anno XIII, n°1 - Gennaio, Febbraio, Marzo 2009
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Rivista di educazione, formazione e cultura anno XIII, n°1 - Gennaio, Febbraio, Marzo 2009 Pedagogika.it/2009/XIII_1/ Rivista di educazione, formazione e cultura esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni Anno XIII, n° 1 - Gennaio/Febbraio/Marzo 2009 Direttrice responsabile Maria Piacente [email protected] Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Coordinamento pedagogico Coop. Stripes. Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa Responsabile testata on-line Igor Guida - [email protected] Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - [email protected] Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Pubblicità Clara Bonfante Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45% ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - issn 1593-2559 Hanno collaborato Franco Frabboni, Raffaele Mantegazza Francesco Cappa, Cristiana La Capria, Giancarla Codrignani, Stampa: Impressionigrafiche S.c.s. Acquiterme (Al) - Tel. 0144-313350 Piergiorgio Reggio, Letizia Lambertini, Carmelo Benfante Picogna, Alcide Malacugini, Luca Alberti, Enrico Miatto, Valeria Perrucci, Cecilia Distribuzione in libreria: Armnenise, Emanuele Toniolo, Emilia Canato, Giannamaria Grisolo, Dario Costantino, Annamaria Bianchi Cesareo, Anna Nappi Fotografie di Alberto Stanga Edito da Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano É possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo della redazione - [email protected] Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio della Direzione e del Comitato di redazione e Direzione e Redazione in ogni caso non saranno restituiti agli autori Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057 e-mail: [email protected] Sito web: www.pedagogia.it 2 Questo periodico è iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana . Pedagogika.it/2009/XIII_1/sommario s o m m a r i o 5 Editoriale Maria Piacente dossier scuola/non uno di meno 7 Introduzione 64 Dalla parte della Costituzione Alcide Malagugini ../temi ed esperienze 70 Prospettive famigliari nei giovani. La famiglia tra valore e possibilità Enrico Miatto 10 La scuola tra speranze e agguati Franco Frabboni 14 Altre vie. Una scuola oltre l’ovvio Raffaele Mantegazza 19 La scena educativa Francesco Cappa 83 Il benessere senza responsabilità. Alcune indicazioni educative Cristiana La Capria Adolescenti e legalità. Il disimpegno morale e la “mal-educazione degli adulti Cecilia Armenise 89 Il “Progetto di ricerca” e la qualità della formazione in ambito pubblico Emanuele Toniolo, Emilia Canato, Giannamaria Grisolo 94 La differenza di genere nell’Odissea. Donne, sentimenti, incontri Dario Costantino 100 Il percorso vale più della meta Annamaria Bianchi Cesareo 27 34 A scuola si diventa cittadini di oggi e di domani? Giancarla Codrignani, 40 Critica della scuola per una pedagogia critica Piergiorgio Reggio 46 Educare o istruire? Dafne Guida Conti 50 61 L’interrogazione dello stereotipo. Un metodo possibile nell’educazione alla differenza e alla relazione Letizia Lambertini L’accoglienza e l’integrazione nelle scuole degli alunni istituzionalizzati e adottati Carmelo Benfante Picogna 75 Adolescenza: assunzione del o esposizione al rischio Valeria Perrucci ../cultura 104 A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi 108 Scelti per voi Ambrogio Cozzi (a cura di) 115 Arrivati in redazione ../In_vista 118 L’educatore sociale in un mondo globalizzato 3 Pedagogika.it/2009/XIII_1/ ABBONARSI È IMPORTANTE Piano editoriale 2009 Scuola e cittadinanza L’immaginario dell’educatore La crisi del desiderio La società della paura Rivista di educazione, formazione e cultura Numero di c/c postale 36094233 intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) L’abbonamento annuale per 4 numeri è: € 30 privati € 60 Enti e Associazioni € 90 Sostenitori Pedagogika.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo: Redazione Pedagogika.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) 4 Per informazioni: Redazione Pedagogika.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - [email protected] Pedagogika.it/2009/XIII_1/editoriale Il milieu educativo Maria Piacente Proviamo a pensare ad una bambina o ad un bambino che stia per accingersi a fare l’esperienza del suo primo giorno di scuola. I primi passi verso un sapere altro che sente come qualcosa di completamente nuovo che gli sta venendo incontro. Le esperienze precedenti sono state, fino a quel momento, finalizzate alla scoperta di quella parte di sé più legata alla creatività, alla naturale curiosità che il piccolo metteva in campo fino a farne un’esperienza ed una conoscenza corporea, dove l’unicità del soggetto aveva avuto in qualche modo la meglio nello spazio fisico e temporale. Le intenzioni educative dei genitori, delle educatrici dell’asilo nido, delle maestre della scuola materna erano per lo più rivolte a fare emergere quella parte creativa sempre saldamente connessa al corpo-mente del “nuovo” nato. Ora il debutto all’esterno della casa dei genitori presuppone un altro tipo di apertura: la bambina ed il bambino, come dicevamo, andranno incontro a nuovi saperi che hanno a che vedere più con lo sviluppo di abilità di astrazione. In qualche modo viene loro richiesto di allontanarsi dai genitori, dalla loro contiguità fisica e affettiva mantenuta, fino a quel momento, nei vari contesti educativi nei quali i bambini si sono intrattenuti fino ai cinque anni di età. Il dentro e fuori di prima deve adesso comprendere anche la capacità di abbandonare qualche bisogno primario; si allude così ad una sorta di svezzamento necessario per entrare in società, inserirsi nel nuovo contesto sociale e intraprendere il percorso verso l’autonomia. Occorre imparare delle cose nuove, misurarsi e anche imparare a mantenere maggiore distanza da casa, dalla mamma, dal papà, dai fratellini. I prodromi di questi nuovi scenari si possono leggere nei gesti e nelle parole che vengono compiuti, sia dai genitori sia dai bambini, il Primo Giorno di Scuola. Di solito c’è l’appello, la “chiamata” del bambino nella classe di appartenenza: il bambino viene “nominato”, nome e cognome, per intraprendere un viaggio nuovo. Egli sente un investimento speciale verso di sé da parte dei suoi genitori, intuendo l’importanza che questo passaggio di vita porta si porta dietro. Anche la scuola sembra attrezzarsi per esso, sottolineandolo anche con certi rituali. Poi, ogni giorno, verrà chiesto ai bambini: “come è andata a scuola?” Quelli meno riottosi saranno felici di rispondere e, a scuola, il Diario di Bordo pensato dalle brave maestre verrà debitamente compilato dai nostri piccoli; i loro grandi e piccoli successi saranno oggetto di discussione, confronto, interpretazione da parte di tutte le maestre, anche di una che, ancora tanto depressa per un lutto recente, saprà dare, con il silenzio, il suo contributo. Passano i mesi e i bambini continuano quotidianamente ad accumulare saperi e nuove esperienze. Qualcuno, più difficile(?), non ne vuole sapere di sapere il sapere, forse è ancora troppo troppo piccolo e non intende mollare la gonnella della mamma o i pantaloni del papà. Non vuole ancora staccarsi dalla sua famiglia. Passano i mesi, presto arriva anche giugno e la fine della scuola. L’anno successivo, il primo giorno di scuola, nuovi bambini saranno chiamati dalle maestre a formare una nuova classe; certo ancora “la classe” non metterà a dura prova le insegnanti e gli insegnanti (pochi, come noto, questi ultimi) per la tenerà età degli allie- 5 Pedagogika.it/2009/XIII_1/editoriale vi. Per ancora un bel po’ di anni l’età delle ragazzine e dei ragazzini delle elementari potrebbe non costituire problema: il rapporto tra chi insegna e chi accetta l’insegnamento sembra tenere ancora e, tra riti propiziatori, fatica degli insegnanti nel rinnovare se stessi e i modi dell’insegnare, la scuola primaria italiana riesce ad essere una delle migliori. Ma, e lo si è detto più volte, abbiamo, in Italia, la cattiva abitudine di riformare ciò che funziona meglio e l’insegnamento nella scuola primaria sembra costituirne ottimo esempio. Ciò che ora non tiene, non arriva dalla scuola, non arriva dalle insegnanti e dagli insegnanti che, nel loro mestiere, sono, in gran parte, impegnati nella ricerca o nella riconquista della passione e del desiderio necessari per trasmettere il sapere all’interno di un sofferto progetto educativo, un progetto educativo che abita faticosamente in quel “Milieu” educativo di cui Riccardo Massa anticipava il tramonto già nel 1999, poco prima della sua scomparsa. Pensiamo che, al di là delle sempre attuali problematiche legate alla nostra liquida società attuale e alla difficoltà che la trasmissione di valori e saperi oggi comporta, non ci si possa semplicemente rassegnare ad una selvaggia legiferazione che mette in crisi entusiasmi e motivazioni, che fa arretrare di decenni una scuola per molti versi meritevole di stima. Sappiamo che la Scuola è alla mercé dei Governi in carica, ma ora le recenti riforme ad essa afferenti aprono davvero scenari non solo inusuali ma, addirittura, consapevolmente distruttivi. A dispetto delle pubbliche dichiarazioni di rispetto delle scelte dei genitori in materia, per esempio, di tempo pieno, circolano in realtà, in questo periodo, direttive che riducono il ruolo degli organi collegiali alla mera espressione di pareri non vincolanti, l’assenso dei Comuni viene reso irrilevante: su tutto domina l’imperativo del contenimento della spesa e, in barba alle scelte delle famiglie, gli organici andranno decisi in funzione dei costi. Molti parlano – esagerano? - di “controriforma” messa in atto dall’attuale Ministro. Franco Frabboni, nell’articolo di apertura di questo Dossier sulla scuola, sostiene che in questi giorni si stia tentando di sventrare il cuore della Scuola Pubblica, laddove il termine “meno” impera in tutto il sistema scolastico: “le due gloriose architravi del nostro glorioso sistema scolastico, diritto allo studio e qualità dell’istruzione, vengono demolite”. E qui non si parla di rifiuto del cambiamento o dell’innovazione. A noi che, dalle pagine di questa rivista abbiamo tentato, nel corso di questi anni, di dare corpo ad un cambiamento della scuola, non ad un semplice make-up e neanche radicale snaturamento, non resta che ricordare e riferirci a quanto, in materia di cambiamento, Riccardo Massa sosteneva: “Esiste una specifica attitudine alla creatività pedagogica, quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze di contenuti o di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare un dispositivo strategico complesso, volto ad istituire il campo della esperienza educativa”. A noi che pure a quella ricerca siamo, direi quasi costitutivamente, interessati non rimane che impegnarci, in questi difficili momenti, ancora nella difesa della Scuola Pubblica e sottolineare con forza il diritto di tutti alla conoscenza. E con le parole di un film di Zhang Yimou di qualche anno fa, riprese da Frabboni, ripetere con forza : “Non uno di meno! Nella casa democratica della Scuola”. 6 Pedagogika.it/2009/XIII_1/dossier Scuola. Non uno di meno Nell’affrontare il dossier “Scuola. Non uno di meno”, che potrete leggere – ci auguriamo con qualche stimolo - su questo numero di Pedagogika.it, è riaffiorata alla nostra mente la figura di Riccardo Massa, filosofo dell’educazione il cui insegnamento costituisce per noi un punto di riferimento. Un vero educatore, Massa, attraversato da una vera passione che accompagnava i toni della sua riflessione, provocatoria, mai banale e sempre autorevole, sul senso dell’educazione e dell’istruire. Lo testimonia la sua proposta radicale di “Cambiare la scuola”, dal titolo di un suo saggio del 1997, ripensandone la forma piuttosto che – riduttivamente – gli elementi di funzionalità didattica, organizzativa o progettuale. In questo libro egli scriveva: “Per poter cambiare la scuola, come per poter operare qualunque cambiamento, occorre per prima cosa, aldilà dei soliti discorsi di carattere politico e istituzionale, un esercizio di pensiero. Solo attraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di pratico e di concreto. La scuola chiede di essere ricreata e rigenerata, non semplicemente abolita o rinnovata”. Non appaia fuor di luogo, ma pensiamo che ancora oggi di questa dignità del discorso pedagogico continui a sentirsi l’urgente bisogno. Non certo del “cambiare la scuola” introdotto dalla “riforma” Gelmini, il cui unico merito è quello di riportare la riflessione “in piazza”. Dove, in piazza, si sta non soltanto come appartenenti al mondo della scuola, come addetti ai lavori ma, secondo solida idea di democrazia, come cittadini. E, in quanto cittadini, il tema, la questione all’ordine del giorno, a nostro parere, continua ad essere quella dell’idea di società che attraverso l’idea di scuola si intende promuovere. Sullo scorso numero di questa rivista, nella sua “Lettera aperta al Ministro Gelmini”, una dirigente scolastica scriveva: “La scuola è diventata fucina di nuova cittadinanza e presidio prioritario per prevenire razzismi, egoismi, separazioni, emarginazioni. ...Tornare indietro significherà umiliare la cultura dei docenti della scuola... ma, soprattutto, far regredire il Paese”. Se, come riteniamo, valgono ancora qualcosa i principi di inclusione sociale, di allargamento dei diritti di cittadinanza, di centralità della scuola pubblica come luogo della formazione laica e plurale, di educazione come valorizzazione delle soggettività e dei saperi, allora è bene riaffermarli con forza. E in tale atto riteniamo nostro compito ineludibile quello di non limitarci alla pura e semplice contrapposizione dettata dalle modalità delle retoriche e delle pratiche politiche in atto - nelle quali poco o, meglio, nulla conta il tema della qualità e della sostenibilità sociale e costituzionale dell’istruzione e della formazione. Piuttosto, vorremmo restituire valore all’“esercizio di pensiero”, andando a recuperarne la concretezza nelle esperienze e nelle sperimentazioni pedagogiche e didattiche, quelle del passato e quelle del presente, interrogandoci sul senso ed il valore dell’educare, dell’istruire, dell’apprendere, verificando le forme di rappresentazione ed auto-rappresentazione della professione di insegnante. Senza peraltro omettere, in ciò, di mantenere quella sincerità dello sguardo che, capace di misurarsi anche con gli insuccessi e i fallimenti, consente di sviluppare nuovi e rinnovati significati e percorsi. Dossier 7 Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/schwerer Dossier 9 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola La scuola tra speranze e agguati Nel radar della Destra al governo non c’è traccia di una scuola intesa come spaziodi-relazione, dove sia possibile cogliere e decifrare il cuore del mondo infantile e giovanile. Con il risultato fallimentare (il non sapere ascoltare e dialogare con gli alunni) di spezzare il filo che annoda socializzazione e alfabetizzazione, relazione e conoscenza. Franco Frabboni* Riccardo Massa is still with us: in our theoretical and empirical heritage he left extraordinary models and interpretations of a great scientific and cultural value. His methodological and epistemological source is still very important to read the Future of education of a system that is global now, at the beginning of 21st century, as Massa predicted. The purpose of this article is to describe one of the branches – school – of the tree of education as conceived by Massa. Everybody’s right to education and the quality of education are now being challenged by conservative school politics. In our schools there is still too much selection with school dispersion situations despite the democratic and public characteristics of our educational system. Not-one-less is referred to the right of everybody to knowledge and to an image of social inclusion. This is the democratic house of the education: public, free, with compulsory education extended until the age of sixteen, with post-compulsory education until the age of eighteen through professional training, and with curriculum organization through the cycles. The school reform of the Minister Gelmini is now killing public school with less funds to schools, less teachers and hours of teaching, less knowledges, less educational tools and less school facilities in the inner parts of our country. Competitiveness is introducing an idea of school where children prevail on their mates: no cooperation, no solidarity and a way to individualism. Riccardo Massa thought that there should always be a strong link between knowledge and relationship at school. Knowledge as education and relations, as emotional experiences. The ambush envisaged by Riccardo Massa is now real and its name is the killer school reform of the Minister of Education Gelmini which is ruining both Knowledge and Relationship in two ways. First because it is wiping out interdisciplinarity and second because it is forgetting the emotional dimension of the children, leaving out the link between socialization and literacy, relationship and knowledge. Premessa Riccardo Massa è tuttora in viaggio con noi non solo nelle larghe rotonde della quotidianità esistenziale (per attraversare le quali ci ha regalato un perenne slancio vitale e un’amicizia senza tramonto), ma anche verso le affascinanti frontiere della riflessione pedagogica e della progettazione educativa. In altre parole, nel nostro zaino teorico ed empirico dell’educazione custodiamo 10 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguati un comparto occupato dal suo patrimonio di chiavi/interpretative (problematiche, mai assiomatiche) e di modelli formativi (plurali, mai unidirezionali), tuttora di straordinario respiro scientifico e culturale. Le scienze dell’educazione del Ventunesimo secolo (a partire dalla Pedagogia) possono attingere dalla sua feconda fonte epistemologica e metodologica non solo alcuni ineludibili alfabeti necessari per scrivere nuovi Romanzi pedagogici, ma anche alcune suggestioni prospettiche (di cui sono ricche le sue pagine) altrettanto ineludibili per leggere il Futuro dell’educazione nella sfera di cristallo di questo Millennio al debutto, al quale Massa predice gli scenari di un sistema formativo planetario, a partire da quello del nostro Paese. In queste righe, saliremo su uno dei rami - la scuola - dell’albero dell’educazione di Riccardo (gli altri rami portano il nome di epistemologia, pedagogia clinica, sfera affettiva, tempo libero, estetica et al.). Al ramo del sistema scolastico, Massa assicura robustezza teorico/empirica e sguardo prospettico. Ma profetizza anche i possibili agguati che le politiche scolastiche conservatrici (i governi di Destra) porteranno al diritto di tutti allo studio e alla qualità della formazione tra le pareti della scuola. 1.La difesa della scuola pubblica. Non uno di meno 1.1. Molte pagine di Riccardo Massa sostengono con forza il diritto delle giovani generazioni ad una alfabetizzazione primaria e secondaria, possibile in un sistema scolastico democratico e pubblico. Soltanto da questo balcone si potranno sfidare e contrastare - con armi plurali (a difesa della diversità dei punti di vista) e democratiche (a difesa dell’accesso di tutti alla conoscenza) - le persistenti sacche di marginalizzazione e di esclusione della nostra utenza. Ci riferiamo all’alto e inaccettabile tasso di selezione, presente nel nostro sistema formativo, che porta il nome di Dispersione materiale e intellettuale. Non-uno-di-meno allude al diritto di tutti alla conoscenza, alla bandiera della scuola sulla quale brilla l’immagine dell’inclusione: che dà conto del patrimonio genetico di una scuola pubblica. Questa, non abbandona al suo destino (al drop-out e alla ripetenza) l’allievo/a che non si ritrova nei Programmi ministeriali e che chiede - ai primi insuccessi - tempi più lunghi di assimilazione-comprensione delle conoscenze ufficiali. Siamo di fronte alla casa democratica della scuola. Alla sua identità pubblica e gratuita, nonché al suo edificio istituzionale dotato di alcune inamovibili architravi: (a) l’elevazione dell’obbligo scolastico ai sedici anni degli allievi; (b) l’elevazione dell’obbligo formativo fino al loro diciottesimo anno, con l’offerta aggiuntiva di articolati percorsi post-secondari di specializzazione professionale; (c) l’organizzazione curricolare in cicli: la scuola dell’infanzia (asilo nido più scuola materna), la scuola primaria, la scuola secondaria di primo grado e la scuola secondaria di secondo grado (quest’ultima articolata in campus di formazione tecnico-professionale e in specifici percorsi liceali). 1.2. L’agguato paventato da Riccardo Massa è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ la Controriforma killer della Gelmini che sta sventrando il cuore della scuola pubblica. Dossier 11 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguati Il suo sistema di istruzione (antidemocratico) mira a trattenere tra i banchi la fascia degli allievi “migliori” (guarda caso sempre gli stessi figli di genitori acculturati e/o danarosi) e ad espellere anzitempo la fascia degli allievi “peggiori” (guarda caso sempre gli stessi figli di genitori dalla bassa scolarità e/o dagli scarsi mezzi economici). Lo scenario di recita dei suoi Decreti Legge dà protagonismo ad una tragedia cosparsa di “tagli” inferti alla scuola, di “scippi” proditori alle sue già precarie risorse: meno insegnanti, meno monte ore, meno saperi, meno attrezzature didattiche, meno plessi nelle aree interne del Paese. Il Ministro dell’istruzione si nasconde dentro a questo Cavallo di Troia dal cui ventre stanno uscendo, armati fino ai denti, i giustizieri della Destra per colpire a morte il nostro glorioso sistema scolastico, per demolire le sue due architravi che portano il nome di diritto di tutti allo studio (il pilastro democratico) e di qualità dell’istruzione (il pilastro culturale). Questo pericolo profetizzato ed esorcizzato da Riccardo Massa - il suo nome, Meritocrazia - sta avvolgendo di pece maleodorante la Controriforma della Gelmini. Il suo sfrenato neoliberismo in economia (selvaggio e aggressivo, rivolto all’altare del “profitto”) sta irrompendo nella scuola con lo specchietto delle allodole in mano per risvegliare nel Paese eventuali malsopite pulsioni discriminatorie e classiste. Le ricadute nella scuola di questa parola d’ordine sono devastanti. Un esempio della pericolosità delle sirene aziendalistiche fa “brutta” mostra di sé nei sui Decreti legge, (varati senza alcun confronto con la scuola militante e senza dibattito in Parlamento) che introducono surrettiziamente il clima tossico della competitività. La sua idea di conoscenza (nozionistica) e i suoi strumenti di valutazione (quiz) appaiono del tutto funzionali a tramutare l’istruzione in un corpo a corpo nel quale gli allievi si fronteggiano, senza esclusione di colpi, per prevalere sul compagno/avversario vicino di banco. Niente cooperazione, niente disponibilità, niente solidarietà. Soltanto rivalità e agonismo cognitivo. Con relativa deriva individualistica e privatistica. 2. La difesa della qualità della formazione. L’altalena conoscenza/relazione 2.1. Alcuni illuminanti Saggi di Riccardo Massa sono dedicati a questo teorema pedagogico. Nella scuola, la Conoscenza e la Relazione dovrebbero sempre più fare girotondo, dandosi la mano. Questa, la sua preziosa idea prospettica. La navigazione di un sistema formativo non dovrebbe mai perdere la rotta che conduce sulle spiagge dove sventolano le bandiere della Conoscenza e della Relazione (la mente e il cuore). Cosa simboleggia questo doppio vessillo, spesso ideologicamente radicalizzato? La Conoscenza fa tutt’uno con l’istruzione scolastica, sia come conoscenze materiali (i saperi disciplinari), sia come conoscenze formali (le competenze di analisisintesi, di metodo, di intuizione-invenzione). A sua volta, la Relazione fa tutt’uno con i vissuti emotivo e affettivi: con i modelli etico sociali e valoriali che danno senso e significato ai tempi e ai luoghi della vita scolastica. 2.2. L’agguato paventato da Riccardo Massa è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ la Controriforma/killer della Gelmini che sta dissanguando le vene sia della Conoscenza, sia della Relazione. 12 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguati La sua Controriforma è colpevole di gettare la scuola in due zone notte. (a) Nella prima zona notte si spegne la luce e si lascia al buio tutto ciò che sta oltrela-siepe della singola materia scolastica, con il risultato fallimentare di cancellare l’apporto dei saperi trasversali (interdisciplinari) dei curricoli formativi. Nell’odierna stagione dell’omologazione-stardardizzazione dei saperi e della semplificazione delle conoscenze complesse, la Controriforma della Gelmini appare “miope” perché non accende mai disco-verde all’interdisciplinarità. Itinerario di apprendimento - questo - durante il quale la mente si esercita a produrre nuove competenze cognitive, intese come libertà e autonomia intellettuale, pensiero critico e creativo. (b) Nella seconda zona notte si spegne la luce e si lascia al buio la dimensione affettiva ed emotiva degli allievi. Nel radar della Destra al governo non c’è traccia di una scuola intesa come spazio-di-relazione, dove sia possibile cogliere e decifrare il cuore del mondo infantile e giovanile. Con il risultato fallimentare (il non sapere ascoltare e dialogare con gli alunni) di spezzare il filo che annoda socializzazione e alfabetizzazione, relazione e conoscenza. Sono “coppie” educative in cordata. Se cade l’una, cade anche l’altra. Rimuovere il versante delle dinamiche relazionali che si producono in classe significa esprimere indifferenza nei confronti del traffico interattivo che circola negli spazi della scuola, che vanno riforniti di elevati coefficienti di flessibilità e di modularità, quindi di vissuti non-autoritari e non-direttivi. Questo è possibile se il plesso scolastico apparecchia i propri luoghi didattici quali punti-di-incontro di una ricca trama di relazioni socioaffettive (frutto di aggregazione-disaggregazione-riaggregazione di piccoli, medi e grandi gruppi) ed etico-valoriali (frutto di esperienze concretamente “vissute”, cosparse di amicizia, disponibilità, responsabilità, impegno, solidarietà, cooperazione). *Direttore Centro Interdipartimentale di Ricerche Educative Alma Mater Studiorum, Università di Bologna Nota bibliografica Dal prestigioso scaffale di studi pedagogici di Riccardo Massa, ci piace ricordare: - La scienza pedagogica : epistemologia e metodo educativo, La Nuova Italia, Firenze 1975; (a cura di, in coll. con P. Bertolini), - I bambini e la tv: la prima ricerca sull’esperienza televisiva dai 3 ai 6 anni, Feltrinelli, Milano 1976; - L’ educazione extrascolastica, La Nuova Italia, Firenze 1977; - Le tecniche e i corpi: verso una scienza dell’educazione, Unicopli, Milano 1983; - L’ adolescenza: immagine e trattamento, Franco Angeli, Milano 1988; - (a cura di), La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano 1988; - Linee di fuga: l’avventura nella formazione umana, La Nuova Italia, Firenze 1989; - (a cura di, in coll. con D. Demetrio), Le vite normali: una ricerca sulle storie di formazione dei giovani, Unicopli, Milano 1991; - (a cura di), Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Laterza, Bari 1994; - La migrazione educativa: extracomunitari e formazione, Unicopli, Milano1994; - (a cura di), Imparare errando: la formazione professionale degli extracomunitari in Europa, Cuem, Milano 1996; - Cambiare la scuola: educare o istruire? Laterza, Bari, 1997. Dossier 13 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola Altre vie. Una scuola oltre l’ovvio La bellezza e la tragedia della scuola sta proprio in questa tensione tra l’inevitabilità dell’omologazione dei soggetti rispetto a logiche eteronome rispetto alla pedagogia e l’impulso a un sovvertimento di queste logiche in funzione dell’aspetto critico di ogni sapere. Tenere aperta questa dialettica è lo scopo della scuola oggi, il suo mandato politico e l’aspetto ancora perdurante del suo valore di emancipazione. Raffaele Mantegazza* E’ oramai ovvio che nulla riguardo all’arte è più ovvio; ovvio non è nemmeno il suo diritto all’esistenza. Teodor W. Adorno Se l’ovvio è ciò che si trova per la via, ciò che ogni giorno incontriamo nella nostra quotidianità, ciò che ci appare tanto scontato da sembrare quasi far parte del paesaggio e dello sfondo, allora la scuola non è mai stata ovvia; il suo successo formativo, la sua forza e il suo fascino consistevano proprio nel sottrarsi all’ovvio, nel proporre nuovi percorsi, nuove vie, nel non ripetere l’acquisito. Se l’inizio della filosofia è lo stupore, allora la mancanza di ovvietà della scuola provvede da sempre quel sano stupore che l’esterno non sa suscitare, o perlomeno provvede un altro stupore, che non si trova altrove. Il bambino e la bambina incontrano a scuola elementi di novità tali da convincerli che vale la pena trascorrere in quella istituzione qualche ora ogni giorno; perché quello che davvero dovrebbe produrre la scuola è una nuova visione del mondo, e lo può fare solamente se riesce a costruire un mondo dentro il mondo, un mondo non ovvio e non scontato; in questo essa è simile al gioco e al teatro, che costruiscono un mondo differente e altro rispetto alla quotidianità. Ma la perdita di ovvietà, in questo periodo storico che per la scuola rischia di essere davvero decisivo, ci sembra assumere un tono differente; sembra infatti che la scuola si appresti a diventare superflua, che la diagnosi su di essa si possa muovere nella direzione della frase di Adorno riportata sopra: la scuola non è più ovvia perché se ne mette in dubbio il diritto ad esistere. Se la soubrette Sandra Mondaini si permette di affermare “posso dire con orgoglio di non avere mai studiato un solo giorno”; se il cantante Enrico Ruggeri afferma che “non ha senso alzarsi alle 7 del mattino per andare a dire signorsì”, se abbiamo sentito con le nostre orecchie un ispettore ministeriale dire ai ragazzi di una classe III media “non studiate troppo perché negli Stati Uniti hanno aperto un manicomio per i primi della classe”, se un dirigente di una associazione di industriali può dire senza pudore alla radio che “per poter lavorare non serve il voto di laurea alto, basta accettare qualsiasi 18 e poi laurearsi in fretta”, tutto questo significa che alla scuola sta accadendo qualcosa di inedito: essa deve giustificare il suo stesso diritto all’esistenza. 