Anche al Cairo diffidano di al-Sisi Renzi: «No alle verità di comodo»
Transcript
Anche al Cairo diffidano di al-Sisi Renzi: «No alle verità di comodo»
CON IN MOVIMENTO + EURO 1,00 CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013 ANNO XLVI . N. 73 . DOMENICA 27 MARZO 2016 EURO 1,50 Arrestati in Belgio due «pesci grossi» della cellula terroristica: un franco-algerino coinvolto nell’attentato al generale Massoud in Afghanistan e un reporter che si occupava di migranti. Giallo sull’omicidio di un agente della centrale nucleare. A Bruxelles annullata la marcia contro la paura per motivi di sicurezza PAGINE 2, 3 GUERRA AI MIGRANTI I migliori reclutatori dell’odio Marco Revelli P La centrale del terrore L’OMAGGIO PER LE VITTIME DELLE STRAGI A BRUXELLES FOTO AP BIANI L’ENNESIMO DEPISTAGGIO EGIZIANO SUL CASO REGENI Anche al Cairo diffidano di al-Sisi Renzi: «No alle verità di comodo» I l premier Renzi ha fatto sapere che all’Italia non bastano «verità di comodo». E la coperta egiziana è corta sia per chi in Italia pretende la verità dal presidente-alleato al-Sisi sia per i tanti egiziani che in queste ore inondano di commenti i social network e i giornali online. Le domande, le nostre e le loro, sono le stesse. Perché una banda di criminali avrebbe dovuto torturare per giorni uno straniero a fini di rapina, perché la polizia rifiuta di rispondere alle legittime domande poste dalla stampa alternativa, perché i malviventi avrebbero tenuto con sé i documenti di Giulio per due mesi CRUCIATI, PREZIOSI |PAGINA 4 SIRIA Assad e Isis, scontro decisivo per Palmira Kamikaze Daesh colpisce in Iraq, 41 le vittime SERVIZIO |PAGINA 3 MIGRANTI | PAGINA 6 iù passano i giorni dalla doppia strage di Bruxelles, più appare chiaro come la principale vittima di quell’atrocità, oltre alle donne e agli uomini le cui vite sono state cancellate come fossero cose, sono loro: la moltitudine di migranti spalmati sui confini d’Europa o appena filtrati al suo interno, che ne avranno – ne hanno già! - la vita sconvolta. E con loro i 20 milioni di musulmani che abitano le città d’Europa, a cui con voci sempre più sguaiate si chiede di negare status di cittadini eguali (il che la dice lunga sul cinismo con cui questo jihadismo senza princìpi gioca con le vite di coloro nel nome del cui dio dice di combattere). Dovrebbero essere loro, migranti vecchi e nuovi, i nostri migliori alleati, in questa che si vuol chiamare guerra, se solo un barlume d’intelligenza (foss’anche d’intelligenza strategica) c’illuminasse. Quelli più interessati, in nome della tutela del proprio «stile di vita», a disseccare questa radice velenosa dell’odio da cui hanno tutto da perdere. Così come, simmetricamente, dovrebbe essere chiaro che i migliori alleati dei nostri nemici, quelli che ne moltiplicano le potenzialità di reclutamento e ne consolidano l’illusoria identità non sono tanto, o comunque non sono solo, i «loro» imam radicali, i predicatori di banlieu facilmente controllabili anche dal più scalcinato servizio d’intelligence, ma i «nostri» seminatori d’odio. Quelli della guerra santa simmetrica e reciproca. Sono loro a precostituire nell’immaginario collettivo le condizioni per la crescita esponenziale di Daesh come materializzazione della guerra. A costituirne le basi psicologiche per l’arruolamento. Se è vero che la «guerra» in corso è, soprattutto e in primo luogo, una guerra di «narrative» (una proiezione dello storytelling sul terreno devastante del conflitto estremo), in cui il raggruppamento lungo il discrimine amico/nemico avviene in rapporto alla forza d’attrazione di un «racconto». E se il «racconto» del nostro nemico si alimenta della retorica dell’Occidente crociato, nemico mortale dell’islam, in guerra preventiva con i seguaci dell’unico e vero dio – retorica tanto più ferocemente aggressiva quanto più intensamente vittimistica -, allora ogni parola di guerra pronunciata dal nostro campo, tanto più se non sostenuta da azioni conseguenti ed efficaci (e come potrebbero esserlo oggi?), è manna dal cielo per quell’identità ostile. Ne fornisce la materia prima di cui strutturarsi e consolidarsi. CONTINUA |PAGINA 3 LO SHOW | PAGINA 7 ADDIO AL MAESTRO Grecia, a Idomeni tra chi resiste e chi sceglie di andare via La lezione civile di Paolo Poli GIANFRANCO CAPITTA l PAGINA 8 TRIVELLE | PAGINA 6 Il referendum che non si vede. I dati Agcom CINA | PAGINA 6 Bufera nel Partito Lettera contro il boss Xi Jinping: «Dimettiti» Rolling Stones, L’Avana in delirio con 600 mila fan ALIAS DOMENICA Accolti con un entusiasmo superiore a quello per l’arrivo di Obama, Mick e compagni ritrovano un po’ della perduta trasgressione CORRADO BOLOGNA l NELL’INSERTO Also sprach Marcel Proust pagina 2 il manifesto LA CENTRALE DEL TERRORE Bruxelles • BELGIO Lo spettro della crisi politica che minaccia l’Ue Gabriele Annicchiarico BRUXELLES È un vero e proprio uragano quello che si è abbattuto sul Belgio. Lo spettro della crisi politica, dopo le dimissioni (poi respinte) dei ministri degli Interni, Jan Jambon, e della Giustizia, Koen Geens, unita alle falle oramai evidenti nei servizi di sicurezza sono una miscela esplosiva che rischia di generare una crisi di governo che potrebbe destabilizzare l’intera comunità europea. La falla dei servizi di sicurezza di mezza Europa (non dimentichiamo che Salah Abdeslam in fuga da Parigi dopo gli attentati è stato fermato ben tre volte dalla polizia francese prima di raggiungere Bruxelles) ha colpito in particolare il governo belga, colpevole di non aver colto i segnali sui potenziali terroristi nel proprio territorio. Secondo i media locali, sarebbe stato il primo ministro Charles Michel, in quota Mr (partito liberale francofono), a insistere perché i due ministri restassero al loro posto in un momento tanto delicato per il paese. La partenza di Jan Jambon, pezzo grosso del più grande partito di maggioranza di governo, la Nva, un partito separatista fiammingo di estrema destra (dalla retorica simile a quella della nostra Lega), avrebbe probabilmente messo in discussione l’esecutivo e aperto una crisi dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Il Belgio è un paese in cui la formazione di un governo non è cosa semplice. L’equilibrio di un esecutivo deve tener conto non solo degli orientamenti politici dei partiti ma anche delle divisioni linguistiche fra la comunità fiamminga e la comunità francofona, senza contare l’esistenza di una minoranza di lingua tedesca. È di qualche anno fa il triste record della crisi politica più lunga della storia, con 541 giorni consecutivi senza governo. Un vero record mondiale, a cui aveva fatto seguito un accordo di «larghe intese» (tipico nel panorama belga) per poi arrivare a una coalizione di centro-destra guidata dalla Nva. Il cuore della crisi politica (non ancora sventato ma solo sospeso dalla situazione di emergenza che vive il paese) è dovuto principalmente alla strategia della Nva, partito anti-immigrazione e dalle politiche di tagli alla spesa sociale, favorevole a una regione fiamminga indipendente. La critica verso i partiti francofoni, accusati di lassismo e di aver creato il terreno ideale per lo sviluppo di cellule terroristiche, sembra ora ritorcersi contro lo stesso partito separatista fiammingo. Se Jan Jambon, esponente di spicco della Nva deve rispondere di superficialità nella gestione delle informazioni venute dal governo turco (sulla cui genuinità le autorità belghe nutrono molti dubbi), Bart de Wever, leader storico del partito, deve invece rispondere del fatto che le più importanti reti di reclutamento di foreign fighters sono proprio sul territorio fiammingo. In particolare la nota associazione (a quanto pare) madre del fondamentalismo belga, Sharia4Belgium, sciolta nel 2012, è stata fondata ad Anversa, locomotiva economica fiamminga di cui lo stesso Bart De Waver è sindaco. La debolezza dell’esecutivo belga e la sua possibile caduta (in perenne crisi di identità fra l’unità nazionale e la deriva separatista della Nva) sembra ora assurgere a simbolo di un’Unione Europea che fatica a trovare un’identità, una strategia comune nella lotta al terrorismo e nelle politiche d’accoglienza dei richiedenti asilo, con effetti imprevedibili su tutta l’Europa. DOMENICA 27 MARZO 2016 Due arresti: «l’uomo con il cappello», freelance che si occupava di migranti, e Ameroud condannato per l’attentato al generale Massoud La rete dei pesci grossi A. Mas. BRUXELLES I l «pesce grosso» ferito alla fermata del tram a Schaerbeek è un personaggio già condannato in Afghanistan a sette anni di carcere per la complicità nell’assassinio del comandante Ahmad Shah Massoud, il «Leone del Panshir», eroe della resistenza anti-sovietica e anti-talebana, ucciso all’immediata vigilia dell’attentato alle Twin Towers di New York, nel settembre 2011. Si chiama Abderahmane Ameroud ed è un franco-algerino. Ma la figura più singolare è quella del cosiddetto «uomo col cappello», il giovane immortalato al fianco dei fratelli el Bakraoui nell’aeroporto di Zaventem la mattina dell’attentato. Si trat- Giallo sull’omicidio di una guardia nella centrale nucleare. Annullata marcia di oggi contro la paura terebbe di Faysal Cheffou, un attivista mediatico che si era occupato, tra le altre cose, dei maltrattamenti sui migranti musulmani detenuti nel centro 127 bis di Steenokkerzeel, nelle Fiandre. Il 21 luglio 2014 aveva postato su YouTube un servizio nel quale si sentivano le grida degli internati e Faysal spiegava che essi protestavano perché «privati del cibo». Il giornalista spiegava che nel centro i pasti venivano serviti tre volte al giorno, l'ultima delle quali alle 19, troppo presto per i detenuti musulmani che, durante il Ramadan, potevano mangiare solo dopo le 22, quando il cibo era già stato ritirato. Anche lui non era sconosciuto alle cronache: suo fratello Karim fu ucciso dalla polizia nel 2002 durante una perquisizione nella sua casa di Schaeerbek, alla ricerca degli autori di una rapina. All’interno dell’appartamento vennero trovati una borsa piena di granate e alcuni mitra. Faysal era stato accusato più volte di ricettazione, associazione a delinquere e anche di omicidio per un episodio del 2003, quando un amico aveva preso una pistola dentro casa sua, credendola scarica, e l’aveva puntata alla testa di un’altra persona, uccidendola. Durante la perquisizione, in cucicina furono trovati passamontagna Mephisto, manette, divise e altra refurtiva rubata alla stazione di polizia di Molenbeek. Nel settembre scorso Cheffou aveva ricevuto una sanzione amministrativa dal comune di Bruxelles per impedirgli di frequentare il parco Maximilien, dopo diverse denunce delle autorità municipali che lo avevano ritenuto «pericoloso» perché cercava di reclutare immigrati e rifugiati. A riconoscerlo sarebbe stato il tassista che l’ha trasportato all’aeroporto. Il terzo arrestato di due giorni fa si chiama invece Rabah M., mentre dell’uomo fermato nella banlieue parigina di Argenteuil, Reda Kriket, si sa invece che era stato condannato nel luglio scorso insieme ad Abdelhamid