei teatri più tradizionali, platee di giacche scure e pellicce
fresche di parrucchiere, cui lui
solleticava gli istinti più privati
e inconfessabili, ne scopriva i limiti piccoloborghesi cantando
canzonette d’epoca. Usando
per altro la cultura più «seria» e
la letteratura più amata, da cui
lui poteva far scaturire il veleno
moschicida dei buoni sentimenti falsamente intesi.
Del resto quel giovane fiorentino laureato su un drammaturgo francese, Henry Becque, e
già avviato all’insegnamento
(come la mamma, mentre il padre era carabiniere), aveva tutti
gli strumenti per maneggiare i
materiali più delicati. Ma l’amore per il teatro e l’intraprendenza civile lo fanno muovere già
alla fine dei ’50 verso la Borsa
d’Arlecchino genovese animata
da Aldo Trionfo, e poi a Roma
spinto da altri toscani come
Franco Zeffirelli prima e poi
Mauro Bolognini. Qualche parte in teatro, e tanti incontri cruciali ed elettrizzanti in quegli anni di boom anche dei costumi.
Con Laura Betti divide addirittura la casa a via Margutta, e insieme scandiscono attraverso La
ballata del pover’uomo lo sceneggiato tv tratto dal romanzo
di Fallada. Con la Masiero fa le
operette, ma con Sandra Mondaini fanno una pestifera coppia di bambini birignao. Filiberto ed Arabella. Si apre per Poli
la strada maestra della tv dei ragazzi, distaccamento milanese
della Rai dove si trova a lavorare con Claudia Lawrence sublime maestra di mimo, Jacqueli-
Firenze/ L’ULTIMA APPARIZIONE PUBBLICA
Quel testamento artistico
sul palco del Niccolini
Gabriele Rizza
FIRENZE
A
Paolo Poli il Niccolini è toccato in
sorte due volte. A distanza di 38 anni. Firenze restava la sua città. Seppur conflittuale. 6 novembre 1978. Dopo
le fumose stagioni del cinema, come volevano i gusti del pubblico e le ragioni del
botteghino, la gloriosa sala di via Ricasoli, già del Cocomero, la prima in città, anno domini 1650 per volontà dell’Accademia degli Infuocati, riapriva il sipario, artefici magici Roberto Toni e Carlo Cecchi. 8 gennaio 2016. Dopo vent’anni di incuria e abbandono, a vecchia vita restituito, debitamente rimesso a nuovo, il Niccolini riaccendeva le luci, nel frattempo
entrato nell’orbita del Teatro della Toscana. Per Poli sarebbe stata questa l’ultima
apparizione in pubblico. Su un palcoscenico. Non fu un recital né tanto meno
uno spettacolo.
Fu, a guardarlo ora, un geniale «testamento» artistico. Una chiacchierata a
ruota libera, punteggiata da contributi video e audio, foto, immagini, poesie, un
dialogo giocoso e irrispettoso, una inedita carrellata fra l’ieri e l’oggi in perfetto
stile Poli, con la lettura di alcune pagine
dell’amato Palazzeschi. Poli qui fu di ca-
sa per tutti gli anni 90, da solo o in compagnia della sorella Lucia. E dove ancora
una volta tornava a essere l’eterno ragazzo che ci ha insegnato il gusto dell’irriverenza beneducata, sempre utile a rispondere per le rime, a sfornare la sua proverbiale verve, dissacrante baldoria di mefistofelica leggerezza, che culminava, mirabile sintesi, nei leggendari «bissini», attesi come epifania salubre della cattiveria e
della lussuria. Così lo ricordiamo, Paolo
Poli, l’immancabile farfallino per cravatta, esile e sornione, inguaribilmente beffardo, un illuminista della risata, pezzi di
vita e spezzoni di carriera, fra il vero e il
finto, a ridersi addosso e riderci sopra, gli
aneddoti, i fattacci, le battute a veleno.
Come quella prima volta, 1978, birichino elegante in frac, Ariel e Puck, al piano
Jaqueline Perrotin, che faceva «Mezzacoda» escursione nell’italica canzonetta primi 900, patriottica e mammona, fra colombe, patatine, sommergibili, impavidi
balilla e tuber: «le donne dei paesi nordici amano molto differentemente da quelle dei paesi sudici». Qualcuno gli chiese
se riaprire il Niccolini per la seconda volta, poteva dirsi un ritorno a casa: «Ma
quale ritorno a casa, spero di morire
all’estero, come Dante Alighieri». Irriverenza oblige.
ne Perrotin enciclopedica maestra musicale capace di frugare
nelle canzonacce pre e postfasciste come nella grandeur militarista francese; e con loro collaborerà poi per tutta la sua vita
in palcoscenico, come con Santuzza Calì per i costumi sfolgoranti, Lele Luzzati per i meravigliosi fondali da sillabario, e Ida
Omboni per le incursioni letterarie più deliranti.