14 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovvio E’ finita allora anzitutto l’ovvietà di una scuola che incontra il consenso sociale Una studentessa statunitense che da una classe sociale bassa accedeva all’Università poteva ancora pensare, 60 anni fa: “I miei nonni non sapevano né leggere né scrivere. I loro padri nemmeno. Una delle mie zie pure. I miei genitori non hanno frequentato le elementari e io le superiori. Ciò nonostante ecco che io, Frances K. Nolan, seguirò dei corsi all’università. Capisci, Francie? Frequenti l’università! Oddio mi sento male”1. Oggi non sembra che la scuola fornisca più il carburante per i sogni di promozione sociale. Occorre anzitutto dire che questa visione è viziata di eurocentrismo; tra i popoli del sud e centroamerica ,come dell’Africa, l’associazione tra scuola ed emancipazione politica e sociale è ancora presente, forse anche più che in altre stagioni; e del resto l’Islam basa gran parte della sua forza su un rapporto pedagogico che nelle madrase e nelle scuole coraniche viene sviluppato anche sul piano sociale e politico; ma è vero che in Occidente il valore di emancipazione della scuola e della cultura è molto relativizzato, dalle famiglie, dai ragazzi e dalle ragazze, spesso dagli stessi insegnanti. E’ finita anche l’ovvietà di una scuola indispensabile, di un appuntamento cruciale per la storia personale e soprattutto professionale dei singoli: la scuola può anche essere bypassata, dal momento che le competenze fondamentali che la società richiede e che il mercato del lavoro seleziona e premia non sono quelle che si imparano tra i banchi; anzi, sembra che lo spirito critico, l’approfondimento, la capacità di discernimento che la scuola – quando funziona - offre ai suoi ragazzi siano qualità di disturbo, elementi del tutto irrilevanti per un mercato del lavoro che solo a parole premia gli spiriti indipendenti e critici, ma che nei fatti predilige spesso spiriti ottusi e obbedienti. La scuola allora potrebbe non servire più: potrebbe essere utilmente sostituita dai servizi a domanda individuale, meglio se a distanza e forniti attraverso quel nuovo Moloch che è il computer, oppure da corsi gestiti in prima persona dalle aziende che sanno benissimo che cosa serve ai giovani lavoratori/trici per inserirsi nel mercato del lavoro. Una delle ipotesi di fine dell’esperienza dell’Università è questa: un servizio a diretto contatto con le aziende, che selezionano personale e contenuti e soprattutto tipologie di processi formativi; e non siamo sicuri che a tutti coloro che attualmente vi insegnano questa soluzione appaia così negativa. Infine sembra essere finita l’ovvietà di una scuola omogenea: sia a livello di composizione delle classi, sia a livello di curricolo, sia a livello di distribuzione territoriale. Se è buffo che solo l’immigrazione o la disabilità fanno riscoprire alla scuola l’ovvietà di una cosiddetta didattica individualizzata (come se la didattica non fosse di per sé rivolta sempre e comunque al singolo, raggiunto semmai attraverso la classe), è anche vero che i soggetti che entrano nel territorio scolastico sono portatori di differenze di grado molto più elevato di quanto non lo fossero i loro coetanei anche solo due decenni fa. Resta da capire se le differenze ci fossero anche allora e semplicemente fossero ignorate da una scuola che riteneva talmente ovvi i 1 Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn, (1943), 2007, Neri Pozza Dossier 15 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovvio propri dispositivi da non guardare neppure in faccia i propri utenti, ma è innegabile che a scuola oggi entrano volti diversi. Si badi bene: questo accade non solo per la presenza dei ragazzi e delle ragazze provenienti da altre culture ma anche per il fatto che sempre più ragazzi e ragazze vogliono che la scuola li accetti “così come sono” e portano in classe elementi di differenziazione e di individualizzazione che di solito ne rimanevano fuori: elastici delle mutande fuori dai pantaloni piuttosto che sigarette da fumare all’intervallo, sempre più microelementi di identità esterna fanno il loro ingresso in aula. Ma la scuola perde la sua omogeneità anche a livello territoriale e curricolare; forse è salutare avere capito che non tutto nella scuola può essere deciso e stabilito a monte e che occorre sempre declinare qualunque scelta didattica e pedagogica a partire dalla situazione concreta e locale, ma quello che ci sembra affermarsi, lungi dall’essere un reale decentramento, è una frammentazione della scuola, una sua balcanizzazione. L’antistatalismo così di moda – che forse non si rende conto (o forse sì) che i territori abbandonati dallo Stato vengono immediatamente colonizzati dal Mercato che certo non ha gli ammortizzatori e gli elementi di democraticità che il primo, seppur in modo imperfetto, mette comunque a disposizione - prevede che la scuola statale semplicemente cessi di esistere lasciando il campo alla finzione di un sistema misto, fatto di voucher e di buoni scuola, nel quale con la menzogna della “libera scelta” ogni famiglia, e poi ogni ragazzo e ragazza, sarà in grado di costruirsi una propria scuola personale. Una scuola che perde le tre ovvietà di cui abbiamo detto sopra è dunque una scuola omologante (avendo rinunciato al proprio ruolo di emancipazione sociale), una scuola inutile (avendo accettato il dogma secondo il quale gli unici saperi degni di essere insegnati e acquisiti si insegnano e si acquisiscono lontano dai banchi delle aule), una scuola puzzle (avendo abdicato a qualunque ruolo di reale controllo e programmazione centralizzata o semplicemente più ampia rispetto al mero localismo). Crediamo che la scuola sbagli se si pone di traverso, mettendosi sulla difensiva rispetto a queste perdite di ovvietà (e dunque anche di innocenza: mai come ora la scuola deve assumere tutto il peso della sua non-neutralità e della sua politicità); crediamo invece che scuola che voglia essere all’altezza dei tempi debba attaccare, mettersi in gioco con un elevato tono “muscolare” (non il muscolo del guerriero ma quello dell’atleta) e lo può fare solo se, imparando la lezione di Moni Ovadia a proposito degli stereotipi antigiudaici, impara ad abitare dall’interno i pregiudizi nei suoi confronti e le rappresentazioni che ne vengono date. E allora, sì, la scuola è un fattore di omologazione, lo è sempre stato, è nato per quello; la scuola nasce come veicolo di trasmissione dei saperi dominanti in una società che la utilizza per riprodurre i soggetti umani dei quali ha bisogno per perpetuare le sue categorie; ma essa nasce anche dall’idea di una universalizzazione dei diritti, di una educabilità universale dell’essere umano, di un esercizio dello spirito critico che si mette immediatamente in tensione con il mandato istituzionale sopra ricordato. La bellezza e la tragedia della scuola stanno proprio in questa tensione tra l’inevitabilità dell’omologazione dei soggetti rispetto a logiche eteronome nei 16 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovvio confronti alla pedagogia e l’impulso a un sovvertimento di queste logiche in funzione dell’aspetto critico di ogni sapere. Tenere aperta questa dialettica è lo scopo della scuola oggi, il suo mandato politico e l’aspetto ancora perdurante del suo valore di emancipazione. Una scuola che neghi il proprio mandato istituzionale si suicida; una scuola che lo fa proprio in modo acritico e irriflesso è davvero inutile e superflua. Una scuola che lo assume fino in fondo mostrandone i limiti e le aporie è una scuola non più ovvia: ma una scuola siffatta è possibile solamente in un regime democratico, “una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione”2. In questo senso, per quello che riguarda la discussione attorno ai temi fondamentali della vita umana (si pensi alla generatività, alla nascita, alla sessualità, alla morte), ci sembra ovvio ribadire che una democrazia (e una scuola democratica) può solamente essere relativista; non nel senso di ignorare o di schernire la ricerca della verità ultima che ogni soggetto è libero di portare avanti a seconda della sua fede o ideologia, ma nel senso di non trattenere per sé e di non privilegiare nessuna risposta alla questione della verità: la democrazia è scettica perché questa è la sola posizione che permette realmente a tutte le risposte possibili di confrontarsi e di convivere; pretendere l’avallo dello Stato o della politica alle proprie posizioni dottrinali rendendole obbligatorie per tutti è un atto di violenza intollerabile e costituisce il vero discrimine tra il fedele, che rivendica giustamente uno spazio nel quale professare liberamente la sua fede e cercare individualmente o come collettività di convincere gli altri e le altre, e il fondamentalista che si affida al braccio secolare – che tanto dice di disprezzare - per operare quelle conversioni (spesso esteriori e di maniera, per fortuna!) che forse non è più in grado di realizzare. In questo senso allora l’unica forma di omologazione per una società democratica è la non-omologazione, l’educazione ad inserirsi nel processo democratico come attori critici pronti a modificarne le strutture quando queste non rispondono più ai loro stessi principi. E certo, la scuola è inutile: perché si sottrae alla perniciosa gerarchia dell’utile e dell’inutile, misurati sempre con il metro del profitto, e introduce altri elementi di giudizio, basati sul piacere dello studio e sulla profondità dell’apprendimento, sulla socialità e sulla critica. La scuola, come del resto la formazione nel suo complesso, è una creazione del tutto umana, ha carattere artificiale: non deve mai essere concepita come evento naturale, come qualcosa che accade comunque e che bisogna lasciar accadere senza interferire, come una specie di legge di natura. Le scuole le abbiamo inventate noi, avremmo anche potuto non farlo, nessuno ci ha obbligati. Ma già che ci sono demarchiamole dallo spazio-tempo del quotidiano, rendiamole un’esperienza qualitativamente altra, qualitativamente unica. In questo senso, da un punto di vista produttivista, le scuole non servono a niente. Solo a formare, a 2 John Dewey, Democrazia e educazione, Milano, Sansoni 2004, pag. 96 Dossier 17 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/altre_vie_Una_scuola_oltre_l’ovvio giocare il rituale della formazione, a soffermarsi su oggetti desueti e fuori moda, a far compiere l’esperienza decisiva della profondità, della pazienza, della critica, della socializzazione del sapere, esperienza che i ragazzi e le ragazze non potrebbero compiere altrove. E infine, certo, la scuola è disomogenea; non nel senso che rifiuta l’idea di programmazione ma nel senso che ogni acquisizione didattica, ogni scelta pedagogica, ogni strumento per insegnare devono trovare la loro legittimazione nel faccia a faccia quotidiano con il singolo ragazzo o la singola ragazza perché, nonostante le enfasi sui gruppi, l’educazione è sempre un faccia-a-faccia, un corpo-a-corpo, una questione che riguarda una persona posta di fronte a un’altra persona. E come la giustizia nei tribunali è rappresentata con la benda sugli occhi perché non vuole vedere le condizioni di partenza dei soggetti ma li giudica, ascolta con attenzione le storie dei testimoni e degli imputati, così nelle scuole entra chiunque (con buona pace di chi ha avanzato la proposta criminale di negare il diritto allo studio ai figli degli immigrati), ma non in quanto “soggetti umani” ma in quanto Barbara e Debora, Muhamedd e Aaron, il ragazzino brufoloso di sedici anni di Quarto Oggiaro e la bambina di Palermo con l’apparecchio nei denti. E dunque una scuola all’altezza dei tempi, una scuola non ovvia, è ancora una scuola che emancipa, che serve, che è omogenea: emancipa rispetto al vuoto verbo del consumo e del mercato, insegnando la pazienza dei riti desueti (l’ascolto, la cura, la critica, l’attenzione, l’uso del tempo); serve a una democrazia che non vuole essere travolta dalle spinte neo-tribali e dal piatto universalismo della merce; è omogenea perché crede che ogni soggetto umano, in qualunque angolo del mondo, possieda il diritto all’emancipazione attraverso lo studio e che godendo di questo diritto riesce a completare la sua dimensione umana, il suo dialettico e mai concluso percorso di esodo dall’animalità. Per questo occorre tenere aperte le scuole; perché non è più ovvio il motivo per il quale dovrebbero esistere, in un mondo nel quale è ovvia la rapina nei confronti dei deboli, la violenza sugli inermi, la voce urlata e gutturale di chi possiede la forza ma non la ragione. *Docente di pedagogia generale e sociale Facoltà di scienze della formazione, Università Bicocca Milano 18 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola La scena educativa Troppo spesso ci si sforza di mappare l’immaginario della scuola, cercando di trarre indicazioni e offrire segnali pedagogici reinterpretando i caratteri salienti di questa mappa. Forse si tratta, invece, di rischiare una differente sperimentazione del territorio anziché orientare lo sguardo sulla mappa. Si tratta di diventare attori di un’esplorazione che osservi lo spazio vuoto non come qualcosa da riempire di segni, ma qualcosa che va ascoltato anche se ciò che sentiamo è molto simile al silenzio siderale dei corridoi del liceo di Colombine Francesco Cappa* La scuola è un palcoscenico della vita. Le metafore sono la parte viva della lingua e questa vitalità permette alla realtà di assumere nuovi significati, più o meno prevedibili. A volte le metafore si comportano addirittura come sentinelle e grazie ai loro rapidi spostamenti di significato ci avvisano di quello che nella realtà sta cambiando. Dire che la scuola è un palcoscenico della vita dovrebbe mettere d’accordo tutti: genitori, studenti, insegnanti, dirigenti e operatori scolastici, e in questo modo ridare vitalità a un’esperienza, quella scolastica, quasi sempre bistrattata e mortificata. E invece in una metafora così apparentemente pacifica, oggi, va ravvisata una sottile e permanente minaccia al significato e al senso che dovremmo cercare di attribuire alla scuola. Scrivo “dovremmo” poiché credo che questa metafora venga molto spesso mal interpretata. Il suo primo significato, anziché indicare la costruzione di una scuola come “scena”, sembra aver vertiginosamente virato verso l’idea di una scuola come “ribalta”, nella quale la profondità del palcoscenico teatrale è stata quasi azzerata dalla bidimensionalità virtuale della ribalta televisiva. Non è una mera questione di termini e per questo richiede un attenzione particolare. Non si tratta qui di rinvigorire l’ormai trita denuncia della volgarizzazione progressiva che la cultura televisiva ha portato ovunque, specie nella storia italiana recente. Se le metafore sono la parte viva della lingua, la televisione ha detronizzato certi privilegi linguistici della cultura elitaria e ha confuso le carte della cultura ‘alta’ con le ragioni, a volte brutali, della vita diffusa. La questione è, appunto, un’altra, anche se fino a un certo punto, ovviamente e potrebbe essere posta in questi termini: qual è il modello formativo latente, che ha animato l’esperienza scolastica recente guidata “dalla bontà e dalla verità” della metafora della scuola come ribalta? La domanda non è né retorica né metaforica, ma riguarda direttamente la forma che la scuola ha preso di recente e, forse ancora di più, quella che le si vorrebbe dare nell’immediato futuro. La lingua contiene una tale quantità di informazioni sulla realtà passata e spesso anche su quella a venire, che vale sempre la pena di darle ascolto. Per “ribalta” si intende una lunga tavola di legno fissata con cerniere al proscenio, che, se ribaltata, impedisce alle luce di proscenio di illuminare la scena. La questione in fondo sta già tutta in questa scarna definizione: la ribalta occulta la scena. Se si prova ad Dossier 19 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa approfondire i caratteri e gli impliciti di questo, apparentemente funzionale, occultamento si comprende che non è solo una questione di termini. Se la scuola viene vissuta e interpretata come una ribalta ne discendono alcune conseguenze che riguardano sia chi sta nei banchi che chi siede dietro o davanti alla cattedra. Se vale la metafora della ribalta si presuppone che ciò che viene notato, annotato e valutato è solo ciò che avviene in primissimo piano. La luce da captare, per chi frequenta la scuola e i suoi spazi, è solo quella del proscenio che impedisce, però, di illuminare la scena con chi ci sta, con quel che c’è, con la sua profondità, con le zone d’ombra che riguardano sia lo spazio esteriore che circonda ognuno sia quello interiore che ognuno custodisce e coltiva per sé. Se la scuola è una ribalta quello che viene privilegiato sarà il campo dell’espressione in sé (e non tanto “di sé”) e non quello che potremmo chiamare il campo affettivo, che continuamente misura l’espressione di sé con l’intreccio di tutte le dimensione materiali e immaginarie che caratterizzano l’esperienza educativa e formativa di ognuno. Se quel che conta è l’espressione in sé quello che avrà valore e per cui ci si deve impegnare sarà la performance in sé. Oggi è sempre più difficile rinvenire i significati che il contenuto e la forma dell’azione scolastica assumono nel rapporto con i desideri, con le esigenze specifiche, con la sperimentazione dei propri limiti e l’elaborazione dei propri disagi sia degli studenti che degli insegnanti. La scuola come ribalta ci insegna che questi significati vanno interpretati e rinvenuti orientando lo sguardo verso l’immagine che ognuno dà di sé e non sulla responsabilità rispetto a quel che si fa e si è. L’ultimo dei paradossi formativi alla moda è un effetto dei reality show, denigrati da tutti e seguiti da quasi tutti. È nata la Sii te stesso School: “conosci te stesso”, esortava l’oracolo di Delfi; oggi si traduce, maldestramente, quello che era un monito oltre che un’indicazione con “sii te stesso”. Da questa esigenza nell’era dello spettacolo generalizzato è nata la Reality Tv School di New York, diretta dall’insegnante e attore Robert Galinsky. Come ha scritto Tim Black su spiked-online.com, i reality richiedono di recitare ma non come negli sceneggiati, nei film o in teatro. “Mentre un attore professionista si sforza di perdere se stesso per calarsi nel ruolo, i partecipanti dei reality sono in cerca di un’identità da presentare nel modo più vistoso possibile. La capacità di dissimulazione – essenziale in un attore – risulta controproducente. ‘Essere se stessi’ quindi per resistere all’inautenticità. In contrasto con un mondo in cui il lavoro non è appagante e i rapporti sociali in decadimento, l’esibizione di sé diventa un surrogato della realtà”. Ecco il segreto del successo della scuola di Galinsky. L’immagine (ideale?) di quel che ancora non siamo viene esteriorizzata fino quasi ad esternalizzarla, come fossimo aziende di noi stessi, delegando la responsabilità delle nostre azioni ad altri, anziché essere cercata ed eventualmente “guadagnata” da una risonanza interiore che certo parte sempre da un effetto del ‘fuori’. In questo modo molto spesso a scuola si privilegia il fatto che lo studente “deve” riuscire a esprimere, prima di tutto (se stesso o quel che gli accade a scuola), piuttosto che apprendere, conoscere, sperimentare la propria dimensione cognitiva e affettiva, attraverso quel rispecchiamento perverso che la scuola da sempre offre 20 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa appena fuori dalle mura materiali della propria casa e dalle mura immateriali della propria famiglia. Nella scuola-ribalta si ottiene un risultato “valutabile” che mostra lo studente impegnato in una cattiva mimesi anziché in una rischiosa interpretazione. Da questo punto di vista il modello delle trasmissioni della De Filippi docet: le varie “Saranno famosi” e simili hanno fatto dell’espressione di sé per cattiva mimesi (nel segno del talento) un vero e proprio format pedagogico, che incrocia la più grezza disciplina con il sentimentalismo paternalistico e utilitaristico, una sorta di nuovo cottimo pedagogico. La performance è la misura di tutto ciò che vale. Essa viene interpretata perlopiù con categorie solo soggettive, ma viene anche portata ad un livello di oggettività e di valutabilità in virtù di un supposto sapere degli adulti di turno, legato alla performance stessa e non alla densità di quel che si sa, alla responsabilità rispetto a quel che si vuole “necessariamente” insegnare e imparare. Questo format educativo e formativo è molto più pervasivo di quel che a volte si pensa, tanto da far capolino nei non detti di decreti legge e di annunci mediatici, dove l’ottimizzazione dei costi e dei benefici segue anch’essa la logica della performance. Questo format, inoltre, è così pervasivo da instillare il dubbio persino nel corpo docente, che si ritrova pensosamente a cercare di intercettare le tecniche e i mezzi di un modello didattico televisivo che sembra motivare di più i ragazzi e offre criteri di valutazione “molto utili”. Finendo così, invece, per rincorrere il giovanilismo ed essere quindi doppiamente commiserati dai ragazzi che volevano sedurre. Piuttosto che rincorrerli il corpo docente dovrebbe cercare di portarli su un terreno comune differente dai modelli, molto potenti, già largamente disponibili fuori dalla scuola. In questa vana rincorsa anche l’eros pedagogico si trasforma in una precettistica, poiché viene giocato nella performance del docente in modo così esplicito e ammiccante da non conservare nemmeno un po’ di quel coefficiente “erotico” che è uno dei combustibili più preziosi per spostare l’affettività dalle persone – che formano, insegnano – e dall’esclusività della relazione in sé verso le attività, le pratiche e i saperi che si animano nella scena scolastica. La questione non è riducibile alle solite invettive contro le peggiori conseguenze della società dello spettacolo che oggi, come aveva ben visto Guy Debord trent’anni fa, domina capillarmente gli aspetti anche più intimi della nostra esperienza seguendo la passione più economica di tutte: il divenir merce del mondo e della vita di chi lo abita. Piuttosto si dovrebbe riflettere meglio sulle condizioni strutturali che rendono possibili certe interpretazioni – vale qui ancora la metafora teatrale – nella scuola e della scuola. Dobbiamo prenderci cura dell’interpretazione che studenti e docenti possono offrire nello spazio dell’esperienza formativa, che è cosa diversa dall’affrontare i problemi che la complessità di questo spazio mette in campo dalla prospettiva dei ruoli che non tengono più la scena. La questione riguarda precisamente le condizioni di possibilità che rendono attuabile la sperimentazione di certe interpretazioni e non di altre, che danno l’opportunità di rielaborare la propria interpretazione dei contenuti e delle forme presenti nella scuola. Queste condizio- Dossier 21 Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/leichter 22 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa ni di possibilità dell’esperienza educativa riguardano il setting e il dispositivo della scuola. Riflettere sul setting scolastico aiuta a pensare la formazione e l’educazione come un dispositivo, come scriveva Riccardo Massa in un testo di una decina d’anni fa intitolato Cambiare la scuola, ancora attualissimo. Perché nella scuola la questione del setting sembra completamente rimossa e viene barattata con le solite banalità sulla “disposizione” dei banchi e l’allestimento dei laboratori didattici. Il setting è qualcosa che riguarda l’assetto interno degli insegnanti e dei ragazzi, scriveva Massa, a partire da un insieme di regole che rendano possibili i ruoli reciproci, ma che ancor di più rendano formative le loro interpretazioni. L’importanza del setting fa capire bene perché sia necessario, per cambiare la forma della scuola, pensare la formazione come dispositivo. Il dispositivo è un sistema di procedure in atto, un congegno che crea pratiche specifiche e discorsi in cui i contenuti e la relazione vengono giocati all’interno di una certa strategia pedagogica. Se la formazione è un dispositivo, la scuola non può essere interpretata come una ribalta, ma deve essere pensata e praticata come una scena. Una scena in cui si istituisce un campo di esperienza materiale e simbolica, in cui ci sia una relazione e una comunicazione orientata educativamente, in modo da evitare che l’educazione, la formazione, l’insegnamento si limiti ad essere un atto in sé, una performance in sé. Se l’azione formativa è orientata da un’idea di scuola come ribalta, la performance avrà la meglio sull’interpretazione: l’esperienza della ribalta mostrerà una serie sconnessa di “sfide”, azioni esteriori, frammentate, molto consone al canone performativo della diretta televisiva, dell’esecuzione in tempo reale. La performance scolastica cercherà dunque di istituire una comunicazione e una relazione con i contenuti (le discipline, le materie) tutta impregnata di persuasione immanente, senza sbavature, ma senza possibilità di verificare i punti di consistenza di quel che si dice, di quel che si fa, in modo da potersi smentire appena dopo aver commesso il fatto senza il pericolo di subire immediati smascheramenti. La scuola come scena, invece, invita a sperimentare la profondità della comunicazione che modifica i contenuti, costringe ognuno a domandarsi che cosa hanno a che fare con me le cose che sto conoscendo, che sto comunicando, il modo in cui le sto conoscendo e comunicando, i limiti e le opportunità di questa conoscenza e di questa comunicazione nello spazio e nel tempo della scena scolastica, consentendo anche di criticarne l’inadeguatezza. La scena produce un effetto alone sui contenuti e le forme della scuola, rende visibili e percepibili le zone d’ombra dell’esperienza che ognuno vive a scuola, immergendo in una tridimensionalità, in una profondità di campo e in una densità del tempo che sono molto lontane dalla ripresa televisiva della nostra realtà. Così nella scena scolastica l’interpretazione viene sorretta dalla profondità e la performance, che comunque si dà, non può però puntare tutto sulla capacità di “bucare lo schermo” dell’indifferenza propria e altrui. L’immagine che si “produce” attraverso l’interpretazione che ognuno offre a scuola è importante, ma chiama a una responsabilità che ci supera e che riguarda Dossier 23 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa il dispositivo pedagogico nel quale siamo immersi. Siamo responsabili insieme agli altri che occupano con noi la scena “creata” dalla nostra azione e dagli effetti che il setting può avere sulla scena stessa. Non siamo padroni del campo affettivo che la scena allestisce, la scuola dovrebbe piuttosto essere un “teatro senza autore”, scriveva ancora Massa. Un teatro in cui la rappresentazione ha perso il suo potere simbolico, identificante e in cui gli attori materiali e immateriali vanno compresi nelle relazioni che il dispositivo della scuola continua a mettere in scena anche se simbolicamente è collassato. Una scena quindi che permetta di sperimentare l’attraversamento del campo affettivo invece di rappresentare l’affettività, che sia in grado quindi di offrire una elaborazione affettiva e cognitiva di secondo livello delle rappresentazioni di tutte le altre realtà sociali che i soggetti, studenti e docenti, attraversano. Una scena che segni una differenza specifica rispetto a tutte le altre rappresentazioni, nella quale il protagonismo e la competizione (tipici di una scuola-ribalta) si mostrino per quello che sono, ossia effetti possibili del dispositivo scolastico e che non vengano scambiati per fini, ma intesi e sperimentati come mezzi. La questione di come far luce sulla scena educativa e non solo sulle sue ribalte anche mediatiche è una questione essenziale, anzi è una questione strutturale, che riguarda precisamente qualcosa che non si vede in superficie e che però rende la scuola quello che è, nel bene e nel male. Le questioni strutturali, quando di rado emergono nei discorsi, vengono immediatamente considerate noiose, soprattutto dai media, o legate a logiche ormai anacronistiche. Questo rifiuto riguarda il fatto che le questioni strutturali non hanno le caratteristiche tipiche di ciò che prende la ribalta, qualità di immediata visibilità che bucano l’affollamento del mare di notizie e di precetti morali minimi nel quale siamo quotidianamente immersi, anche nostro malgrado. La ribalta impone una falsa priorità dell’informazione che prende tutto il campo della comunicazione, rendendo così invisibile, irreperibile quella profondità della scena scolastica, con i suoi molteplici piani di fuoco, con l’intreccio di fattori materiali e immateriali che generano il “fatto” prima che si trasformi in notizia, in breaking news. Pensare la scuola come scena educativa ci consente di porre in luce i “fatti” che la scuola produce piuttosto che impegnare i nostri pensieri e i nostri discorsi sulle notizie che ci arrivano dal fronte scolastico. Come se la scuola diventasse reale e potesse produrre fatti solo quando assume su di sé le caratteristiche di un luogo di conflitto, quando somiglia alla striscia di Gaza, identificandosi così con il luogo di un conflitto irrisolvibile, luogo in cui le cause del conflitto sono avvolte da un’indecidibilità che si annoda con l’incertezza dei fatti stessi e della loro “corretta” interpretazione. In questo modo la questione dei fattori strutturali della scuola viene continuamente rimossa. Sono invece questi fattori che vanno illuminati, nella scena educativa essi trovano modo di essere assunti come contenuti da rielaborare, possono essere trasformati, considerati nello loro relazioni reciproche. È sulla scena educativa, quello spazio d’azione drammatica che arriva fino alle “quinte” di ogni 24 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa istituzione, organizzazione, istituto, che si muovono i corpi materiali e immaginari degli studenti e dei docenti. La ribalta appiattisce questi corpi riducendoli alla loro semplice presa emozionale, li rende automi pronti a declamare monologhi ad effetto con retoriche da comizio, esecutori impeccabili indistintamente di scene-madre, di siparietti da cabaret o di intrattenimenti da navi da crociera. Sulla scena educativa, invece, questi corpi indicano con la loro presenza una profondità dell’esperienza che non è riducibile alla performance del momento. Una profondità data dall’intreccio di sguardi reciproci, dalla consistenza di ciò che non si vede immediatamente se si osserva solo la ribalta, dalle latenze di un’esperienza scolastica fatta di piccoli ma significativi gesti, di pratiche attente e consapevoli più che di estatici istrionismi e di colpi di teatro estemporanei, sia dei docenti che degli studenti. La scena educativa è il luogo di questa profondità che indica per contrasto la superficialità di ogni performance scolastica. La scena educativa propone l’attraversamento di un campo affettivo da valorizzare a partire dall’esperienza concreta di chi vive nella scuola e la anima tutti i giorni. Una scena capace di rendere più consapevole la presenza di chi fa e di chi osserva là dove, invece, la ribalta educativa costringe ogni presenza nell’angolo angusto di un ascolto captivo ma distratto, paraipnotico come quello del teleutente o del consumatore coatto della propria formazione. Quel che conta nell’esperienza della scena educativa è l’incontro con un corpo immaginario che fa leva sul corpo reale e materiale degli studenti e dei docenti. Questo corpo immaginario è fatto dei desideri degli attori che si muovono sulla scena, dei fantasmi che agitano le loro azioni e guidano le loro relazioni, relazioni mediate dal corpus spesso e solido dei saperi e delle competenze. È questo corpo immaginario che oggi sempre più ingombra la scena, tanto da aver ormai scalzato il valore simbolico che la scuola aveva ancora vent’anni fa e che può voler essere resuscitato solo da chi ha nostalgia non tanto dei valori ma solo di certi valori. È la presa di contatto con questo corpo immaginario che può trasformare la forma-scuola e tramutare un luogo qualunque in una scena educativamente attiva. Questa scena non si attiva se e solo se c’è performance, ma se qualcosa di immaginario si rende presente, concreto e significativo per tutti, per chi forma e per chi è formato. L’attenzione per le potenzialità di un campo affettivo che caratterizzi l’esperienza educativa, nell’intreccio fra conoscenza e pratica, è qualcosa di più di un sfondo (integratore), di una teoria, di un’idea: è ciò che pensando alla scena che la scuola è o è stata, per ognuno di noi, non fa immediatamente venir voglia di fuggire. L’istituzione di questo campo affettivo – che rielabora l’esperienza degli “attori” scolastici proprio a partire dall’intreccio dell’esistenziale e del professionale, dell’azione del dispositivo e della reazione delle pratiche e dei vissuti individuali – è la dimensione residuale per eccellenza dalla quale partire per cambiare la forma della scuola. Troppo spesso ci si sforza di mappare l’immaginario della scuola, cercando di trarre indicazioni e offrire segnali pedagogici reinterpretando i caratteri salienti di questa mappa. Forse si tratta, invece, di rischiare una differente sperimentazione Dossier 25 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa del territorio anziché orientare lo sguardo sulla mappa. Si tratta di diventare attori di un’esplorazione che osservi lo spazio vuoto non come qualcosa da riempire di