Abaaoud (uno degli organizzatori degli attentati di Parigi il 13 novembre) per aver reclutato jihadisti per la Siria e che sul suo capo da agosto pendeva un mandato d’arresto europeo. Proprio in computer e una chiavetta usb all’interno di un appartamento di Atene nel quale aveva soggiornato Abaaoud a gennaio sono stati alcuni disegni e una mappa dell’aeroporto di Bruxelles. Una notizia che confermerebbe come gli attacchi siano stati pianificati per tempo e come dietro ci sia un’unica regia. Dagli Stati Uniti è filtrata invece la notizia (riportata dalla Cnn) che i fratelli el Bakraoui erano in una lista nera dell’antiterrorismo già da prima degli attentati di novembre a Parigi. Intanto, gli organizzatori hanno annullato, su richiesta del ministero dell’Interno e del comune, la «marcia contro la paura» prevista per oggi a Bruxelles, con partenza dalla piazza della Borsa. Motivo: la difficoltà di garantire la sicurezza, «data la capacità della polizia sul terreno e visto che la priorità è l’inchiesta». Infine, c’è un piccolo giallo legato a possibili attacchi alle centrali nucleari del Belgio: dopo la chiusura dell’impianto di Liegi, le indiscrezioni che la vedevano nel mirino dei terroristi e la sospensione del badge per undici dipendenti, giovedì sera è stato ucciso un agente di sicurezza che prestava servizio in una centrale. Ma la procura ha smentito ogni legame con il terrorismo islamico: Didier Prospero sarebbe stato assassinato giovedì sera con il suo cane per «motivi personali». LA CAPITALE EUROPEA · Un abisso di rabbia e sospetti tra Molenbeek e i palazzi del potere Nella «green zone» dell’Unione Raffaele K. Salinari BRUXELLES L a statua dorata di San Michele, uccisore del drago, protegge ancora la Gran Place di Bruxelles con i suoi simboli alchemici e la conchiglia di San Giacomo incastonata nelle pietre del selciato a indicare ai pellegrini l’inizio del cammino per Santiago di Compostela. Ma, anche se i locali che danno sulla piazza sono pieni come sempre, l’aria che si respira trasmette un senso di normalità forzata, sorvegliata dalla presenza delle forze dell’ordine. Un’atmosfera che vira bruscamente verso la tensione quando si passa l’invisibile confine che separa la parte storica da quella degli edifici dell’Unione europea, che appaiono come enucleati dal resto, parte di una geografia del potere che, anche attraverso la militarizzazione del territorio, sembra riaffermare la sua alterità rispetto al resto della città. Percorrendo le strade che collegano il Parlamento alla Commissione, il Consiglio alle sedi delle rappresentanze diplomatiche, si avverte l’aura sinistra di questo gigante ferito, ridotto oramai a un insieme di dispositivi economici che non riescono a spiegare come mai dalle periferie di quella stessa città da cui governa il destino di un intero continente, siano nati i mostri che lo attaccano. L’aria di assedio è palpabile, Passeggiare per la città è osservare stati d’animo opposti, tra solitudine e orrore ma non è generata tanto dai blindati agli angoli delle strade o dai militari all’entrata della metropolitana, né dalla cintura dei quartieri etnici che sembrano circondare come un accampamento permanente gli scintillanti edifici dai nomi che ricordano un ideale di inclusione troppe volte tradito in nome della ragione mercantile per suscitare il rispetto di chi li osserva solo da lontano. Se qualcosa questi attentati hanno svelato, a cui cioè hanno tolto il velo, è invece la distanza tra eurocrazia e cittadinanza, non solo quella immi- grata, ma tutta quanta, inclusi i cittadini autoctoni. E’ da questa separatezza che nasce il senso dell’assedio. La cittadella delle istituzioni comunitarie si arrocca nelle sue prerogative circondandosi di apparati difensivi che la isolano dal flusso della vita corrente. Anche chi condanna senza riserve il terrorismo, infatti, non può non chiedersi come e perché questi stessi palazzi, con le loro logiche, abbiano contribuito a generare l’odio e il fanatismo che ora li prendono di mira. Bruxelles si svela dunque a se stessa come un microcosmo ridotto a una enorme scacchiera, come oramai lo sono tutte le megalopoli del mondo, in cui basta girare l’angolo per cambiare continente e tempo, in cui si confrontano le contraddizioni di una costruzione europea incompiuta, che esclude le sue stesse periferie e si chiude in se stessa senza sapere però chi è veramente. La caccia alle cellule dormienti del Califfato ha scuoiato la pelle superficiale della capitale europea per mostrare i suoi nervi più sensibili, le contraddizioni che vivono tra le maglie dei suoi territori marginali. Avventurarsi poi nei quartieri di immigrazione araba, a Molenbeek, significa sperimentare tutto il peso della distanza che si è accumulata negli anni tra le differenti culture. Mentre in centro, e nella zona dei palazzi europei, le forze dell’ordine si mostrano in modalità «difensiva» qui invece l’attitudine è chiaramente offensiva, deterrente, quasi provocatoria, come muoversi attraverso una perquisizione permanente. Dalle finestre le donne e i bambini scrutano ansiosi le strade, mentre gli uomini restano distanti e taciturni, si allontanano quando un «forestiero» gli si avvicina. Il sospetto e la diffidenza verso i volti sconosciuti si rendono palpabili e fanno capire che qui vigono dinamiche peculiari, che gli attentati hanno fatto degenerare in tutta la loro radicalità. Camminando per le strade sembra che tutta la popolazione si interroghi sul suo essere in quella situazione, colpevolizzata dall’appartenenza religiosa, sospettata per la fede che professa. In certi momenti si rivivono le pagine dello Straniero il manifesto DOMENICA 27 MARZO 2016 LA CENTRALE DEL TERRORE Palmira • pagina 3 L’antica città patrimonio Unesco è il bottino che il governo siriano vuole ottenere per presentarsi come il difensore della civiltà contro le barbarie SIRIA/IRAQ · Strage di Daesh in uno stadio a sud di Baghdad, 41 vittime Isis e Assad si contendono la «sposa del deserto» Chia. Cru. I trofei stavano per essere consegnati ai giocatori, alla fine di un torneo di calcio tra squadre locali. Ma l’apparente normalità di una partita di pallone è stata devastata dalla cintura esplosiva di un kamikaze dello Stato Islamico: almeno 41 i morti, 100 i feriti. Tra le vittime ci sono anche 17 bambini: avevano tra i 10 e i 16 anni. In un video pubblicato online si vede il sindaco, Ahmed Shaker, chiamare a voce alta i nomi dei calciatori. Gli applausi. Poi l’esplosione. «L’attentatore si è infilato tra la folla e si è avvicinato al centro del campo, si è fatto saltare in aria mentre il sindaco [anche lui tra le vittime, ndr] consegnava il premio», racconta un testimone, il 18enne Ali Nashmi. Nel mirino degli uomini del «califfato» è finito il villaggio di Al-Asriya, vicino la città di Iskandariyah, 40 km a sud di Baghdad. Mentre l’esercito governativo tenta con fatica di far partire l’operazione per liberare Mosul, l’Isis colpisce intorno alla capitale, a dimostrazione della capacità di infiltrarsi in ogni angolo del paese. Poco dopo dieci kamikaze cercavano di colpire la base militare occidentale di Ein Al-Assad, tra le più grandi in Iraq: l’esercito ha aperto il fuoco uccidendone otto, ma perdendo 18 soldati. Lo Stato Islamico è sotto pressione, sia in Iraq che in Siria, dalle contemporanee avanzate dei due governi. Ma non è affatto sconfitto, controlla ancora un terzo del territorio in entrambi i paesi. A IN ALTO, UNO STRISCIONE NELLA PIAZZA DELLA BORSA A BRUXELLES. A DESTRA, LA LIBERAZIONE DI PALMIRA FOTO REUTERS di Camus. Ma anche la rabbia si sente attraverso i commenti ai fatti di sangue da parte dei residenti. La rabbia per essere stati abbandonati quando si chiedeva invece di essere considerati, prima che l’integralismo mettesse radici nell’esclusione sociale. Tornando a fine giornata verso l’aeroporto ormai riaperto ai voli, si finisce così per ricomporre in un quadro policromo tutte queste situazioni accomunate da un grande senso di spaesamento, l’immagine di una città e dei suoi cittadini che riflettono quelli di tante altre situazioni che ogni giorno rischiano di esplodere in bagni di sangue senza che i sintomi siano rilevati con chiarezza e possibilmente sradicati. Eppure, come sempre, se si va oltre le apparenze e i condizionamenti indotti dalle notizie di seconda mano, mediate dai grandi mezzi di comunicazione di massa che si rivendono il terrore, a Bruxelles si possono, in questi giorni, trovare sguardi limpidi, anche a Molembeek, anche nell’atrio del Parlamento europeo. Sono gli sguardi dei ragazzi che visitano le istituzioni europee, che ascoltano la storia di Spinelli, che vanno oltre il dramma contingente per ritrovare le ragioni fondative di un grande sogno, forse ferito a morte ma che può ancora riservare delle belle sorprese. mancare sono istituzioni statali forti e radicate, rosicchiate da anni di guerra civile, palese in Siria, strisciante in Iraq. A Damasco il presidente Assad resiste alle pressioni esterne, avanzando sul terreno. L’obiettivo è Palmira, la «sposa del deserto», porta verso oriente e verso una soluzione politica più favorevole di quella immaginata da Occidente e Golfo. Ieri gli scontri per l’antica città patrimonio Unesco sono proseguiti. Le truppe governative continuano ad avanzare dopo aver liberato i quartieri settentrionali e occidentali. Venerdì, secondo l’agenzia di Stato Sana, il castello di Qalaat Shirkuh è stato raggiunto dai soldati di Assad, immortalati in al- GUERRE/TERRORISMO I migliori reclutatori di Daesh DALLA PRIMA Marco Revelli Non per nulla Daesh usa, per la propria propaganda, i filmati con i comizi di Donald Trump. Ma lo stesso potrebbe fare con quelli di Matteo Salvini. E di Marine LePen. O dei variopinti demagoghi populisti sparsi per l’Europa minore, non diversi peraltro dalla retorica degli «stivali sul terreno» rispolverata da un riesumato Tony Blair e dalle guasconate di un Hollande in stile guerriero nonostante se stesso. Sono loro oggi i migliori reclutatori di Daesh su scala globale, dobbiamo dirlo con chiarezza. Sono loro i ghost writers della narrativa jihadista, offrendo giorno per giorno – nell’intreccio tra bellicosità verbale e impotenza reale - i materiali linguistici per la trama di una storia infinita e sempre uguale, che batte sempre sullo stesso tasto: la distruzione dell’Altro. E che prima o poi quel vaso di Pandora che ha riempito di veleni lo aprirà del tutto, perché sono i seminatori di tempesta quelli che oggi, sciaguratamente, dettano i termini del dibattito pubblico (basta leggere i post in ogni angolo della rete) come se un meccanismo perverso se ne fosse impadronito che finisce per premiare specularmente le retoriche distruttive e irrazionali contro ogni lume della ragione. In una sorta di «vertigine». Politica (il condizionale è d’obTorna in mente un vecchio bligo), quando fosse capace di saggio di Roger Caillois, scritto alrimanere fedele al proprio profila vigilia della Seconda Guerra lo più nobile: la vocazione a perMondiale, intitolato appunto seguire