Figlie del Mediterraneo

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Figlie del Mediterraneo
a cura di
Rosa Rita Ingrassia
Figlie del Mediterraneo
Destini femminili tra mito e realtà
Indice
Ringraziamenti
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Prefazione
Magda Di Renzo
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Prologo
Il silenzio e le parole
Rosa Rita Ingrassia
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I FIGLIE DELLA MENTE DEL PADRE,
FIGLIE DEL CORPO DELLA MADRE
Percorsi e destini femminili
Bianca Gallerano
II ALLA RICERCA DELL’ANIMA
Rosa, tra Pentesilea e Afrodite
Livia Di Stefano
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55
III IL SILENZIO NEL FEMMINILE MEDITERRANEO:
TRA MITO E REALTÀ
Francesca Picone, Lidia Zaoner
73
IV LIA, TRA SOGGETTIVAZIONE E INDIVIDUAZIONE
Igea Patermo
93
V DA MADRE IN FIGLIA: LA FERITA DELL’ABBANDONO 117
Maria Rosalia Novembre
7
VI LA MATERNITÀ NEGATA
Il bambino tra rifiuto e impossibilità
Rosa Rita Ingrassia
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Epilogo
Il padre nelle pieghe della testa
e la madre nella luce del corpo
Franco La Rosa
163
Note sugli autori
173
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Prefazione
Quanto mi commuovono le donne.
M. SERRANO1
Con queste parole, Natasha, la psicoterapeuta protagonista dell’ultimo romanzo di Marcela Serrano, si commiata internamente da un gruppo di donne che hanno condiviso, alla fine di un loro percorso terapeutico individuale, il racconto della propria vita
in una seduta di gruppo.
Natasha è sullo sfondo; ha voluto l’incontro ma lo segue da
dietro le quinte perché non vuole influenzare le donne con la sua
presenza e perché, da terapeuta ormai più che esperta, ha deciso di trasgredire al setting facendo raccontare a una sua collega (cui ha affidato il gruppo) anche la storia della sua vita.
Piccolo dono alle altre dopo tanta intimità ricevuta. Una condivisione che include anche la terapeuta perché il vero incontro
tra anime non prevede gerarchie e nel percorso dell’esistenza le
vie in qualche modo si incontrano tutte, sia pur solo intersecandosi.
Vite che diventano racconti avvincenti, ricchi di riflessioni di
chi ha potuto scandagliare il fondo dell’anima e ha saputo riemergere con un nuovo senso dell’esistenza, testimonianze intrise di emozioni intense che mai si concretizzano in sentimentalismi da rotocalco e che diventano, invece, nel loro manifestarsi,
veri e propri atti di speranza. Capacità di stare nel dolore sfidando, a volte, anche la propria incolumità e ricercando, anche
inconsapevolmente, quel fil rouge che le ricongiunge a un destino superiore per conferire un nuovo senso di appartenenza al
mondo.
1.
M. Serrano, Dieci donne, Milano, Feltrinelli, 2011.
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Rosa Rita Ingrassia (a cura di)
Figlie del Mediterraneo
Narrazioni che hanno fatto meritare alla Serrano, da parte di
alcuni critici, il titolo di erede di quella Sheherazade che del racconto ha saputo fare un’arte di vita oltre che una strategia fondamentale alla sopravvivenza per contrastare un maschile distruttivo e completamente scisso dal lato affettivo dell’esistenza.
Direi che il linguaggio coniugato al femminile diventa racconto, e non resoconto o descrizione, grazie alla capacità che
hanno le donne di affrontare quel senso di vuoto che emana da
concetti ormai sedimentati per rivivificare il significato di ogni
parola con connotazioni individuali che rendono un fenomeno
generale assolutamente unico e irripetibile. Pensiero circolare,
come vari autori hanno sottolineato, contrapposto alla linearità
di quell’egemonia culturale che non ha mai concesso alla donna,
in passato, la liceità del dirsi e del dire senza provare un radicale
senso di vergogna.
Chiosando la Serrano mi viene da dire che le donne commuovono perché le loro parole muovono le cose, le personalizzano sfidando l’oppressione secolare del discorso maschile, le drammatizzano per combattere l’anestesia della non contraddizione e le
rendono immaginifiche per inventare nuove possibilità.
Nel leggere i lavori che le colleghe, tutte donne, hanno redatto per il presente volume, mi hanno accompagnato queste riflessioni e queste emozioni e allora le donne cilene, descritte dalla Serrano e quelle siciliane, che danno vita a questi racconti, mi
sono apparse tutte «onestamente impegnate a vivere la vita nel
migliore dei modi nonostante quella che hanno avuto in sorte»
(ibidem).
Accettazione della cura (sono sempre più donne a ricercare
un percorso psicoterapico) come possibilità di redenzione, come
accettazione del limite e rifiuto del fondamentalismo che tenti di
proporsi unilateralmente come rimedio salvifico. «Irrimediabile
non significa irredimibile» scrive Hillman2, giacché «la redenzione non cambia una condizione, la benedice così com’è».
Redenzione in senso simbolico sia nei confronti del proprio de-
2.
J. Hillman, Trame perdute, Milano, Cortina, 1985.
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Prefazione
Magda Di Renzo
stino, sia nei confronti di un collettivo che sempre più richiede
prove basate sull’evidenza a scapito di quell’energia vitale che
spesso si annida nei territori umbratili abitati dal femminile.