segni, ma qualcosa che va ascoltato anche se ciò che sentiamo è molto simile al silenzio siderale dei corridoi del liceo di Colombine, ripresi in modo eccezionale da Gus Van Sant nel suo film Elephant. Un’esplorazione che è allo stesso tempo una pratica, la messa in scena di una tattica e di un incontro che ci veda interessati a modelli e immagini che non possiamo ancora misurare e comparare con niente di consolidato, neppure con qualche idealtipo che guidi la nostra interpretazione dei fenomeni. Questa esplorazione del territorio scolastico a partire dall’esperienza di chi la scuola la fa o la “subisce” ha come conseguenza un potenziamento della dimestichezza degli attori con il dispositivo pedagogico in cui sono immersi. Ogni vera esplorazione porta l’uomo fuori-di-sé: la scena è proprio il luogo in cui l’uomo, fin dai tempi di Aristotele, sapeva di non essere “il soggetto della rappresentazione, piuttosto un esistente definito da un certo esser-fuori-di-sé, da una partecipazione a, o da una divisione della manifestazione come tale, cioè di ciò che mette qualcosa, in generale, fuor di sé”, ha scritto Nancy. Questo fa la scena, questo non è mai in grado di fare la ribalta, che rimanda sempre ad un’idea e ad un’immagine di sé falsificata dal mito dell’unicità e della pienezza narcisistica. Solo se consideriamo la scuola una scena (educativa, immaginaria), carica delle dimensioni del desiderio, del piacere, del potere che i saperi esercitano su di noi e sugli altri nell’alveo della relazione e della comunicazione, potremo partecipare attivamente a quell’esperienza pedagogica capace di trasformare i fantasmi di studenti e di docenti in vere presenze. *Esperto di Clinica della formazione, collabora con gli insegnanti di Educazione Estetica e di Pedagogia Generale presso l’università Bicocca Milano 26 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola Il benessere senza responsabilità. Alcune indicazioni educative Qualcosa non torna, all’educazione sta mancando qualcosa. Raziocinio ed emozioni, invece di coesistere, fanno a pugni, rompono le righe e invadono i confini della società civile. Non va bene. Tocca alla scuola sbrogliare la faccenda. E per farlo la scuola deve esplorare il malessere della società di cui è immagine ma, prima, deve interrogarsi sulla corrispettiva idea di benessere che questa stessa società si è costruita. Cristiana La Capria* Io ci sto dentro, alla scuola. A volte vorrei uscirne, confesso. Ma ci sto. Ecco perché sento di discutere di una questione necessaria per il destino che vorremmo assegnare alla funzione scolastica: l’educazione alla responsabilità. L’accostarsi di queste due parole dichiara un’alleanza tra due mondi che già si implicano a vicenda perché a scuola non posso educare senza definire il rispetto che il campo di relazione con l’altro mi richiede e, di rimando, non posso avvertire l’effetto del bagliore educativo senza che la coscienza abbia fatto esperienza della responsabilità. Eppure negli ultimi documenti istituzionali ritorna l’esigenza di specificare tale alleanza, invocata nelle circolari, nei documenti legislativi, negli articoli di giornale. Il che insospettisce, dato che insistere sulla necessità di unire due realtà significa che queste due realtà unite non sono, significa denunciare una generale fuga di impegno nel congiungere, senza confusione ovviamente, la dimensione dell’educare e del responsabilizzare che non è più scontata, ma va ribadita, esplicitata, sottolineata. Perché si stanno registrando troppi sintomi di fallimento educativo, si avverte un malessere diffuso a vari livelli del comportamento giovanile: violenze e abusi e maltrattamenti e depressioni e assunzioni di sedativi e alcol e rabbia inespressa e rabbia espressa e sindromi di iperattività e deficit di attenzione. Il malessere aumenta e diminuisce l’età di chi ne soffre. Qualcosa non torna, all’educazione sta mancando qualcosa. Raziocinio ed emozioni, invece di coesistere, fanno a pugni, rompono le righe e invadono i confini della società civile. Non va bene. Tocca alla scuola sbrogliare la faccenda. E per farlo la scuola deve esplorare il malessere della società di cui è immagine ma, prima, deve interrogarsi sulla corrispettiva idea di benessere che questa stessa società si è costruita. Quale benessere si insegue? Quale malessere ne deriva quando il tentativo di raggiungere il primo viene a fallire? Per trattare la questione sistemo questa riflessione in tre tempi: nel primo riporto un’analisi delle condizioni sociali della formazione oggi e dell’idea di benessere dominante; nel secondo tempo mi soffermo su alcuni documenti degli ultimi due ministri dell’istruzione che, in risposta a tale condizione sociale, richiamano la scuola a istruire e a educare in un certo modo; in ultimo propongo il resoconto di una sperimentazione progettata nella mia classe che vuole leggere il benessere e le sue conseguenze. Dossier 27 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative Il fast-food della formazione Non dimentichiamoci che l’educazione è inevitabile perché è “uno strumento della storia”: il punto, quindi, non è se farla o meno, ma come farla meglio, posto che si sappia cosa sia il meglio dentro al contesto in cui l’educazione avviene (De Giacinto 1977). Nel contesto di oggi l’accelerazione subita a seguito della diffusione dei sistemi di trasporto e di comunicazione, insieme ai fenomeni di trasmigrazione di popoli e di merci, rende cogente l’impatto di una globalizzazione di ordine economico, sociale e culturale sulle biografie individuali. La caduta di speranze lavorative a lungo termine determina una caduta della progettualità in ogni sfera dell’agire sociale; i propositi rubricati alla voce ‘quotidiano’ dilatano il presente sul piano professionale, residenziale e relazionale del cittadino globale. Si insegue il sapere perché funzionale all’aggiornamento delle competenze, che sono allergiche al lungo termine e ai punti di domanda complicati. Non formazione continua, quindi, ma informazione discontinua. Più di trent’anni fa Lyotard (1979) anticipò il futuro dell’identità dell’educazione e dei suoi responsabili nell’era dell’informatica quando non sarebbe più stato necessario tenere un corso tenuto “dalla viva voce di un professore”, perché siccome “le conoscenze sono traducibili in un linguaggio binario, la didattica può essere affidata a delle macchine”. Ma la pedagogia e i docenti - egli concludeva – non ne dovranno necessariamente soffrire perché bisognerà pur continuare a insegnare qualcosa agli studenti: non più i contenuti, ma l’uso dei terminali e, soprattutto, organizzare un nuovo tipo di domanda per ciò che si vuole sapere. “La domanda non è più: è vero? Ma: a cosa serve?” (Lyotard 2001). Si delinea così un quadro dove l’educazione si piega alla logica dell’utile. Non dissimile è la posizione di Bauman (2005) che associa la formazione all’immagine del ‘fast-food’: bocconi di sapere sono consumati in luoghi anonimi, in tempi ridotti e in sequenze disordinate per poi venire velocemente digeriti ed espulsi e fare posto a nuovi alimenti. Quindi dimenticare è utile per fare spazio a nuovi saperi da consumare secondo la meccanica di una memoria usa-e-getta. L’assenza di stabilità, essenziale a fare esperienza di qualsiasi relazione che sia significativa, mette in pericolo il senso di responsabilità, la capacità di rispondere all’altro in un processo che chiede tempo, impegno e spesso fatica. La cultura del consumo rapido costruisce l’idea di un benessere che non si preoccupa delle conseguenze: relazioni con tanti inizi senza un poi (La Capria 2008), professioni inventate senza lasciare seguito, informazioni accumulate senza farne esperienza. Se tutto vacilla senza appoggiarsi a legami né a reti sociali stabili, l’idea di benessere non può che rifugiarsi nella solitudine, nel solipsismo che insegue il piacere veloce da ottenere e da consumare. Questa è una delle idee di benessere dominanti nelle attuali società occidentali dove l’altro, spesso, è vissuto come un’esperienza di transito che possibilmente non lasci in eredità conseguenze scomode da gestire. 28 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative A scuola di responsabilità globale1 Se da un lato la quotidiana forza dei sistemi di comunicazione e di informazione elettronici ci rende vicino il distante e accorcia le distanze geografiche, dall’altro lato una maggiore quantità di contatti non vuole dire una migliore qualità delle relazioni. Anzi. Perciò è necessario imparare a leggere e collocare la portata degli eventi al livello planetario. E per “leggere” gli eventi si intende starci dentro e risponderne opportunamente. La questione etica, quindi, è stato uno dei concetti emergenti nel testo relativo alle nuove Indicazioni per il curricolo redatte sotto il ministero Fioroni. Si sostiene che la scuola debba svolgere una funzione di iniziazione, di mediazione e di preparazione al rapporto responsabile tra il singolo e la collettività, tra il microcosmo e il macrocosmo dello studente che impara che quanto accade nello spazio prossimo a sé ha effetti su spazi distanti da sé e viceversa. In questo senso Mauro Ceruti ritiene essenziale sviluppare nelle coscienze degli studenti e delle studentesse un senso di “responsabilità planetaria” (Bocchi, Ceruti 2004). Siamo parte del pianeta, lo influenziamo e ne siamo influenzati in modi complessi e complicati. Quindi bisogna provvedere a una istruzione capace di costruire mappe cognitive dinamiche per adattarsi alla discontinuità attuale. Il metodo che riduceva il complesso al semplice, non è più valido. Ora ai docenti è richiesto di articolare i percorsi e poi connetterli senza preparare soluzioni fisse e univoche. Il luogo dell’apprendimento non sta nella spedita elaborazione di dati, ma nella lenta creazione dell’itinerario di conoscenza, senza avere già pronta la pista di arrivo. La scuola, insomma, deve istruire complicando lo sguardo sul mondo e facilitando la comprensione di esso. Sul piano del sapere formale, quindi, è necessario fornire nodi di raccordo tra le varie discipline per aprire e moltiplicare i piani di conoscenza del pianeta. Sul piano del sapere relazionale, invece, la questione resta più complicata da maneggiare. La scuola, come Massa ha scritto a squarciagola (1998), oltre a istruire deve educare senza schizofrenie di sorta: i docenti non possono dimenticare di avere di fronte un soggetto che è chiamato ad imparare non solo i contenuti ma pure le forme di relazione più appropriate. E coniugare i due ambiti è difficile. Nel testo delle Indicazioni per il curricolo si è invocata spesso l’esigenza di “istruire educando” che è un richiamo appunto a tenere insieme l’educazione e l’istruzione al punto da fare dell’una il canale, il mezzo e il modo dell’altra: istruire per mezzo dell’educare, istruire mentre si educa, istruire attraverso l’educazione. Cioè non si confida solo nell’attendibilità delle tecniche, dei metodi e degli strumenti di lavoro oggettivi perché la dimensione dell’esperienza scolastica, sebbene area artificiale e appositamente appartata rispetto alla vita sociale, con essa comunica. Quindi deve fondarsi sull’etica. E, come sostiene Perticari (2001) ,“l’etica non si può esprimere” perché si riferisce a un sentire implicito a ogni agire e pensare e prevede sempre una relazione: io mi preoccupo dell’altro, del suo benessere, della sua cura. Tale sensibilità non è data dalla nascita, ma va stimolata, 1 La prima parte di questo paragrafo è una rielaborazione del seguente articolo: C. La Capria, (2008), Etica e responsabilità in www. laboratorioformazione.it Dossier 29 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative educata, aiutata a realizzarsi: il senso di responsabilità non rimane astratto ma si sviluppa dal concreto dell’esperienza dell’educando. Quindi l’espansione degli orizzonti dell’esperienza ai cinque continenti impone una amplificazione della veduta responsabile nell’agire dei soggetti in età di sviluppo. Preso atto di elenchi di eventi che ultimamente rimandano a forme sempre più sofisticate e quindi imprevedibili del bullismo e dei suoi derivati, si è ritenuto opportuno, sotto l’attuale ministero dell’istruzione Gelmini, di insistere sulla questione della responsabilità. Tra le varie modifiche affrettatamente apportate al funzionamento della scuola, sta l’inserimento della disciplina Cittadinanza e Costituzione, come a dire: prima di viaggiare nelle sfere internazionali della responsabilità, qui dobbiamo imparare le norme di convivenza civile dentro al nostro territorio. Indipendentemente dalle confuse indicazioni sui tempi, i modi e gli sfondi teorici necessari all’applicazione di tale disciplina, sarei interessata a ragionare sull’idea di responsabilità che solleva tale nuova legge. Quindi riporto un breve resoconto di una giornata di studio sul tema2 A partire dall’emanazione della Legge 169 dell’ottobre 2008 con cui viene, appunto, inserito l’insegnamento della disciplina Cittadinanza e Costituzione nella scuola primaria e secondaria di primo grado, sono state proposte, al livello accademico, delle prospettive di riflessione in merito al significato e alla funzione dell’educazione alla cittadinanza dentro al percorso formativo delle giovani generazioni. In linea generale tutti gli interventi, di cui vengono di seguito presentati i punti principali, condividono tutti due aspetti eminenti: 1) la disciplina Cittadinanza e Costituzione non è una ripetizione della precedente Educazione civica ma una sua innovazione e rielaborazione dovuta, principalmente, alla natura non più solo nazionale, ma europea e mondiale della funzione e dell’impegno richiesto dalla cittadinanza; 2) la dimensione interdisciplinare e trasversale del sapere implicato da Cittadinanza e Costituzione coinvolge contenuti e forme, istruzione ed educazione: non chiede solo la trasmissione di enunciati da memorizzare, ma ingloba l’intera esperienza umana, richiama gli aspetti cognitivi ma anche emotivi, sociali ed etici dello stare al mondo. Quindi non solo sapere e saper fare ma anche saper essere. Ethnos diversi convivono in forza di un ethos comune, ha detto Annamaria De Dominici, secondo cui la scuola, attraverso la disciplina di Cittadinanza e Costituzione, esplicita il suo compito di “palestra di democrazia” per i giovani, compito divenuto più gravoso negli ultimi tempi (le migrazioni, la trasformazioni sociali, il precariato economico) ma non per questo meno possibile: bisogna insegnare le regole del vivere e del convivere. Secondo Milena Santerini l’educare alla cittadinanza coincide con il com2 L’educazione alla cittadinanza nella formazione degli insegnanti - Seminario di studio del 15.12.2008 – Università Cattolica di Milano 30 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative pito stesso della formazione tout court; eppure, guardando alla storia dell’educazione, tale insegnamento risulta non ancora pienamente riuscito in nessuna parte del mondo; come a dire che tale disciplina, pur così indispensabile, non ha ancora raggiunto un suo statuto epistemologico essendo così ambiguamente impregnata di aspetti politici, sociali e culturali mai ben definiti. Sempre Santerini ricorda che la Circolare dell’11/12/2008 ha inteso specificare meglio che Cittadinanza e Costituzione vuole essere un insegnamento che trasforma la precedente Educazione civica, non la sostituisce. La trasforma perché non vuole essere solo un contenitore di ingiunzioni comportamentali: la disciplina, se pensata come semplice spazio disciplinare, sarà un fallimento perché ridotta a un elenco di articoli della Costituzione. L’educazione alla cittadinanza è compito dell’intero corpo docente, anche se l’incarico di sistematizzare il sapere lo ha il docente di Storia. Come se il docente di materie storiche costituisse una sorta di direttore di orchestra del senso etico dimostrato quotidianamente dagli altri colleghi. Posto che questa resta una questione assai problematica, qui conta sottolineare l’esigenza di rendere fondante nella scuola l’insegnamento della responsabilità e delle sue origini storiche in Italia. Non solo teoria, quindi, anzi. Giuseppe Bertagna ricorda che vi è sempre un “curricolo nascosto” che vibra tra i banchi di scuola ed è fatto dalla condotta e dallo stile etico adottato da tutti i docenti di quella scuola, dal clima relazionale che si respira in classe. Queste sono note invisibili che si apprendono con molta più facilità da parte degli alunni che non le parole stampate su di un libro. La cittadinanza, tuttavia, non crea di per sé i cittadini e la loro convivenza, così come la legge non crea la morale. Semmai è il contrario: è la convivenza che dà luce alla cittadinanza, il senso morale che alimenta la legge. Quindi, riprendendo la tesi di Rousseau, Bertagna ricorda che la legge non funziona come ingiunzione esterna a chi la vive ma deve essere elaborata e interiorizzata dall’individuo con opportune forme educative. Ecco perché l’educazione alla cittadinanza non può essere a carico di un solo docente, ma in possesso dell’intera comunità scientifica e scolastica. Non un elenco di elementi cognitivi, ma un sapere che comprende il cognitivo come il sentimentale, l’estetico, il morale. Ogni Costituzione è un patto, un accordo reciprocamente stabilito dai contraenti. Se le leggi non riscontrano legittimità collettiva, allora non c’è nessuna legalità che tenga. Legittimità e legalità devono coincidere, altrimenti la società muore. Franco Cambi, ancora, ricorda che la nuova disciplina pur affondando le radici nel contesto locale, deve tenere conto dei processi di globalizzazione, quindi non rimanere miopemente ancorata ai valori e ai principi nazionali. Per alcuni versi la scuola italiana è già abituata ad alcune forme di cittadinanza postmoderna: lo dimostra con i suoi progetti di accoglienza per gli alunni stranieri e con l’organizzazione di attività volte all’alfabetizzazione degli alunni di altri paesi. Tuttavia la cultura scolastica resta etnocentrica: la storia, la geografia, le lingue sono il riflesso ancora di alcune selezionate parti del mondo. Le riflessioni riportate mettono in luce l’esigenza del corpo docente, sia al livel- Dossier 31 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative lo scolastico che accademico, di lavorare sulla questione del senso di responsabilità che è oggetto di istruzione e educazione, perché bisogna organizzare il sapere conoscendo la storia della legge, le sue conquiste, le sue perdite ma bisogna pure fare esperienza del senso civico, di un senso di cura e attenzione all’altro che va guidato e sostenuto dentro una relazione educativamente efficace. Relazione che certo non può iniziare a scuola, ma che della scuola ha bisogno. Benessere responsabile Ecco perché per l’anno scolastico 2008/2009 abbiamo proposto nella nostra scuola un Progetto Pilota3 finalizzato a promuovere lo sviluppo di un clima di benessere in classe. Il Progetto coinvolge per il momento due classi. L’obiettivo di fondo è sollecitare la conoscenza di sé e dell’altro per favorire il consolidarsi di relazioni appropriate allo sviluppo di coesione nel gruppo classe. Si tratta quindi di un progetto che costruisce le condizioni utili a ridurre i problemi di comunicazione e, dunque, le forme di disagio relazionale che possono maturare nei gruppi classe. Il lavoro è attualmente in corso e prevede lo strutturarsi degli interventi nelle ore curriculari di lettere, di matematica e di arte (pari a 12 ore complessive) durante le quali si propongono esperienze socio emotive per mezzo di lavori di gruppo, esercizi di espressione creativa e giochi di ruolo. La conduzione delle attività è ripartita tra le tre docenti responsabili che si impegnano a progettare gli interventi, a monitorare gli sviluppi in itinere e verificare gli esiti a conclusione dell’intervento. Un primo sociogramma è stato da me rilevato al principio dei lavori in modo da tracciare le condizioni relazionali di partenza del gruppo della mia classe. Ciascuno è stato richiesto di fare delle scelte indicando i nominativi dei compagni che preferisce e che rifiuta per svolgere determinate attività, di lavoro e ludiche. Il quadro che ne è risultato dice che le categorie sociali della prestanza estetica e intellettiva, dello status socio-economico e dell’impegno scolastico sono collettivamente le più desiderabili e quindi sono state criterio di selezione. I due leader positivi che hanno avuto il maggior numero di preferenze rispecchiano l’immagine della razza “ariana” - come direbbe il mio collega di educazione religiosa: sono biondi, chiari di pelle, belli, intelligenti, studiosi e ben curati, mentre all’opposto i due più rifiutati risultano essere sensibilmente sprovvisti delle qualità dei loro colleghi perché non sono intellettivamente vivaci, né esteticamente attraenti. Nessuno troneggia per atteggiamenti gradassi o prepotenti. Qui ci sono i bravi e i non bravi, i belli e i non belli, i positivi e i negativi. Divisione manicheista del mondo, nel mezzo i rimanenti venti alunni, la fascia media, la zona grigia che ha raccolto qualche preferenza e qualche rifiuto. Però c’è una nota da fare perché i preferiti hanno riconosciuta una qualità che i rifiutati non hanno: la disponibilità e la generosità. Dentro a un mare di notorie categorie socialmente discriminanti, quello che sembra fare la differenza è l’apertura verso l’altro. Che poi sarebbe la socievolezza, la gentilezza verso il prossimo. Tutti si sentono rispettati e ben voluti 3 Il Progetto Benessere è stato proposto dalla collega Agnese Alberti e da me presso la Scuola media “Leonardo da Vinci” di Saronno dove insegniamo. 32 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative dai due leader positivi, i due leader negativi, i vincitori del rifiuto, si distinguono per atteggiamenti egocentrici, competitivi e disinteressati al gruppo. Insomma gli alunni e le alunne che raccontano di passare buona parte del tempo libero al monitor dei videogiochi, cercano poi i legami nei luoghi dove finalmente non sono da soli, come in classe. Tuttavia li vogliono avere senza fare troppo sforzo. Giudicano, cercano o evitano l’altro senza averci mai comunicato davvero. Devono sapere che il benessere relazionale, invece, si impara. Quando sono stati invitati a scegliere di intervistare un compagno o una compagna tra quelli meno frequentati, hanno impiegato del tempo prima di cominciare. Hanno poi dichiarato di avere fatto molta fatica a scegliere qualcuno di lontano dal loro “ideale” di amico/a. Poi, richiesti di narrare un episodio in cui gli è capitato di mettersi nei panni di qualcuno, cioè di provare quanto l’altro prova in una data circostanza, sono rimasti immobili, pensierosi. Ma uno di loro, Paolo, ha rotto il ghiaccio dicendo che lui sta male ogni volta che il compagno Angelo viene preso in giro dagli altri perché, ha detto: “immagino come si può sentire lui in quel momento”. Molti altri, al seguito di Paolo, hanno raccontato episodi simili dove emerge la fatica della comprensione, la scoperta del limite tra sé e l’altro, della differenza nella somiglianza. Un’alunna, dopo aver raccontato la sua storia di empatia, ha aggiunto: “io non ho pensato subito di raccontare questo episodio perché qui stiamo facendo delle cose sul benessere e invece quello che vi ho appena detto mi ha fatto stare anche male”. Questo è il punto. La comprensione empatica non è un semplice passaggio dal mio posto al posto dell’altro mantenendo intatto il mio sistema cognitivo: in quel caso non farei che traslocare il mio modo di pensare nella situazione in cui sta l’altro. No, qui si tratta di penetrare le forme emozionali e logiche dell’altro per arrivare non ad un “io penso come penserei al posto dell’altro” ma ad un :”io penso come l’altro penserebbe in quel posto lì” (Franza 1981). Ecco la difficoltà. Il benessere si impara e per farlo si frequenta anche il malessere. Perché è l’unica via per creare dei legami, cioè delle relazioni costruite con responsabilità. Benessere significa pure questo: che voglio del bene all’altro al punto che sto male se lui o lei sta male. Questo a scuola noi lo insegniamo. *Insegnante e Pedagogista Riferimenti bibliografici Bertolini P. (2005). Ad armi pari. La pedagogia a confronto con le altre scienze sociali. Utet, Bologna. Bocchi G.- Ceruti M. (2004). Educazione globalizzazione. Raffaello Cortina, Milano. De Giacinto S. (1977). Educazione come sistema. La Scuola, Brescia. Franza A. (1981). Riflessioni sul problema della conoscenza in pedagogia. La Nuova Italia, Firenze. La Capria C. (2008). Biancaneve divorzia. L’innamoramento in età contemporanea. Il Filo, Roma. Lyotard J.F.(1979). La condizione postmoderna. trad. it., Feltrinelli, Milano 2001. Massa R. (1998), Cambiare la scuola. Educare o istruire? Laterza, Roma-Bari. Perticari P. (2001). Pedagogia ed etica, ovvero: quel che resta dell’altro. In Tarozzi M. Pedagogia generale. Guerini, Milano. Porcheddu A. (2005). Zygmunt Bauman. Intervista sull’educazione. Anicia, Roma. Dossier 33 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola A scuola si diventa cittadini di oggi e di domani? Appare necessario che chi è professionista dell’educazione si aggiorni nel solo modo opportuno oggi, che è quello di aprirsi al futuro in tutta la sua complessità di ipotesi. Giancarla Codrignani* Chiunque in Italia scriva di scuola in questa primavera del 2009, qualunque sia l’argomento di cui intende parlare, deve premettere qualche parola di denuncia per quanto sta accadendo in questo nostro paese. Non sono rose e fiori in nessuna parte del mondo, perché le società e, di conseguenza, i governi, se non sono in grado di sostituire gli eserciti con la diplomazia, così - l’analogia non è senza senso - non fanno dell’educazione la priorità delle priorità. In tempi di crisi i bilanci spingono avanti esigenze che, per quanto poco intelligenti, hanno carattere di necessità e, assurdamente, limitano gli investimenti sociali. In Italia, già giudicata severamente dall’Ocse, siamo arrivati al masochismo. Un governo può ridursi a far cassa anche a danno dei servizi, ma non può contrarre la durata degli orari di scuola, chiudere gli edifici scolastici nelle zone del paese meno abitate, tagliare posti di lavoro degli insegnanti nella cifra di 30.000 docenti per l’anno 2009-10 e altri settantamila nel biennio successivo. Se aggiungiamo l’esclusione dall’insegnamento le lingue straniere che non siano l’inglese, la storia dell’arte e perfino l’informatica, una delle celebri “tre i” berlusconiane, è facile capire quanto sia ottusa la politica governativa di togliere futuro alla propria società. Infatti, anche se anche un altro governo riparatore ridesse ossigeno alla pubblica istruzione, almeno una generazione - in termini scolastici le generazioni si susseguono ogni cinque anni, la durata di un corso completo delle superiori - , una generazione di giovani resterà ignorante, non potrà uscire dalla precarietà e i danni ricadranno su tutta la società, destinata a perdere competitività internazionale. Un danno incalcolabile, perché anche il ripristino delle regole non potrebbe risarcire una generazione di studenti culturalmente dequalificata. La premessa ha senso particolare per chi vuole parlare, appunto, del futuro, argomento da sempre fondamentale in ogni questione pedagogica, ma essenziale nei nostri decenni, che segnano non lo scorrere del tempo, ma un suo precipitare epocale. La paideiaè stata storicizzata in migliaia di testi e, nel corso dei secoli, in innumerevoli tendenze di pensiero. In questo tempo è necessario ripensare con urgenza assoluta tutto ciò che concerne le attività educative e attualizzare (non banalmente) la conoscenza dei modelli ormai obsoleti. Infatti la modernizzazione non è questa volta inserita nel solito procedere della storia: la trasformazione in corso è così radicale da essere diventata antropologica. I bambini, gli adolescenti, le giovani donne e i giovani 34 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani? uomini non sono più gli stessi, non crescono con le stesse scansioni di sviluppo fisico e psicologico e, per certi versi, sembrano irriconoscibili rispetto agli archetipi tradizionali. Addirittura si rovesciano rapporti e ruoli, se è vero, per esempio, che l’adulto si sente diminuito di fronte alle capacità tecnologiche del bambino. Ne deriva che servono poco le teorie redatte da pedagogisti, scienziati dell’educazione, teologi, intellettuali vari, abituati ad insegnare come si deve insegnare, spesso avendo scarso riferimento con ragazzi (e ragazze) veri. Anche mirando ad un progetto di uomo/ donna ideale e migliore, tutto è da ripensare da capo. Infatti, non abbiamo idea di come sarà l’umanità futura e ci domandiamo perfino se ci sarà un’umanità psicofisicamente ancora rappresentabile negli stessi termini della nostra. La crisi economica in attuale, rapida evoluzione avrà conseguenze gravi in ogni settore, ma non potrà rallentare più di tanto la svolta che la storia, in certo senso, ha già compiuto: in fondo, la stessa crisi, derivata da fallimentari progettazioni finanziarie speculative, dimostra che la svolta è già alle spalle. Provvederemo a tamponare i guasti con le vecchie ricette, lo Stato e Keynes, forse con qualche arresto di sviluppo democratico, ma la globalizzazione ha cambiato la sistemica di ogni disciplina e non bastano più le vecchie nozioni del Prodotto Interno Lordo o le ricette del Fondo Monetario. Le donne, in particolare le economiste, hanno formulato per tempo proposte interessanti per modificare il concetto di Pil integrando la produzione con la riproduzione, innovazione radicale che trasformerebbe di colpo le priorità di tutte le politiche di tutti i governi: non facile, ma da tentare. D’altra parte, la richiesta di coraggio innovativo nei settori fondamentali dell’economia è parallela al disagio delle reazioni, individuali e collettive, espresse da manifestazioni che di buono hanno solo il fatto di non essere (ancora) ideologiche, ma che non sono più identificabili in precisi obiettivi. Pochi mesi fa tutto il mondo dell’istruzione - dalle elementari alle università e inglobando non solo studenti e insegnanti, ma anche genitori e rettori - è stato in sommovimento inedito e ha tenuto impegnata la pubblica opinione; oggi non è scomparso, ma prosegue per spezzoni ormai separati su specifiche questioni, unificabili nell’opposizione alle deliberazioni governative, ma di fatto rispondenti a precisi interessi settoriali. Per questo il comune denominatore della conservazione degli interessi non intacca il consenso politico a questo governo, mentre ciascun gruppo sociale esprime singole esigenze quasi mai imperniate su un progetto. Tranne i casi - in crescita continua - di preoccupazione per la continuità lavorativa, non si riscontrano motivazioni argomentate sui problemi da affrontare. Si resta al “no”: no al docente unico, no al tempo ridotto, no alla riduzione della spesa universitaria, no ai tagli alla ricerca. E’ chiaro che le proposte del governo sono inaccettabili e la ministra Gelmini con i grembiuli, il voto di condotta e le classi differenziate proposte dai leghisti agisce in tandem con il ministro Tremonti per assestare il bilancio. Ma non sono più accettabili neppure proteste che non entrino nel merito di un riordino della scuola nella società della conoscenza e, in essa, di quale diritto allo studio e di quali innovazioni qualitative dell’insegnare e dell’apprendere. In Italia si è tenuto impegnato il settore scolastico per decenni in discussioni su riforme sempre rinviate o abortite e l’ultima rottura reale è stato il varo della Dossier 35 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani? scuola media unica (1963), con il paese deviato a dividersi sulla questione “latino sì/latino no”. Il ceto docente, all’epoca, non si rendeva pienamente conto della necessità di sollevare tutta insieme la società per un domani di rapporti più civili e spesso non riuscì ad evitare la pur prevista massificazione; allo stesso modo rimase diffidente, senza impugnarne la traduzione in termini di personale innovazione