il «bene comune», per Vertiges, dove s’intendeva con arduo che ciò sia. quel termine l’irresistibile attraPer questo noi de l’Altra Eurozione per cui «l’essere è trascinapa con Tsipras abbiamo messo to alla rovina e come persuaso al centro della nostra recente asdalla visione stessa del proprio semblea nazionale a Milano la riannientamento» che «lo priva flessione su cosa voglia dire «fadel potere di dire di no». È lo stesre politica in tempi difficili». Che so istinto autodistruttivo per cui non sono i tempi in cui l’avversal’insetto è attratto dalla fiamma rio contro cui lottiamo è infinitache lo ridurrà in cenere, l’uccello mente più forte dallo sguardo del di noi, a questo serpente che lo Nella guerra in corso siamo in fondo divorerà. E l’uoabituati da semmo dalla fascina- dovremmo allearci pre. Ma quelli in zione del cui il quadro polivuoto… La forza con i migranti tico e sociale – cieca della sorte anziché perseguire persino culturaper il giocatore le, e potremmo coattivo. L’inac- la strategia dell’odio dire cessibile impassi‘antropologico’ - in cui ci muobilità della femme fatale per l’inviamo si decompone e si sfarina. namorato senza speranza, nel Quando i fronti lungo i quali si campo dei comportamenti indidefiniscono gli amici e i nemici viduali. Per le società, invece, la mutano rapidamente, si spezzaGuerra. no e ricompongono, e la nostra Il punto zero dell’esistenza in stessa comunità rischia di decui ciò che si considera inevitabicomporsi e sfarinarsi, i rapporti le trova infine compimento nel di fiducia di logorarsi e spezzartrionfo del nulla. In ogni caso il si, e si stenta a vedere gli alleati e denominatore comune della i compagni di strada. Quando si vertigine è innanzitutto la difinisce per non riconoscersi struzione dell’autonomia: una più… l’un l’altro! «fatale paralisi» di fronte alla solSono i tempi in cui si passa da lecitazione dell’abisso. E l’antiuna situazione che Gramsci doto – risorsa rara – è una volonavrebbe chiamato di «guerra di tà capace di restare «padrona di posizione» – in cui si confrontasé», conservando «l’indipendenno blocchi ancora strutturati (neza, l’energia e l’iniziativa». Cioè oliberismo contro resistenza soquello che dovrebbe essere la ciale), forme organizzate (Stati, Partiti) ancora relativamente stabili in lotta per l’egemonia – a una di «guerra manovrata» o «di movimento» in cui, appunto, le egemonie si sfaldano e tutto diventa a geometria variabile. Allora le consolidate strategie e le vecchie tattiche non solo non servono più ma diventano dannose. E conta la velocità di pensiero. In una situazione simile, ancora all’inizio degli anni ’40, ancora Caillois, pensando alla nascente resistenza, scrisse un breve testo intitolato Athènes devant Philippe in cui, di fronte al ritorno dell’odio tra i popoli, ricordava come, un tempo, Atene avesse saputo, nella lotta contro il pericolo macedone, «rompere solennemente con quella tradizione che metteva le nazioni le une contro le altre» perché nessuno potesse accusarla di preferire «gli interessi di Atene al diritto altrui» («Nella lotta contro Filippo avrebbe avuto le mani pulite»). E avesse così proposto «ai forti, agli audaci, agli austeri di unirsi su tutta la terra per instaurare il loro governo sulla moltitudine dei soddisfatti e dei mediocri». Ad Atene, il 18 e 19 marzo, si è riunita la nascente nuova sinistra europea. Sul palco principale, alla conclusione, c’erano tutti i principali protagonisti di quella rinascita. Un solo vuoto: l’Italia. Perché qui ancora una sinistra alternativa non c’è. E il peso si sente. cune foto di fronte all’ingresso della struttura, strategica perché in cima ad una collina da cui si può controllare il sito archeologico: da lì, ieri, partivano colpi di artiglieria verso la valle. I media siriani riportavano della liberazione di buona parte di Palmira, nonostante gli scontri Al-Baghdadi e i suoi non sono affatto sconfitti e controllano un terzo del territorio in entrambi i paesi con l’Isis siano tuttora in corso. Assad vuole Palmira, salvagente lanciato in mezzo ad un negoziato che - nonostante l’ottimismo delle Nazioni unite - resta in standby proprio a causa delle divergenze sul destino del presidente. «Dal punto di vista strategico la perdita di Palmira non stravolgerà i piani dello Stato Islamico - spiega ad Al Jazeera Aymen Jawad al-Tamimi, analista del think tank Middle East Forum - nel contesto più ampio, la sua perdita potrebbe spingere l’Isis a rafforzare i fronti nel deserto di Homs, per impedire altre avanzate governative. Palmira è molto più importante per il regime, simbolicamente, perché gli permette di presentarsi come il difensore della civiltà contro le barbarie». Di certo ripulirà la faccia di Damasco che, continuando nelle azioni militari per mangiare territorio al «califfo» al-Baghdadi, si mostra come sola forza - insieme alla kurda Rojava - impegnata contro il terrorismo islamista. La liberazione di Palmira arriverebbe, inoltre, dopo il ritiro ufficiale di buona parte delle truppe russe dal terreno: sebbene nella città siriana i jet di Mosca abbiano aperto la strada alle truppe di Assad con raid continui, la vittoria potrà essere presentata come un punto segnato soprattutto dal governo. Sul campo non si combatte solo una battaglia tra eserciti e milizie paramilitari, si combatte una battaglia fatta anche di propaganda e visibilità. E se le opposizioni godono della protezione internazionale, questo scontro lo stanno perdendo: a Ginevra l’Hnc, la federazione delle opposizioni nata a Riyadh lo scorso dicembre, non ha mai messo sul tavolo la questione al-Nusra né quella Isis, proponendo soluzioni politiche interne ma senza nominare l’impellente necessità di unire le forze per vincere un nemico in apparenza comune. pagina 4 il manifesto DOMENICA 27 MARZO 2016 LA MESSA IN SCENA A SINISTRA, IN PIAZZA PER LA VERITÀ SULLA MORTE DI GIULIO REGENI, A DESTRA, GLI OGGETTI PERSONALI RITROVATI AL CAIRO FOTO LAPRESSE E ANSA Media alternativi, attivisti e gente comune invadono il web di accuse contro il governo: sul caso dell’omicidio del giovane ricercatore italiano il Ministero racconta solo «storielle» Chiara Cruciati L a coperta egiziana è corta. Lo è per chi in Italia pretende la verità dal presidente-alleato al-Sisi e lo è per i tanti egiziani che in queste ore inondano di commenti i social network e i giornali online. Le domande, le nostre e le loro, sono le stesse. Perché una banda di criminali avrebbe dovuto torturare per giorni uno straniero a fini di rapina, perché la polizia rifiuta di rispondere alle legittime domande poste dalla stampa alternativa, perché i malviventi - descritti come dediti a frodi e rapine, specializzati nelle aggressioni a cittadini stranieri avrebbero tenuto con sé i documenti di Giulio per due mesi. Il quotidiano online indipendente Tahrir News fa un passo in più ed elenca le palesi contraddizioni della versione spacciata dal governo: le fotografie dei cadaveri dei quattro criminali, rese pubbliche poche ore dopo la loro uccisione dalla polizia e ripubblicate dal giornale, mostrano volti di ragazzi sui 20-30 anni. Eppure, nel post di giovedì notte sulla pagina Facebook del Ministero degli Interni, agli uccisi vengono attribuite altre età: 26, 40, 52 e 60 anni. Chi sono quindi, si chiede il quotidiano, quei quattro ca- EGITTO · Il depistaggio su Regeni ridicolizzato dalla stampa indipendente Neanche al Cairo credono alla «verità» di al-Sisi daveri? Perché accanto ai loro corpi non si vedono armi da fuoco? E perché la polizia non ha avvertito gli investigatori italiani al Cairo dell’intenzione di compiere un raid per catturare gli assassini di Giulio Regeni, ma li ha massacrati senza tentare neppure di arrestarli? Eppure, aggiunge il quotidiano, avrebbero potuto confermare la versione governativa, liberando Il Cairo dei sospetti che da due mesi gli pesano sul capo. Ci prova anche Ziad al-Emainy, ex parlamentare di sinistra, che usa la propria pagina Facebook per porre 12 domande ironiche e rispondersi da solo: «Perché la banda ha tenuto i documenti dello studente che aveva ucciso? Perché era nota per collezionare souvenir delle proprie vittime. Perché allora non ha tenuto souvenir delle precedenti vittime? Perché questo hobby è cominciato RADICALI Orlando visita Pannella con quattro detenuti ROMA N on se l’aspettava, Marco Pannella, era stato informato solo di una visita «speciale». Ma del resto non sarebbe stata una novità: da due settimane a casa sua, in via della Panetteria vicino a Fontana di Trevi, vengono a salutarlo e omaggiarlo senza interruzione le più alte cariche dello stato, a partire dal presidente del consiglio Matteo Renzi; oltreché politici, vecchi amici e militanti. Così alle 11 di mattina chi era presente racconta che il vecchio leone radicale, consumato nel fisico ma lucido nella mente e persino pronto nelle battute, ha cambiato faccia quando ha visto entrare nel suo salotto il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Anche perché era accompagnato da quattro detenuti di Rebibbia. Il fatto è che ogni anno Pannella fa una visita in carcere per Pasqua (anche per Natale e Capodanno). Stavolta la malattia non glielo permetteva, e per questo il ministro ha avuto l’idea di portare un pezzetto di carcere da lui. «Ci è sembrato il modo migliore per ricordare chi vive nelle carceri e l’impegno di Pannella, nel corso degli anni, su questo fronte», ha detto Orlando. I quattro detenuti, due uomini e due donne scelti dal carcere romano di Rebibbia fra quelli che già lavorano all’esterno e accompagnati da Marco Grasselli e Gabriella Pedote (rispettivamente vicedirettori del carcere e del femminile) hanno ringraziato il leader radicale dell’impegno di una vita a favore della popolazione ’ristretta’. La visita è durata un’ora, con tanto di colomba e uovo di Pasqua. «Grazie grazie grazie ai detenuti e ai detenenti, e al ministro Andrea Orlando per la splendida riunione di oggi», è quello che alla fine della mattinata ha postato Pannella sul suo profilo twitter. Per il ministro le visite a sorpresa non sono finite là. Nel pomeriggio il guardasigilli si è presentato nella casa circondariale di La Spezia, la sua città. Auguri a detenuti e polizia penitenziaria e giro nel carcere, nell’infermeria e nel reparto dedicato ai bambini quando vanno a trovare i genitori, ristrutturato di recente sulla base del lavoro degli studenti del liceo artistico di Carrara. È la terza struttura che Orlando visita a sorpresa dopo quella di Poggioreale e quella di Regina Coeli il giorno dell’Epifania. d.p. proprio con Regeni. Perché lo hanno torturato? Per farsi dare il codice della carta di credito». Scorrendo i media egiziani, almeno quelli meno vicini al governo di al-Sisi, le critiche si affollano. «Storiella», «commedia», «Hollywood movie», le parole più frequenti nei titoli delle ultime edizioni. Masr al Arabiya racconta le torture, tipiche della brutalità di polizia e servizi segreti; Asharq Al-Awsat si domanda perché le autorità egiziane rifiutino ancora oggi di fornire alla controparte