Cass. pen. Sez. VI, 11-06-2014, n. 24653 REPUBBLICA ITALIANA
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Cass. pen. Sez. VI, 11-06-2014, n. 24653 REPUBBLICA ITALIANA
Cass. pen. Sez. VI, 11-06-2014, n. 24653 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GARRIBBA Tito - Presidente Dott. LANZA Luigi - Consigliere Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. DE AMICIS Gaetan - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: M.M. N. IL (OMISSIS); avverso la sentenza n. 41/2013 TRIB. MINORENNI di SALERNO, del 01/10/2013; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS; sentite le conclusioni del PG Dott. POLICASTRO Aldo che ha concluso per il rigetto del ricorso; Svolgimento del processo 1. Con sentenza del 1 ottobre 2013 il G.u.p. presso il Tribunale per i minorenni di Salerno ha dichiarato, ex art. 425 c.p.p., del D.P.R. n. 448 del 1988, art. 32 e art. 169 c.p., non luogo a procedere nei confronti di M.M. per essere il reato a lei ascritto (ex art. 377 c.p., commi 1 e 3) estinto per concessione del perdono giudiziale, nel concorso delle attenuanti generiche e della diminuente della minore età. 2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l'Avv. Omissis, nella sua qualità di difensore dell'Avv. Omissis, nella sua qualità di curatore speciale di M. M., deducendo vizi di inosservanza ed erronea applicazione di legge, nonchè di omessa motivazione, in relazione agli artt. 63 e/o 238 c.p.p., per la mancata rilevazione di una ipotesi di inutilizzabilità patologica legata ad un verbale di istruzione redatto all'udienza del 3 aprile 2012 dinanzi al Giudice delegato del Tribunale per i minorenni di Salerno, nell'ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione avviato ex art. 330 c.c., e contenente dichiarazioni rese contra se dalla minorenne M.M., in assenza del difensore, quando la stessa risultava già attinta da indizi di colpevolezza per i fatti oggetto della dichiarazione (tanto è vero che la sua precedente audizione, svoltasi in data 5 marzo 2013 quale persona informata sui fatti dinanzi ai Carabinieri di Polla, veniva sospesa ai sensi dell'art. 63 c.p.p.). Le su menzionate dichiarazioni, pur inutilizzabili, sono state poste a base, in maniera determinante, del giudizio di responsabilità della minore, presupposto, quest'ultimo, della successiva concessione del perdono giudiziale. Espungendo, peraltro, tali di dichiarazioni dal materiale conoscitivo, la "prova di resistenza" cui dovrebbe essere sottoposta la pronuncia impugnata non farebbe emergere alcun ulteriore elemento di prova a carico della minore, imponendo di conseguenza un pronunciamento assolutorio in ordine ai fatti alla medesima ascritti. Due, invece, avrebbero potuto essere le opzioni interpretative al riguardo prospettabili: o ritenere le dichiarazioni autoaccusatorie rese in assenza di difensore assimilabili a quelle contra se fornite in costanza di procedimento penale, ed in tal caso vagliare l'applicabilità al caso di specie del principio di diritto, richiamato in sentenza, di cui alla pronuncia n. 44874/2011 di questa Suprema Corte (principio enunciato con riferimento alle dichiarazioni spontanee rese alla P.G., in assenza del difensore, ex art. 350 c.p.p., comma 7), ovvero escludere l'assimilabilità di tali dichiarazioni a quelle assunte nel corso di un procedimento penale e, dunque, vagliare l'assoggettabilità dell'atto in questione alla disciplina di cui all'art. 238 c.p.p.. 3. Con memoria difensiva pervenuta in Cancelleria in data 18 febbraio 2014 sono state esposte ulteriori argomentazioni a sostegno dei motivi del ricorso, con allegazione di materiale documentale acquisito dagli atti del procedimento presso il Tribunale dei minori di Salerno solo in epoca successiva alla presentazione del ricorso per cassazione. Motivi della decisione 4. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato per le ragioni di seguito esposte e precisate. 5. Al riguardo giova richiamare, in primo luogo, l'insegnamento giurisprudenziale elaborato da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 14173 del 19/02/2009, dep. 31/03/2009, Rv. 243687), secondo cui la definizione del giudizio nell'udienza preliminare in base al modello procedimentale delineato dal D.P.R. n. 448 del 1988, art. 31 e art. 32, comma 1, risulta equiparata ai procedimenti rebus sic stantibus, ovvero "a prova contratta", previsti nel rito ordinario (patteggiamento e giudizio abbreviato), nei quali l'utilizzazione, anche in danno dell'interessato, di atti assunti al di fuori del dibattimento è resa possibile dall'adesione espressa dall'imputato. Proprio per tale motivo, la scelta di accedere al rito semplificato minorile non può che essere configurata - alla stregua della (ed in analogia alla) disciplina generale dell'accesso alle procedure alternative - come personalissima e conseguentemente riservata all'interessato, il quale può esprimerla solo direttamente, ovvero a mezzo di un procuratore speciale. A tale quadro di principii si è uniformata l'impugnata pronuncia, laddove ha correttamente posto in evidenza come l'imputata, nel prestare il consenso alla definizione del procedimento in sede di udienza preliminare, abbia rinunciato alla formazione della prova in dibattimento, rendendo possibile l'utilizzo degli atti investigativi acquisiti ai fini della decisione, anche in relazione ad una pronuncia che presupponga l'affermazione della sua responsabilità. Pienamente utilizzabile, pertanto, è stato ritenuto il verbale delle spontanee dichiarazioni rese dalla minore al Giudice delegato in data 3 aprile 2012, nell'ambito del procedimento di volontaria giurisdizione pendente dinanzi al Tribunale per i minorenni di Salerno. Nel verbale, successivamente acquisito al fascicolo del P.M. e valutato ai fini della responsabilità in ragione del consenso prestato alla definizione del procedimento in sede di udienza preliminare, la minore ha ammesso di aver telefonato alla sua ex insegnante, e di averla "minacciata qualora avesse ripetuto al Giudice le cose già dette in precedenza", precisando altresì di aver saputo dal padre che la stessa doveva deporre al processo. 