qualitativa, davanti alle riforme sia Ruberti per l’università, sia Berlinguer per la scuola e, successivamente, dell’autonomia scolastica che dava, volendo, potere di programmazione culturale ai collegi docenti e non solo alla dirigenza burocratica. Anche l’università, definita “malata” dal governo, dalla pubblica opinione e dai docenti stessi oggi viene stroncata da 1,5 miliardi di euro sottratti al bilancio del prossimo triennio, dalla mancata assunzione di migliaia di precari e dalla sostituzione di un solo ricercatore ogni cinque pensionati nonché dall’ipotesi di trasformarla in “fondazioni” (legge 133/08). Eppure è tutt’altro che da buttare; peccato che non si sia saputa autoriformare nel numero eccessivo di sedi, negli insegnamenti superflui, nell’assenza di riconoscimenti del merito, nel nepotismo, nella scarsa democrazia, nelle spese spesso incontrollate, mentre in altri paesi è ovvia la trasparenza. Tuttavia, anche nel campo universitario occorre che l’offerta didattica sia quella necessaria alla società della conoscenza. Oggi il sapere è la questione centrale: dice Marcel Mauss (Saggio sul dono) che se l’umanità fosse eroica sarebbe soddisfatta di sapere che il suo fine ultimo è la conoscenza. Si constata, invece, che è cresciuta, in modo imprevisto, l’ignoranza: anche la persona colta non ha capacità di giudizio rispetto a saperi specializzati. Un amministratore pubblico è soggetto alle valutazioni dei tecnici e dei funzionari e firma delibere di cui non sempre gli è totalmente chiaro il contenuto. Per un biologo possono restare incomprensibili le conseguenze, se non le stesse procedure, di un processo di clonazione. Gli insegnanti lamentano la perdita dei saperi tradizionali, ma non sono incoraggiati ad accedere a saperi nuovi, con il risultato che si continua ad insegnare ciò che si è imparato, senza accorgersi che molto dell’imparato è superato. Su scala mondiale il livello fra la grande conoscenza e l’analfabetismo si è enormemente allargato e quella che era la differenza di classe sta moltiplicando i suoi effetti sulla base del sapere. Sembra perfino difficile capire come si possa convivere in un mondo globalizzato, in cui il solito battito di ali di farfalla in Brasile può produrre catastrofi o miracoli in altre parti del mondo, se ciò che chiamiamo alfabetizzazione è lontano dagli standard di vita di milioni di persone che pure vivono le nostre esigenze, conosciute attraverso la visualizzazione dei modelli, ingannevoli anche per noi, dei nuovi media. Forse non ci si rende sufficientemente conto del fatto che chiamiamo “cultura” fenomeni non interpretabili a senso unico, anche se gran parte delle popolazioni “avanzate” usa il termine al plurale e accetta di relativizzare i propri schemi. Una mondializzazione corretta vorrebbe escludere i rapporti di dominio, che, tuttavia, continuano a schiacciare chi, comprendendo con ricchezza la vita, sarebbe in grado di dare contributi di valore, ma è escluso dalla possibilità di prendere la parola. Una riflessione sulla situazione africana è esemplare: i colonizzatori non possono cancel- 36 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani? lare le conseguenze della presunzione universale dei loro principi. In qualunque dei paesi che si sono rivendicati ad autonomia i maestri e i capi hanno frequentato le università di Oxford e Parigi e solo secondo le regole delle nostre sintassi contano e governano a casa loro. E’ vero che nel Medioevo lo stesso accadde ai “barbari” e il greco, prima e ad Oriente, il latino, poi in Occidente, furono le lingue delle cancellerie e degli studi. Ma c’è un’idea del vecchio Socrate - che riteneva inadeguata alle esigenze della comunicazione umana la scrittura - che vale la pena di tenere presente come paradosso: il grande saggio intendeva dire che non ci si relaziona se non si parla. Anche i saggi africani, i poeti di villaggio e di strada dicono con la voce, come faceva Omero. Ai nostri tempi un Socrate redivivo penserebbe che noi, quando abbiamo adottato mezzi che partono dal visuale - la televisione - abbiamo esportato carichi di mezzi e contenuti culturali, deformando anche lo sguardo, ormai incapace di vedere il mondo se non con occhi uniformati. E’ ben vero che Platone raccontava di Socrate scrivendo e che a noi resta solo la provocazione. Che vale agganciare al nostro continuo bisogno di capire di più, guardando lontano, per ripartire da noi. Con un uso meditato delle programmazioni nazionali televisive avremmo battuto l’analfabetismo e avremmo capito che conta impegnare la mente nei ragionamenti e nella creazione continua di idee, non nella loro registrazione scritta. Se è vera la constatazione che la democrazia che non si evolve attualmente in forme differenziate che diano reciproci input innovativi a quella “partecipazione” sempre evocata come spontaneità e che rinnovino il senso del voto, dell’elezione, difficilmente salveremo la parte migliore della “civiltà occidentale” e metteremo a rischio non solo la giustizia, ma la libertà. Non necessariamente le catene sono solo quelle delle galere. Dalla scuola, nel nostro sistema, si può uscire alfabetizzati e grammatizzati, ma analfabeti di autonomia mentale rispetto ai bisogni del nostro tempo. Un ragazzo fornito di grandi abilità tecnologiche può diventare facilmente il braccio umano della macchina. Forse con esiti sociali peggiori dell’operaio alla catena di montaggio di anni ormai lontani, a cui non era vietata la relazione con i compagni di lavoro, con cui scambiava parole e perfino informazioni sindacali nel reparto: il rapporto individuale con il computer fa sì che la comunicazione con i colleghi non sia esclusa, ma venga praticata di fatto, chattando in solitudine virtuale, con scambi di vignette e partite a carte. Intanto i ragazzini sulle playstation imparano ad usare la violenza per gioco e ad uccidere senza sentir male e senza provare sentimenti; i più grandi inseguono ricerche di siti anche molto strani, solitamente ignoti ai genitori, che reagiscono allarmati se vengono a sapere che il ragazzo ha cerca contatti insensati e pericolosi. Siamo solo all’inizio di trasformazioni maggiori. Chiamiamo in questione l’etica, ma siamo prevalentemente dipendenti da religioni che non sanno riproporsi rinnovando il senso dei loro pur grandi messaggi; così, acriticamente, non distinguiamo la fede dalle superstizioni e, soprattutto, dai pronunciamenti politici delle autorità sacrali. Gli avanzamenti delle scienze preoccupano (e nessuno nega che impegnino a riflessioni pesanti); ma se con un chip sotto pelle potremo aprire la Dossier 37 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani? porta di casa, dobbiamo prevenire ipotesi di condizionamenti della volontà. Esagerazioni? Ma se stiamo desiderando di essere controllati dalle telecamere ad ogni angolo di strada... Il Max Planck Institute sperimenta una risonanza magnetica che consente di fotografare le intenzioni del cervello “per prevenire gli attentati e al fine di realizzare nuovo opportunità per il marketing”. Abbiamo già visto il film Minority Report e qualche brivido ci corre nella schiena. I robot hanno raggiunto un livello di alta specializzazione e attentano qualunque futura piena occupazione. L’intelligenza artificiale potrebbe diventare così indispensabile da fornire ai governi progettazioni tecnologicamente inattaccabili da critiche di competenza e governare essa stessa tutte le politiche sociali. Non riusciamo a pensare che fino a due decenni fa persone che oggi si trovano in coma non sarebbero sopravvissute e che, forse, fra altri vent’anni la medicina riuscirà a escludere la caduta nella morte cerebrale. Ma abbiamo paura di ragionare sulla vita e sulla morte, che della vita fa parte. C’è bisogno di un nuovo illuminismo: l’esperienza del precedente ci rende pessimisti perché, incompreso tempestivamente, non prevenne rivoluzione e guerre. Il nostro rischia un analogo sbocco, se la democrazia si dibatte in affano. Allora appare necessario che chi è professionista dell’educazione si aggiorni nel solo modo opportuno oggi, che è quello di aprirsi al futuro in tutta la sua complessità di ipotesi. Necessario per farsi carico di generazioni che non potranno essere onniscienti nel crescere continuo delle informazioni, ma dovranno essere in grado, anche in un campo solo, di superare in profondità concettuale il livello cognitivo di oggi. Lo vediamo in particolare in quella responsabilità sempre meno attiva che è il “fare politica”. I giovani sono sempre meno padroni dei diritti di cittadinanza e non si pongono alcun problema su chi sarà il “nuovo principe”, una volta che si sia esaurita la “forma partito” per abbandono di partecipazione e controllo. Non c’è nulla di più importante, ancor prima di affrontare il cambiamento dei massimi sistemi, del dare senso - nella scuola come primo momento di quella vita associata di cui nessuno può fare a meno nell’epoca della solitudine virtuale di My Space - Face Book- ai patti fondativi della cittadinanza. E’ stata una vera pena constatare - in occasione del referendum costituzionale del 2006 - quanto grande sia l’attaccamento degli italiani alla Costituzione e quanto grande ne sia parallelamente l’ignoranza. La società della conoscenza resta pur sempre società, basata su principi, diritti, doveri, regole funzionali e di legalità. Che nelle scuole dei buoni Comuni si pratichi la raccolta differenziata e ogni aula abbia tre cestini e l’istituto sia esentato dalla tasse per l’immondizia, significa educare ai benefici di una società bene ordinata. In molti istituti superiori l’educazione fisica insegna anche la correttezza delle norme stradali e abilita al patentino dei motorini, mentre vi sono città in cui i ragazzi guidano senza casco o senza cintura. Qualcuno può obiettare che, se privilegiamo uno sviluppo cognitivo più alto e complesso, non ci si può perdere a constatare quanto sia importante o lecito che un genio sia trasgressore e paghi le multe. In realtà, come non è possibile che qualcuno resti nell’arretratezza in tempi 38 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani? in cui il futuro - e non la modernità - sollecita tutti con pregnanza di domande a cui non sono ancora pronte le risposte, così non si produce avanzamento morale e sociale senza responsabilizzazione circa il proprio posto nel mondo in termini di diritti e doveri. Non sapere che il Parlamento e le istituzioni hanno significato personale e identitario significa essere disposti a non guidare i processi e a subire effetti di cause che coinvolgono l’interesse del singolo. La stessa ritualità istituzionale evidenzia che la Costituzione e il Parlamento rappresentano il paese, come totalità e come singoli (la gente vota, si forma una maggioranza con un leader, questo va dal Presidente della Repubblica per presentargli la compagine governativa, il Presidente lo rinvia alle Camere per ricevere la fiducia e il Parlamento vota. La maggioranza “governa” - e non comanda - e l’opposizione costituisce - e costruisce - il Parlamento con piena titolarità di rappresentanza. Sia il governo sia l’opposizione sono soggetti - allo stesso titolo e in complementarietà di funzioni - alla Costituzione. I giovani non possono progredire nell’ignoranza del loro destino. Il “fare politica” è stato per lunghi decenni un’attività sospetta nella scuola; giustamente, se la si intende come arena di interessi contrapposti, ma senza alcun senso se si toglie al ragazzo l’antenna che gli fa cogliere l’interesse di essere riconosciuto come soggetto titolare di diritti. Se, come si dice, neppure i maestri e i formatori di professione hanno preparazione per immaginare il futuro e predisporre gli strumenti adatti a fruirne vantaggiosamente, sembra conveniente partire da forme che, qualunque siano gli esiti che ci attendono, costruiscono piattaforme sicuramente utilizzabili con profitto. Aprire il ventaglio delle possibilità offerte dalla società della conoscenza, rafforzare le strutture logico-comunicative della mente, radicare l’educazione sentimentale nella salvaguardia dell’umanità relazionale e responsabilizzare la coscienza dei diritti che spettano ad esseri umani - uomini e donne - liberi e capaci, per aver conosciuto i limiti dei contesti in cui vivono e operano, di adempiere doveri che, nello spazio pubblico, rendono possibile la vita in reciproco riconoscimento di dignità. *Giornalista, saggista Dossier 39 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola Critica della scuola per una pedagogia critica La mancanza di un reale contributo critico in ambito pedagogico limita il discorso sulla scuola, non cogliendone aspetti rilevanti di natura istituzionale e connessi agli attuali processi che interessano i sistemi scolastici a livello internazionale. Senza un respiro critico adeguato, il dibattito sulla scuola risulta limitato, circoscritto, contingente e dettato dai tempi e dai modi di pensare della politica ma non della dimensione politica della pedagogia Piergiorgio Reggio* Tra le numerose difficoltà che la scuola incontra nel nostro Paese figura il fatto che su di essa si riversano attese e visioni assai consistenti e, spesso, divergenti. Sul terreno delle politiche scolastiche si giocano ancora – più che in altri ambiti istituzionali – contrapposizioni ideologiche e concezioni della società. Tale enfasi finisce per ottenere un effetto paradossale – ma non troppo a ben riflettere - di svuotamento effettivo dei contenuti della discussione. Le divergenze, spesso assai marcate, rispetto alle specifiche misure di riforma, dichiarate o sottese, non arrivano – infatti - a mettere in discussione radicalmente i fondamenti della logica dell’istruzione formale. Eppure ciò oggi va fatto, consapevolmente e con spirito costruttivo, poiché lo scenario mondiale pone proprio l’educazione, insieme al lavoro, alla salute ed all’utilizzo delle risorse naturali come questioni rispetto alle quali è necessario (ri)pensare le logiche dello sviluppo a fronte delle sfide della globalizzazione ed alle sue complesse crisi1. Può essere utile, in tal senso, considerare – sia pure sinteticamente – alcuni passaggi cruciali del dibattito critico sulla scuola in Italia come si è sviluppato negli scorsi decenni, per guardare, successivamente, verso quali prospettive possono essere rivolte le energie di innovazione della realtà della scuola. 1 In questo mio breve intervento cerco di proporre alcune riflessioni maturate dal confronto con educatori ed educatrici, ricercatori e ricercatrici di vari Paesi del nord e del sud del mondo interessati alle questioni del ruolo della scuola nelle società odierne che vivono le dimensioni della globalizzazione. La rete internazionale degli Istituti Paulo Freire che, nei diversi continenti riunisce chi opera in ambito educativo ispirandosi agli orientamenti del pedagogista brasiliano, è stato uno degli ambiti privilegiati di confronto. Vorrei ricordare, a tal proposito, il sesto “Forum mondiale Paulo Freire”, tenutosi a San Paolo del Brasile nel mese di Settembre del 2008 ed il terzo Forum italiano Paulo Freire tenutosi a Torino il 13 Dicembre, sempre dello scorso anno, dal titolo “Una scuola senza speranza? Quale speranza per la scuola?”, con la partecipazione qualificata di rappresentanti di associazioni e gruppi operanti in ambito scolastico, socio-educativo e della cooperazione internazionale. 40 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_critica Abbiamo criticato la scuola, ci sono stati educatori critici ma non abbiamo avuto una pedagogia critica. Dalla fine degli anni ’60 numerose e diverse sono state le critiche rivolte all’istituzione scolastica, della quale sono state messe in luce, di volta in volta, le responsabilità nella riproduzione sociale di condizioni di ingiustizia e diseguaglianza, la tendenza ad educare al pensiero conformista, il privilegio accordato all’astrattezza del sapere a discapito dell’apprendimento dall’esperienza, la separazione dalla vita e dalla società. La denuncia di Lettera a una professoressa, nel 1967, squarciò un velo di silenzio e anticipò le analisi dei sociologi della riproduzione sociale, collocandosi in una stagione di critica al ruolo delle istituzioni nella creazione di condizoni di dominio delle culture, delle menti e della vita quotidiana. La critica si sviluppava in un’epoca di diffusa tensione verso processi di deistituzionalizzazione, che raccoglieva istanze assai diverse di carattere sociale, politico e culturale. La critica della scuola di Barbiana può essere letta in parallelo all’analisi di Basaglia nei confronti dell’istituzione psichiatrica, alla contestazione degli obiettori di coscienza verso l’istituzione militare. Sul piano del confronto teorico, le analisi si susseguirono con radicalità; la prospettiva della descolarizzazione tracciata da Illich non venne però colta nel suo più profondo significato di critica alla logica fondante e pervasiva dell’istituzionalizzazione della conoscenza e dell’apprendimento. In tal senso, non ne venne compresa – all’epoca - la portata potenzialmente riformatrice dei sistemi di istruzione. Solo oggi, in presenza di una diffusa, e per molti versi retorica, enfasi posta sulla prospettiva del Long Life Learning, riconosciamo l’originalità dell’analisi e delle intuizioni di Illich, che anticiparono scenari oggi ampiamente realizzati: la condivisione della conoscenza in rete, il valore dell’apprendimento in situazioni informali, la centralità dei processi di learning rispetto a quelli di teaching, la convivialità come alternativa – anche educativa – all’esproprio istituzionale delle potenzialità dei soggetti di apprendere e costruire comunità. Sul piano, invece, delle pratiche educative, a questa stagione di critica esplicita seguirono esperienze originali e innovative. A scuola e fuori (talvolta anche contro la scuola) nacquero luoghi educativi e forme dell’educazione ricchi di significato: non solo extrascuola ma anche progetti educativi tra città e scuola, presenza di educatori qualificati dentro la scuola, collaborazioni tra insegnanti ed operatori sociali nel campo della prevenzione. A tanta ricchezza esperienziale non è però corrisposta un’adeguata elaborazione sul piano pedagogico ed un corrispendente riconoscimento sociale, politico e culturale. In Italia alla critica della scuola non è succeduta un’altrettanto esplicita e radicale pedagogia critica, come è invece avvenuto – ad esempio – negli Stati Uniti. Non sono certamente mancati gli educatori critici (don Milani, Dolci sono noti – ad esempio - in tutto il mondo) ma non si è affermata una prospettiva critica in pedagogia, fondata sulla messa in discussione delle cause e delle conseguenze dell’azione istituzionale in ambito educativo. Una prospettiva di pedagogia critica si intende come analisi dei rapporti di reciproca influenza tra scuola e società, tra sapere accademico e pratiche sociali e del lavoro; si tratta di assumere uno sguardo specifico volto a cogliere le implicazioni Dossier 41 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_critica istituzionali, culturali e politiche dei sistemi di istruzione. Una prospettiva di pedagogia critica può considerare in modo specifico la scuola per coglierne le funzioni culturali e istituzionali, il ruolo di dominazione o di sviluppo delle coscienze. Una pedagogia riesce ad essere tale e ad esercitare un proprio legittimo e riconosciuto ruolo sociale quando è in grado di elaborare gli slanci e la concretezza dell’agire educativo; ciò avviene non solo attraverso una rigorosa attenzione teorica e metodologica ma anche per mezzo dell’impiego di chiavi di lettura politiche. Tale prospettiva si configura, infatti, come essenzialmente politica e risulta – probabilmente proprio per questa ragione - sostanzialmente marginale nel panorama pedagogico italiano, nel quale da sempre prevalgono piuttosto approcci di carattere filosofico e psico-pedagogico. Certamente il dibattito sulla scuola accende a periodi, come anche negli scorsi mesi è accaduto, la vita politica italiana ma altra cosa è la critica politica alla scuola; la separazione tra scuola e società (vita reale) è ancora talmente consistente da impedire, nei fatti, un’analisi istituzionale e politica della funzione dell’educazione formale. In questa situazione, le critiche radicali alla scuola espresse con lucidità profetica da Lettera a una professoressa, non hanno potuto essere trasformate in progetto pedagogico, giacchè tale trasformazione necessitava proprio di uno scenario interpretativo di carattere politico, culturale e istituzionale. Per una pedagogia critica, a scuola e nella società La mancanza di un reale contributo critico in ambito pedagogico limita il discorso sulla scuola, non cogliendone aspetti rilevanti di natura istituzionale e connessi agli attuali processi che interessano i sistemi scolastici a livello internazionale. Senza un respiro critico adeguato, il dibattito sulla scuola risulta limitato, circoscritto, contingente e dettato dai tempi e dai modi di pensare della politica (ma non della dimensione politica della pedagogia), rimanendo però assai lontano dalla consapevolezza dei grandi temi epocali che oggi attraversano i popoli e le società. Mentre ci si attarda, quindi, in dibattiti che rivelano il sostanziale provincialismo del nostro ragionare pedagogico, i rivolgimenti della globalizzazione forzano i tempi e le modalità della scuola, lacerata – al di là dei confini nazionali (ma anche culturali e disciplinari) - da tensioni dialettiche quali: - globale/locale, che in ambito educativo riguarda non solo la definizione dei contenuti di insegnamento ma i linguaggi ad essi relativi e le forme stesse di insegnamento. I paradigmi del globale e del locale generano orientamenti educativi divergenti, la cui integrazione non è facilmente praticabile, la dialettica va assunta nella propria originale provocatorietà, ricca di incognite e, forse, di opportunità; - autonomia/dipendenza, dialettica che pone in relazione dimensioni divergenti relative ad aspetti diversi ma complementari dell’agire educativo e dell’isituzione scolastica. La dialettica tra autonomia e dipendenza riguarda il versante amministrativo e istituzionale, quello specifico dei processi di apprendimento e del ruolo degli insegnanti. Tra autonomia e dipendenza si gocano gli esiti di apprendimento degli studenti, come le possibilità di sviluppo delle scuole a livello locale; - inclusione/esclusione sociale, poiché è evidente come la scuola possa costituirsi 42 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_critica come ambito e strumento tanto di promozione di cittadinanza, quanto di produzione delle diseguaglianze e di marginalità per specifiche fasce della popolazione; - sviluppo senza limiti/sostenibilità dello sviluppo, poiché la concezione e le scelte relative allo sviluppo (economico, sociale, produttivo) recano inevitabili conseguenze sui sistemi di istruzione. La conoscenza per un mondo concepito in incessante crescita, fondato sulla convinzione dell’inesauribilità delle risorse naturali e sulla potenza umana di perpetuarle è radicalmente diversa dalla conoscenza come individuazione e padronanza del limite di responsabilità nel rapporto tra uomo e mondo. Diversi e contrapposti sono gli esiti che tale dialettica presenta; - monocultura/intercultura, quale dialettica che attraversa i processi educativi ma che si ritrova anche nei campi dell’economia e del lavoro, della convivenza sociale, dei sistemi di cura e che rappresenta una sfida della post-modernità alla quale anche la scuola è chiamata a rispondere. Dinanzi a simili tensioni dialettiche si comprende facilmente come la scuola risulti esposta a sfide radicali, per molti versi insostenibili. Affrontando tali questioni, un pensiero critico sulla scuola può risultare efficace se, parallelamente, si sviluppano strategie e pratiche di pedagogia critica, cioè di propositiva affermazione di logiche educative improntate a tradurre operativamente le istanze della critica istituzionale e politica alla scuola. In tale prospettiva è possibile recuperare e valorizzare la ricchezza che, in questi anni, si è venuta creando in ambienti intorno alla scuola, in rapporto – talvolta anche conflittuale – con essa: esperienze un tempo definite extrascolastiche ma oggi maturate verso condizioni di maturità educativa che le connotano in termini non più residuali ma come componenti di un sistema educativo territoriale articolato, all’interno del quale la scuola si colloca ridefinendo continuamente le modalità del proprio agire. Approfondimento sul piano della ricerca e sviluppo di pratiche educative in una prospettiva di pedagogia critica possono essere realizzati assumendo alcun orientamenti di fondo che, di seguito, sinteticamente tento di esplicitare. E’ importante, innanzitutto, assumere come impegno strategico - nella sua concretezza - il dato, da tempo riscontrato, dell’esaurimento della centralità dell’istituzione scolastica nei processi di apprendimento degli individui, dei giovani come degli adulti. Ciò non significa fine della scuola ma implica la necessità di superare il paradigma (di pensiero, di azione) fondato sull’implicita gerachia di valore tra scuola ed altre forme e luoghi dell’apprendimento. I processi educativi in ambito formale, non formale ed informale non solo sono tutti importanti ma vanno assunti come effettivamente dotati di pari dignità. Le raccomandazioni dell’Unione Europea agli Stati menbri vanno in tal senso, sollecitando forme di integrazione tra i sistemi, attraverso il riconoscimento della pari dignità degli apprendimenti che in essi si sviluppano. “Il riconoscimento e la valorizzazione degli “apprendimenti comunque acquisiti”, costituiscono prospettive che superano ogni classificazione rigida ed ogni tentativo di stabilire gerarchie anche recondite. L’avverbio “comunque”, riferito alle forme degli apprendimenti significa in modi, tempi, con strumenti e relazioni, logiche differenti e in ogni caso riconosciuti come validi, giacchè gli esiti ai quali tali diversità conducono sono “comunque” Dossier 43 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_critica validi per il soggetto, ne rappresentano il patrimonio di conoscenze, la competenza di apprendimento essenziale, che trova riconoscimento a livello sociale. Il portato democratico di tale prospettiva è estremamente rilevante, la sua dimensione politica evidente, chiare le implicazioni per ogni ragionamento di riforma dei sistemi scolastici. Essi vanno visti quali possibili ambiti di sviluppo degli apprendimenti dei soggetti, ai quali va attribuita centralità. Intorno ad essi, alle loro caratteristiche e specificità, ai vincoli ed alle opportunità dei contesti concreti di vita vanno rapportate le strategie di sviluppo e integrazione dei sistemi educativi. Vi sono aree geografiche del mondo nelle quali l’educazione formale va sostenuta e sviluppata perché insufficiente e dove vi è un bisogno urgente di garantire condizioni minime e il più possibile diffuse di diritti d’apprendimento (e non solo); in altre realtà, come sono la gran parte dei Paesi del nord del mondo, invece, accanto a processi d’innovazione dell’educazione formale, è urgente investire risorse per il potenziamento e il riconoscimento effettivo dell’educazione non formale e di quella informale, che vengono spesso già praticate dai soggetti in apprendimento con esiti soddisfacenti. La centralità degli apprendimenti implica un’attenzione educativa privilegiata per i soggetti e le esperienze che essi vivono, quali modalità per costruire conoscenza. La scuola viene, di conseguenza, situata all’interno di un contesto sociale che offre molteplici opportunità di apprendimento, anzi che si pone esso stesso come oggetto di apprendimento. Questa prospettiva si fonda inevitabilmente, quindi, su una concezione dell’apprendimento come fenomeno sociale, processo non individuale ma socialmente influenzato e costruito. L’apprendere è forma del rapporto tra uomo e mondo, non atto di dominio dell’umano sulla realtà ma di relazione tra persone e tra queste e il mondo. Paulo Freire esprimeva tale concezione con l’espressione “essere col mondo” , che si pone come forma relazionale in grado di superare il semplice “essere nel mondo”, che non esprime né relazione né umanizzazione. In questa visione freiriaina si rintracciano suggestioni significative di Martin Buber, che vedeva nella coppia “io-tu” la parola fondamentale, costitutiva del senso di umanità, del rapporto con il mondo e, quindi, anche dell’educazione. L’apprendimento come processo di relazione con il mondo e di costruzione di esso è strettamente connesso con la realizzazione di pratiche educative basate sulla critica e sullo sviluppo di forme di coscienza, appunto, critica. Sempre Freire intendeva, con questo termine, riferirsi ad un atteggiamento attivo del soggetto che si pone dinanzi alla realtà concependola ed affrontandola come “problema”, anzi problematizzandola. Quando riusciamo a trasformare fatti ed eventi, persone ed oggetti in problemi, per noi e per la società, stiamo ricercando ed attribuendo significato al nostro “essere col mondo”. Non subiamo passivamente e acriticamente ciò che avviene ma tentiamo di viverlo come esperienza, innanzitutto di apprendimento. In questo modo, costruiamo relazione e sviluppiamo coscienza come forma di rapporto col mondo; essa, secondo Freire, è “transitiva” (e critica), nel senso che permette il passaggio, la transizione tra soggetto e realtà esterna. La persona si apre al dialogo con gli altri, col mondo, con se stessa e vive l’educazione come esperienza dialogica, critica e problematizzante. Perché la scuola sia luogo di sviluppo della coscienza critica, la realtà sociale della vita quotidiana locale e globale deve entrare in essa ordinariamente 44 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/critica_della_scuola_per_una_pedagogia_critica come tema da problematizzare, insieme di eventi che possiamo trasformare in apprendimenti. Non si tratta di cercare nessi – spesso formali e artificiosamente indotti - tra conoscenze disciplinari e realtà quotidiana; al contrario è dall’esperienza diretta e personale di chi apprende che scaturiscono i fatti che possono essere trasformati diatticamente in problemi e generare apprendimenti. Nel processo di problematizzazione, che genera coscienza critica, trovano uno spazio specifico e rilevante le dimensioni politiche, sociali e culturali alle quali si è in precedenza fatto riferimento. Sono queste le prospettive interpretative attraverso le quali l’educazione e la scuola assumono una funzione “coscientizzante” e non puramente adattiva. Inoltre, tale logica di analisi e problematizzazione viene applicata alla scuola stessa, quale situazione sociale appositamente ordinata per generare apprendimenti. Cosa insegnare e come? Quali sono i ruoli dell’insegnante e dello studente? A cosa servono conoscenze e abilità che si acquisiscono? Da dove provengono e dove ritornano i saperi che a scuola vengono affrontati e trattati? Questi interrogativi vengono ordinariamente assunti come criteri critici di costruzione della conoscenza, rappresentano lo sforzo per significare l’esperienza scolastica come momento dialogico (tra persone, tra queste e l’istituzione) e problematizzante. La scuola non deve tanto risolvere problemi quanto crearne, perturbando l’apparente quiete che cela le contraddizioni, i conflitti che non si intendono esplicitare né socialmente affrontare. Una scuola che crea contraddizioni e problematizza fatti ed eventi è una scuola che pratica la critica come strategia educativa sistematica ed intenzionale, sia da parte degli insegnanti, sia da parte degli studenti e degli altri soggetti sociali interessati (famiglie, gruppi e associazioni, istituzioni, organizzazioni di lavoro…). Una delle principali obiezioni solitamente formulate nei confronti di una simile prospettiva strategica, che conosce peraltro significative realtà di attuazione in Italia come in numerosi altri Paesi in continenti diversi, riguarda il timore di “ideologizzazione” della cultura e, quindi, della situazione scolastica, che si teme possa essere ridotta a terreno di contrapposizione e di disputa tra orientamenti diversi. Occorre considerare, a tal proposito, come sia proprio l’orientamento corrente volto a non problematizzare, a proporre fatti (conoscenze, eventi) in modo apparentemente oggettivo ed asettico a costitutire il portato ideologico dominante. Il pensiero unico si costruisce proprio attraverso l’abitudine a non concepire alternative, non indagare cause e conseguenze, ritenere “oggettivo” e indiscutibile ciò che, in realtà, rappresenta l’esito di rappresentazioni diverse, incontri e talvolta scontri tra interessi. Adottare una logica problematizzante va, quindi, proprio nel senso dello sviluppo delle capacità critiche autonome, antidoto al pensiero ideologico, unico e valido al di là delle specificità dei contesti sociali e dei momenti storici, che intende preparare menti pronte ad accogliere – senza alcuna resistenza – ogni nuova forma di colonizzazione delle culture e delle società. *Docente di Pedagogia della comunicazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si occupa prevalentemente di educazione degli adulti, pedagogia sociale e interculturale. Vice-presidente di IPFItalia (Istituto Paulo Freire) e Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Valutazione. Dossier 45 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola Educare o istruire? La certezza che il pensiero di Massa dovesse continuare a rappresentare un riferimento epistemologico ed esperienzale per chiunque si avvicini al mondo dell’educazione ha spinto un gruppo di collaboratori storici, amici colleghi e studenti del pedagogista ad immergersi nella comprensione e consapevolezza pedagogica che il suo lavoro di ricerca ha aperto. Dafne Guida Conti* La decisione di dare vita a un Centro Studi dedicato a Riccardo Massa che si cimentasse in percorsi di ricerca negli ambiti educativi a partire dal pensiero e dall’opera dell’autorevole pedagogista è oggetto della breve presentazione realizzata in queste pagine. Riccardo Massa, pedagogista, muore, prematuramente e improvvisamente, il 1 gennaio del 2000. Fino ad allora egli ha condotto una intensissima attività di ricerca, ha rinnovato linguaggio, introdotto declinazioni critiche inusuali conferendo dignità scientifica a non pochi ambiti, da sempre ai margini o trascurati, dell’educazione. Con Riccardo Massa, i toni della riflessione sul senso dell’educazione e dell’istruire, conobbero ed hanno conosciuto, senza soluzioni di continuità, la presenza di una voce autorevole, provocatoria, propositiva. Massa ha svolto un ruolo importante nella fondazione e nello sviluppo della Facoltà di Scienze della formazione, fortemente voluta e appassionatamente costruita. Ha svolto con studenti e colleghi riflessioni illuminanti sulla creatività pedagogica, sulla formazione e sulla formazione dei formatori. L’attività e l’impegno di Riccardo Massa non furono mai chiusi solo dentro all’Università, ma dialogarono sempre con istituzioni, enti, associazioni impegnati nell’educazione a diversi livelli. La certezza che il pensiero di Massa dovesse continuare a rappresentare un riferimento epistemologico ed esperienzale per chiunque si avvicini al mondo dell’educazione ha spinto un gruppo di collaboratori storici, amici colleghi e studenti del pedagogista ad immergersi nella comprensione e consapevolezza pedagogica che il suo lavoro di ricerca ha aperto. Il Centro Studi Riccardo Massa nasce per l’appunto dal desiderio di non disperdere l’eredità pedagogica di Massa e dal tentativo di sviluppare quell’attitudine al lavoro educativo di cui spesso il pedagogista parlava nei suoi scritti. “Esiste – aveva sostenuto Massa poco prima della sua morte in una intervista rilasciata a Pedagogika.it – una specifica attitudine alla creatività pedagogica, quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze di contenuti o di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare un dispositivo strategico complesso, volto ad istituire il campo della esperienza educativa”. In quale cornice prende vita il Centro Studi Riccardo Massa e quali presupposti epistemologici, quali finalità, e quale oggetto della ricerca orientano il suo operato nelle intenzioni degli ideatori? Il Centro Studi è nato per volontà della famiglia di Riccardo Massa e di un gruppo di pedagogisti, suoi allievi e collaboratori, ed ha come soci fondatori, oltre alla famiglia e agli allievi, l’Università degli Studi di Milano, dove Riccardo Massa ha lavorato per molti anni dirigendo l’Istituto di Pedagogia e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in cui ha fondato e presieduto la Facoltà di Scienze della Formazione. 