italiana le intercettazioni delle telefonate intercorse quella notte nella zona del rapimento di Giulio. Sui social network la gente comune si scatena, tra insulti al ministro degli Interni Ghaffar e commenti ironici sui 15 grammi di hashish che la signora Rasha, sorella di uno dei criminali, si sarebbe già fumata da tempo se li avesse davvero avuti dentro casa. Oppure sulle 5mila sterline egiziane mai spese. Il leitmotiv è lo stesso: il Ministero ci sta prenden- do in giro, sta coprendo le solite nefandezze. E per farlo non ha esitato ad uccidere quattro persone che, il commento più comune, sono state giustiziate senza processo. Simili i commenti di attivisti per i diritti umani: «Davvero interessante che una gang, specializzata in rapine, abbia torturato Regeni fino alla morte e poi abbia deciso di tenersi i suoi documenti a casa come souvenir», scrive Wael Ghonim. Torna a parlare anche il noto comico tv Bassem Youssef, che si rivolge direttamente al governo: «Sembra un bambino colto in fallo che prova a nascondere la sua colpa con una storia incredibile. Bassa qualità». Diverso il tono dei quotidiani filogovernativi che si limitano a riportare la versione delle autorità senza farsi venire troppi dubbi, mentre nei media si affollano le dichiarazioni di parlamentari che difendono l’operato del ministro Ghaffar: «Rifiutiamo il tentativo di attribuire alla polizia questo crimine, volto solo a incitare la comuni- tà internazionale contro l’Egitto», dice Mostafa Bakry. Intanto, in collaborazione con gli investigatori italiani, le indagini proseguono, fa sapere la procura egiziana che finora pare essersi più volte discostata dalla «verità» a senso unico del governo. Ieri quattro parenti del capo della banda, Tarek Abdel Fattah, sono stati arrestati. La moglie, la sorella, il fratello e il cognato sono accusati di complicità e favoreggiamento, per aver coperto un criminale e averne nascosto la refurtiva. Ad inchiodarli, secondo gli investigatori, sono gli effetti personali di Giulio Regeni ritrovati in casa di Rasha, sorella di Tarek. Proprio lei, però, insieme alla moglie di Abdel Fattah, avrebbe affermato durante l’interrogatorio che la banda non ha mai ucciso Giulio. Lo riporta il quotidiano egi- ziano al Masry al Youm che aggiunge che, nelle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti egiziani, la moglie ha sì menzionato la borsa rossa ma per dire che era stata consegnata al marito pochi giorni prima «da un amico». Quella famosa borsa rossa – dentro cui erano ridicolmente nascosti documenti, occhiali da sole, hashish, un portafoglio da donna, telefoni cellulari e carte di credito – non appartiene al ricercatore friulano. Ad affermarlo sono gli amici del giovane ricercatore che, intervistati da Tahrir News, dicono di non avere mai visto quella borsa né gli occhiali da sole. Non appartenevano a Giulio, spiega Mohammed Sayed, il suo coinquilino nell’appartamento di Dokki. Come non era suo, aggiunge un altro amico, Amr Asaad, l’hashish: Giulio non fumava. IN ITALIA · Boldrini: ennesima versione scoraggiante. E le opposizioni ora chiedono di riferire in aula Da Renzi solo parole sulla farsa del Cairo Daniela Preziosi ROMA C resce di ora in ora l’imbarazzo del governo italiano di fronte alle verità-farsa apparecchiata dal governo «amico» del dittatore al Sisi sulla tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni. Negli scorsi giorni il presidente Matteo Renzi, dopo le promesse di collaborazione «da padre» del generale golpista a Repubblica, aveva parlato di «passi avanti». Come uno sberleffo, una macabra beffa, dal Cairo sono arrivate le presunte prove dell’uccisione di Regeni da parte di una banda di cinque rapitori, a loro volta uccisi. Ieri dagli stessa media egiziani sono piovute smentite definitive a questa versione. Per il nostro paese lo smacco è profondo. «L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo» assicura Renzi nella sua e-news. Ma sono parole, per ora. «Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri. Ma proprio per questo potremo fermarci solo davanti alla verità. Non ci servirà a restituire Giulio alla sua vita. Ma lo dobbiamo a quella famiglia. E, se mi permettete, lo dobbiamo a tutti noi e alla nostra dignità». Le cose però non stanno così. Persino ai vertici del partito del presidente del consiglio la versione corrente è tutt’altra. «Il governo egiziano si decida a collaborare», dice la vicepresidente Pd Debora Serracchiani. E sul fronte della mancanza totale di cooperazione e persino di dialogo fra inquirenti dei due paesi è stato proprio il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a ammettere, con tanto di un comunicato ufficiale, che i magistrati italiani stanno ancora aspettando «le informazioni e gli atti da tempo richiesti e sollecitati». Una smentita chiara alla versione della collaborazione delle due magistrature che il premier prova ad accreditare per non dover ammettere una verità lampante: che negli scorsi due mesi nessun reale «passo avanti» è stato fatto nelle indagini; e che l’Italia non ha ottenuto nulla dal generale golpista, se non «l’oltraggio» - così lo definiscono molte forze politiche - di una «messa in scena» - questa definizione invece è della famiglia Regeni di una storia che non sta in piedi. In un incontro che si terrà il prossimo 5 aprile gli inquirenti romani chiederanno alla polizia egiziana di ricostruire ed approfondire l’iter che ha portato i documenti di Regeni «nella disponibilità della persona presso la quale sono stati trovati». Quelli fotografati su un piatto d’argento e mostrati alla pubblica opinione. Sarebbe già accertato invece che il borsone rosso ugualmente mostrato dai media egiziani, di Giulio non era, né il tocco di fumo «ritrovato» fra i suoi effetti personali. «Infamanti depistaggi» di fronte ai quali lo sgomento è «nostro e dell’Italia intera», secondo l’avvocata della famiglia Regeni Alessandra Ballerini. Che però non dubita dell’azione italiana: «Allo sgomento si unisce la soddisfazione e la fierezza di essere italiani e di avere il sostegno delle istituzioni, delle tante associazioni umanitarie e soprattutto dei cittadini». Una convinzione che sembra vacillare persino nelle massime autorità dello stato. «L’ennesima versione dei fatti sull’omicidio di Giulio Regeni è scoraggiante e getta un’ombra sul rigore delle indagini svolte in Egitto», dice la presidente della camera Laura Boldrini. Ma la parola ’ombra’ è un chiaro eufemismo del linguaggio istituzionale. Ma in questione non è solo l’atteggiamento del Cairo. È piuttosto quello del governo italiano nei confronti di al Sisi e dei suoi. La «messa in scena» dimostra che poco è stato fatto per ottenere la verità sull’atro- ce morte di Giulio, e quel poco non è stato efficace. «L’ultima versione offerta dalle autorità egiziane non solo è priva di ogni credibilità, ma è un’offesa alla famiglia di Giulio e all'intelligenza di tutti coloro che attendono la verità», attacca Alfredo D’Attorre (Si), e «la reazione del governo italiano è burocratica e inadeguata». Palazzo Chigi attutisce i colpi, ma è ormai evidente che ha nutrito un eccesso di fiducia nella già discutibile «amicizia» con il dittatore. Ora deve trovare una maniera per uscirne fuori. Ora che però le prove dell’omicidio sembrano fatalmente svanite o inutilizzabili. A questo punto serve un dibattito in aula secondo Alessandro Di Battista (m5s): «Ministro Gentiloni, ti degni di venire in Parlamento per dirci due parole su Regeni? Senza fare il democristiano possibilmente». il manifesto DOMENICA 27 MARZO 2016 SOCIETÀ pagina 5 GRECIA · Almeno diecimila richiedenti asilo sono ancora bloccati alla frontiera, sempre chiusa, con la Macedonia Una tendopoli sul binario morto RIFUGIATI NEL CAMPO DI IDOMENI FOTO MIRCO FONTANELLA C’è chi accetta di essere trasferito in un campo del governo e chi spera ancora di riuscire ad arrivare in nord Europa. Il futuro di Idomeni a un bivio Ernesto Milanesi IDOMENI (GRECIA) A lexandra è una ragazza greca che studia giurisprudenza a Bologna. Era a bordo del traghetto Ancona-Igoumenitza “monopolizzato” dalla carovana #Overthefortness con tanto di assemblea sul ponte più alto. Ha deciso di non proseguire il viaggio con il padre verso Atene. Si è aggregata a Igoumenitza alla carovana italiana e ieri ha portato a destinazione due borse cariche di pannolini, medicinali e scarpe in una delle centinaia di tende del campo. Con la pettorina arancione, a gruppetti controllati anche dall’elicottero della polizia greca, la delegazione di attivisti e volontari italiani è approdata a Idomeni nel primo pomeriggio. Ciascuno con un compito preciso a seconda delle attitudini: distribuire aiuti, far giocare i bambini, verifi- il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB: www.ilmanifesto.info iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di Roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di Roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 Pubblicazione a stampa: ISSN 0025-2158 Pubblicazione online: ISSN 2465-0870 ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 320e semestrale 165e versamento con bonifico bancario care legalmente la situazione dei profughi, tradurre dall’arabo o dall’inglese, monitorare la solidarietà. In 150 a darsi da fare, anche se il furgone con il materiale atteso dai profughi (a cominciare dalle scarpe) ha subito una perquisizione da parte della polizia. Nella tendopoli, che resta l’emblema del calvario europeo senza resurrezione, il clima sembra come il cielo sempre sospeso fra la minaccia di un temporale o il sole che combatte con le nuvole. È nato un bambino da una parte, mentre dall’altra la piccola folla assalta il vecchio camion con il cibo. Nella tenda curda si sorseggia tè con la musica tradizionale, ma al confine con la Macedonia la protesta non si smorza. Si improvvisa una “vera” partita a calcio con la polisportiva San Precario, tuttavia nella strada che scende dal piccolo paese si gioca sempre il business nel bazar dei disperati. Chi conosce la «città dei migranti» parla della possibilità di un esodo dei siriani verso le strutture che il governo Tsipras ha concordato con Bruxelles e barattato con Erdogan. Tuttavia, il resto del Medio oriente in quest’angolo di Grecia rinnova la promessa di trovare un pertugio verso Skopje se non addirittura la rotta verso Tirana. Le famiglie, tantissime, dignitose nonostante tutto, provano comunque a nutrire la speranza «europea» con la cena nei vassoi di plastica. Idomeni, tendopoli sul binario morto resta comunque la residen- presso Banca Etica intestato a “il nuovo manifesto società coop editrice” via A. Bargoni 8, 00153 Roma IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 COPIE ARRETRATE 06/39745482 [email protected] STAMPA RCS Produzioni Spa via A. Ciamarra 351/353, Roma - RCS Produzioni Milano Spa via R. Luxemburg 2, Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl E-MAIL [email protected] SEDE LEGALE, DIR. GEN. via A. Bargoni 8, 00153 Roma tel. 06 68896911, fax 06 58179764 TARIFFE DELLE INSERZIONI