6. Irrilevante, peraltro, deve ritenersi l'obiezione incentrata sul fatto che quelle dichiarazioni siano state rese senza la presenza del difensore, siccome non prevista nella relativa sede processuale. Sul punto, invero, occorre considerare le implicazioni della linea interpretativa tracciata dalla Corte costituzionale (C. cost., 20 - 27 aprile 1995, n. 136) con riferimento alla prospettata possibilità di equiparazione, ai fini previsti dall'art. 63 del codice di procedura penale, tra l'autorità giudiziaria ed il giudice civile e, dunque, tra l'interrogatorio dell'imputato o dell'indagato e l'interrogatorio formale, o comunque l'audizione, di una parte processuale nell'ambito dei modelli propri del rito civile. Il Giudice rimettente, infatti, aveva evocato siffatta possibilità con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dubitando della legittimità del su citato art. 63, nella parte in cui non ricomprende fra i soggetti destinatari delle "dichiarazioni indizianti" - con la conseguente applicabilità della disciplina ivi prevista nei confronti dell'imputato e della persona sottoposta alle indagini - oltre all'autorità giudiziaria ed alla polizia giudiziaria, anche il curatore del fallimento. Soluzione ermeneutica, quella or ora accennata, che la Corte costituzionale ha respinto, ritenendola, con argomenti ampiamente condivisibili, del tutto "impropria" rispetto ai principi sia del rito civile sia del rito penale. Nella prospettiva seguita dalla Corte costituzionale, infatti, il riferimento all'autorità giudiziaria, contenuto nell'art. 63 c.p.p., è preordinato al solo fine di ricomprendere nella nozione di genere non soltanto il giudice penale, ma anche il pubblico ministero. Mentre non può in essa essere ricondotto il giudice civile, il quale, pure ove in sede di interrogatorio formale vengano ammessi dalla parte fatti costituenti reato, non può certo fare ricorso al regime previsto dalla su menzionata disposizione processuale, essendo, semmai, tenuto, ai sensi dell'art. 331 c.p.p., comma 4 - come, del resto, in ogni altra ipotesi in cui risulti un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio - a redigere ed a trasmettere senza ritardo la denuncia al Pubblico Ministero. Nel caso in esame, del resto, è significativo rilevare che il verbale istruttorie, del tutto coerentemente con le forme previste dalla relativa disciplina processuale, è stato trasmesso dal Giudice delegato al P.M., per quanto di competenza, nell'ambito del procedimento penale in corso a carico della minore. Del tutto "impercorribile", dunque, deve ritenersi, secondo il Giudice delle leggi, l'estensibilità dello specifico regime normativo dettato dall'art. 63 c.p.p. al di fuori del suo ambito di applicazione, nei confronti di un atto perseguente finalità probatorie del tutto diverse da quelle proprie del processo penale, non essendo ricavabile da alcuna norma del rito civile un principio che imponga al giudice civile di sospendere l'acquisizione di un atto dell'istruzione probatoria in funzione di esigenze teleologiche esclusive del processo penale (arg., sia pure indirettamente, ex art. 295 c.p.p., come sostituito dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 35 e art. 211 norme coord. c.p.p.). Se è vero, sotto altro ma connesso profilo, che le disposizioni contenute nell'art. 63 c.p.p., dando attuazione al fondamentale principio di garanzia nemo tenetur se detegere, debbono, in linea generale, essere interpretate nel senso di assegnare loro il più ampio ambito operativo (per un esempio significativo di tale tendenza v. Sez. Un., n. 45477 del 28/11/2001, dep. 20/12/2001, Rv. 220291, con riferimento alle dichiarazioni rese nel corso di un'attività ispettiva o di vigilanza da soggetto poi sottoposto a procedimento penale), è pur vero che il contenuto degli obblighi e delle relative sanzioni non può essere indebitamente allargato al di fuori dei confini applicativi propri del processo penale, sino ad inficiare l'utilizzabilità di verbali istruttori che, raccolti nell'ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione avviato dinanzi al Giudice civile ex art. 330 c.c., non perdono certo la loro natura sol perchè confluiti negli atti di un procedimento penale definito con forme semplificate, rispondendo i canoni della loro formazione, per contro, a regole e finalità proprie di un percorso procedimentale la cui base cognitiva si delinea nel rispetto di un quadro di principii e di garanzie del tutto diverso da quello tipicamente rilevabile nell'ambito del rito penale. 7. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato, escludendosi, per la qualità soggettiva del ricorrente, la condanna al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende (v. Sez. Un., n. 15 del 31/05/2000, dep. 11/10/2000, Rv. 216704). P.Q.M. Rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il 1 aprile 2014. Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2014