46 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/educare_o_istruire? In particolare i suoi soci fondatori sono l’Università degli Studi di Milano, l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Stefania Massa e Francesca Massa, Anna Rezzara, Lucia Zannini, Piero Barone, Jole Orsenigo, Stefania Ulivieri Stiozzi, Cristina Palmieri, Paola Marcialis, Igor Salomone, Giorgio Prada, Francesco Cappa, Francesca Antonacci. La prospettiva in cui nasce il Centro Studi Riccardo Massa è quella di un “bilancio” dell’eredità pedagogica di Riccardo Massa. L’obiettivo è anche quello di indagare quale impatto ha avuto l’opera di Massa, a qualsiasi livello esso si situi (istituzionale, come nel caso dei servizi extrascolastici, o di pratiche locali, come nella sanità). Oltre alla ricostruzione dell’incidenza dell’azione di Massa, finalità del centro è offrire uno spazio di riflessione su quali altri impatti futuri possa avere il suo pensiero nei diversi contesti educativi. ll Centro Studi Riccardo Massa è una associazione di promozione culturale che si propone di diffondere il pensiero e l’azione di Riccardo Massa mantenendoli vivi nel dibattito della pedagogia italiana contemporanea, in cui continuano ad essere punto di riferimento e stimolo alla ricerca teorica e pratico-applicativa sull’educazione. La finalità del Centro Studi è la promozione di studi pedagogici con particolare attenzione agli ambiti di ricerca che hanno costituito oggetto della riflessione di Riccardo Massa: tale finalità si declina sia nella promozione della ricerca educativa sia nell’esercizio di pratiche formative fondate sulla proposta della Clinica della Formazione e rivolte a tutte le figure professionali dell’educazione e della formazione. Allo scopo di restituire il legame indissolubile tra teoria e prassi dell’educazione nel percorso di pensiero e di vita di Riccardo Massa, l’Associazione intende operare secondo tre direttrici di azioni: - Centro di Ricerca e Formazione Riccardo Massa, per la promozione e realizzazione di ricerche sui temi dell’educazione e della formazione e sulle figure professionali dell’educazione e per la progettazione e gestione di corsi di formazione e attività di consulenza per tutte le figure coinvolte nella pratica educativa. - Centro di Studio e Documentazione Riccardo Massa, con lo scopo della promozione e organizzazione di cicli di incontri, tavole rotonde, conferenze, seminari, convegni e scambi culturali a livello nazionale ed internazionale. - Archivio Riccardo Massa, con lo scopo della raccolta a catalogo di materiale bibliografico, notizie, corrispondenza, documenti, articoli, pubblicazioni, studi e ricerche compiuti, nonché delle opere di Riccardo Massa, da destinare alla pubblica consultazione. Data l’articolazione e la complessità del mondo educativo di oggi, in quali ambiti intende sviluppare il proprio operato il centro studi Riccardo Massa? Il Centro Studi intende, anche in collaborazione con altre istituzioni pubbliche o private, promuovere la circolazione e il confronto del pensiero educativo e del sapere pedagogico con l’ambizione di diventare un vero e proprio punto d’incontro, diffusione e progresso della cultura dell’educazione e nella formazione e valorizzazione delle professionalità educative. I suoi settori di intervento possibile sono stati individuati in tre ambiti: quello della scuola, quello dell’educazione extra scolastica e della cooperazione, quello della sanità. *Psicopedagogista, Direttore Generale Stripes Coop. Soc. ONLUS Dossier 47 Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/ogni_giorno 48 Dossier 49 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola L’interrogazione dello stereotipo. Un metodo possibile nell’educazione alla differenza e alla relazione Lo stereotipo sembra essere una modalità di espressione necessaria. Il suo ruolo protettivo costituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare di sé. È come un tastare il terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterle innanzi che necessariamente precede la disponibilità ad “affidarsi” ad un ascoltatore, esterno o interno che sia. Letizia Lambertini * Gli stereotipi del femminile e del maschile sono una delle più significative espressioni di quello che all’interno della riflessione femminista è stato definito l’ordine fallologocentrico, un sistema di rappresentazioni sostanzialmente teso a istituire e mantenere il potere di un genere sull’altro e la deprivazione della possibilità per l’uno e per l’altro di confrontarsi realisticamente e di ridefinirsi in una relazione di effettiva reciprocità. Si tratta di uno dei sistemi di potere più pervasivi e subdoli, capace di esaltare talmente gli uomini da far perdere loro la misura, anche rassicurante, della propria finitudine e di idealizzare a tal punto le donne da sottrarre loro il diritto di raggiungere la propria pienezza se non a rischio di divenire incomprensibili e terrificanti. Il fallologocentrismo nega il femminile escludendo le donne dalle pratiche autorappresentative e finisce con questo per negare anche gli uomini, costringendoli a un confronto tutto simbolico e perciò irreale e acritico. Come scrive Hélène Cixous “il fallologocentrismo è il nemico: di tutti. Gli uomini rischiano di perdere conservandolo, in maniera differente ma tanto seriamente che le donne”.1 Lavorare sugli stereotipi femminili e maschili significa avere ben chiaro che essi sono la risultante e non il presupposto di un processo e che pertanto, in una prospettiva educativa, è più utile, piuttosto che contrastarli, andare alla ricerca del punto di intersezione individuale tra il sistema di potere che rappresentano e le potenzialità di ciascuna e di ciascuno di sottrarsi ad un destino predefinito. È l’opportunità di ogni donna e di ogni uomo di costruirsi in libertà. Non la libertà assoluta dell’individualismo ma la libertà relativa nella quale la nostra definizione “dipende” dalla possibilità e dalla capacità delle altre e degli altri di accoglierla e di comprenderla. Una prospettiva che non può essere altro che politico-culturale nella misura in cui la forza prodotta dalla ridefinizione di ciascuna e di ciascuno costringe ogni altra e ogni altro che la incontra a interrogarla e a interrogarsi. Dal punto di vista metodologico, l’obiettivo prioritario di un progetto di educazione alla differenza e alla relazione tra i generi è quello di porre l’attenzione sui processi di costruzione 1 Hélène Cixous, Sorties, in Emily Menlo Marks e Isabelle De Courtivron, New french feminism, Schocken, New York 1981. 50 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo del sistema-identità e di capire quali connessioni legano coercizioni espressive e personalità. Non si tratta cioè di sostituire stereotipi con controstereotipi o di destrutturare gli stereotipi a partire dai nostri convincimenti culturali quanto piuttosto di sostenere percorsi di costruzione di identità consapevoli e progetti esistenziali sostenibili. Ancora, non si tratta di portare le persone dove pensiamo sia “giusto” andare ma di accompagnarle là dove possono e vogliono andare. Costruire un progetto educativo intorno a queste evidenze significa guidare a consapevolezza la domanda “chi sono io?” e, insieme, sostenere e incoraggiare un’attenzione a “chi non siamo”, disponibile a porre a lei/lui, prima di ogni cosa, la domanda “chi sei tu?”.2 Significa cioè fare dell’esperienza della differenza e della relazione il nucleo di quei sentimenti di unicità e di partecipazione capaci di salvarci al tempo stesso dal rischio dell’uniformazione e da quello del solipsismo. Il luogo della nascita del Male, la fonte dell’infelicità è l’Uno Hanna Arendt L’uomo esiste solo in quanto coesiste, è reale solo nell’opposizione io e tu. Hans Urs von Balthasar Maschi e femmine sono diversi Per riconoscersi. Alessandro Lo stereotipo I primi due lavori prodotti, nell’ambito del progetto Alla scoperta della differenza, uno con un gruppo di soli bambini, l’altro di sole bambine furono intitolati dagli stessi partecipanti Noi forzuti e Il libro delle scarpette di cristallo. Lo stereotipo, nel lavoro all’interno del grande gruppo, ha una iniziale funzione protettiva. Si tratta dell’utilizzo convenzionale di un’espressione che permette di riconoscersi. Per molti e molte costituisce il punto di partenza reale senza l’affermazione del quale il tragitto che porta alla sua elaborazione non ha motivo di cominciare. Lasciare allo stereotipo il tempo di esprimersi, senza contrastarlo immediatamente, significa essere disposti a riconoscere la persona così come sceglie o è costretta a presentarsi e ad accettare di cominciare il lavoro da quell’innegabile dato di fatto. 2 “Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come essere distinto e unico tra uguali. Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: ‘Chi sei?’”. Hanna Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991. Dossier 51 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo Io sono bella. Sono una femmina perché ho i capelli lunghi e perché certe volte a casa porto anche la gonnellina. Le femmine si riconoscono perché hanno le collane di perle, vanno al mercato e comprano le cose da mangiare. (Concetta, 5 anni, Il libro delle scarpette di cristallo 1996 ) Io sono M., sono un maschio perché ho due spade per uccidere gli altri uomini cattivi. Ho una casa con l’oro per comprare delle armi e vicino alla casa c’è una roccia. Ho anche un pugnale e quando ho le spade mi chiamo guerriero. (Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996 ) Mi piace essere maschio perché ci si può difendere con le cose che insegnano ai militari (Stefano, 9 anni, Generi in famiglia 1997) La mamma pensa che le femmine sono importanti per l’uomo perché fanno da mangiare, lavano, stirano e fanno i lavori casalinghi (Sabrina, 9 anni, Generi in famiglia 1997) Io voglio essere un re per comandare. (Enrico, 6 anni, La storia della forza tremante 1996) Mi piace essere maschio perché abbiamo schiave le donne (Giuliano, 9 anni, Generi in famiglia 1997) Questa sono io. A me piacciono i vestiti, mi metto gli anelli e le collane. Le femmine giocano con i bambolotti... Le femmine si mettono i tacchi alti. (Cristina, 5 anni, Il libro delle scarpette di cristallo 1996) In questa fase la funzione degli operatori è quella di permettere alle persone coinvolte di dire di più. Spesso è attraverso un semplice “cioè?” oppure un “ho capito bene..?” che essi inseriscono nella conversazione una sollecitazione a “dirla proprio tutta”. Si tratta di una richiesta di chiarimento più che di una domanda nel senso forte del termine. Una richiesta di chiarimento attenta a non aggiungere mai elementi che non siano già contenuti nelle parole che la precedono. - Noi facciamo degli altri giochi. Dei giochi che le femmine non fanno perché le femmine giocano con la cucina... Noi giochiamo alla lotta. - Fate anche la lotta? - Il gioco di pollo arrosto. - Come funziona questo gioco? - Eh, che bisogna dire pollo arrosto e diventi più forte. - E cosa vuol dire diventare più forte? - Vuol dire che hai più muscoli e sei più forte, Sei forte vuol dire che spacchi le panche. - E le femmine giocano a pollo arrosto? - No perché sono magre e non sono forti” Pietro, Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996 - Noi siamo delle femmine. 52 - Che cosa vuol dire essere una femmina per voi? - Perché siamo delle bambine. - E come si fa a capire? - Perché siamo nate bambine. - Quando siete nate come hanno fatto a capire che eravate delle bambine? - Perché... eravamo nate col fiocco rosa. - Siete venute fuori dalla pancia con un fiocco rosa? - No, ce l’hanno messo. - Ma come hanno fatto a capire che voi eravate delle femmine? - Ci hanno visto col fiocco rosa. (Michela, Marina, Cristina, 5 anni, Il libro delle scarpette di cristallo, 1996) Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo Lo stereotipo sembra essere una modalità di espressione necessaria. Il suo ruolo protettivo costituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare di sé. È come un tastare il terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterle innanzi che necessariamente precede la disponibilità ad “affidarsi” ad un ascoltatore, esterno o interno che sia. Ma se si ha la pazienza di ascoltarlo, senza opporvisi ideologicamente, di farlo parlare fino, per così dire, ad esaurirsi, allora accade che dal suo involucro comincino ad emergere voci estremamente più complesse di quanto il suo schematismo lasci trapelare: Mi sono sentito fare e dire delle cose che non avevo mai detto. La cosa più difficile è la rabbia... Perché a scuola se piangi non c’è conforto invece a casa c’è la mamma che mi consola. (Antonio, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997) Perdi il contatto con le capacità del tuo corpo, le conoscenze del tuo corpo, di misurare le sue possibilità... Ci autolimitiamo. Esplorare lo spazio? Quale spazio?.. Mi sono ritrovata a farlo per la prima volta. (Mara, 43 anni, L’unità divisa 1997) Mi sono sentita della forza nel corpo. La mia forza comandava. (Zineb, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997) L’uomo e la donna non hanno ruoli fissi, ma la nostra abitudine ci suggeriva che la donna doveva lavorare in casa e l’uomo doveva lavorare fuori (Vincenzo, 13 anni, Generi in famiglia 1997) Ora, per quanto queste voci possano apparire tutt’altro che stereotipate, scinderle dallo stereotipo, all’interno del quale, in un primo momento, si esprimono non è per niente facile. Per non dire poi decisamente arbitrario. Lo stereotipo rimane accanto all’espressione liberata dal suo stesso schematismo e la fatica sta nello stare di fronte a questa contraddizione senza la presunzione di volerla “risolvere”. - Che cosa vuol dire per voi essere una femmina? - Essere una ballerina. - Con la corona. - Con l’anello. - Gli orecchini. - Il vestito. - È una principessa. - E cosa fa questa principessa? Come si comporta? - Bene. - Che cosa vuol dire bene? - Gli piace ballare. - Gli piace cantare. - La femmina c’ha anche un cuoricino. Cioè? - Così... d’amore... Vuol dire che vuole bene. - Ah, allora la femmina vuole bene? - Vuole bene a tutti. - ... È gentile. - E cosa vuol dire essere gentile? - Così, guarda, così. (Una da un bacio all’altra). - E buona. - E buona? Come si fa ad essere buona? - Si deve stare in silenzio. - E ascoltare. - Ascoltare chi? - La maestra. - Poi cosa fare? Dossier 53 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo - La mamma, lavorare. - Ubbidire sempre. - Ubbidire al papà, ai fratelli, a tutti. - Ma a voi piace questa cosa? - Sì. - Vi piace ubbidire o vorreste fare delle altre cose qualche volta? - Io ubbidire.. - Io ubbidire.. - Io ubbidire.. - Sempre ubbidire? - Sììì!!! - Perché, è così bello ubbidire? - Perché se no andiamo a letto senza cena. - E a ubbidire come vi sentite? - Bene. (Cristina, Claudia, Manuela, Ester, Michela, 5 anni, Il libro delle scarpette di cristallo 1996 ) - I maschi difendono le femmine. - E come fanno a difenderle? - Con la guerra. - I maschi le salvano. - Perché le femmine da sole non si sanno salvare? - Perché loro non hanno i muscoli e i maschi le difendono da... - Chi vince... si prende una donna, invece se vince il cattivo il buono va via e si prende la sposa ma se la sposa vuole il catti- vo, la sposa si prende l’altro e se, la sposa, vince il buono non vuole il buono prende il cattivo. (Lorenzo, Pietro, 5 anni, Noi forzuti 1996) - E i maschi? - I maschi sono cattivi. - Ah, sono cattivi? - Un pochino. - Cioè spiegatemi. - Eh, fanno un po’ gli sciocchini. - Fanno i dispetti, danno i calci. - I pugni. - Le sberle, gli schiaffi. - E voi no? - No, noi non gli facciamo niente, ma dopo glieli ridiamo indietro. Perché loro ci hanno fatto male a noi. (Elena, Martina, 5 anni, Il libro delle scarpette di cristallo 1996) - A noi piace avere un bimbo nella pancia. - A me piacerebbe avere un bimbo nella pancia. - Anche a me perché lo vorrei tenere tutto per me... - ... Anch’io e dargli il nome, il nome Giovanni - A me piace molto averlo... - Però farà un po’ male alla pancia... (Pietro, Davide, Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996) La funzione della domanda: quando e come porla? Arriva a questo punto il momento in cui è possibile porre una domanda. La domanda va posta in modo tale da non impedire alla contraddizione di esprimersi ma anzi di rendersi manifesta e di essere compresa nel suo carattere di “indizio”. Siamo quello che diciamo di essere ma c’è anche dell’altro. E che cosa è questo altro? La domanda serve ad evidenziare le tracce da seguire per poter progredire. Ma sebbene inviti a seguire, non chiede un cammino passivo. Essa ha lo scopo di attrarre l’attenzione su quel punto di non connessione (l’indizio, la traccia) che è inizio di comprensione. Comprensione letteralmente significa “tenere insieme cose diverse tra loro”, “ab- 54 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo bracciare”. È il punto nel quale i forzuti dicono di desiderare un figlio, la sposa salvata dal buono decide di andare con il cattivo e le ballerine dalle scarpette di cristallo restituiscono, per sana legge del taglione, i calci ricevuti. È la scoperta della differenza a partire da sé e l’inizio di un percorso (l’acquisizione di un’identità) che chiede necessariamente di accogliere la propria contraddizione. - Io ho sempre saputo fin da piccola che le femmine maturano prima, che capiscono di più, che sanno com’è la vita e il mondo. - Perché i maschi quando vogliono una cosa insistono sempre. - ... Noi femmine invece non ci arrabbiamo mai... - ... Le femmine esprimono solo dolcezza... - Le femmine però non mi sembra che siano solo dolci... - Certe volte quando sono al limite devono sfogarsi e diventano aggressive. - Siete sicure che solo quando sono al limite? - Però anche quando siamo a metà. - Chi è stanca di essere dolce? - Io, vorrei essere amara, cattiva... - Quando mi arrabbio sento una cosa dentro di me, tipo un diavolo che ti dice: Dai sfogati, dai un calcio a quell’altro... Lo sento nel cuore e nella mente. (Elena, Ave, Marta, 9 anni, Corpo aggressività violenza 1998) - Io sono felice quando lei mi prende e poi mi lascia perché ha il diritto di stare anche con le altre e non deve stare solo con me. - Ma sei felice? - Sì. - Io non ti ho visto tante volte felice. (Fa il gesto così così). - Così così, cioè cosa vuol dire? - Un po’ mi sento un po’ male perché credo che non sia più mia amica e però mi sento anche un po’ felice perché ha il diritto di andare anche con le altre. - E la riesci a sopportare questa cosa? - Così così. - E quando lei ti lascia tu che cosa fai? - Io mi tengo qua (indica la gola) il pianto. - Dove qua, nella gola? - Sì. - Ti viene il magone? - Eh sì, il magone. - E non lo vuoi buttare fuori? - No . - E perché? - Perché mi vergogno. - Di chi ti vergogni? - Perché io sono già sono un po’ grande allora mi vergogno di piangere. - Perché piangere non si può da grande? - Sì, si può ma mi vergogno. - E... Quel pianto com’è? - È un po’ sorridente e un po’ piange. - E come lo definiresti quel pianto se gli dovessimo dare un aggettivo? Ti viene da piangere perché sei? - Sono un po’ contenta e un po’... non contenta. - Cioè, non contenta cosa? - Perché credo che non mi voglia più bene. - E quindi che cosa hai verso di lei? - Un po’ di rabbia. (Marta, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997) - Se uno è grosso fino al cielo il drago è meno forte. (M) - ... - A voi piacerebbe essere grandi? - Sì. (M,F) Dossier 55 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo - Perché se siete grandi cosa avete? - La forza. (M) - E con la forza cosa si può fare? - Tutto. (M) - E invece essere piccoli cosa vuol dire? - Vuol dire che non si riesce a fare niente e neanche qualcos’altro. (F) - E come si sente una cosa piccola? - Si sente un po’ scomoda. (F) - Cioè cosa vuol dire scomoda? - Vuol dire che vuol diventare grande. (F) - E quindi? - Si sente un po’ così cosà. (F) - Cioè? - Male. (F) - Perché? - Perché essere piccoli non piace. (F) - È una cosa che fa paura essere piccoli? A chi? - Io. (M). (Giacomo, Michele, Giada, Fiorenza, Sara, 5 anni, Il libro stregato 1997) Ma non sono sempre gli operatori a porre la domanda. Avviene infatti anche che essa provenga dalla parte cui si presumeva di indirizzarla. Si tratta di domanda nel senso forte di cui si è detto prima. Domanda capace di cogliere il punto di crisi e di riproporlo, in questo caso all’operatore, come traccia da seguire nel suo percorso di approfondimento. (Il neretto indica, in questo caso, la voce dei bambini e delle bambine). - La vera domanda è cos’è la paura? (M) - Eh... Cos’è la paura? - Eh, io non lo so. Io me lo chiedo, ma non so la risposta... (M) - Cos’è la paura per te? (M) - Cos’è la paura? È un bel problema in effetti. - Noi l’abbiamo detto, però sei te che non hai detto niente. (M) - Hai ragione. - Adesso te fai la bimba, va bene? (F) - E noi siamo sedici maestri. (M) - Allora cos’è la paura... Infatti questa domanda che tu mi hai fatto mi ha molto colpita. Se devo dire la verità non è che poi io sappia tanto rispondere a questa domanda. - Nessuno lo sa. (M)”. (Fiamma, Beatrice, Giovanni, Luca, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1997) - I maschi hanno un pisello e le femmine una pisella... - Il pisello e la pisella sono segni della diversità e così nella scuola siamo partiti da quello per capire cosa vuol dire essere diversi o simili... - E cosa vuol dire buono o cattivo? Perché per la gente buono e cattivo sono due cose diverse ma non è così. (Marta, 9 anni, Conversazioni 1997) Comincia a manifestarsi una posizione Se la domanda è una domanda reale e non preoccupata di trovare conferme al suo porsi, anzitutto in chi la esplicita, se è posta al momento giusto, se infine ha la forza di accettare quello che non può a questo punto definirsi come una mera risposta ma come una vera e propria posizione, allora lo stereotipo non ha più ragione di r-esistere. La concretezza della propria storia affiora in tutta la sua complessità e l’esperienza di sé in quanto maschi e femmine comincia a mostrarsi in tutta la sua contraddittoria vitalità. 56 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo Parametri di convenzionale valutazione delle posizioni femminile e maschile risultano a quel punto scardinati da espressioni realmente variegate e tutt’altro che confuse. Esse dimostrano come l’acquisizione di un’identità avvenga nella messa in relazione di forze tra loro contrastanti, differenti, nell’assunzione della complessità, della contraddizione che siamo. - E allora com’è? Ce l’aveva paura o no? - Per me la paura ce l’aveva ma non la usava. - Cosa vuol dire non usare la paura? - Di non essere coraggiosi. - La paura l’aveva ma non la usava, cioè? Prova a spiegarci meglio... Che cosa vuol dire che non la usava? - Che... non mi viene la parola. - Cosa intendi tu per usarla? - Se la uso ho paura, se non la uso vuol dire che non ho paura però ce l’ho la paura. - Ho capito, allora se la usi vuol dire che hai paura e hai paura, invece... Invece se non la usi vuol dire che ce l’ho dentro di me però non la uso, la tengo lì dentro a fare niente - Quindi che cosa vuol dire? Uno dentro di lui ha paura... vuol dire una cosa tipo che fa finta di non averla? - Eh, sì. Lui la paura la pensa solo, però non fa: “Aiuto!”, sta zitto. (Giovanni, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1998) - Io invece quando parlo che poi dico delle cose che a mia mamma la fanno ridere lei è gentile e poi dice: Eh quando sarai grande non li devi fare questi discorsi. E poi quando la faccio arrabbiare che tante volte gli faccio... (agita una mano) ma non gliela do...: “Mamma, la vedi questa mano?..”, allora lei mi dice: Eh guarda che ce ne vuole ancora di tem- po per diventare grandi... Perché io faccio così se no gli do una sberla... - La vorresti picchiare, le vorresti dare una sberla? - Sì e lì quando mia mamma mi picchia mi sento grande e invece quando sono buona mi sento piccola (Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997) Mi piace essere maschio perché non devo partorire mai. Non mi piace essere maschio quando si deve andare con la banda di soli uomini per esempio in guerra o qualcos’altro (Salvatore, 9 anni, Generi in famiglia 1997) L’aggressività la tiro fuori con molta facilità, non altrettanto l’intimità. Mi sento più sicura quando sono aggressiva. Sono diventata così anche nel rapporto sentimentale. Voglio dominare io, condurre il gioco io... Faccio fatica a toccare le persone e non mi piace essere toccata. (Monica, 35 anni, L’unità divisa 1998) Io quando penso a essere sempre e non guardo niente, dico: Ho coraggio, comando tutto, poi dopo... si guarda attorno e pensa che non può comandare tutto. (Flavio, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1998) Le cose sono molto intrecciate. (Francesca, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1996) Comprendere la complessità Ora se la complessità è percepita anzitutto internamente, e se il lavoro educativo ne sollecita l’elaborazione in quanto punto di forza, la persona che la esperimenta, la riconosce Dossier 57 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo e la nomina diventa anche consapevole di avere in sé gli strumenti che le consentono di rapportarsi all’altro, all’altra; di sostenere la sua presenza senza tradire la propria. Paura e desiderio, disponibilità e difesa, forza e debolezza sono allora comprese in un ordine. L’identità le contiene e le esprime senza esserne sopraffatta ma divenendo piuttosto in tal senso veicolo di reciprocità. Mio babbo dice che per litigare bisogna essere sempre in due (Gabriele, 9 anni, Generi in famiglia 1996) Ho provato tristezza, paura, felicezza, rabbia. (Filippo, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997) Maschi e femmine sono diversi per riconoscersi (Alessandro, 11 anni, Merlo o merla? 1998) Quando spingevo l’altro sentivo che qualcuno mi desse tutta la forza per spingere l’altro, praticamente un sentimento che non avevo mai sentito. Quando l’altro mi spingeva io sentivo un coraggio meraviglioso dentro di me che cercava di mantenermi ferma. (Zineb, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997) Io la odio e la vorrei ammazzare, distruggere. Sarei un po’ triste se la distruggo ma sarei felice. Quando faccio così mi sento aggressiva e dopo mi sento bene. (Olga, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997) - Quando hai paura cosa fai? - Sono così (trema tutto). - Tremi allora. - Ma dopo sento il cuore che mi dice: “Non tremare, non tremare che tu sei forte”. Allora ho smesso di tremare e dopo sono stato fermo. (Marco, 7 anni, La paura ti spaventa e poi scappa via 1997) - ... Questi personaggi provano dei sentimenti non sempre uguali... E a voi vi succede di essere anche così diversi, di essere buoni però anche cattivi, di essere tristi però anche arrabbiati... Di volere bene e... - Come un divorzio? - Cioè? - Ti innamori e poi ti lasci. (Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997) - Il momento della divisione è il momento della liberazione. Ricomincio a stare da sola... sto bene. - ... Si stava bene insieme... Da sola continuavo a pensare come si stava bene insieme - Io dico sempre che da sola sto bene ma non è vero. Mento a me stessa. (Serena, Angelica, Mara, 31, 40, 43 anni, L’unità divisa 1997) L’incontro Ed è attraverso la consapevolezza del proprio essere “fatti di parti” che arriva ad esprimersi l’esigenza dell’incontro. Si tratta dell’aspirazione ad una pienezza, ad un ricongiungimento profondo, intimo cui l’“anelito amoroso”, fin dalle sue prime manifestazioni, cerca in qualche modo di dare voce. È una voce che ad ascoltarla bene, non separa mai interno ed esterno ma piuttosto continuamente collega e insieme contiene quelli che il nostro linguaggio dualistico altro non riesce a definire che “dentro” e, separatamente, “fuori”. 