pubblicità commerciale: 368 e a modulo (mm44x20) pubblicità finanziaria/legale: 450e a modulo finestra di prima pagina: formato mm 65 x 88, colore 4.550 e, b/n 3.780 e posizione di rigore più 15% pagina intera: mm 320 x 455 doppia pagina: mm 660 x 455 DIFFUSIONE, CONTABILITÀ. RIVENDITE, ABBONAMENTI: reds, rete europea distribuzione e servizi, v.le Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 06 39745482, fax 06 83906171 certificato n. 7905 del 09-02-2015 chiuso in redazione ore 22.00 tiratura prevista 38.514 PASQUA Migranti, terrorismo e guerre nella Via Crucis di papa Francesco Migranti, terrorismo, guerre, ma anche i preti pedofili, sono stati al centro dei gesti e delle parole di papa Francesco nei giorni del «triduo pasquale» che si conclude oggi con la messa e la benedizione Urbi et Orbi a San Pietro. «O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nel nostro Mediterraneo e nel mar Egeo divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata», ha detto Francesco nella preghiera che ha recitato venerdì notte, al termine della Via Crucis al Colosseo. Il giorno prima, giovedì, nella messa al Centro accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto – durante la quale ha lavato i piedi a 11 profughi di varie religioni e ad una operatrice del Cara, «fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace» – aveva ricordato gli attentati di Bruxelles, «un gesto di guerra, di distruzione». Terrorismo e guerre, figli degli stessi padri, ha ricordato ancora alla Via Crucis: i «fondamentalismi» e il «terrorismo dei seguaci di qualche religione che profanano il nome di Dio e lo utilizzano per giustificare le loro inaudite violenze»; ma anche i «potenti» e i «venditori di armi che alimentano la fornace delle guerre». Luca Kocci za di non meno di 10 mila persone cui bisogna aggiungere la decina di campi cresciuti intorno alle stazioni di servizio, fino a quelli «ufficiali» intorno a Salonicco. Qui la vita quotidiana si misura con la preghiera nella moschea improvvisata, la spola delle squadre con badili e sacchi neri (Medici senza frontiere garantisce così pulizia e igiene), il censimento legale cui partecipano anche gli studenti del corso di protezione internazionale Asgi di Roma, i bambini che continuano a sorridere e giocare, l’infopoint che offre il testo dell’ultimo accordo Ue con altre notizie in arabo per chi vuol aggiornare la bussola, l’odore pervasivo della cenere di ogni genere di fuoco alimentato con tutti i materiali a disposizione. Finché c’è luce, ci si sforza tutti di immaginare la “normalità” dentro questa specie di follia. Ma da troppo tempo profughi di guerra, migranti d’ogni tipo, volontari più o meno accreditati e perfino Unhcr sanno bene che sarà impossibile perpetuare lo stato d’eccezione autogovernata. È scritto, prima o poi, anche il destino di Idomeni: come la giungla di Calais. Dipenderà dal governo di Atene, che per il momento continua a trattenere gli agenti in assetto anti-sommossa: venerdì c’erano i primi bus a beneficio dei siriani, usciti a spinta dal fango ma pur sempre un precedente su cui far leva… Con la carovana #Overthefortness sono tedeschi, catalani, inglesi, francesi (e perfino giapponesi) a far da specchio all’Europa che non discrimina né piazza cavalli di frisia. Bruxelles è davvero lontanissima, anche se qui i cartelli di «scuse» rispuntano puntuali a rimarcare la differenza abissale fra chi sopporta le conseguenze delle guerre e chi terrorizza anche l’esodo biblico. Quando cala il buio, arriva puntuale il freddo. Soprattutto nell’anima della tendopoli emblema d’Europa. Lo si combatte con l’ultimo girotondo di decine di ragazzini, accendendo il simulacro di un focolare davanti a «casa», con il pellegrinaggio al generatore che carica i cellulari ultimo filo di affetto per tante famiglie divise o stringendo le spalle nella notte che si ripete uguale. Nemmeno oggi i diritti fondamentali risorgeranno a Idomeni. Ma almeno dall’alba si ricomincia a mantenere vivo il rispetto della vita di tutti: anche solo con un paio di scarpe, matite colorate, pannolini e cibo caldo. LA GUERRA IN CASA Immigrati, la favola dell’ «integrazione» Emanuele Giordana T utte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male. Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo «provincializzare l’Europa», renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro. INFORMAZIONE · Nonostante le direttive, di referendum si parla poco e negli spazi di minor ascolto I dati dell’Agcom: in tv le trivelle non fanno rumore Andrea Fabozzi D el referendum non si parla. O se ne parla assai poco, in televisione. Venerdì l’Autorità garante per le comunicazioni ha diffuso i primi dati utili per valutare quanta informazione si stia (non) facendo sul prossimo appuntamento con le urne: il 17 aprile gli italiani sono chiamati a esprimersi sulle trivellazioni in mare entro le 12 miglia. Anche su questi dati è calato un sostanziale silenzio. L’Agcom ha fatto monitorare tutte le tv nazionali, dalla Rai a Mediaset, da La7 a Sky a Mtv e Deejay tv e ha diviso la rilevazione in due blocchi. Il primo va dal 16 febbraio al 4 marzo (per la tv pubblica) e al 7 marzo (per le private), il secondo parte da queste ultime date e arriva al 20 marzo. La ragione è semplice: soltanto dai primi giorni di marzo sono applicabili le direttive con le quali la commissione di vigilanza (per la Rai) e la stessa Agcom hanno prescritto alle tv di informare sul referendum. Naturalmente nulla vietava che un po’ di infor- mazione ci fosse anche prima, tantopiù che la conferma ufficiale che andremo al voto sulle trivellazioni è arrivata il 16 marzo con la firma di Mattarella al decreto di indizione del referendum. Invece (quasi) niente, fino a che l’informazione non è diventata obbligatoria: per venti giorni tra la metà di febbraio e i primi di marzo, i tg Rai hanno parlato del referendum per non più di 12 minuti, tutti gli altri niente, zero, silenzio. Dopo le cose sono mi- gliorate. Appena un po’. I tg Rai hanno dedicato servizi al referendum per un totale di 3 ore e 38 minuti. Quasi tutti, circa i due terzi, a carico dei tg con il minore ascolto, quelli di Rai news (2 ore e 13 minuti). Fuori dai tg l’informazione Rai è stata quasi assente, solo un’ora e 29 minuti nelle trasmissioni di approfondimento, che poi sono quelle con un audience più vasta, oltre che quelle che dovrebbero dare la possibilità di farsi un’idea ascoltando le diverse opinioni. Questa ora e 29 minuti va divisa esclusivamente tra Raiuno e di nuovo Rai news. Le reti due e tre hanno dedicato al referendum la miseria di 9 minuti. Un disastro? Aspettate di leggere com’è andata nelle tv private. In due settimane di informazione a ciclo continuo, Skytg24 canale all news ma anche canale solidamente governativo - se l’è cavata dedicando al referendum 38 minuti nei tg e 21 fuori dai tg. Mediaset 2 ore e 14 minuti nei telegiornali, ma quasi tutti (un’ora e 18 minuti) a carico del poco seguito Tgcom 24. Fuori dai tg appena un quarto d’ora di approfondimento di nuovo su Tgcom. Mentre La7 almeno ha dedicato al referendum 2 ore e 41 minuti nelle trasmissioni di approfondimento. Compensando così il quasi vuoto nel tg, appena 14 minuti. Tutto questo nei giorni in cui valgono o dovrebbero valere le delibere che impongono alla tv di «assicurare all’elettorato la più ampia informazione sui temi e sulle modalità di svolgimento della campagna referendaria». pagina 6 il manifesto DOMENICA 27 MARZO 2016 CINA PECHINO · Una lettera firmata da «membri fedeli del Partito» chiede a Xi di abbandonare il timone Al di qua della Muraglia il miracolo cinese ha cominciato a perdere smalto e tira una brutta aria. Nel mirino finisce il numero uno del Pcc. Arresti e sparizioni sono la risposta «Compagno Presidente è ora di dimettersi» Alessandra Colarizi «C hiediamo per il bene del Partito, per la salvezza a lungo termine della Nazione, per il tuo bene e per quello della tua famiglia, di dimetterti da ogni incarico statale e di Partito. Di lasciare nelle mani del popolo cinese e del Partito la scelta di un'altra persona capace che possa guidarci attivamente verso il futuro». Firmato: «I membri fedeli del Partito». È una bomba a orologeria la lettera comparsa qualche settimana fa sul sito specializzato in diritti umani Canyu.org e ripresa nel giro di poche ore da altre piattaforme online, compreso il filo-governativo Watching.cn. Lo è davvero dal momento che il destinatario della missiva è nientemeno che il presidente cinese Xi Jinping, l’uomo che dal novembre 2012 guida il gigante asiatico sullo scivoloso sentiero delle riforme economiche con pungo di ferro e tolleranza zero verso le voci del dissenso politico. L’appello comincia con un plauso dei successi ottenuti dal leader (con riferimento alla campagna anti-corruzione e all’implementazione delle riforme economiche) per poi degenerare in un’aspra critica contro l’erosione dell’indipendenza degli organi statali, l’aggressività inconcludente della politica estera, e l’incapacità gestionale manifestata di fronte all’altalena dei mercati finanziari, al problema disoccupazione e alla svalutazione dello yuan, la moneta locale. Come spesso accade in caso di contenuti sensibili, la lettera è stata fatta sparire dal web in un tardivo ripensamento dello staff di Watching.cn. Il problema è che a sparire non è stata soltanto la lettera. Il 15 marzo, il giornalista Jia Jia (87mila follower su Twitter) scompare nel nulla mentre si trova all’aeroporto di Pechino in viaggio verso Hong Kong. Di lui si perdono le tracce per giorni fino a quando domenica scorsa è arrivata la conferma del suo avvocato: Jia è stato trattenuto per «un’indagine», non è ben chiaro se come sospettato o per collaborare alle ricerche. Ma i bene informati non hanno dubbi sul fatto che esista un collegamento tra la sua sparizione, quella di un’altra quindicina di persone e la lettera, sulla cui pubblicazione Jia aveva espresso molti timori. La notizia del suo rilascio, circolata venerdì e confermata dal suo legale, per il momento non basta a fare luce sul caso. Chi ha scritto veramente la lettera? E soprattutto, come è finita su un sito finanziato dal governo? Jia è l’ultima vittima di un giro di vite che non sembra avere fine. Attivisti, avvocati, dissidenti e giornalisti. Chiunque metta in discussione l’operato dell'amministrazione Xi Jinping si ritrova dietro le sbarre o sulla Cctv, l’emittente di Stato con il pallino per le autocritiche a telecamere accese. Tira un’aria tesa a Zhongnanhai, il Cremlino d’oltre Muraglia, da quando il «miracolo cinese» ha cominciato a perdere smalto. Secondo un'analisi basata su una serie di direttive interne, tra il 2012 e il 2014 l’economia si classificava soltanto settima tra gli argomenti considerati più sensibili nel- IL PRESIDENTE CINESE XI JINPING SALUTA I MILITARI, SOTTO INCONTRA I GIORNALISTI DELL’AGENZIA UFFICIALE XINHUA /LAPRESSE MEDIA Gli ultimi casi di censura REN ZHIQIANG il «Donald Trump cinese» ha criticato sul suo account Weibo, il Twitter locale, l’informazione