E con questo, naturalmente, non voglio fare un elogio delle
donne a scapito degli uomini perché la vera coniunctio rifugge da
gerarchie e impoverisce chi si sente detentore della superiorità
o chi non riesce a mettere le mani in pasta per familiarizzare con
l’estraneità. Vorrei solo ribadire la necessità di conferire dignità
a un pensiero altro che sappia costruire, proprio a partire dal
senso limite e dal sentimento della vergogna, un linguaggio debole nella sua struttura ma potente nei suoi contenuti.
L’epilogo che Rosa R. Ingrassia, curatrice del volume, ha voluto affidare a un uomo, Franco La Rosa, testimonia della necessità di un riconoscimento dell’altra parte, non per spinte narcisistiche o per bisogno di adesività, come spesso capita alle
donne non ancora emancipate dal servilismo di pensiero, ma
per quella fondamentale esigenza di rispecchiamento che arricchisce la coppia e favorisce nuove sintonizzazioni. E Franco, con
la dimensione affettiva che sempre accompagna la sua lucidità
di pensiero, ha risposto empaticamente puntualizzando, in un
unico racconto, le tante storie narrate dalle diverse autrici, dando vita a una possibile convivenza in quella terra di mezzo dove
la concretezza femminile può diventare la più alta manifestazione del pensare maschile.
Vorrei, quindi, a questo punto proporre solo una breve riflessione che si è fatta strada durante la lettura del testo e che
è scaturita dagli sforzi che ciascuna autrice ha saputo mettere
in campo.
Nel libro viene riportata più volte la metafora della mancanza
di una stanza per pensare che Virginia Woolf ha mirabilmente
creato per descrivere la difficoltà che vivono le donne nel riconoscere a sé stesse uno spazio interiore di pensiero, difficoltà che,
nel nostro scenario collettivo, investe, ovviamente, anche la dimensione maschile. La mancanza di un luogo concreto, (lo studio è, archetipicamente, un ambiente maschile) diventa, infatti,
l’impossibilità di un luogo interno in cui riconoscere e sancire il
proprio diritto a costruire teorie e a contestare quelle esistenti.
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Figlie del Mediterraneo
Credo che la mancanza di quella stanza abbia creato in noi
donne un profondo senso di invidia nei confronti di quel maschile che sa lasciare fuori il resto del mondo (figli che devono
mangiare o dormire, incombenze della quotidianità, relazioni sociali e altro) per dedicarsi alla sua teorizzazione senza essere trascinato dagli echi emozionali che quegli avvenimenti suscitano.
Una distanza sufficiente per guardare da spettatore e restituire
parole articolate in pensieri sul mondo e sui sentimenti che lo
abitano. La stanza che accoglie noi donne sembra, invece, appartenere a quelle case antiche con ambienti comunicanti che
non conoscono soluzione di continuità e che sempre sono attraversate da tutti gli abitanti, ciascuno con il proprio affaccendamento.
Credo che possiamo essere molto grate a Virginia Woolf per
la sua metafora perché ci permette di comprendere il senso di
inadeguatezza che spesso ci accompagna quando cerchiamo la
concentrazione per scrivere in una casa, per fortuna, abitata e
vissuta dalle persone che amiamo. Quell’essere presente con il
corpo ma sempre altrove con la mente, pronte ad intercettare
ogni minimo rumore consueto per interpretare l’altrui bisogno o
quel senso di colpa per non essere sufficientemente presenti né
alla relazione che dovremmo scrivere né alle incombenze dell’angelo del focolare che, in qualche modo, dovrebbe definire la
nostra presenza. Quel bisogno di essere sole alla fine della giornata per dirsi che è arrivato il momento giusto e che tutto il
mondo è finalmente fuori.
Ma mi domando: è questo il reale profondo desiderio di noi
donne? Avere una stanza isolata come quella degli uomini?
Potremmo davvero guardare il mondo come spettatrici rinunciando al protagonismo che ci fa reagire ad ogni minimo rumore, ad ogni odore che intrude nel nostro essere restituendoci il
significato del gesto dell’altro o ad ogni movimento che presentifica alla nostra mente il corpo di chi amiamo?
Non è forse proprio quella stanza comunicante il regno in cui
noi donne potremmo con diritto stabilire il nostro domicilio
mentale per restituire al mondo non solo aristocratiche teorie
ma riflessioni elaborate dall’interno, come la nostra natura ci in-
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Prefazione
Magda Di Renzo
duce a fare? Non è proprio nella materia di cui è fatta la psiche
che il racconto diventa aspetto simbolico della vita vissuta e prototipo di qualsiasi teorizzazione che la concerne?
Mi piace pensare alle autrici del presente volume, tutte donne che stimo per la tenacia che sanno esprimere nel loro lavoro
e nella loro vita, come abitanti di quelle zone di confine dove la
partecipazione al mondo, con la sofferenza che ne consegue, è
così vicina da aver lasciato una scia pregna del suo sapore e del
suo odore ma, al contempo, sufficientemente lontane da permetterne un racconto.
Ringrazio Rosa per avermi dato la possibilità di essere presente in questa casa e per avermi reso testimone dello sforzo che
quotidianamente le donne devono ancora fare per ricevere il giusto ascolto.
Magda Di Renzo
Analista junghiana (CIPA), Roma
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