58 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo C’era un’oca e un oco. Questo oco andava a giocare con la mucca. Una volta la mucca gli ha dato una spinta con il muso che dopo l’oco è andato sotto la ruota del trattore. Allora dopo la donna, l’oca, lo cercava sempre però non l’ha più trovato e così per il dispiacere che lui era morto non ha più covato le uova quindi non ha fatto più figli. (Pietro, 7 anni, Merlo o merla? 1998) - L’amore non può essere solo baciare, può essere anche volersi bene che non ci si bacia... Uno vuole bene a una persona però non la bacia. - Però l’amore non vuol dire proprio tra maschio e femmina che... Ad esempio io voglio bene all’I., io voglio bene alla C., ad esempio io voglio bene alla G., ma non ci amiamo, cioè ci amiamo però... (Cecilia, Giulia, 8 anni, L’amore indimenticabile di un’unità 1998) Dove sei mia unica figlia? Tu mio dolce germoglio? Rispondi a tua madre che ti cerca e ti cerca; ti cercherò fin in capo al mondo pur di trovarti, so che sei da qualche parte, rispondi... Ti cercherò fin in capo al mondo. Chiunque l’avrà presa me la pagherà cara, anzi carissima. Fino al tuo ritorno mi circonderanno dolore, rabbia e tristezza. Torna o mio germoglio, torna o mia unica figlia, torna, torna da tua madre. (Marta, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1996) - Un giorno in piscina siamo entrati nello spogliatoio delle femmine e le abbiamo viste tutte nude. - Erano bellissime. (Michele, Lorenzo, 7 anni, Corpo aggressività violenza 1997) Quando ho incontrato l’altra un po’ tremavo ma non era paura, era imbarazzo. Quando lei se n’è andata ho sentito una sensazione di solitudine. (Armanda, 56 anni, L’unità divisa 1997) - Io prima di oggi non ci ero mai andato a pensare, non mi ero mai fermato a pensare da dove deriva l’amore... (M) - Gli studiosi scientifici lo sanno come è nato l’uomo, però dell’amore lasciano immaginare perché non lo sanno... (M) - Sanno come si fa, ma non sanno da cosa viene... (M) - Noi bambini non è che ce ne intendiamo tanto dell’amore... (M) - Perché cosa bisogna avere per intendersi dell’amore? (F) - Esperienza. (M) - ... Poi a scuola le nostre maestre ci dicono che noi siamo troppo piccoli per amare. (F) - E voi cosa ne pensate? (F) - Non è giusto... (F). (Arianna, Ruggero, Erica, Matteo, 8-10 anni, Uguali ma diversi 1998) - A. e A. sono innamorati. - Ah, siete innamorati? E secondo te Ave che cos’è l’amore? Prima hai detto che è una cosa bella? - Sì perché sei felice, perché poi se non ti sposi, non ti innamori sei sola, non sai cosa fare... - Per me è un sentimento di emozione. (Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997) - Perché è più forte di loro... - Che cosa è più forte di loro? - L’amore. - E cioè cosa vuol dire? - Vuol dire che non si riescono... Come si dice? - ... A separare. (Edoardo, Tommaso, 6 anni, La storia) della forza tremante 1996) Dossier 59 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo Unicità e unità La definizione, pur anche stereotipata, del maschile e del femminile è quel punto di partenza che permette di sottolineare quella differenza che è sottesa a tutte le altre. La funzione di questo lavoro è quella di sollecitare chi la riconosce a compiere un percorso. Per suo tramite, la differenza stessa dal suo grottesco stigmatismo, dimettendo progressivamente l’abito della contrapposizione, impara a scoprirsi anche nell’identità. È il passaggio dall’identità dualistica che comprende in sé schematicamente polarizzati maschile e femminile all’identità integrata quella che così mirabilmente Simone Weil esprime nei suoi Commenti a Platone: La nostra sventura è di essere in stato di dualità... La separazione dei sessi non è che un’immagine sensibile di questo stato di dualità... che è la nostra sventura è il taglio, la frattura per cui colui che ama è altro da ciò che è amato, colui che conosce è altro da ciò che è conosciuto, la materia dell’azione è altra da colui che agisce; è la separazione tra soggetto e oggetto. L’unione è lo stato nel quale soggetto e oggetto sono una sola e medesima cosa, è lo stato di colui che conosce se stesso e ama se stesso. (Simone Weil, Intuitions pré-chrétiennes, 1941-1942). Ora, tornando per concludere ai testi riportati in apertura, ritengo utile esprimere qualche considerazione che ne renda forse più comprensibile la citazione. L’Uno di Hanna Arendt nulla ha a che fare con l’unità di cui scrive Simone Weil. L’unità è la ricongiunzione a seguito della separazione, l’Uno è l’indifferenziato che nega la pluralità. Simone Weil parla dell’unione ma di quest’unione continua a nominare le componenti. La sola e medesima cosa di soggetto e oggetto potremmo anche definirla l’identità che accoglie e ama la propria complessità e che per questo è pronta ad accogliere ed amare ogni alterità. In questi termini essa ricompone alfine la differenza senza negarne l’esistenza, senza dimenticare che è la via attraverso la quale è divenuta tale. L’unità non confonde; la separazione è assorbita ma non ne viene cancellata la memoria. L’Uno concede invece l’unica possibilità della subordinazione, rimarcando alfine la differenza nell’unica forma della polarizzazione. *Specializzata in antropologia di genere. Lavora dal 1993 per organismi di Pari Opportunità occupandosi di formazione, orientamento al lavoro, mediazione linguistica e culturale e, in particolare, di progetti di educazione al confronto tra generi e culture. Bibliografia Arendt H., Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1997. Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1998. Braidotti R. e Butler J., Femminismo, anche con altro nome…, in Bellagamba A., Di Cori P. e Braidotti R., Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender theories, in Il filo di Arianna (a cura di), La Differenza non sia un fiore di serra, Angeli, Milano 1991. Butler J., Corpi che contano. I limiti discorsivi del ‘sesso’, Feltrinelli, Milano 1997. Cigarini L., La politica del desiderio, Pratiche Editrice, Parma 1995. Cixous H., Sorties, in Menlo Marks E. e De Courtivron I., New french feminism, Schocken, New York 1981. Irigaray L., Chi sono io? Chi sei tu?, Biblioteca di Casalmaggiore, Casalmaggiore 1999. Restaino F. e Cavarero A., Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999. 60 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola L’accoglienza e l’integrazione nelle scuole degli alunni istituzionalizzati e adottati La scuola, oggi più che in passato, è chiamata a dare risposte sempre più appropriate a richieste educative nuove, talvolta anche insospettabili e per le quali spesso si trova impreparata. Tuttavia, essa, pur di non venire mai meno ai suoi compiti istituzionali, etici e sociali, una volta intercettato il nuovo bisogno educativo, si organizza per conoscerlo, interpretarlo e soddisfarlo. E’ proprio in questo ambito della pedagogia speciale che si colloca l’esperienza che sto conducendo nella provincia di Caltanissetta. Carmelo Benfante Picogna* Tra i tanti aspetti critici della quotidianità scolastica, quello dell’accoglienza degli alunni destinatari di provvedimenti giudiziari, personali o di riflesso, e adottati è uno dei meno codificati. Nel primo caso si tratta di alunni che, per svariatissimi motivi riguardanti loro personalmente o le famiglie di provenienza, sono allontanati, momentaneamente o definitivamente, dal loro ambiente di appartenenza per essere affidati ai servizi sociali o comunità penali di luoghi più o meno lontani dalla loro residenza abituale mentre nel secondo caso si tratta di alunni adottati o in affido eterofamiliale. In entrambi i casi comunque siamo di fronte a bambini o ragazzi con bisogni speciali. E’ ovvio, e su ciò siamo tutti d’accordo, che questi bambini o ragazzi, ancora soggetti all’obbligo scolastico, devono frequentare la scuola. Quello che invece è impensabile concepire, ma ahimè è esattamente quello che avviene, è il fatto che questi bambini da un giorno all’altro (e non è un modo di dire), si vedono catapultati da una famiglia, o casa-famiglia, da una scuola, da una città ad un istituto, ad un’altra scuola ad un’altra città. Già basta questo per comprendere a quali turbamenti siano sottoposti! L’avere allontanato il soggetto da una situazione manifestamente o potenzialmente patologica va giustamente interpretato come un fatto positivo oltre che giuridicamente doveroso, ma l’aver o il non aver considerato adeguatamente l’accoglienza nella nuova realtà è un fattore molto determinante per il recupero della serenità del bambino/ragazzo. Nelle scuole in cui il flusso in entrata e uscita di questi alunni è molto alto il problema sta evidenziando implicazioni socio-educative e professionali molto rilevanti. Da una parte vi è il dovere del rispetto delle norme al quale nessuno vuole sottrarsi e quello etico-sociale connaturato con la missione della scuola, dall’altra la difficoltà oggettiva a dare seguito a queste istanze senza gli strumenti che richiederebbero. Si tratta, dunque, di trovare un punto d’incontro tra le diverse esigenze, giudiziarie, sociali, scolastiche e psico-pedagogiche per far si che la presa in carico dell’alunno de quo avvenga in modo sinergico, tempestivo e con la massima attenzione al suo già fragile sistema psicologico. Per far questo occorre costruire un know how adeguato e non demandato solo ed esclusivamente alla scuola. Dossier 61 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/L’accoglienza_e_l’integrazione_nelle_scuole Ecco, dunque, il protocollo d’intesa seguito ad un anno di lavoro presso l’Ufficio Scolastico di Caltanissetta. Dopo aver monitorato il fenomeno nelle scuole ed avere accertato che oltre cento alunni si trovano nelle condizioni appena descritte abbiamo costituito un gruppo di lavoro istituzionale, affiancato successivamente da quello interistituzionale (Prefettura, Procura della Repubblica e Tribunale per i minorenni, Istituto penale minorile, case-famiglia, Provincia, Questura, AUSL) per capire come ciascuna Istituzione opera nella gestione della propria parte del caso. Ci siamo resi immediatamente conto che occorrono maggiore comunicazione, sinergia ma soprattutto una regia unica che, pur rispettando la specificità (e nel caso degli atti dell’Autorità Giudiziaria il massimo riserbo) degli interventi di ciascuna Istituzione, affronti la gestione dell’alunno adottato o istituzionalizzato sin dal primo atto. Il protocollo è stato siglato lo scorso 12 dicembre presso i locali dell’Ufficio Scolastico di Caltanissetta ed erano presenti oltre il Dirigente, il Prefetto, il Presidente della Provincia, Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, il Presidente del Tribunale per i minorenni, il Questore, il Direttore Amministrativo dell’AUSL2 e tutto il gruppo di progetto che ha lavorato nella definizione del testo del protocollo. Già il prossimo mese di gennaio si partirà con la formazione del personale scolastico e degli altri operatori appartenenti alle amministrazioni partners. Di seguito il testo di alcuni degli articoli più significativi del Protocollo siglato: PROTOCOLLO D’INTESA TRA UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO-PREFETTURA -CALTANISSETTA PROVINCIA REGIONALE - CALTANISSETTA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI TRIBUNALE PER I MINORENNI -CALTANISSETTA; QUESTURA DI CALTANISSETTA -UFFICIO MINORI; AUSL 2 DI CALTANISSETTA -SERVIZIO DI PSICOLOGIA- U. O. ADOZIONI UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE CALTANISSETTA; PREMESSA Il diritto allo studio rappresenta per tutti gli alunni l’affermazione di un principio Costituzionale ineludibile il cui esercizio non può e non deve essere messo in discussione né tantomeno minato da problemi di comunicazione e integrazione in seno alle Istituzioni. In particolare, l’inserimento e l’integrazione dei minori adottati o comunque provenienti da altri Paesi e/o di differenti culture nonché dei minori seguiti dagli Uffici Giudiziari Minorili rappresenta un passaggio importante e delicato, che richiede la piena partecipazione delle Istituzioni firmatarie del presente Protocollo. Infatti, la scuola, che in questi momenti così particolari della vita del bambino costituisce un importante punto di riferimento, da sola rischierebbe di fallire in questo intento se non adeguatamente supportata dalle altre Istituzioni. E’ nella scuola, infatti, che saranno affrontate le necessità connesse alle specifiche condizioni dei predetti alunni, anche con riferimento alle diverse fasi dello sviluppo e della crescita di essi. Diviene, pertanto, necessario individuare dei punti di convergenza, di incontro programmatico e di distribuzione-integrazione dei compiti tra i diversi Enti e le diverse Istituzioni territoriali. 62 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/L’accoglienza_e_l’integrazione_nelle_scuole Articolo 1 – Oggetto ed obiettivi L’UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE (NUCLEO AUTONOMIA SCOLASTICASUPPORTO ALLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE) per assicurare, ottimizzare e coordinare, con le istituzioni scolastiche, di prevenzione e giudiziarie, sanitarie e con il territorio, i servizi da erogare e le azioni da intraprendere a favore degli alunni, istituisce un Tavolo Tecnico permanente per esaminare e gestire in modo concertato le problematiche che riguardano la loro accoglienza, integrazione ed il loro esercizio completo del diritto allo studio; la formazione e l’aggiornamento del personale scolastico (Dirigente, Docente, ATA), giudiziario, sanitario, degli Enti Locali e delle Forze dell’ordine. Ciascun soggetto nel cooperare alla programmazione e alle attività comuni è chiamato a rendere effettivi gli scambi con altri soggetti, le competenze, il linguaggio e il sapere specifico; a ciascun soggetto dovrà comunque essere offerta l’opportunità di porsi in relazione, nel rispetto delle diverse identità.La collaborazione tra le Istituzioni sottoscrittrici sarà realizzata tenendo conto di tutti gli elementi connessi all’analisi dei bisogni, alle risposte da offrire e alla necessaria mutevolezza delle stesse in relazione allo stato di salute e allo sviluppo del percorso formativo del singolo individuo. Articolo 2 – Tavolo Tecnico Il Tavolo Tecnico, che ha sede presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta, è composto da un rappresentante per ciascuna Istituzione sottoscrittrice designato dai rappresentanti legali di ciascuna delle Parti. Il Tavolo Tecnico dovrà: • Sovrintendere alla corretta applicazione del Protocollo d’intesa; • Formulare le proposte adeguate ad ogni singola situazione e proporle agli organi competenti presso ciascuna delle Istituzioni firmatarie; • Coordinare l’attività degli interventi; • Promuovere la formazione, l’aggiornamento, la ricerca, il monitoraggio, il coordinamento, occupandosi della supervisione; • Svolgere attività permanente di osservatorio sull’impatto delle decisioni; • Evidenziare le aree di criticità da portare all’attenzione di altri tavoli e organismi che operano nel settore; • Redigere una relazione annuale delle attività da presentare ai Legali Rappresentanti delle singole Istituzioni sottoscrittrici; • Coordinare preventivamente l’inserimento degli alunni attraverso opportuni contatti con gli operatori scolastici. Il Tavolo Tecnico si riunisce ogni tre mesi nei locali dell’Ufficio Scolastico Provinciale. Articolo 3 – Formazione Le Parti si impegnano, ciascuna per la loro competenza, a fornire proprio personale per progettare, realizzare e supportare percorsi formativi rivolti agli operatori delle istituzioni aderenti al Protocollo e ai genitori. *Insegnante, si occupa di supporto all’Autonomia Scolastica presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta Dossier 63 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola Dalla parte della costituzione Parlerò da uomo di scuola, che nella scuola ha sempre profondamente creduto, che la scuola non ha mai considerato un mestiere e che, se gli fosse dato di rinascere, tornerebbe a fare il professore Alcide Malagugini* Non ripeterò, o almeno mi sforzerò di non ripetere, quanto hanno detto altri colleghi, specialmente l’onorevole Binni, e poco fa l’onorevole Codignola, con le cui conclusioni sostanzialmente concordo, anche se da essi qualche sfumatura mi divide: di forma più che altro e di intonazione. Non lo ripeterò, anzitutto per ragioni di buon gusto e di economia di tempo, ma anche perché essi sono giovani e filosofi, ed io, ahimé, giovane più non sono e con la filosofia, intesa almeno nel senso dottrinale e scientifico della parola, non ho mai avuto, lo confesso e non me ne vanto, una soverchia dimestichezza. Non disturberò, quindi, le ombre magnanime dei grandi pensatori antichi e moderni, ma parlerò praticamente da uomo di scuola, che nella scuola ha sempre profondamente creduto, che la scuola non ha mai considerato un mestiere, che alla scuola ha dato - perdonatemi l’espressione anche se può sembrare immodesta – il meglio del suo intelletto e del suo cuore; e che, se gli fosse dato di rinascere, tornerebbe a fare il professore. Curioso destino il mio, che mi consente di parlare di questo argomento alla luce di una esperienza multiforme, talvolta non lieta, ma sempre istruttiva. Infatti, ho iniziato la mia carriera nelle scuole di Stato; estromessone per incompatibilità con le direttive politiche del governo fascista, ho insegnato per parecchio tempo in un vecchio istituto privato, ora scomparso, che chiamerò laico tanto per intenderci, anche se diretto da una figura ascetica di apostolo della scuola e della fede, Francesco Grassi; che nessuno o quasi di voi avrà sentito nominare, ma che fu scienziato illustre e maestro incomparabile, di una vita così illibata, di una religiosità così alta e pura, da farmi pensare, colleghi democristiani, che la santità non possa avere caratteristiche o aspetto diversi dal suo. Poi fu la volta di un istituto religioso parificato, fra i più seri e accreditati; infine ebbi l’audacia di dar vita a una scuola mia personale, di carattere strettamente privato, senza alcun riconoscimento legale, vissuta, come potete immaginare, piuttosto pericolosamente, ma che resistette tenace fino a quando, incalzando gli eventi, la maggior parte dei docenti e dei discepoli prese la via della congiura o della montagna. Scuola di Stato, scuola privata aconfessionale, istituto religioso parificato, mi ebbero successivamente insegnante; una scuola personale, non legalmente riconosciuta, assolutamente libera, mi ebbe direttore e maestro. E fu - ve lo assicuro - osservatorio assai interessante. Nella scuola di stato pre-fascista non tutto, è vero, andava nel migliore dei modi; ma si studiava sul serio e i professori, pur con stipendi modesti, compivano nobilmente il loro dovere. E i giovani crescevano moralmente sani e affrontavano gli 64 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/dalla_parte_della_costituzione uffici e le libere professioni sufficientemente preparati. Una prima scossa la scuola subì in occasione della guerra 1915-1918; non tanto durante il suo svolgimento, quanto dopo la sua conclusione. Era il collasso inevitabile dopo lo sforzo immane. Poi la lotta politica assunse forme sempre più aspre, ma la scuola non ne risentì, se non in una minore severità di giudizio resa inevitabile dalla necessità di sanare lo sconvolgimento prodotto dalla guerra. Allora le scuole private non erano molte; pochissime, come adesso del resto, le scuole pareggiate; e la parola «parificazione» non era stata ancora inventata o, per lo meno, non era stata introdotta nel vocabolario della legislazione scolastica. Con il fascismo cominciarono, ed era naturale, i guai. E se è vero che la scuola oppose per qualche tempo una certa resistenza, che torna a suo onore, una certa resistenza passiva al nuovo ordine che si proclamava di voler instaurare in tutti i settori della vita nazionale, non si può d’altra parte negare che dopo il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 ogni resistenza fu infranta e si passò, lentamente ma inesorabilmente, alle abdicazioni e alle prostituzioni, attraverso le quali la scuola perdette ogni suo carattere educativo per diventare strumento di dominio e preparatrice di servi ignoranti e presuntuosi. La scuola, ho detto, tutta la scuola con poche apprezzabili eccezioni e senza sensibili distinzioni. Tutta la scuola: pubblica e privata, parificata e non parificata, dal cosiddetto ordine elementare all’ordine medio o secondario, all’ordine universitario. [...] A che cosa è servita la scuola privata, la scuola libera, la scuola orientata, come direbbe l’onorevole Colonnetti; quale compito diverso dalla statale ha essa assolto in regime di servitù politica [...]? E quali posizioni minacciate deve essa ora difendere in regime democratico se la scuola di Stato è (non sono parole mie, sono parole dell’onorevole Moro che traggo dalla sua relazione) se la scuola di Stato è la scuola di tutti a servizio di tutti? D’accordo con lui, che essa deve «meritare la fiducia di tutti i cittadini i quali possono conformarla come meglio credono in relazione ai loro orientamenti spirituali e morali». D’accordissimo che essa deve «esprimere senza falsificazione la profonda volontà del popolo italiano e deve essere tale da meritare la fiducia delle famiglie ». E come può egli temere che avvenga altrimenti se la scuola di Stato sarà organizzata dallo Stato attraverso le leggi studiate ed emanate dal Parlamento, libera espressione di quella profonda volontà del popolo italiano che, se non erriamo, è tutt’uno con le famiglie di cui deve meritare la fiducia? Perché la scuola esprima la volontà del popolo e meriti la fiducia delle famiglie, creda a me l’onorevole Moro, credano a me i colleghi della Democrazia Cristiana, non occorre tanto che vi si insegni il catechismo [...] ma è necessario che vi si spieghino seriamente e intelligentemente le lettere e le scienze costituenti il programma dei singoli corsi, che si coltivino con amore le attitudini naturali dei figlioli, che si infonda loro entusiasmo per tutto ciò che è bello, che è vero, che è buono (io rimango fedele a questo vecchio trinomio anche se a tal uno sembrerà che odori di naftalina); occorre in una parola che l’insegnante sia un maestro nel senso più nobile e più completo della parola. Ed eccoci al punto per me fondamentale. Dossier 65 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/dalla_parte_della_costituzione L’onorevole Colonnetti, iniziando il suo discorso, ha detto che il problema della scuola è un problema di libertà. Ebbene, a costo di passare per semplicista, io affermo che il problema della scuola è un problema di insegnanti o il problema degli insegnanti. Assicurare agli insegnanti condizioni economiche, giuridiche e morali dignitose che consentano loro non solo di vivere materialmente, ma di integrare ed aggiornare continuamente la loro cultura e la loro preparazione: ecco il dovere dello Stato. E poi essere inesorabile nel pretendere che essi facciano tutto intero il loro dovere, eliminando senza pietà gli inetti e gli indegni. Un problema, lo so, che non si risolve in poco tempo; occorreranno degli anni, bisognerà a poco a poco rinnovare i quadri, ché i vecchi irrugginiscono o scompaiono e i giovani, anche se colti e preparati a insegnare, non sono sempre maturi per essere degli educatori, dato il clima in cui son nati e in cui si sono formati. Ma una cosa è certa: che lo Stato dovrà concentrare ogni suo sforzo per una soluzione alla quale tutti sentiamo, che sono legate le possibilità di resurrezione morale del nostro Paese. [...] Un accenno, rapidissimo, al cosiddetto «esame di Stato» che - come ebbi a dire qualche giorno fa interrompendo un collega - non deve essere l’esame contro lo Stato, cioè fatto per imbrogliare lo Stato. [...] Bisognerà rivedere la tecnica dell’esame di Stato. Vi siete mai domandati, egregi colleghi - parlo a quelli di voi che non sono giovanissimi e che, o come insegnanti o come padri di famiglia, o anche come candidati hanno avuto a che fare con l’esame di Stato - vi siete mai domandati perché, anche nella sua forma originaria, questa prova abbia rivelato nella pratica attuazione tanti inconvenienti? Il difetto fondamentale consisteva nella formazione delle commissioni esaminatrici, non sempre all’altezza del compito ad esse affidato [...]. In secondo luogo, molti dei commissari, pur valenti nella loro singola materia, mancavano di equilibrio e di comprensione e o non davano alcuna importanza alla carica e promuovevano tutti, o peccavano di eccessiva severità -e facevano strage, persuasi che nello scibile non esistesse altra disciplina che la loro, oppure si comportavano in modo stravagante, facendo domande impossibili, le più strane e strampalate, e provando una sadica voluttà quando vedevano la vittima prescelta confondersi e arrendersi a discrezione. Ebbene, in quegli anni lontani, io ho sempre chiesto a me stesso (non potevo chiederlo ad altri, da quel reprobo che ero) ho sempre chiesto a me stesso come mai il Ministero non utilizzava i suoi ispettori, integrandone magari il numero con altri elementi idonei, per distribuirli come osservatori nelle varie sedi di esame, in modo che dopo tre o quattro anni si costituisse un corpo di esaminatori selezionati, con la eliminazione degli scettici, dei cerberi e dei pazzi. Quello che non si è fatto allora - perché, come le successive deformazioni hanno dimostrato, non si volevano e non si sapevano fare le cose sul serio -si potrà e si dovrà fare domani, quando l’Assemblea legislativa sarà chiamata a riordinare tutta la complessa materia scolastica. Ho detto riordinare, evitando di proposito la parola riforma, della quale l’esperienza mi ha insegnato a diffidare. Io penso, e non da oggi, che in fatto di scuola, di educazione, di cultura, tutti gli ordinamenti sono buoni o suscettibili di buoni risultati: il problema sta tutto nel modo con cui la scuola si fa, con cui la cultura si impartisce, con cui l’educazione 66 Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/dalla_parte_della_costituzione si forma. In una parola - ripeto quanto ho già detto poc’anzi - il problema sta tutto negli insegnanti. [...] Libertà nella scuola, più e prima che libertà della scuola; purché si tenga sempre presente il principio del retore antico maxima debetur puero reverentia, non molto dissimile, del resto, dal res sacra puer, che è stato più volte ricordato da precedenti oratori. Principio che solo le tirannidi non possono, per ovvie ragioni, accettare e al quale solo uomini liberi e amanti della libertà possono attenersi. Nel lontano 1926 un Ministro fascista, alla caccia di pretesti per allontanare dalla scuola gli spiriti liberi, affermava, tra l’altro, che il mio passato politico di fervente sovversivo non offriva nessuna garanzia di fedele adempimento dei miei doveri scolastici. Ebbene, in una lettera che il tempo ha ingiallito, ma che io conservo come il mio maggior titolo di orgoglio, rispondevo -pur riaffermando la mia fede incrollabile nella idealità socialista, che poteva come può essere mal servita dagli uomini o magari bestemmiata dai partiti, ma è pur sempre « luce nuova, sole nuovo che sorgerà dove l’usato tramonterà» -, rispondevo, ripeto, che nella scuola io non avevo e non avrei mai portato l’eco delle battaglie politiche o, peggio, il fermento delle passioni di parte. Questa concezione, dopo tanti anni e tante vicende, io non mi sento di abbandonare; a questa concezione persisto a credere che tutti gli uomini liberi debbano rendere omaggio. Del resto, egregi colleghi, tutte queste iniziative, queste manifestazioni, questi tentativi di svincolarsi dalla autorità dello Stato, queste conversioni, spesso di data recente, a forme di autonomia in altri tempi aspramente combattute o sprezzantemente derise, sono sempre molto sospette. Si ha l’impressione - io almeno ho l’impressione che credo condivisa da questa parte dell’ Assemblea -che, fino a quando lo Stato era tutto e completamente nelle mani dei ceti privilegiati e delle forze conservatrici, da parecchi degli attuali assertori di libertà e di autonomia (o meglio dai loro naturali legittimi predecessori) si facesse ogni sforzo per consolidarne l’autorità e difenderne la sovranità in tutti i suoi attributi. [...] Oggi in cui le forze nuove, le forze del lavoro hanno cominciato a penetrare, purtroppo ancora assai debolmente, negli ingranaggi dello Stato, e tentano, nel più scrupoloso rispetto della legalità democratica, di smantellare l’edificio del privilegio e della conservazione trasformandolo nella casa di tutti per creare condizioni di vita più umane agli umili e ai diseredati -gli statalisti di ieri, quelli che facevano propria e applaudivano la formula «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» sono improvvisamente diventati fierissimi fautori del principio opposto e attribuiscono al centralismo statale tutti i guai di cui soffre il nostro infelicissimo Paese. Io non intendo qui soffermarmi sul complesso problema, che avrà modo di essere ampiamente trattato a proposito di altri titoli della Costituzione. Affermo soltanto che, anche per quel che riguarda la scuola, sono affiorate e vanno moltiplicandosi da qualche tempo a questa parte, spesso inconfessatamente e da parte di tal uni forse involontariamente, preoccupazioni e tentativi del genere. Ora noi diciamo, rifacendoci a quanto nella discussione generate ebbe a raccomandare il compagno nostro onorevole Basso, che la Costituzione non può e non deve essere Dossier 67 - o almeno non dovrebbe essere –un documento di parte, sia pure della parte che ha nell’ Assemblea il maggior numero di rappresentanti. Già in taluni degli articoli fin qui approvati c’è stata la prepotente affermazione di questa volontà preponderante. Non credo che fareste opera saggia e duratura, o colleghi della Democrazia Cristiana, se continuaste oggi, a proposito della scuola, come domani per altri gravi problemi che verranno in discussione, ad imporre il vostro punto di vista fidando su maggioranze occasionali e provocando alleanze innaturali o pericolose. (Commenti). Io non voglio aver la pretesa di darvi consigli né aver l’aria di abusare della mozione degli affetti. Vi dico soltanto: facciamo una Costituzione che sia veramente tale e non un ibrido miscuglio di principi generali e di disposizioni legislative. Credete nella bontà della vostra politica? Avete la certezza o almeno la fiducia che il Paese la comprenda e la segua? Ebbene, quest’autunno tornerete qui, a riprendere il discorso e a fare le leggi: anche le leggi per la scuola. Ci troverete fermi -quelli di noi, s’intende, che verranno -al nostro posto di leali combattenti. Per ora siate paghi di enunciare formule che uniscano, non particolari vincolativi che possano dividere il popolo italiano. Il quale, credetelo -e non è l’uomo di parte che parla, ma l’uomo della scuola che anche in questa veste obbedisce a una fondamentale esigenza unitaria -il quale popolo italiano non ha nella sua enorme maggioranza altro desiderio che quello di poter mandare con serena fiducia i propri figliuoli alla scuola pubblica. Lavoriamo insieme per irrobustirne la struttura, per rafforzarne la autorità, per far si che diventi veramente la scuola di tutti e prepari, in un clima rinnovato di effettiva democrazia, i quadri dirigenti della società di domani. (Vivi applausi a sinistra - Congratulazioni). (Discorso alla Costituente sulla scuola del 21-aprile-1947) * Alcide Malagugini nacque a Rovigo il 15 ottobre 1887. Avvicinatosi giovanissimo agli ideali socialisti (a Rovigo fu compagno di liceo di Matteotti), si laureò in lettere a Pavia dove, agli inizi del Novecento, fu segretario della Camera del Lavoro. Fu l’ultimo Sindaco democraticamente eletto di Pavia prima del Fascismo, dal 1920 all’ottobre del ’22, quando fu costretto alle dimissioni e al trasferimento a Milano. Nel 1924-25 insegnò Lettere classiche al Liceo Manzoni, da dove fu allontanato per “incompatibilità con le direttive del fascismo”. Convinto sosteni-ore della scuola pubblica, fu allora costretto per vivere a insegnare in scuole private: potrà tornare nel suo Manzoni, questa volta come Preside, solo dopo la Liberazione, dal 1945 al 1955. Fu membro della Consulta, poi eletto alla Costituente, quindi alla Camera dei deputati per il collegio MilanoPavia per le prime quattro legislature: per il PSI sino al gennaio 1964, quando, con la formazione del primo Governo di centro-sinistra, passò allo PSIUP, che nel 1964 lo indicò come proprio candidato di bandiera alla carica di Presidente della Repubblica. Morì a Milano il 24 dicembre del 1966. 