nazionale. La Cyberspace Administration of China gli ha chiuso l’account sul social network cinese la lista nera dei censori. L’anno scorso - quando il Pil è cresciuto ai minimi da 25 anni - era già salita al secondo posto. Perché, come si sa, il rallentamento della crescita minaccia l’agognata «armonia sociale», lo dimostra l’impennata del numero delle proteste sul lavoro registrate negli ultimi tempi, circa 500 solo nel mese di gennaio. Va da sé che, in tempi di intolleranza, l’editoria risulta tra i settori più colpiti. Introdotta inizialmente nell'ambito della campagna anti-corruzione (in Cina il silenzio stampa non di rado viene indotto attraverso generose mazzette), la mordacchia viene ormai applicata con mezzi decisamente più grezzi. Ancora prima di Jia Jia a volatilizzarsi nel nulla erano stati i cinque librai di Hong Kong legati alla Causeway Bay Bookstore, libreria nota per i suoi testi scandalistici sull’establishment cinese. Una sto- ria dai contorni ancora poco chiari, specie per quanto riguarda l’inettitudine dimostrata dalle autorità dell’ex colonia britannica in un momento in cui il Porto Profumato avverte più che mai l’ingerenza della mainland dopo il fallimento delle manifestazioni democratiche degli Ombrelli. E non sembra strano se nel 2015 l’Hong Kong Journalists Association ha registrato un ulteriore deterioramento della libertà di stampa per il secondo anno di fila. Sulla terraferma, il nuovo anno si è aperto con una storica visita di Xi Jinping presso le sedi dei principali media di Stato, la prima da quando ha assunto l’incarico di presidente. Il messaggio risuona forte e chiaro: i media devono «allineare la loro ideologia, il pensiero politico e le azioni a quelle del Comitato centrale del Partito e debbono aiutare a forgiare le ideologie e le linee del Partito», ha dichiarato il numero uno di Pechino. Come spiega David Bandurski su China Media Project, il tour di Xi inaugura una nuova linea politica per i media nazionali. Bandurski paragona la visita di Xi a quella realizzata dal suo predecessore, Hu Jintao, nella redazione del People's Daily. Correva l'anno 2008 e per l’ex presidente i media avevano il compito di «incanalare l’opinione pubblica», mentre ora Xi predilige la linea definita dei «48 caratteri» che implica una quasi completa aderenza ai valori del Partito. Un approccio non più «strategico e selettivo» come ai tempi di Hu Jintao, ma «senza esclusione di colpi». Quello della lealtà a tutti i costi. Funziona? Per il momento parrebbe proprio di no. E a poco sono serviti i cartoni animati e i motivetti orecchiabili con cui la propaganda ha tentato di umanizzare i leader agli occhi dei cittadini. Gli ultimi attacchi sono partiti direttamente dal cuore del sistema. All’indomani del tour mediatico di Xi, Ren Zhiqiang, il «Donald Trump cinese», riversava su Weibo la sua disillusione verso le sorti dell’informazione oltre Muraglia, non più al servizio del popolo bensì del Partito. Bersagliato dalla stampa ufficiale, il magnate è stato infine silenziato dalla Cyberspace Administration of China che ne ha chiuso l’account sul Twitter cinese. Un evento grave ma non raro nell'era della «nuova normalità» di Xi Jinping. Sarebbe potuta rimanere una delle innumerevoli purghe 2.0 inflitte dai censori ai surfisti della rete: la blogosfera insorge, i gendarmi di Internet fanno pulizia e si ricomincia. Invece no. Una lettera aperta - stavolta indirizzata al «parlamento» cinese - ha preso le difese di Ren accusando i dipartimenti governativi di aver, negli ultimi anni, «completamente ignorato la Costituzione e lo Stato di diritto». A differenza di quanto si potrebbe pensare, dietro l'audace messaggio (che riporta tanto di firma, numero di telefono e Id) non c’è un attivista bensì un dipendente dell’agenzia statale Xinhua. E non è l’unico «insider» ad aver lanciato il guanto di sfida. Ad inizio mese anche la nota rivista finanziaria Caixin, diretta da Hu Shuli (una che in passato ha sempre saputo mantenersi sul filo del lecito con maestria funambolica), ha puntato i piedi portando allo scoperto un eclatante caso di censura ai propri danni. «Il Partito ha cominciato a perdere la lealtà degli intellettuali sulla scia del movimento antidestrista del 1957. Dalle riforme e l'apertura anni '80 si è avuto un qualche miglioramento, ma da quando Xi Jinping ha preso il potere la situazione è nuovamente peggiorata» spiega al manifesto Qiao Mu, docente della Beijing Foreign Studies University, editorialista, nonché amico di Jia Jia. «Molti accademici, giornalisti e avvocati considerano il presidente una specie di «guardia rossa» che ha riportato in vita il culto della personalità con mezzi da Rivoluzione Culturale. Un ipocrita bugiardo che ha nella sua discendenza dall'aristocrazia comunista l’unico fattore di legittimazione». In un certo senso, siamo di fronte alla rottura del tacito accordo tra media e potere suggellato all'indomani dei fatti di piazza Tiananmen, quando Pechino concesse maggiore libertà imprenditoriale e manageriale in cambio di obbedienza. Non a caso, secondo il Washington Post, l’escalation repressiva ha innalzato il livello d’allarme presso la comunità diplomatica internazionale a livelli mai visti dai tempi dello storico massacro. STAMPA E POTERE Debolezza dei firmatari e «giornalismo di stato» HU SHULI direttrice della rivista Caixin, è una delle giornaliste di inchiesta più note in Cina. Di recente ha deciso di pubblicare un resoconto sull’operato della censura e della propaganda ai danni della sua rivista JIA JIA è l’ultima vittima della repressione in fatto di informazione in Cina. Sparito poco dopo la pubblicazione della lettera contro Xi, è stato rilasciato ieri. Il giornalista ha 87mila follower su Twitter L a lettera che chiede le dimissione del presidente cinese (nonché segretario del Partito comunista) Xi Jinping e le sue conseguenze immediate, gli arresti e le detenzioni di persone ritenute coinvolte se non nella sua stesura, quanto meno nella sua diffusione, indicano una difficoltà della leadership di Pechino a rendere omogeneo tutto il Partito, di fronte alla figura di un numero uno che si è via via rivelato accentratore anche più dei suoi predecessori. Significa che quelle lotte intestine diventate pubbliche durante lo scandalo Bo Xilai sono ancora lì, non sopite e pronte a scattare a ogni segnale di debolezza del Partito. L’impressione è che si tratti di tentativi che finiranno per consolidare ancora di più la posizione di Xi Jinping, leader che si è saputo armare di validi scudieri in grado di eliminare anche rivali contrari alla sua politica. I firmatari per altro hanno inserito nella loro lettera alcuni avvertimenti macabri, come quelli che si riferiscono all’integrità fisica di Xi e dei suoi famigliari, che pongono perfino dubbi sulla veridicità del testo. Prendendolo per buono, al presidente cinese vengono evidenziati tre problemi della sua azione: in primo luogo il disastro economico dovuto al tonfo in borsa e la perdita di soldi da parte di tante persone; in secondo luogo una politica estera eccessivamente aggressiva, a dire loro, che avrebbe finito per riportare gli Stati uniti ad un ruolo piuttosto pericoloso nell’area (abbandonando Simone Pieranni così - secondo i firmatari - la teoria della politica estera di Deng Xiaoping che puntava a «nascondere» la potenza cinese sotto forma di una diplomazia più subdola e apparentemente più accomodante). Xi Jinping viene infine accusato di aver coltivato un culto della personalità che avrebbe finito per sradicare la «guida collegiale» del Partito. I «fedeli membri del Partito» con questa lettera finiscono però per dimostrare poca forza, prima di tutto. Nella liturgia tutta cinese fatta di messaggi trasversali, quanto esce pubblicamente - di solito - ha lo stampo della debolezza, al contrario di imboscate interne capaci di partire del tutto silenti, salvo poi ottenere risultati. In secondo luogo la lettera appare densa di conservatorismo e volontà di mantenere lo status quo e quindi, dato il percorso comunque intrapreso dal paese, i desiderata di chi l’ha scritta sembrano inesorabilmente destinati a soccombere di fronte alla storia. Più interessante appare una lettura di tipo «comunicativo» che permette di scorgere la necessità, da parte di chi contesta la presidenza, di armarsi di strumenti in grado di incidere quella realtà ovattata creata dal sistema informativo cinese, oggi ancora più sottoposto al potere rispetto al passato. E questo secondo aspetto indica il sentiero di una riflessione che avvicina Pechino alla gestione del consenso che possiamo ritrovare anche in altri sistemi politici. Xi Jinping di recente ha compiuto una visita nel quartier generale dell’agenzia di stampa cinese, la Xinhua, invocando la «fedeltà al partito» e ribadendo una più generale necessità che i mezzi di informazione funzionino come cassa propagandistica delle azioni di governo. Si tratta di qualcosa che ben si inserisce nella considerazione, si permetta la generalizzazione, che tanti cinesi hanno del giornalismo (compresi molti addetti ai lavori). Ma in generale richiedere alla stampa una narrazione capace di supportare, anziché puntellare e imporre al potere una condotta attenta, non sembra oggi un desiderio esclusivo del leader cinese. il manifesto DOMENICA 27 MARZO 2016 INTERNAZIONALE pagina 7 ROLLING STONES · In 600 mila nel campo della Ciudad Deportiva per lo show delle «pietre rotolanti» La macchina del tempo si ferma per una notte Luca Celada INVIATO A L’AVANA (CUBA) «G uarda, se solo penso che sono qui e che io sto per vederli dal vivo mi vengono i brividi» mi aveva detto Librado, 45 anni, un colosso di uomo, meccanico di «almendrones» (le auto americane anni 50 che miracolosamente deambulano per Cuba) e guida turistica per arrotondare. Per confermare mostrava la pelle d’oca che effettivamente ricopriva il braccio. Forse solo in questa Cuba macchina del tempo, un concerto dei Rolling Stones poteva tornare ad essere un evento «epocale». Librado è del ’71 (l’anno di Sticky Fingers) e mi racconta di quando con gli amici si riunivano attorno al transistor ad onde medie per ascoltare le pietre rotolanti di nascosto, perchèsull’isola i loro dischi erano al bando. L’altroieri, nel venerdì santo che su richiesta di papa Francesco è stato decretato festivo per la prima volta in decenni, Librado e altri 600 mila Cubani si sono stipati nel campo della Ciudad Deportiva dell’Avana per assistere infine allo storico primo concerto dei mitici Rolling «Estones». Certo i tempi sono cambiati da quando l’unica fonte per il rock degli Stones era l’etere pirata ma in cambio del concerto gratuito aggiunto in extremis al programma della tournée, Mick e compagni hanno ritrovato un po’ della trasgressione da tempo appannata dal peso della loro macchina ben oliata (c’è stata perfino una nota di disappunto della diocesi per la concessione del permesso alla band di Sympathy for the Devil proprio in questo venerdì di Pasqua riconquistato di fresco). Ma la sensazione preponderante nella