Dagli anni ’60 infatti Paolo
Poli assurge a grande star del
palcoscenico nazionale. Capace di costruire un teatro fatto di
grandi storie con piccoli mezzi,
di citazioni classiche che non distinguono tra scrittura alta e
bassa, ma sono sempre
impregnate di rivelazioni stupefacenti e di allusioni spesso e volentieri inferte sotto la cintura. Un
teatro irresistibil-
mente comico, eppure di grande respiro intellettuale. Un teatro che è stato capace di essere
aggressivamente «politico» ma
senza volerla dare a vedere.
Con effetti fragorosi sorprendenti, rappresentando il mitico
futurismo marinettiano e «fascista» di Marinetti come Suggeritore nudo (letteralmente, appena velato da una calzamaglia a
pelle), oppure sco-
prendo i deliri sacroerotici di Rita da Cascia, che gli valse denunce e censure. Perché bisogna ricordare che una scuola di
alta formazione è stata per Poli
la mitica compagnia D’Origlia-Palmi, ultimo esemplare di
ditta «all’antica italiana», di cui
l’attore fu prima avido spettatore e poi reinventore originale.
Così come lo fu, è notorio, l’altro
asso del nuovo teatro italiano, Carmelo Bene: ci
andavano
tutti la
domenica pomeriggio al teatrino
di Borgo Santo Spirito, magari assieme alla suddetta Betti e ad altre future signore della scena, a
bearsi e dannarsi dall’invidia e
dalle risate, davanti a quelle vibranti «vite delle sante». Del resto era quasi un omaggio forever
a Bianca D’Origlia quella Nemica
in travesti di Nicodemi che consacrò poco dopo Paolo Poli signora
per sempre di un teatro capace
di rappresentare buoni sentimenti e nefandezze, i vizi e i pregiudizi della nuova Italietta scudocrociata, mammona e crudele.
Da allora ogni anno, al massimo due, il beato Paolo che aveva ormai perso il pudore
dell’ipocrisia, divenne un appuntamento imperdibile per
pubblici diversi: quello degli abbonati che i teatri allora tenevano in attivo, e quello di giovani
generazioni che scoprivano la
possibilità di un teatro divertente e irriverente, ma in grado di
infliggere sonori manrovesci ai
valori costituiti, ai loro potentati, alle polizie da grand guignol
che ne erano custodi. Per di più
partendo da una ispirazione letteraria di alto e altissimo livello:
gli autori di culto del Poli lettore raffinato e multiforme, dal
prediletto Palazzeschi (dalla cui
invocazione «Lasciatemi divertire» nasceva il titolo della trasmissione tv dell’attore dello
scorso anno) a Queneau, da Parise ad Apuleio, da Savinio alla
Ortese, da Swift a Pascoli tra i
molti. Ma anche quelli superpop, da Dumas a Carolina Invernizio, per altro rispettata anche da Gramsci. Racconti fantastici e spesso gotici, capaci di
dare nella loro essenzialità brividi insieme di inquietudine e di
ilarità. Riscattati nei finali e nei
bis da certe canzoncine «peccaminose» d’inizio ’900: La lattaia, La petite tonkinoise, e altre
piacevolezze pornomilitariste.
Cantate con qualche malizia e
molta crudeltà, magari assieme
a Jole Silvani che come Milena
Vukotic per un periodo lo hanno accompagnato in scena. E
masticate dal coro del pubblico
devoto di tutte le età.
Lì si chiudeva il sipario (dopo
il suo ineluttabile gesto della mano che indicava l’uscita, anche
questo condiviso con Carmelo
Bene) e da lì bisognerebbe ripartire per dare dignità e spessore a
un teatro che non è stato mai visto in profondità. Spesso, anche
nei primi commenti e ricordi sui
giornali di ieri, si è finito per dare più importanza alla sua omosessualità e alla sua passione maniacale per il travestimento femminile. Che sono state appariscenti, anche perché Poli si divertiva a rispondere a quelle
morbose curiosità sparandole
ancora più grosse. Come quando approfondiva l’importanza
estetica dei pompieri in servizio
sul palcoscenico, o quando scegliendo il titolo per un libro di
memorie, lamentava di aver avuto «tanti fiori, ma non il fioraio».
Irresistibile nella sua perfidia,
crudele nella sua analisi antropologica, Paolo Poli era poi un fantastico narratore di favole per i
bambini, e acutissimo nocchiero
tra le ricette di Artusi registrate in
un magnifico audiolibro. Ci ha insegnato e ci ha donato davvero
molto; con la sua arte e col piacere che ci ha dato in tutti questi anni, bisognerà davvero fare i conti
e rendergli i dovuti onori.