settimana storica iniziata con la visita di Obama, è stata un entusiasmo e un aspettativa per il concerto che ha superato anche quella per l’arrivo del presidente americano. Appena partito Obama all’Avana per giorni non si è parlato d’altro, sulle «guagua» (gli autobus sgangherati che fumano come ciminiere), sui taxi collettivi, nei paladar della città vecchia e nelle file di avventori dei negozi «el concierto» è stato argomento fisso. Nella casa particular dove ho alloggiato ho assistito a un lungo dibattito fra le addette delle pulizie sull’opportunità o meno di affrontare la folla (una, Rosa, ha deciso che un evento di tale importanza non si poteva mancare, Aliana alla fine ha preferito soprassedere). La televisione nazionale ha dedicato un numero speciale del programma di approfondimento «mesa redonda» alla storia della band con la stessa dovizia con cui qualche giorno prima aveva ripercorso i punti salienti dei rapporti fra Cu- ba e Stati uniti). Gli unici forse in parte meno partecipi dell’attesa sono stati i ragazzi più giovani, quelli che nei punti internet della città, come i loro coetanei dei Caraibi e dei quartieri ispanici in Usa, semmai scaricano i successi «reggaeton» e i videoclip di Pitbull. La legge globale del turnover generazionale perchèmalgrado tutto il tempo non sta dalla parte nemmeno di chi ha scritto ...Time is on my side... Detto questo il boato che ha accolto le prime note di Jumping Jack Flash dal palco della Ciudad Deportiva ha detto tutto su un emozione che è chiaramente andata oltre il normale tifo da «stadium rock». Dopo l’obbligatorio «Buenas Noches Habana» Mick Jagger ha apostrofato la folla in Spagnolo: «So che tempo fa è stato difficile trovare i nostri dischi qui. Eppure eccoci qua a suonare per voi nel vostro bel paese. Io credo che le cose stiamo finalmente cominciando a cambiare . No?» Il nuovo boato è sembrato quantomeno segnalare la speranza che sia così. ALCUNE IMMAGINI DELLO STORICO CONCERTO DEI ROLLING STONES ALL’AVANA/ FOTO LA PRESSE Mick e compagni ritrovano un po’ della perduta trasgressione in un concerto accolto con un entusiasmo che ha superato anche quello per l’arrivo di Barack Obama Un contingente di giovanissimi vistosamente tatuati e con mohicani artigianali mi confida «somos punks cubanos» esibendo le maglie dei Misfits e dei Ramones. Victor che ha vent’anni e l’intelligenza intensa dei ragazzi di qua ma anche l’innata diffidenza cubana verso le versioni ufficiali dice, «qui forse si sta rivoluzionando qualcosa. Vediamo che cosa». Aggiunge: «un concerto così lo aspetto da quando sono nato. Certo mio padre anche di più, purtroppo lui ora è in Florida e non l’ha potuto vedere». Accanto a loro in questo pubblico sterminato ed eterogeneo ci sono tre casalinghe sulla quarantina con a seguito figli di 13-14 anni («devono conoscere SOTTO IL PALCO · Intere famiglie e una marea di giovani Sempre e solo «Satisfaction», Cuba risponde con energia Roberto Livi L’AVANA (CUBA) C uba ha avuto satisfaction. Non solo una notte «inolvidable» di rock, con i Rolling Stones, in un concerto gratuito e con tutti i crismi di un gran evento moderno, schermi, luci, altoparlanti con 1,3 kilos di suono, una cosa mai vista prima. Ma una specie di riconciliazione generazionale, tra mayores, con i capelli brizzolati o decisamente bianchi , occhiali da vista, che hanno per decenni sognato un concerto rock di questo tipo e i giovani reguetoneros che però hanno gridato e ballato. Insomma, venerdì notte nella Ciudad Deportiva, è sembrata scomparire la frattura generazionale che molte volte divide Cuba. Intere famiglie al concerto, i giovani alla scoperta del nuovo e propensi – spesso sbagliando- a cercarlo solo fuori dall’isola e i più anziani che vedevano concretizzato un sogno che per anni è stato impossibile tradurre in realtà. Insomma, ci ha preso Mick Jagger quando ha detto: «Sappiamo che prima era difficile per voi ascoltare la nostra musica, però ora siamo in questa bella terra. I tempi stanno cambiando, vero?». In risposta un coro misto di molti «sì» ma anche di sonori «no». Anche questa differenza di opinione gridata a tutto volume è cosa non da tutti i giorni nell’isola, sempre più scossa da una settimana che passerà alla storia, prima la visita del presidente degli Stati uniti, per di più favorevole alla fine del «bloqueo», poi gli Stones. «Forse è proprio vero che a Cuba le pietre iniziano a rotolare» commentava il mio vicino Luis. «Cuba saca la lengua», sosteneva Yerena, con il simbolo della banda dipinto nella faccia: «È un evento – dice - che segna un’impronta positiva nella storia dei concerti a Cuba. È un prima e un poi, non ho dubbi. E il pubblico dell’isola lo merita. Viva gli Stones». Al concerto, nella tribuna Vip, hanno partecipato ministri, funzionari della Nomenklatura, tra cui il consigliere culturale del presidente Abel Prieto, membri del Comitato centrale del partito comunista, i più giovani membri della famiglia Castro, molti musicisti, fra i quali i rockeros Da- vid e Ernesto Blanco, umoristi e artisti che vanno per la maggiore. Ma la maggiore diversità era nel pubblico, enorme, oltre mezzo milione di persona. Si potevano vedere rappers, rastafaris, reguetoneros, repas, tutti i tipi di rockeros, heavys, punks pieni di ferraglia. In una marea di giovani e di cubanos de a pié, gente comune. «Mai vista tanta gente differente», insiste Luis. La grandissima parte partecipa per divertirsi, per ballare e sentire gratuitamente la musica di un gruppo famosissimo. Anche se questa musica non la conoscono, o l’han- questa musica»). E poi migliaia di stranieri molti venuti a Cuba solo per questa sera. «Sono stato a Woodstock» afferma Kevin, sessantacinquenne spilungone di New York, con la soddisfazione del reduce decorato. «Francamente non avrei pensato di ritrovarmi in un campo così simile». Se per i molti Americani che hanno fatto il viaggio tramite Canada o Messico predomina il brivido dell’isola proibita, per i tantissimi europei, canadesi e latinoamericani sbarcati in una Avana zeppa di turisti, c’è generale solidarietà e l’emozione di siglare la settimana storica cominciata con la visita di Obama. Le conversazioni poliglotte durante la lunga attesa nel po- no ascoltata solo in parte, magari hanno nelle orecchie Satisfaction e poco altro. Molti sono lontani dalla cultura rock, almeno «vecchia maniera», dal grido di libertà che lo caratterizza; altri, sono per il rock duro, molto metallico, anarchico. La grande maggioranza vuole muovere «la cintura», divertirsi. Così è stato per Carl Luis, accompagnato da «un amigo del barrio» al quale non piace il rock. «Il mio socio è un repa, dice, pensavo che sarebbe rimasto quemado, morto di noia, invece si è divertito più di me» Per alcuni però, come Mato, il concerto significa un cambiamento dell’immagine del rockero nella società cubana: « Noi rockeros siamo sempre stati malvisti, io ho avuto problemi con i vicini di casa che protestavano per la musica che ascoltavo». «Dove sta il rock sta la libertà, prosegue. Speriamo che questo concerto sia il segnale di un’apertura». E soprattutto si augura che agli Stones seguano altre band, magari di heavy metal o rock alternativo. «Bisogna che continui, perché qui la gente ascolta la stessa roba: reguetón». Buona musica, ballo, lacrime e gioia e soprattutto «tanta energia». E senza che vi sia stato un incidente di rilievo. Lo ha detto apertamente Armando, un giovane mulatto, che viene da un barrio duro, dove spesso il sabato sera dopo ore di musica, ron e cerveza, i giovani tirano fuori il ferro e ci scappa il ferito. «Non sono fanatico degli Estones. Però questa sera sento che qui c’è stata buona energia. Pensavo che probabilmente sarebbe scoppiata una bronca però così non è stato. Tutto il mondo se l’è goduta, divertendosi assieme agli altri». E proprio questo è stato un altre grande e importante risultato e insegnamento. Centinaia di migliaia di persone accalcate nella Città sportiva ad ascoltare una musica che parla di ribellione, ricerca di libertà, con relativamente poca polizia e poi ore per defluire –vi erano punti segnalati in precedenza dove attendevano le guaguas per riportare a casa la gente- e senza una rissa di rilievo. «Hola Avana», aveva salutato Jagger all’inizio del concerto. E la Habana ha risposto con calore, energia e simpatia. meriggio sono state quasi tutte su quale dei due eventi avesse più rilevanza storica. Intanto sul palco Jagger & co. si sono messi all’opera. Dopo Jumping Jack, ecco It’s Only Rock n’Roll, un altro inno che infiamma la platea sui cui sventolano più bandiere che alle nazioni unite. Mick è scatenato, un folletto settuagenario dall’energia apparentemente inesauribile: balla, salta, incita il pubblico che impazzisce quando brandisce una bandiera cubana roteandola mentre percorre di corsa il palco in lungo e in largo. Il set è un sussidiario di Stones che sembra fatto per riepilogare la discografia completa e supplire ai 50 anni di assenza da Cuba. L’excursus passa per il periodo d’oro con Paint it Black, poi Angie; tocca i classici assoluti con Honky Tonk Woman e si tuffa in Let it Bleed (Gimme Shelter, con uno straordiario assist vocale di Sacha Allen). La band ci prende gusto: Ron Wood imperversa sulla slide guitar e duetta con Keith Richards che passa in rassegna l’impressionate assortimento di chitarre con un sorriso stampato. Perfino l’impassibile, granitico, Charlie Watts se ne lascia scappare uno due. «Noche inolvidable» aveva detto Mick all’inizio del concerto e sembrerebbe che per loro almeno, non siano solo parole. È il momento di Keith che imbraccia l’acustica e attacca You Got The Silver - i due brizzolati del Quebec accanto a me sembrano addirittura commossi, e non hanno tutti i torti. Intanto i tredicenni montati in spalla alle mamme non mollano i cellulari puntati sui nonni indiavolati che non mollano: Start Me Up, I Miss You, Brown Sugar, Sympathy For The Devil. Il pubblico è scatenato ma soprattutto felice; le forze d’ordine quasi non si vedono. Diffcile pensare ad una città migliore che questa Avana solare, umana per assemblare pacificamente mezzo milione di persone senza ombra di incidente. Sul palco sale il coro e attacca il gran finale di You Can’t Always Get What You Want. Volendo ci si potrebbe leggere un riferimento al paese ospite e alla leggendaria arte dei cubani per ottenere ciò di cui ha bisogno. D’altra parte in questa settimana a Cuba tutto è diventato metafora, simbolo. E allora il forse neanche il bis è casuale - I Can’t Get No.....«Satisfaction!» risponde all’unisono il pubblico di questa Cuba divisa fra l’orgoglio della propria storia antagonista e i sacrifici patiti, la quasi carestia dei tempi più bui, gli anni 90 in cui il ritiro della Russia post sovietica è coinciso con la stretta crudele dell’embargo della legge Helms Burton voluta dalla diaspora assecondata dalla destra repubblicana (e da Bill Clinton). Con tutte le sfumature e le distinzioni generazionali del caso, è chiaro che qui, oggi, per questo popolo dall’incomparabile intelligenza, la simpatia e capacità, c’è ancora sete di un po' più di «satisfaction» (e di viaggi, e di internet, e di qualche peso in più....). Ieri gli Stones, come Obama, hanno lasciato questa città unica, in cui c’è un parque Lenin e a poca distanza il parque Lennon - con tanto di statua di John seduto su una panchina. Gli abitanti dell’Avana hanno vissuto una settimana storica, per usare un termine inflazionato ma accurato. Ora dovranno aspettare di vedere se diplomazia e rock’n’roll incideranno sulla loro vita e su quella del paese. pagina 8 il manifesto DOMENICA 27 MARZO 2016 ULTIMA teatro L’attore fiorentino, scomparso venerdì a 86 anni, ha raccontato in scena attraverso la sua cultura multiforme e sterminata, l’Italietta e le sue istituzioni, i pregiudizi e i suoi comportamenti fascisti. Tutto questo pur rivolgendosi agli abbonati dei palcoscenici più tradizionali. Dagli esordi con la compagnia genovese la Borsa d’Arlecchino agli incontri romani, l’amicizia con Laura Betti e la lunga parentesi televisiva. Dai ’60 assurge a grande star del palcoscenico nazionale, con storie comiche, eppure di respiro intellettuale e politico Gianfranco Capitta S Irriducibile PAOLO POLI e ne è andato con discrezione Paolo Poli, un mese dopo che un ictus l’aveva costretto al ricovero nell’ospedale romano Fatebenefratelli, dove la sua fibra fortissima era riuscita anche a superare una broncopolmonite. Stava per compiere 87 anni (era nato nel maggio del 1929), ma era ancora un «ragazzo», asciutto e scattante, lasciati da due anni i palcoscenici perché era difficile tenere in piedi una compagnia quando anche un teatro di quelli cosiddetti primari, non gli aveva pagato i cachet, pur dopo un mese di sala esaurita. Non era impossibile fino ad allora, incrociarlo su qualche marciapiede ferroviario attorniato da un bel numero di valigie e borsoni. Gli piaceva assai fare l’attore, e adFOTO GRANDE dossarsene fatiche e difficoltà, UNA SCENA anche quelle di spostamento. DA «ALDINO, Ora che non ci colpirà più MI CALI UN con le sue battute, sferzanti coFILINO» (2001), me frustate, forse qualcuno si UN RITRATTO dedicherà a studiarne seriamenDI POLI (2007) te lo straordinario talento, la E UN’IMMAGINE cultura multiforme e sterminaTRATTA ta, l’arte ipnotica con cui ha fatDA UNO SHOW to polpette di istituzioni e nazioTELEVISIVO nalismi, pregiudizi e comportaCON LAURETTA menti fascisti, esibizioni machiMASIERO ste e valori consolidati sui ruoli e sui poteri. Tutto questo, pur rivolgendosi in maniera privilegiata ad abbonati ed abbonate dei teatri più tradizionali, platee di giacche scure e pellicce fresche di parrucchiere, cui lui solleticava gli istinti più privati e inconfessabili, ne scopriva i limiti piccoloborghesi cantando canzonette d’epoca. Usando per altro la cultura più «seria» e la letteratura più amata, da cui lui poteva far scaturire il veleno moschicida dei buoni sentimenti falsamente intesi. Del resto quel giovane fiorentino laureato su un drammaturgo francese, Henry Becque, e già avviato all’insegnamento (come la mamma, mentre il padre era carabiniere), aveva tutti gli strumenti per maneggiare i materiali più delicati. Ma l’amore per il teatro e l’intraprendenza civile lo fanno muovere già alla fine dei ’50 verso la Borsa d’Arlecchino genovese animata da Aldo Trionfo, e poi a Roma spinto da altri toscani come Franco Zeffirelli prima e poi Mauro Bolognini. Qualche parte in teatro, e tanti incontri cruciali ed elettrizzanti in quegli anni di boom anche dei costumi. Con Laura Betti divide addirittura la casa a via Margutta, e insieme scandiscono attraverso La ballata del pover’uomo lo sceneggiato tv tratto dal romanzo di Fallada. Con la Masiero fa le operette, ma con Sandra Mondaini fanno una pestifera coppia di bambini birignao. Filiberto ed Arabella. Si apre per Poli la strada maestra della tv dei ragazzi, distaccamento milanese della Rai dove si trova a lavorare con Claudia Lawrence sublime maestra di mimo, Jacqueli- Firenze/ L’ULTIMA APPARIZIONE PUBBLICA Quel testamento artistico sul palco del Niccolini Gabriele Rizza FIRENZE A Paolo Poli il Niccolini è toccato in sorte due volte. A distanza di 38 anni. Firenze restava la sua città. Seppur conflittuale. 6 novembre 1978. Dopo le fumose stagioni del cinema, come volevano i gusti del pubblico e le ragioni del botteghino, la gloriosa sala di via Ricasoli, già del Cocomero, la prima in città, anno domini 1650 per volontà dell’Accademia degli Infuocati, riapriva il sipario, artefici magici Roberto Toni e Carlo Cecchi. 8 gennaio 2016. Dopo vent’anni di incuria e abbandono, a vecchia vita restituito, debitamente rimesso a nuovo, il Niccolini riaccendeva le luci, nel frattempo entrato nell’orbita del Teatro della Toscana. Per Poli sarebbe stata questa l’ultima apparizione in pubblico. Su un palcoscenico. Non fu un recital né tanto meno uno spettacolo. Fu, a guardarlo ora, un geniale «testamento» artistico. Una chiacchierata a ruota libera, punteggiata da contributi video e audio, foto, immagini, poesie, un dialogo giocoso e irrispettoso, una inedita carrellata fra l’ieri e l’oggi in perfetto stile Poli, con la lettura di alcune pagine dell’amato Palazzeschi. Poli qui fu di ca- sa per tutti gli anni 90, da solo o in compagnia della sorella Lucia. E dove ancora una volta tornava a essere l’eterno ragazzo che ci ha insegnato il gusto dell’irriverenza beneducata, sempre utile a rispondere per le rime, a sfornare la sua proverbiale verve, dissacrante baldoria di mefistofelica leggerezza, che culminava, mirabile sintesi, nei leggendari «bissini», attesi come epifania salubre della cattiveria e della lussuria. Così lo ricordiamo, Paolo Poli, l’immancabile farfallino per cravatta, esile e sornione, inguaribilmente beffardo, un illuminista della risata, pezzi di vita e spezzoni di carriera, fra il vero e il finto, a ridersi addosso e riderci sopra, gli aneddoti, i fattacci, le battute a veleno. Come quella prima volta, 1978, birichino elegante in frac, Ariel e Puck, al piano Jaqueline Perrotin, che faceva «Mezzacoda» escursione nell’italica canzonetta primi 900, patriottica e mammona, fra colombe, patatine, sommergibili, impavidi balilla e tuber: «le donne dei paesi nordici amano molto differentemente da quelle dei paesi sudici». Qualcuno gli chiese se riaprire il Niccolini per la seconda volta, poteva dirsi un ritorno a casa: «Ma quale ritorno a casa, spero di morire all’estero, come Dante Alighieri». Irriverenza oblige. ne Perrotin enciclopedica maestra musicale capace di frugare nelle canzonacce pre e postfasciste come nella grandeur militarista francese; e con loro collaborerà poi per tutta la sua vita in palcoscenico, come con Santuzza Calì per i costumi sfolgoranti, Lele Luzzati per i meravigliosi fondali da sillabario, e Ida Omboni per le incursioni letterarie più deliranti. Dagli anni ’60 infatti Paolo Poli assurge a grande star del palcoscenico nazionale. Capace di costruire un teatro fatto di grandi storie con piccoli mezzi, di citazioni classiche che non distinguono tra scrittura alta e bassa, ma sono sempre impregnate di rivelazioni stupefacenti e di allusioni spesso e volentieri inferte sotto la cintura. Un teatro irresistibil- mente comico, eppure di grande respiro intellettuale. Un teatro che è stato capace di essere aggressivamente «politico» ma senza volerla dare a vedere. Con effetti fragorosi sorprendenti, rappresentando il mitico futurismo marinettiano e «fascista» di Marinetti come Suggeritore nudo (letteralmente, appena velato da una calzamaglia a pelle), oppure sco- prendo i deliri sacroerotici di Rita da Cascia, che gli valse denunce e censure. Perché bisogna ricordare che una scuola di alta formazione è stata per Poli la mitica compagnia D’Origlia-Palmi, ultimo esemplare di ditta «all’antica italiana», di cui l’attore fu prima avido spettatore e poi reinventore originale. Così come lo fu, è notorio, l’altro asso del nuovo teatro italiano, Carmelo Bene: ci andavano tutti la domenica pomeriggio al teatrino di Borgo Santo Spirito, magari assieme alla suddetta Betti e ad altre future signore della scena, a bearsi e dannarsi dall’invidia e dalle risate, davanti a quelle vibranti «vite delle sante». Del resto era quasi un omaggio forever a Bianca D’Origlia quella Nemica in travesti di Nicodemi che consacrò poco dopo Paolo Poli signora per sempre di un teatro capace di rappresentare buoni sentimenti e nefandezze, i vizi e i pregiudizi della nuova Italietta scudocrociata, mammona e crudele. Da allora ogni anno, al massimo due, il beato Paolo che aveva ormai perso il pudore dell’ipocrisia, divenne un appuntamento imperdibile per pubblici diversi: quello degli abbonati che i teatri allora tenevano in attivo, e quello di giovani generazioni che scoprivano la possibilità di un teatro divertente e irriverente, ma in grado di infliggere sonori manrovesci ai valori costituiti, ai loro potentati, alle polizie da grand guignol che ne erano custodi. Per di più partendo da una ispirazione letteraria di alto e altissimo livello: gli autori di culto del Poli lettore raffinato e multiforme, dal prediletto Palazzeschi (dalla cui invocazione «Lasciatemi divertire» nasceva il titolo della trasmissione tv dell’attore dello scorso anno) a Queneau, da Parise ad Apuleio, da Savinio alla Ortese, da Swift a Pascoli tra i molti. Ma anche quelli superpop, da Dumas a Carolina Invernizio, per altro rispettata anche da Gramsci. Racconti fantastici e spesso gotici, capaci di dare nella loro essenzialità brividi insieme di inquietudine e di ilarità. Riscattati nei finali e nei bis da certe canzoncine «peccaminose» d’inizio ’900: La lattaia, La petite tonkinoise, e altre piacevolezze pornomilitariste. Cantate con qualche malizia e molta crudeltà, magari assieme a Jole Silvani che come Milena Vukotic per un periodo lo hanno accompagnato in scena. E masticate dal coro del pubblico devoto di tutte le età. Lì si chiudeva il sipario (dopo il suo ineluttabile gesto della mano che indicava l’uscita, anche questo condiviso con Carmelo Bene) e da lì bisognerebbe ripartire per dare dignità e spessore a un teatro che non è stato mai visto in profondità. Spesso, anche nei primi commenti e ricordi sui giornali di ieri, si è finito per dare più importanza alla sua omosessualità e alla sua passione maniacale per il travestimento femminile. Che sono state appariscenti, anche perché Poli si divertiva a rispondere a quelle morbose curiosità sparandole ancora più grosse. Come quando approfondiva l’importanza estetica dei pompieri in servizio sul palcoscenico, o quando scegliendo il titolo per un libro di memorie, lamentava di aver avuto «tanti fiori, ma non il fioraio». Irresistibile nella sua perfidia, crudele nella sua analisi antropologica, Paolo Poli era poi un fantastico narratore di favole per i bambini, e acutissimo nocchiero tra le ricette di Artusi registrate in un magnifico audiolibro. Ci ha insegnato e ci ha donato davvero molto; con la sua arte e col piacere che ci ha dato in tutti questi anni, bisognerà davvero fare i conti e rendergli i dovuti onori.