68 Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/sein 69 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze Prospettive famigliari nei giovani. La famiglia tra valore e possibilità La famiglia continua ad occupare un ruolo fondamentale nei processi di crescita della persona, rappresentando l’agenzia primaria e il sistema educativo di base nel quale generi, generati e generazioni si affiancano in una esperienza evolutiva fondata su legami forti. Enrico Miatto* Uno degli aspetti peculiari dell’età giovanile risiede nella dimensione progettuale che la connota e che caratterizza l’essere del giovane nei suoi aspetti vocazionali, affettivo-relazionali oltre che etico-valoriali e di senso. Da queste dimensioni rappresentative di elementi identitari forti prendono forma, nell’esistenza giovanile, le scelte di coraggio che talvolta orientano percorsi relazionali, affettivi, professionali ed esistenziali. In particolar modo, nella nostra società, che agli sguardi sociologici appare frammentata e caratterizzata da rischio1 e fluidità relazionale2, una delle scelte principali, sul piano della realizzazione personale in età giovanile, ha a che vedere con l’esperienza di coppia e la prospettiva di costruzione famigliare. Si tratta di una prospettiva che si presenta oggi, più che mai nella storia, modificata e non priva di elementi di complessità, nella quale il “mito famigliare” resiste e pare rappresentare ancora una meta auspicale per la realizzazione piena del sé e per la soddisfazione del desiderio di generatività insito nell’uomo3. Un “mito” che, tuttavia, viene a dipendere da una realtà sociale profondamente trasformata e da un aumento esponenziale dei modi di “metter su famiglia”, riconoscibili nelle famiglie multiple, monoparentali, ricomposte, allargate, unipersonali, ecc4. Di generazione in generazione, infatti, il “mito famigliare” sembra aggiungere nuovi pezzi al puzzle che raffigura la famiglia, sostituendo o affiancando, di volta in volta, pezzi già esistenti, e modificando così i modi di essere, di fare, di vivere, di riprodurre lo stesso spazio famigliare5. Di fatto, a condizionare il desiderio di famiglia presso i giovani, sul versante esi1 U. BECK, La società del rischio. Verso una seconda modernità (tit.orig. Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, 1986), Carocci, Milano, 2005, pp. 155-184. 2 Cfr. Z. BAUMAN, Amore liquido (tit. orig. Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, 2003), Laterza, Roma-Bari, 2004. 3 E.H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità (tit. orig. Identity Youth and Crisis, 1968), Armando, Roma, 1987, p. 160. 4 Il rapporto Eurispes 2003, in particolare, mette in risalto come di famiglia si possa parlare in modo pluriforme essendo questa descrivibile in qualità di famiglia estesa, famiglia allargata, famiglia nucleare normo-costituita, famiglia di genitori soli, famiglia ricostituita, famiglia multi-etnica, convivenza more-uxorio, famiglia unipersonale. Per approfondimenti si rimanda al testo EURISPES, Rapporto Italia 2003. Percorsi di ricerca nella società italiana, Ed. Eurispes, Roma, 2003, pp. 1213-1225. 5 P. LE REST, L’errance des jeunes adultes. Causes, effets, perspectives, L’Harmattan, Parigi, 2006, pp. 205-206. 70 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovani stenziale, sembra concorrano due prospettive fondanti e imprescindibili. La prima insita nell’esperienza vissuta della famiglia presso il nucleo famigliare e relazionale di origine e rintracciabile negli stili relazionali sperimentati ed appresi dentro al mondo famigliare, nei modi propri di essere del nucleo famigliare, nelle esperienze di crescita personale, nel “lessico famigliare”, nello scambio dialogale proprio dei rapporti tra genitori e generati, negli episodi di gratuità, testimonianza e vicinanza, ed infine, nei modi della cura, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro e della responsabilità all’interno della stessa famiglia. La seconda prospettiva, invece, mai slegata dalla prima in quanto nasce dalla stessa esperienza vissuta presso la famiglia di origine, risponde al desiderio “di essere in un certo modo” quel che l’esperienza famigliare di origine permette, influenzando la possibilità medesima, per i giovani, di costruire una propria famiglia perseguendo un determinato modello coniugale, prima che famigliare. Avvicinando lo sguardo a queste due prospettive, mediante un’ottica pedagogica, in grado di scorgere gli spazi di crescita e di autoformazione che l’esperienza famigliare permette, è possibile rendersi conto che la famiglia non cessa oggi di rappresentare, nel presente e nelle sue possibilità future di manifestazione, quel preciso “spazio-territorio relazionale”6, intriso di valore, in cui trovano vita generatività, gratuità e responsabilità verso l’altro da sé. Esperienza e possibilità di famiglia Su questa base, dunque, l’osservazione ravvicinata della prima prospettiva individuata, permette di scorgere come la famiglia, al di là delle modificazioni assunte a causa delle evoluzioni istituzionali e dell’organizzazione sociale, delle alterazioni economiche e degli sviluppi culturali della società legati a contingenze storiche che hanno sancito il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare7, non abbia smesso di essere connotabile, al suo interno, come il luogo principale della relazionalità e dell’affetto8, in cui è possibile sperimentare la protezione, la trasmissione di valori e norme, la socializzazione e lo sviluppo attraverso un percorso educativo congiunto. La famiglia, infatti, continua ad occupare un ruolo fondamentale nei processi di crescita della persona, rappresentando l’agenzia primaria e il sistema educativo di base nel quale generi, generati e generazioni si affiancano in una esperienza evolutiva fondata su legami forti9, in cui la reciprocità si corrobora mediante due modalità ben precise: l’essere con e l’essere per. Il primo come frutto dello stare insieme e dell’unione tra identità 6 7 8 9 V. IORI, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo, corpo nei processi formativi, Erickson, Trento, 2006, p. 81. C. SARACENO, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, il Mulino, Bologna, 1998, pp. 23-46. Cfr. C. Xodo, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, op.cit. Cfr. P. DONATI, (a cura di) Quarto rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1995 e Identità e varietà dell’essere famiglia. Il fenomeno della “pluralizzazione”. VII rapporto CISF sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2001. Temi ed esperienze 71 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovani e differenze, il secondo inteso negli aspetti della cura e della responsabilità per l’altro10. Nel suo ruolo educativo di sostegno e accompagnamento allo sviluppo della personalità e di introduzione del bambino all’interno della società, la famiglia muove dalla dimensione della cura e dell’affetto, dal bisogno e dal desiderio, connaturati alla persona, di essere amata da coloro che contano, di essere presa in considerazione, accolta e accompagnata lungo le vicende che segnano lo sviluppo e le esperienze dell’esistenza. È, infatti, nella famiglia e attraverso di essa che l’uomo apprende, progressivamente, a stare nel mondo, dando vita ad un rapporto dialettico tra il divenire della propria identità e la scoperta dell’altro da sé. In essa il nucleo famigliare, spazio-territorio relazionale privilegiato dalla relazione, accompagna il bambino a diventare grande nella doppia dimensione del tempo, sia in termini cronologici determinanti il progressivo percorso temporale verso l’essere adulti, sia in termini valoriali di un tempo privilegiato della maturazione, della guida ai valori attraverso la condivisione dello spazio abitato dalla famiglia. Nucleo peculiare di relazionalità, la famiglia consente, attraverso l’abitare, l’esperienza della crescita, della scoperta e del dono. Una esperienza, nel contempo, di effettività e di possibilità nella quale la famiglia, habitat della relazione, raffigura lo spazio dello sviluppo11, ma anche l’occasione di abitare e far proprio il mondo circostante e i valori che lo caratterizzano. In qualità di luogo degli affetti e del valore, la famiglia raffigura, dunque, il nido da cui muoversi per affrontare le giuste prove di volo verso l’autonomia, l’indipendenza e la realizzazione del proprio sé. Proprio da questa angolatura della vicenda famigliare, in cui ci si affaccia ad una esperienza condivisa di famiglia12 recuperando la centralità affettiva ed eticovaloriale che essa è in grado di garantire13, attraverso i legami intra e inter-generazionali, è possibile l’osservazione della seconda prospettiva individuata, in grado di condizionare, sul versante esistenziale, il desiderio di famiglia presso i giovani. Si tratta di una prospettiva racchiusa nel desiderio “di essere in un certo modo”, che l’esperienza famigliare di origine consente, preparando progressivamente, attraverso la sperimentazione diretta di un preciso contesto relazionale, affettivo e valoriale, il terreno di esperienza da cui il giovane potrà attingere per costruire una propria vita di coppia e una personale esperienza di costruzione famigliare. Le premesse a questa prospettiva sono rintracciabili nelle riflessioni di J. Nuttin sulla dimensione progettuale futura. Lo studioso, infatti, asserisce che la genesi di una prospettiva che coinvolge il futuro, nonché l’idea stessa di progetto nel futuro, viene data da un progressivo processo di sviluppo. Pertanto, “nella misura in cui un 10 N. GALLI, Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Vita e Pensiero, Milano, 2006, p. 158 e seg. 11 V. IORI, Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, La Scuola, Brescia, 2001, pp. 93-99. 12 B. BETTELHEIM, Un genitore quasi perfetto (tit.orig. A good enough parent, 1987 ), Feltrinelli, Milano, 2004, p. 371. 13 E. SCABINI, V. CIGOLI, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 39 e seg. 72 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovani individuo, sull’esempio di modelli che egli imita e rinforza, per esperienze riuscite nel passato, si costruisce degli scopi nuovi, egli sorpassa, un po’ alla volta, il suo orizzonte temporale” 14, facilitando, così, l’elaborazione di progetti futuri. Così intesa, l’esperienza vissuta nella famiglia di origine influenza non solo l’idea di famiglia che il giovane prospetta nel suo prossimo, ma anche la rappresentazione stessa del patto coniugale, raffigurando15 le relazioni famigliari, i processi e gli stili educativi da prendere in considerazione e il più generale ruolo simbolico che la famiglia, quale istituzione prima e primaria, rappresenta e rappresenterà nella sua esistenza. La famiglia: valore possibile? Le due prospettive prese in esame, individuate come elementi in grado di condizionare il desiderio di famiglia presso i giovani, portano a chiedersi se ancora oggi, a fronte delle numerose manifestazioni famigliari (che fondono insieme struttura famigliare, famiglia relazionale e legami parentali), la famiglia come modello relazionale ed educativo privilegiato, venga riconosciuta come una traiettoria valoriale percorribile dai giovani. O, invero, se in alternativa ad essa i giovani adulti di oggi preferiscano altri modelli di costruzione famigliare basati sul principio della semplice coabitazione. A tal proposito pare interessante sottolineare gli esiti di una indagine condotta presso i giovani sulla famiglia come valore, la quale ha preso in esame l’esperienza famigliare nei suoi vissuti emozionali e nei significati esistenziali, sondando la praticabilità del “mito famigliare” nei desideri futuri dei giovani16. Ciò che ci preme rimarcare, più che una ripresa in toto della ricerca, è che il valore rappresentato dalla famiglia, emerso da tale indagine, è risultato essere in larga misura riconosciuto presso i giovani, al punto che è possibile affermare che la famiglia è presente anche nei desideri e nella prospettiva futura dei giovani. Essa si configura come una strada percorribile, nonché come una meta auspicata e raggiungibile per i giovani. Meta che assume valore e significato per la proiezione futura giovanile, proprio in virtù dell’esperienza significativa sviluppata presso la famiglia di origine17. Si tratta di un dato che lascia il lettore positivamente sorpreso, se comparato con gli andamenti individuati dalle osservazioni sociologiche in merito ai cambiamenti relativi alla formazione della famiglia moderna. È, infatti, noto come il “mito fami14 J. NUTTIN, Motivazione e prospettiva futura (tit.orig. Motivation et Perspectives d’Avenir, 1980), LAS, Roma 1992, p. 15. 15 M. DELAGE, La famille permanente ou du besoin d’attachement in J. Aïn, (a cura di) Familles. Explosion ou évolution?, Rès, Ramonville Saint-Agne 2008, pp. 131-146. 16 Cfr. C. XODO, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, op.cit. 17 Nell’indagine, il 72% dei giovani intervistati avverte la presenza educativa della famiglia nella propria vita. L’81% sottolinea la coerenza dei genitori rispetto ai valori affermati. Il 92% dei giovani ritiene fondamentale il ruolo esercitato dalla famiglia nella loro fase di vita. L’85% condivide lo stile relazionale della propria famiglia. Il 60% considera i genitori come un modello positivo e, dato interessante, l’81,5% dei giovani si proietta nel futuro con una propria famiglia. Circa l’80% dei rispondenti intende instaurare con il proprio partner un legame fondato sul matrimonio. Temi ed esperienze 73 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/prospettive_familiari_nei_giovani gliare”, nell’ultimo trentennio, sia stato esposto a molteplici modificazioni18. Si è assistito, nelle società occidentali, all’elevarsi dell’età del matrimonio degli uomini e delle donne, all’aumento della quota di persone celibi e nubili, alla crescita del numero di giovani adulti che vivono soli, all’incremento delle convivenze more uxorio e al prolungamento della permanenza dei giovani presso la famiglia di origine19. La famiglia ha assunto i contorni di una realtà dinamica, in continua costruzione e aperta all’imprevedibilità delle mutazioni dei rapporti tra le persone, secondo un “processo che, quotidianamente, deve metabolizzare le sollecitazioni esterne, l’evoluzione e le trasformazioni dei singoli, e correggere, adattandola, la trasformazione conseguente dell’insieme famigliare”20. Nonostante tali modificazioni le prospettive individuate e i dati della ricerca a cui abbiamo brevemente fatto cenno fanno emergere, chiaramente, il desiderio di famiglia presso i giovani, esplicitato nell’auspicio di costituire legami e unioni famigliari solide. Un desiderio che proietta il “metter su famiglia” nella progettualità futura, che prende in esame la costruzione di una famiglia diversa da quella di origine; differente non tanto nella trasmissione dei valori e del loro riconoscimento, ma soprattutto nella gestione delle relazioni e del dialogo21. La famiglia immaginata dai giovani, si fonda su alleanze coniugali sancite attraverso il matrimonio religioso o l’unione civile, ma è anche caratterizzata dalla presenza cospicua di figli e dalla vicinanza, significativa e preziosa, al nucleo famigliare di origine. In conclusione, lontani dalle analisi che decostruiscono la possibilità e l’esistenza del “mito famigliare” presentandolo come superato, pare possibile affermare che anche dai giovani, la famiglia ritorna, o chissà continua, ad essere proposta come valore e modello relazionale, unico ed unitario, nel quale è possibile prefigurare, accogliere e crescere ancora l’umano. *Dottore di ricerca in Scienze pedagogiche e didattiche Collaboratore alla cattedra di Pedagogia generale Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Padova *Il presente articolo presenta una riflessione a partire dal contributo Come il giovane abita la famiglia presente e pensa quella futura pubblicato in C. XODO, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia, Pensa Multimedia, Lecce, 2008, pp. 205-240. 18 Cfr. M. BARBAGLI, C. SARACENO, a cura di, Lo stato delle famiglia in Italia, il Mulino, Bologna, 1997; P. DI NICOLA, a cura di, Prendersi cura delle famiglie, Carocci, Roma, 2002; C. SARACENO, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, op. cit. 19 E. RAMOS, Rester enfant, devenir adulte. La cohabitation des étudiants chez leurs parents, L’Harmattan, Parigi, 2002, pp. 129-231. 20 V. IORI, Per una pedagogia fenomenologia della famiglia in Adultità: Immagini di famiglie, n. 14, 2001, p. 59. 21 M. BENETTON, Il ruolo educativo della famiglia in C. XODO, a cura di, Dopo la famiglia, la famiglia, Pensa Multimedia, Lecce, 2008, pp. 105-167. 74 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze Adolescenza: assunzione del o esposizione al rischio? L’esperienza del “vissuto emotivo perturbante”, della sfida del limite, dell’agire concretamente le emozioni, anche quando l’acting è connesso alla rimozione delle stesse, sono fenomeni normali, necessari perché evolutivi. Tuttavia, per alcuni adolescenti particolarmente vulnerabili essi possono cristallizzarsi in patologia, in fuga antievolutiva volta ad eludere l’elaborazione dolorosa dei vissuti altamente eccitatori e/o perturbanti legati alla crescita. Valeria Perrucci* L’adolescenza è un cambiamento improvviso, percepibile come travolgente e burrascoso – nell’accezione positiva ma, anche, negativa dei termini – in quanto sovversivo dell’ordine delle cose. Segna l’ingresso nell’“epoca” delle nuove e importanti esperienze; suscita grandi emozioni, tant’è che viene frequentemente ricordata con calore e nostalgia da chi ormai se l’è lasciata alle spalle. Con la prepubertà inizia la Via verso la “seconda nascita” (Dolto, 1988), verso la riedizione del Sé e la ricontrattazione della propria identità di genere, sessuale e sociale. I rapporti fra genitori e figlio conosceranno, da qui in poi, una trasformazione dolorosa ma necessaria, in quanto evolutiva, che, se avrà successo, mai più riporterà alla calda, tenera, sicura, avvolgente, ma inglobante e totalizzante, condizione infantile. È un “duplice distacco” (Vegetti Finzi, Battistin, 2000), fisico e mentale, durante il quale i genitori giudicati e contestati rimangono comunque modelli di riferimento e di identificazione, ma che porta il ragazzo a cercare nuove relazioni oggettuali significative con i coetanei. Se gli adulti divengono sempre meno credibili e via via sempre più “incapaci” di comprendere quanto il ragazzo sta vivendo, i pari sono i nuovi oggetti privilegiati con cui condividere la vicenda trasformativa individuale, che porta cambiamenti e di questi si alimenta. L’uscita, fisica e mentale, dal nido familiare tuttavia non è un abbandono. I ragazzi, ora ancor più che in adolescenza, continueranno a farvi ritorno, ogniqualvolta le tendenze regressive susciteranno il bisogno di accoccolarsi fra le braccia dei genitori, nonostante l’alta statura e il sentirsi grandi. Il corpo prepubere prima “latente” si risveglia, assumendo forme nuove e talvolta esperite come inquietanti. I fuochi pulsionali infantili tornano ad ardere, e, unitamente alla nuova tempesta ormonale, travolgono l’ex bambino in una metamorfosi senza ritorno, inarrestabile, alla quale è impossibile opporsi. Non rimane che cedere alla corrente e remare verso la meta ignota, affinché la propria barca prenda le onde migliori. Oppure lasciarsi trasportare passivamente, aspettando che qualcosa accada, sperando di non schiantarsi contro gli scogli, e annegare. O ancora, si rimanda la partenza. Il viaggio viene negato, ci si aggrappa fortemente alla riva, unghie infilzate nella sabbia, come a non voler lasciare la gonna della mamma, ignorando la risacca che puntualmente torna a ricordare l’ora di partire. Temi ed esperienze 75 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio L’adolescenza, quindi, rappresenta una seconda nascita, richiede il conseguimento del “processo di separazione” dalla nicchia primaria e della individuazione identitaria, conseguente, quest’ultima, all’adeguata avvenuta elaborazione del duplice lutto – oggettuale e narcisistico – legato alle rappresentazioni infantili. Lo sviluppo adolescenziale prosegue lungo regressioni, progressioni e ritiri narcisistici volti a mantenere l’autostima e il sentimento di integrazione di Sé. Vi è una normale tendenza difensiva a negare la dipendenza. Normalmente, quindi, ai cambiamenti adolescenziali si accompagna un senso di disagio più o meno intenso: contro di esso viene facilmente posta in essere la menzogna, una forma di negazione conscia e/o inconscia più o meno massiccia, che contribuisce a determinare la differenza fra maturazione adolescenziale normale versus patologica. Sviluppo adolescenziale, famiglia e società Gli adolescenti di oggi si rapportano con le trasformazioni epocali avvenute dal dopoguerra in poi, tutt’ora sussistenti e in evoluzione. Micro e macro società (la famiglia e l’ambiente allargato di appartenenza) sono nettamente differenti rispetto al passato. La famiglia da etica s’è fatta affettiva (Pietropolli Charmet, 2000) o, spesso, anaffettiva (Francesconi, 2006). È spesso incapace di trasmettere valori e norme adeguate e di educare i figli secondo un corretto equilibrio fra gratificazione e frustrazione. In essa vengono confusi funzioni e ruoli: accanto ad una figura materna ipertrofica, totalizzante, “onnisciente”, “onnipresente” e, tendenzialmente, “onnipotente”, fagocitante, sussiste spesso la dissolvenza della “Legge del Padre”, fondamentale, tuttavia, per accedere alla risoluzione edipica e narcisistica. La scuola, le agenzie di socializzazione e la società tutta propongono modelli formativi, educativi, ricreativi nuovi, talvolta di grande interesse, altre volte inadeguati o fuorvianti. I ruoli e le funzioni dei responsabili dell’educazione dei ragazzi stanno via via cambiando, in direzione evolutiva ma anche, spesso, omologante e confusiva. Nuove figure professionali, “specialisti” dell’età adolescenziale, vengono costantemente formate: psicologi, psicopedagogisti, insegnanti tutor, counselor. L’assetto stesso della “mente gruppale sociale”, infine, è in continuo cambiamento, ora coinvolto in una lotta tra miti: chi, tra Edipo e Narciso, avrà la meglio nell’imporsi come organizzatore psichico individuale e collettivo? La cultura adulta vigente inneggia a valori e modelli di stampo prevalentemente individualistico e narcisistico: pubblicizza la possibilità della negazione del limite, dell’attesa, della frustrazione, esalta la ricerca del “bello ad ogni costo” e della perfezione. Vi è quindi, nella struttura familiare e sociale, una pervasiva dissolvenza dell’Edipo – organizzatore psichico e sociale – ed una dominanza narcisistica. Molti adolescenti faticano così a trovare, spesso sin dall’infanzia, validi punti di riferimento e adeguati modelli con cui identificarsi. La costruzione identitaria passa attraverso travagliati vissuti narcisistici, per i quali tollerare la frustrazione, il “no”, il “diverso da me” e, dunque, non rispecchiante, diviene sempre più difficile. L’adolescente si trova “nel punto di incrocio tra bambino e adulto, tra gruppo e individuo, tra gioco e lavoro, tra sviluppo maturativo e deviazioni perverse, è nella po- 76 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio sizione di massimo movimento e di più difficile e delicato equilibrio” (Lussana, 1992, p. 167). Tutti i cambiamenti che avvengono intorno a lui – nella famiglia, nella scuola, nel gruppo dei pari, nella società – influiscono sulle stesse trasformazioni che avvengono nel suo mondo interno, contribuendo alla definizione della organizzazione identitaria post-adolescenziale. Alcuni ragazzi “migrano” dall’infanzia all’adultità senza troppe “spaccature” nel loro percorso evolutivo, senza far “troppo rumore”. Altri, invece, possono esperire vissuti più dolorosi o confusivi. In loro, l’elaborazione del percorso identitario si fa più ardua; talvolta la sofferenza viene percepita come incomprensibile, insostenibile e incontenibile, tanto da dover essere impulsivamente e coattivamente espulsa attraverso l’azione, anche rischiosa. Adolescenza e acting out L’esperienza del “vissuto emotivo perturbante”, della sfida del limite, dell’agire concretamente le emozioni, anche quando l’acting è connesso alla rimozione delle stesse, l’esposizione al e l’assunzione del rischio sono fenomeni normali, necessari perché evolutivi. Tuttavia, per alcuni adolescenti particolarmente vulnerabili essi possono cristallizzarsi in patologia, in fuga antievolutiva volta ad eludere l’elaborazione dolorosa dei vissuti altamente eccitatori e/o perturbanti legati alla crescita. Per acting out si intende una reazione comportamentale “compulsiva”, irrazionale, o apparentemente razionale, distruttiva o di rottura con l’abituale stile comportamentale del soggetto; è espressione del vissuto emotivo rimosso e perturbante, può diventare potenzialmente dannosa e pericolosa per l’incolumità del soggetto, e/o di terzi, e da questi talvolta difficilmente identificabile e motivabile (Laplanche J., Pontalis J B., 1967). È relazionale, ovvero ha in sé un messaggio, solitamente una richiesta di attenzione, aiuto, contenimento, per l’Altro. “Acting” – dall’inglese to act out – rimanda a capacità evolute di creatività, espressività, simbolizzazione. Acting maturi sono l’espressione artistica, musicale, la scrittura, la cura e la personalizzazione dell’immagine di sé. Anche il “rischio come azione di prova” (Carbone, 2003) rappresenta una modalità matura di elaborazione della e apprendimento dalla esperienza. Diverso è il concetto psicodinamico di acting out: ad esso sono legati impulsività, inibizione intellettiva e analfabetismo introspettivo. Non è possibile l’elaborazione e l’apprendimento dall’esperienza, ma persiste una coazione a ripetere agiti antievolutivi. Ci si espone al rischio ma senza assunzione di consapevolezza e responsabilità. Gli acting più citati nella letteratura dell’adolescenza sono le gare automobilistiche, l’abuso di alcool, spesso associato alla guida, le dipendenze, gli agiti sessuali, l’uso tirannico/depressivo/eccitatorio del corpo, le psicosomatosi, gli incidenti stradali. Adolescenti e incidenti stradali Per incidente, domestico, stradale o sportivo, si intende un episodio provocante lesioni fisiche, che è determinato da un comportamento lesivo/autolesivo non intenzionale. Generalmente le motivazioni addotte dai ragazzi riguardano la distrazione, la Temi ed esperienze 77 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio fatalità, la fretta, il destino e “profezie autoavverantesi” conseguenti a premonizioni. Ciò rimanda ad una mancanza di consapevolezza e ad un atteggiamento altamente deresponsabilizzato, alimentato spesso dagli adulti che, colludendo, definiscono l’incidente una ragazzata o una disgrazia. In tal modo, curando soltanto “l’arto ferito”, non si interviene sul vissuto psicologico perturbante che soggiace e che ha scatenato l’evento. La letteratura chiarisce infatti come vi possa essere una profonda correlazione fra incidente e problematiche legate allo sviluppo adolescenziale, quali la maturazione sessuale, la tematica edipica, il processo di separazione dalla nicchia primaria familiare. Ancora la costruzione identitaria, il rapporto con l’altro sesso, i sensi di colpa, la fragilità narcisistica, la difficoltà di rinunciare al senso di onnipotenza infantile, i sentimenti depressivi, la fuga nell’azione, il ricorso massivo a meccanismi di difesa come negazione, diniego, formazione reattiva, intellettualizzazione, razionalizzazione, isolamento. Gli incidenti, quindi, possono rappresentare, in senso psicodinamico, “tentati suicidi velati semi-intenzionali, provocati da un’intenzione inconscia che attende il verificarsi di un’occasione che si possa sostituire alla causa reale” (Freud, 1901). La differenza fra tentato suicidio e incidente risiede nel livello di pensabilità e consapevolezza del progetto autodistruttivo. È importante affrontare la problematica da un punto di vista psicologico, per aiutare i ragazzi a responsabilizzarsi e a prendere consapevolezza di quali siano le dinamiche psicologiche ed emotive che li hanno portati, spesso ripetutamente, ad essere “vittime” di incidenti. Altrimenti si rischierebbe il reiterarsi di un circolo vizioso “trauma-fantasmatrauma” per cui l’adolescente rischia, a seguito di plurime insufficienti elaborazioni, di incorrere ripetutamente in pericoli fisici e fissazioni psicologiche. Problemi psicologicorelazionali possono portare infatti all’imporsi di meccanismi difensivi disfunzionali che, se “sorretti” da una insufficiente elaborazione dei vissuti perturbanti, tendenzialmente portano alla “fuga nell’azione”. Ciò determina un’esposizione ai pericoli e la possibilità di incorrere più facilmente in incidenti. La lesione somatica che ne consegue “nasconde” quella emotiva-psicologica scatenante. Ne deriva un’ulteriore insufficiente elaborazione ed una nuova fuga nell’azione che alimenta così il circolo vizioso traumatogeno. La sofferenza non elaborata conduce a incidenti “per eccesso o per difetto”: acting out derivanti da fughe maniacali (incidente a seguito di trasgressioni, sfide, esibizione) o da cadute depressive (incidenti conseguenti a distrazione, “atti mancati”). L’incidente non va quindi sottovalutato, in quanto altamente correlato con le dinamiche psicologiche e le fasi evolutive proprie dell’adolescenza; va considerato come un comportamento rischioso, o un sintomo psicopatologico che si inserisce all’interno della “psicopatologia di un evento della vita quotidiana”. Questo non significa che si debba patologizzare in tutti i casi l’incidente, ma neppure sottovalutarne il valore di segnale (Carbone, 2003). Negli ultimi trent’anni, con l’introduzione di nuove leggi e misure protettive, si è ridotta considerevolmente, nella popolazione in generale, la mortalità da incidenti; questo miglioramento, però, non ha interessato gli adolescenti, soprattutto quelli appartenenti alla fascia d’età, quella più a rischio, tra i 15 e i 24 anni. Molti ragazzi, nonostante i progressi normativi e tecnologici, nonché le numerose inizia- 78 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio tive informativo-preventive, continuano a rischiare, spesso facendosi seriamente male, talvolta rimettendoci la vita (Carbone, 2003). Malgrado l’esposizione al e l’assunzione del rischio siano fenomeni normali e maturativi in adolescenza, essi, per alcuni ragazzi particolarmente vulnerabili, possono anche sconfinare nella patologia. “C’è da chiedersi se questa passione per il rischio rappresenti una caratteristica inalterata nelle generazioni dei giovani, una sorta di stigmate della loro imprudenza, del loro desiderio di uscire dalle convenzioni e contrapporsi alle norme più restrittive e claustrofobiche, o se vi sia qualcosa di sinistramente attuale, qualcosa che fa si che questo bisogno trasgressivo sia presente oggi ancora più che tra le generazioni passate... Il rischiare la vita ha esercitato sui giovani, da sempre, un fascino tutto speciale, legato com’è all’onnipotenza che trasmette: è un’età quella dove la vita non la si vuole solo vivere, ma, soprattutto, dominare esorcizzando la morte. Nessuno di quei ragazzi che all’alba, dopo un sabato notte in discoteca, spingono a folle velocità i loro piccoli e potentissimi bolidi dentro la nebbia o lungo strade tortuose vuole davvero morire; essi, al contrario, paradossalmente vogliono provare a se stessi di vivere e lo vogliono fare… a modo loro, con il loro ritmo sincopato, con la loro fretta, con la loro superficialità. In assenza o scomparsa dei riti di passaggio, quando il superamento dello scoglio dell’adolescenza non è marcato dalla società in cui vive l’individuo… l’iniziativa spetta a lui. In questo senso, il gioco con l’idea della morte favorisce nel giovane un’esplorazione di sé e della propria relazione con il mondo, portandolo a costatare la sua personale precarietà e quella di chi gli sta vicino” (Goisis, 2000). Prevenzione in adolescenza La tematica della prevenzione in adolescenza, dal rischio patologico, dagli incidenti, dai TS, dai DCA, non è certo di facile comprensione, dati gli innumerevoli aspetti socio-psicologici collettivi e individuali implicati, né di semplice attuazione, come testimoniano plurime esperienze fallimentari o controproducenti. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che l’essere umano, in adolescenza, è facilmente travolto da emozioni piacevoli e dolorose, contrastanti, che vuole/deve esprimere, sopprimere, ignorare o negare. L’organizzazione più o meno stabile ed evoluta dell’Io ne determinerà la (o la mancata) elaborazione-integrazione. Sono i ragazzi più vulnerabili, quelli che hanno sperimentato più insuccessi sociali, scolastici, amorosi, personali, familiari, che tendono a vivere le emozioni, belle o brutte che siano, a un livello più superficiale e corporeo. Più il vissuto si fa intenso, insostenibile e incontenibile, più l’autoriflessione e l’autocontenimento sono bloccati a favore di un agito e/o di una somatizzazione che divengono significanti della sofferenza/ipereccitazione esperita. La prevenzione comincia in casa. Ma la famiglia “tipo” attuale sta riorganizzando se stessa, “vive” la crisi e la (con)fusione dei ruoli, accettandola come normale, liberatoria, deresponsabilizzante. Molti adolescenti faticano a trovare, nei genitori, contenimento, ispirazione, riferimenti adeguati. A scuola la situazione è spesso analoga: anche laddove l’organizzazione delle strutture e delle funzioni sia adegua- Temi ed esperienze 79 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio ta, spesso ne persiste il totale disconoscimento da parte dei genitori e, conseguentemente, dei ragazzi stessi. Tutto ciò ha promosso il continuo sorgere di nuove agenzie educative e relative figure formativo-preventive. Esse sono impegnate ad accogliere quegli adolescenti più vulnerabili che necessitano di recuperare nello psicologo, nell’assistente sociale, nel counselor, nel tutor, quella figura capace di contenimento, competenza, coerenza e obiettività che non sono riusciti a trovare nei genitori, nella scuola, negli amici. La società si trova ad aver bisogno di investire sempre di più sulla prevenzione sia perché la famiglia non è più capace di trasmetterla al suo interno, attraverso una corretta educazione dei figli, sia perché l’ambiente stesso talvolta offre poche e/o inadeguate possibilità d’espressione ai bisogni e ai vissuti adolescenziali, gli ambienti di vita sono spesso degradati, non tanto in senso economico, quanto in termini di opportunità formative, ricreative, professionali. Purtroppo molte delle campagne preventive realizzate sinora sono state per lo più fallimentari, o non hanno sortito alcun effetto nel lungo termine o hanno addirittura provocato un effetto boomerang, per citare un solo esempio, le frasi incollate ai pacchetti di sigarette. La cause sono diverse. Innanzitutto, sussiste un “paradosso preventivo” (Carbone, 2003): vengono create campagne per influenzare la “minoranza estrema” ma non la “maggioranza meno estrema”. Gli adulti si focalizzano sugli aspetti più eclatanti del rischio, come l’abuso di alcool associato a guida spericolata, le stragi del sabato sera, dimenticando, però, che la maggioranza di adolescenti rischia, anche quotidianamente, ma secondo modalità assai diverse e più “silenziose”. Inoltre, la prevenzione viene progettata prevalentemente come intervento informativo-esortativo-intimidatorio. I ragazzi, però, sono spesso “ultra-informati”, e guardano a queste iniziative con noia, disprezzo o atteggiamento di sfida. Le azioni preventive sono poi pensate sulle singole “categorie” comportamentali rischiose (fumo, sesso, droga, A.I.D.S), mentre dovrebbero favorire la riflessione su che tipo di significato ha il rischio per l’adolescente. Questo non solo per incentivare un lavoro introspettivo incentrato sul quid che porta al rischio, ma anche perché spesso, alla rinuncia di un comportamento rischioso, se ne sostituisce un altro. Se è vero che la famiglia affettiva ha perso gran parte della sua funzione di trasmissione di regole sociali, e l’aspetto normativo lo si rileva maggiormente nel gruppo dei pari dove, peraltro, si manifesta la maggioranza dei comportamenti rischiosi - sulla scia di dimostrazioni di fedeltà, coraggio, conformismo- si può ipotizzare che la prevenzione andrebbe realizzata e rivolta non tanto al singolo individuo, quanto alle aggregazioni formali e informali adolescenziali. Prevenzione, quindi, che venga “giocata” in modo interattivo coinvolgendo la famiglia, la scuola, le agenzie educative e gli operatori esperti. Una società allargata che si renda corresponsabile dell’educazione, della protezione, del recupero di quei ragazzi che ne hanno bisogno. Ciò significa infondere negli adolescenti, e negli adulti che presiedono alla loro crescita, un’etica del limite e una cultura della norma adeguata e dell’ascolto, che vadano a sostituirsi alla prevenzione intesa come sovrainformazione 80 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio o intimidazione, alla cultura narcisistica intollerante alla riflessione e alla frustrazione, a modalità relazionali “affettive” celanti, in realtà, lassismo e mancanza di ascolto. La società ha quindi, oggi più che mai, bisogno di adulti che si informino e si formino circa l’età adolescenziale; adulti che responsabilizzino i ragazzi e che si responsabilizzino a loro volta, con serietà e, soprattutto, competenza. Non è sempre detto, infatti, che, come sancisce la sapienza popolare, “volere” sia “potere”. “Ho detto ai miei alunni:«Domani portate una cassetta. Di legno possibilmente». Volevo una cassetta con tre fori da un lato e tre fori dall’altro…«Terremo la cassetta qui sulla cattedra» ho detto, «ci metteremo dentro le vostre domande. D’accordo?». Silenzio paziente, del tipo: tutto passa, basta tener duro. Poi una ragazza mi ha chiesto:«I fori a cosa servono?». Ho spiegato che servivano a far respirare le domande. Le domande – ho aggiunto – sono vive: hanno il punto interrogativo, l’unico segno di interpunzione con una certa guizzante vivacità. «Voi imbucate le domande nella cassetta e poi ci metteremo a cercare le risposte». Sono passati giorni e giorni, ma la cassetta delle domande non è comparsa. Certo, potevo procacciarmene una io, senza aspettare che provvedessero loro, ma non l’ho fatto perché ho pensato: «Se si decidono a portare la cassetta, vuol dire che poi arriveranno anche le domande». Così la cattedra è rimasta senza cassetta e senza domande”. Chi parla è un professore di alunni adolescenti, che si ispira alla cassetta de Il Piccolo Principe perché affezionato all’idea di una scuola dinamica, creativa, una “scuola tutta domande”; da anni saccheggia libri in cerca di idee che lo aiutino a fare l’insegnante, perché non riesce ad arrendersi all’evidenza di un eterno e sterile rapporto docente-studenti che si esprime soltanto con lunghi monologhi, compiti e verifiche, valutazioni, e nel quale i ragazzi parlano “solo quando interrogati”. Egli crede nel dialogo, nella fertilità del confronto: “Con la cassetta delle domande volevo fare un altro tentativo di redenzione mia e dei miei alunni. Se i miei allievi mi avessero interrogato, avrei saputo qualcosa in più su di loro. Se mi fossi provato a rispondere, avrebbero saputo qualcosa in più su di me. Ma la cassetta non è piaciuta, pazienza. Faccio sempre più fatica a stare dietro agli adolescenti. In genere mi assecondano come si fa coi matti. Ma sento che intanto smaniano nei banchi e trovano sempre meno ragioni per sedermi di fronte ogni mattina... Il problema non sono io; il problema è allontanare con le buone e le cattive maniere ogni novità scolastica che prometta di mutarsi subdolamente in studio, rubando altro tempo a ciò che conta... Quello che per loro conta cerca di trovare una via soprattutto tra i materiali extrascolastici. Perciò dubito che la mia cassetta delle domande comparirà mai. Ciò che appartiene alle aule non ha punti interrogativi veri. Alla scuola non si rivolgono domande. Appena apri la bocca, mette i voti... Di ‘studére’ – essere desideroso di – non è rimasto niente. Per i miei allievi studiare è un verbo del castigo. «Oggi non posso. Devo studiare»”. Il professore le pensa tutte. Osserva i suoi studenti con attenzione, riflette, crea, verifica, suffraga o confuta ipotesi. Pensa a se stesso quand’era ragazzo. Si impegna a “riesumare” non l’allievo che, tempo addietro, si è sforzato di essere, ma l’allievo che teneva ben nascosto, “dietro le apparenze, per non sfigurare” agli occhi di insegnanti e compagni di classe. Giura che non avrebbe mai fatto ai “suoi” ragazzi ciò Temi ed esperienze 81 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenza:_assunzione_del_o_esposizione_al_rischio che lui stesso, da studente, non avrebbe mai voluto “subire”. Mette continuamente in discussione se stesso come persona, come docente, nonché il modo con il quale affronta ed “offre” l’insegnamento. Inaspettatamente e magicamente, contro ogni previsione, una mattina come tante la classe lo “accoglie” avvolta da una strana atmosfera. Fra sé, pensa: “«Mettiamoci al lavoro e vediamo che cosa ci suggeriscono oggi gli errori di Eraclito» proporrò. Ma in classe trovo i ragazzi sospettosamente silenziosi. All’inizio non noto niente, vedo solo la malizia degli occhi. Allora faccio per gettare il cappotto sulla cattedra e mi accorgo che c’è la cassetta con tre buchi da un lato e tre dall’altro, quella che avevo chiesto quasi due mesi fa. Non dico niente, è un bel lavoro. L’avranno fabbricata loro, l’avranno commissionata a un falegname? Borbotto: «Bene, sono contento». Poi ci ripenso, certe volte gli studenti fanno brutti scherzi. Cosa ci avranno messo? Faccio finta di aver cose da fare…Quindi mi decido, sollevo bruscamente il coperchio della cassetta, guardo dentro. È zeppa di foglietti colorati, le loro domande. Comincio a leggere. Capisco subito che non so rispondere”1. *Psicologa, Centro EOS, Pavia Bibliografia Carbone P., Le ali di Icaro, Bollati Boringhieri, Torino, 2003 Dolto F., (1988), Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani tra i 10 e i 16 anni, Oscar Mondadori, Milano, 1998 Francesconi M., relazione al convegno “I giovani e il fascino del rischio. Insegnanti, genitori e psicologi a confronto sul rischio in adolescenza”, Novara, 10 e 11 marzo 2006 Freud S. nell’edizione Boringhieri, Torino, 1989, delle Opere: Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), vol. 4, 1901 Goisis P. R., relazione al convegno “Le ali di Icaro. Wrooam, Screech, Crash: corse, sfide e scontri sugli schermi. La rappresentazione dell’immaginario adolescenziale”, Roma, 23 e 24 giugno 2000 Laplanche J., Pontalis J.B., (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Editori Laterza, Bari, 2003 Lussana P., L’adolescente, lo psicoanalista, l’artista, Borla, Roma, 1992 Starnone D., “Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso”, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1998. Vegetti Finzi S., Battistin A. M., L’età incerta – i nuovi adolescenti, Mondadori, Milano, 2000 1 D. Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 1998. 82 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze Adolescenti e legalità. Il disimpegno morale e la “mal-educazione” degli adulti E’ fondamentale che gli adulti riconoscano le potenzialità dei giovani e ne promuovano il protagonismo attivo, attivando opportunità ambientali più variegate e protettive, che consentano loro d’incrementare l’autostima e di perseguire gli obiettivi evolutivi preservando il proprio benessere. Cecilia Armenise* Il tema della legalità e, nello specifico, la necessità inderogabile d’individuare più incisive forme di “educazione alla legalità” per gli adolescenti, è di stringente attualità, a causa dei numerosi fatti di cronaca dei quali gli stessi molto spesso sono i protagonisti, incuranti delle norme del vivere civile e, sovente, pure del codice penale. I mass media, l’opinione pubblica, gli esperti - o presunti tali - quotidianamente dibattono e s’interrogano sulle cause del dilagare di tanta violenza e di comportamenti auto-etero lesivi tra gli adolescenti, evidenziando, tra l’altro, l’assenza e/o la crisi di riferimenti o presidi valoriali, educativi, normativi. Il tema del rapporto degli adolescenti con la legalità, la loro percezione della stessa, a mio avviso si colloca naturalmente nello spazio d’intersezione tra l’adolescente, impegnato nel processo adolescenziale e nei relativi compiti di sviluppo, e l’odierna società occidentale, nella quale tale processo si dispiega, con tempi sempre più dilatati. Generalmente, infatti, in questa fase si verifica una più significativa apertura dell’adolescente alla società, con individuazione di figure di riferimento esterne alla famiglia, la conseguente scoperta della possibilità di modalità differenti di relazione e la contestazione dei valori di riferimento. L’adolescente costruisce la propria identità in un laborioso processo, che passa anche attraverso l’identificazione in ambito familiare e nel gruppo dei pari. Secondo il costruzionismo sociale (K. Gergen) la costruzione dell’identità viene “negoziata” attraverso un “dialogo esteriore ed interiore”, con gli altri significativi e con le “strutture simboliche della cultura alla quale più o meno coscientemente apparteniamo”1. L’accento è da porsi, pertanto, sulle principali agenzie educative - famiglia e scuola - ma anche sull’importante funzione svolta dal gruppo dei pari, il quale può offrire l’occasione per sperimentarsi in un contesto rassicurante o per assumere identità preconfezionate, pure negative. Nel perseguire i compiti di sviluppo l’adolescente può passare anche attraverso l’assunzione di comportamenti a rischio, dai significati e dalle funzioni peculiari, rispetto ai quali i diversi stili educativi e l’educazione morale, in particolare, rivestono un ruolo rilevante tra i fattori protettivi 1 G. Mantovani, La costruzione narrativa dell’identità, in Psicologia contemporanea n.151/99, Giunti, p.25 Temi ed esperienze 83 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalità dal rischio. Gli adulti significativi possono svolgere un ruolo decisivo stimolando, attraverso il dialogo e il confronto, l’adesione ai valori e l’empatia. La famiglia è uno dei canali fondamentali, se non il principale, per la trasmissione di comunicazione normativa e valoriale. Il padre, in particolare, esercita un’influenza decisiva per la formazione di una coscienza etica, l’introiezione di regole e valori, oltre che, naturalmente, come modello di ruolo. Già abbiamo considerato2, tuttavia, come da più parti si osservi da tempo una progressiva e diffusa “maternalizzazione” della famiglia e dell’odierna società occidentale, con conseguente assenza dei “codici affettivi paterni” (F. Fornari). La predominanza del codice affettivo materno sembra esaltare l’aspettativa di ricevere l’appagamento di ogni desiderio, indulgenza e protezione incondizionate. Ciò che viene a mancare è il “principio paterno” su “cui si fonda la norma, la legge, l’autorità: il terzo polo nel triangolo familiare che attira a sé il figlio e lo separa dalla madre, stabilendo un ponte verso l’esterno, la società” 3 . La famiglia, del resto, è immersa nell’atmosfera culturale della società in cui vive. Ai punti fermi, interiori - convincimenti religiosi o ideologici -, da cui in passato discendevano le leggi morali, si sostituiscono i “valori” imposti da una società massmediale in incessante trasformazione: denaro, competizione, potere, successo, apparenza. L’autorità genitoriale, in questo scenario, è spesso esercitata in maniera frammentaria ed incoerente, quando non lascia campo aperto ad un vero e proprio lassismo; l’amore dei genitori, poi, veste i panni di un “consumismo affettivo” (S.V. Finzi, A.M. Battistin, p.188) che, insieme all’assenza di divieti e limiti, ha la funzione di tacitare ansia e sensi di colpa, fornendo l’illusione d’evitare insanabili rotture coi figli, e di renderli felici. La famiglia, d’altro canto, può svolgere un’importante funzione di promozione sociale e protezione dal rischio: alcune ricerche (Marta e Scabini, 2003) evidenziano l’importanza di relazioni familiari positive e, in particolare, di una “famiglia prosociale”. Con riguardo alla “trasmissione” della prosocialità, una ricerca (E. Marta 2002) ha evidenziato l’importanza del supporto e della prosocialità del padre nel rendere più efficace il ruolo materno, di per sé importante perché il figlio s’impegni concretamente nel volontariato, e nel favorire la partecipazione attiva di quest’ultimo alla comunità sociale. La famiglia prosociale, più nello specifico, sembra rivestire un ruolo di rilievo nel determinare il coinvolgimento dei giovani nell’impegno di volontariato, vissuto perciò con maggiore donatività e consapevolezza; impegno che si ritiene abbia una specifica valenza protettiva rispetto al rischio psicosociale di devianza. Disimpegno morale e società Il sistema sociale, e con esso tutte le agenzie educative, svolge un’azione determinante per la formazione di una coscienza etica e di un orientamento prosociale. “E’ infatti il sistema sociale e culturale che detta i principi morali e reclama che l’azione si conformi al 2 C. Armenise, L’adolescente nella società senza padri, in Pedagogika, n.3/2005, Stripes Edizioni. 3 S. Vegetti Finzi, A.M. Battistin, L’età incerta, ed. Mondadori, 2006, pp.188-193 84 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalità giudizio che ne consegue” 4 ; ma lo stesso sistema può legittimare azioni in contrasto con principi morali o doveri, anche se condivisi socialmente, quando prevalgano interessi o imperativi morali superiori. I media, a loro volta, presentando gli eventi, possono attivare o disattivare il giudizio morale, attenuando e rimovendo le responsabilità. Oggi la teoria sociale cognitiva, a partire dalla stretta correlazione tra sviluppo e funzionamento della personalità ed influenza socio-culturale, individua dei meccanismi di disimpegno morale, ovvero “strategie cognitive che gli individui utilizzano per svincolarsi dalle norme e dalle responsabilità” 5 ; nel corso dell’esposizione vedremo alcuni esempi esplicativi di alcuni di essi, tra i più ricorrenti nella personale esperienza professionale. “I meccanismi del disimpegno morale… non sono occasionali cedimenti ad un ipotetico “istinto perverso” ma ordinari processi di pensiero, pervasivi e diffusi, che trovano alimento nelle pieghe del discorso morale collettivo” (Caprara, p.33). Lo scarto tra pensiero e azione morale in genere non è attribuibile ad un deficit dell’intelligenza, a un blocco nello sviluppo o all’assenza di principi, piuttosto a modi di pensare condivisi e incoraggiati dalla società. La diffusione di comportamenti quotidiani, quali trasgressioni “lievi” volte a ricavare vantaggi personali da violazioni meno gravi dei diritti altrui o dell’ordinamento sociale, oppure ad evitare conseguenze delle proprie azioni o responsabilità, si declina sotto il segno della furbizia, dello scambio di favori, della connivenza. La fonte d’autoassoluzione, in chiave “risarcitoria”, viene spesso individuata nelle frodi più gravi o nell’iniquità di alcune leggi. Tali comportamenti insinuano modi di pensare che, minando i valori e le norme fondanti il vivere civile e le democrazie, alimentano anche il “sentire mafioso”, “un modello inconsapevole e dogmatico di pensare”, che non comporta l’adesione alla criminalità, ma “la condivisione, spesso inconsapevole, dei valori della criminalità” 6 . Disimpegno morale e devianza minorile La questione dello sviluppo del senso della legge assume un’importanza rilevante, in termini di psicologia evolutiva, anche nell’ottica degli interventi preventivi della devianza. Bandura assegna un ruolo determinante ai meccanismi di disimpegno morale nell’innescarsi di vari tipi di trasgressioni e prevaricazioni, che, tuttavia, non sono esclusivi di bullismo e delinquenza, bensì pervadono svariati aspetti della vita quotidiana di ciascuno. Alcune ricerche sul disimpegno morale e civile (G.V. Caprara e Cristina Capan4 G.V. Caprara, Disimpegno morale e autoassoluzione: minima moralia, Psicologia contemporanea, n.160/2000, pp.34-35 5 Eiss, Il servizio sociale nel sistema della giustizia e la devianza minorile, in Rassegna di Servizio Sociale n.2/2000 6 G. Lavanco, I luoghi comuni delle mafie, Progetto formativo:“Minori e criminalità organizzata: analisi del fenomeno e ipotesi d’intervento, Scuola di formazione del personale Giustizia Minorile, Roma 9.10.2002 Temi ed esperienze 85 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalità na), inoltre, hanno evidenziato che gli uomini ed i giovani, rispetto alle donne ed agli anziani, sono più inclini al disimpegno morale, considerato un importante fattore di rischio, sul versante dell’individuo, anche dai più recenti orientamenti teorici in tema di devianza minorile. Questi ultimi individuano nuove variabili cruciali, fattori di rischio e di protezione - personali, comportamentali ed ambientali - e nuovi processi, sottesi alla devianza, che “si genera e si costruisce all’interno dell’interazione circolare e ricorsiva tra i fattori di protezione e i fattori di rischio”.(De Leo G.,’96-’98; De Leo, Patrizi ’92)7 L’osservazione sul campo L’esperienza e l’osservazione maturate “sul campo” in circa venti anni di esercizio della professione in un servizio minorile della giustizia (Distretto di Corte d’Appello di Bari), mi hanno persuasa che anche i minori denunciati all’Autorità Giudiziaria, come vedremo di seguito, fanno spesso ricorso ai meccanismi di disimpegno morale. Ritengo, tuttavia, che lo stesso “sistema giustizia”, qui inteso nella sua accezione più ampia (con particolare riferimento alle istituzioni, i servizi ed i professionisti che vi afferiscono o che a vario titolo collaborano per le problematiche dei minori), non sia immune dal fenomeno esplorato. Nelle aule dei Tribunali per i Minori ad esempio, capita di assistere alla “colpevolizzazione o svalutazione della vittima”, da parte di legali che nel difendere il minorenne autore di reato, insinuano ombre sulla vittima, sulla sua “moralità” o sulla sua ”attendibilità”, con ovvie implicazioni sul piano educativo. Perfino la “Giustizia” non sembra avulsa da questi meccanismi (si tratta, fortunatamente, di casi eccezionali, che tuttavia destano preoccupazione e sdegno): una recente sentenza della Corte di Cassazione, per esempio, ha ridotto la pena inflitta ad un adulto accusato di molestie sessuali, poiché la vittima, minorenne, aveva già avuto rapporti sessuali. Infine anche i professionisti d’aiuto, o coloro che comunque svolgono funzioni educative, talvolta sembrano incorrere nell’utilizzo, anche inconsapevole, di meccanismi di disimpegno morale, quali la “diffusione o il dislocamento delle responsabilità”, spinti, ad esempio, dal bisogno di giustificare insuccessi, o di fronteggiare situazioni che per la loro complessità e problematicità possono comportare un intollerante senso d’impotenza o di frustrazione, specie quando non si disponga di risorse adeguate. Il disagio e la fatica, rivenienti, poi, dal confronto estenuante con pastoie burocratiche o, ancora, con l’“Autorità”, sono solo alcuni degli esempi che talvolta possono spingere gli operatori a “rifugiarsi” in tali meccanismi, assumendo comportamenti “disimpegnati”. Per quanto concerne più specificatamente gli adolescenti incappati nelle maglie della giustizia, essi adducono spesso motivazioni “autoassolutorie” basate, ad esempio, sul meccanismo di disimpegno morale della “giustificazione morale” (“ho rubato per aiutare la mia famiglia”), oppure della “colpevolizzazione o deumanizzazione della vittima” (“responsabile” per esempio, d’aver lasciato “incustodita” l’auto di proprietà con le portiere “aperte”, o d’aver lanciato “segnali inequivocabili di disponibilità”, come nel caso di vittime di molestie sessuali, o, infine, d’essere “pazza”), o, ancora, del “dislocamento delle responsa7 Eiss, idem, p.95 86 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalità bilità” (minori che si ritengono “costretti” a rubare un’auto, perché il comune di residenza non garantisce il funzionamento dei mezzi pubblici ad una certa ora). Altre volte, i ragazzi diluiscono nelle responsabilità del gruppo quelle proprie (diffusione delle responsabilità) e solitamente “sottostimano le conseguenze” delle proprie azioni (“ho preso il suo motore solo per giocargli uno scherzo, pensavo di restituirlo, non credevo mi denunciasse…”). Generalmente, inoltre, non sembrano agevolare l’individuazione degli altri o dei “veri” responsabili, mostrandosi convinti ed orgogliosi di non essere “infami”, salvo poi lamentarsi dell’inettitudine o “iniquità”della legge. E’ un atteggiamento assimilabile ad una sorta di “omertà di consorteria”, diffuso non solo tra soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, ma anche tra ragazzi cosiddetti “normali”, come evidenzia anche un’interessante ricerca8. I comportamenti illeciti dei ragazzi, inoltre, frequentemente sono giustificati anche dai loro genitori col richiamo a fatti di cronaca - i cui protagonisti sarebbero, per esempio, esponenti della politica o rappresentanti delle forze dell’ordine -, oppure al malcostume o ad un’imperante e generalizzata corruzione (confronto vantaggioso). Il più delle volte, ancora, i genitori sostengono con veemenza l’innocenza dei loro “bambini” (così li definiscono e spesso li considerano), negando perfino l’evidenza; ritengono delle “bravate” o delle “sciocchezze” i reati da loro commessi, anche se comportano forme di violenza sulla vittima, spesso ingiuriata e talvolta tacciata d’“infamità” perché non ha subìto in silenzio. Si tratta di atteggiamenti, lo evidenziamo, che non si riscontrano solo in famiglie appartenenti al circuito criminale, bensì in nuclei estranei alla criminalità, rappresentati in eguale misura da quelli segnati da marginalità socioculturale e da quelli di ceto medio-alto. Qui s’intravede l’ulteriore scenario del “malessere del benessere”, nel quale la marginalità sociale, il basso status socio-economico della famiglia e il livello di scolarizzazione, per citare alcuni degli indicatori tradizionali, non sono più i fattori principali che possono determinare il disagio, la devianza o la criminalità tra gli adolescenti. Considerazioni conclusive I comportamenti a rischio, quindi, non indicano di per sé il fallimento nel percorso di sviluppo o il segno di un disadattamento patologico, e costituiscono una sfida ai compiti educativi degli adulti. L’attuale realtà adolescenziale, infatti, presenta fasce di marginalità che riguardano l’area della relazionalità e dell’interiorità, che pervadono tutto il tessuto sociale, a partire dall’ambito della cosiddetta “normalità”, anch’esso colpito spesso da varie manifestazioni della devianza minorile. La caratteristica espressiva delle forme di devianza giovanile più praticate o ammesse può essere letta anche come una strategia per comunicare un disagio, spesso legato a disfunzioni relazionali e/o educative, e quindi, come tale, richiede d’essere interpretata e risolta. Sappiamo, 8 F. Perussia, G. Benso, A. Lovisolo, Il senso della legge e della giustizia e del sistema penale in giovani minorenni maggiorenni, in F. Perussia, (a cura di), Materiali di psicologia sociale e della personalità, vol.1, Torino, Celid, 1997 Temi ed esperienze 87 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/adolescenti_e_legalità infatti, che la devianza ha forti valenze comunicative, che rappresentano sia rischi sia risorse: appare fondamentale, pertanto, riconoscere la funzione specifica che i diversi comportamenti assumono all’interno di un processo teso alla costruzione dell’identità, individuale e sociale, di quell’adolescente, nel suo contesto di vita; così come è fondamentale individuare i fattori di rischio che potrebbero stabilizzarne la condotta “rischiosa”, e quelli protettivi, che possono limitare il tempo e la gravità dell’incursione nel pericolo. Occuparsi di legalità oggi, perciò, significa saper leggere e conoscere il disagio, il suo manifestarsi, nelle nuove generazioni. L’educazione alla legalità, quindi, non può che partire dai comportamenti tipici della sub cultura giovanile, che vede spesso molti giovani considerare leciti o innocui alcuni comportamenti, siano essi dannosi “solo” per la salute e/o ritenuti illeciti dalla norma - quali, ad esempio, il consumo d’alcool o di sostanze stupefacenti leggere, la pirateria musicale, il mancato utilizzo del casco, il fare a botte - e manifestare una difficoltà sia a riconoscerne l’illiceità, sia a stimarne le conseguenze, anche penali. E’ fondamentale che gli adulti riconoscano le potenzialità dei giovani e ne promuovano il protagonismo attivo, attivando opportunità ambientali più variegate e protettive, che consentano loro d’incrementare l’autostima e di perseguire gli obiettivi evolutivi preservando il proprio benessere. La scuola in questo senso può svolgere una funzione di rilievo, anche rispetto alla prevenzione di comportamenti devianti, elaborando un insieme condiviso di regole, di norme precise ed esplicite da rispettare, e prevedendo sanzioni riparative; in tal modo si può “favorire e sviluppare l’assunzione di responsabilità” (De Leo, 1997), che ha una valenza protettiva rispetto ai comportamenti a rischio. Inoltre, la scuola è il luogo in cui si possono avviare “momenti di riflessione di gruppo finalizzati al riconoscimento dei meccanismi di disimpegno morale ed allo smascheramento delle strategie assolutorie e giustificative” 9 , ed anche implementare competenze sociali e comunicative. S’impone, quindi, la necessità di una prevenzione diffusa, che favorisca il riconoscimento e l’emergere dei vissuti, delle emozioni e dei bisogni dei ragazzi, occultati anche da spinte all’adeguamento dell’immagine indotte dalla società dei consumi. Il benessere globale degli adolescenti, dunque, non è determinato dalle sole caratteristiche individuali o intrapsichiche, o da fattori familiari, essendo in stretta relazione anche con le condizioni di vita ed i processi che si verificano negli ambienti sociali in cui vivono. Perché l’educazione alla legalità risulti efficace, pertanto, è necessario che sia intesa e praticata come progetto sostanzialmente condiviso da tutte le agenzie educative di un determinato territorio (famiglia, scuola, comunità ecclesiali, associazionismo laico), con un approccio metodologico di tipo sistemico, che promuova azioni dirette ad implementare l’efficacia collettiva e lo sviluppo di una comunità. *Assistente Sociale specialista presso L’U.S.S.M. di Bari, Dipartimento Giustizia Minorile 9 S.Bonino, Le condotte antisociali e devianti nell’adolescenza, in Psicologia contemporanea n.155/199, Giunti, p.25 88 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze Il “Progetto di ricerca” e la qualità della formazione in ambito pubblico Per costruire un’alleanza di lavoro spesso si pensa allo spazio della formazione o alla supervisione del lavoro del gruppo, ma l’aspettativa di intervento e di cambiamento appare riposta all’esterno. Emanuele Toniolo*, Emilia Canato**, Giannamaria Grisolo*** Nel progetto di ricerca sulla gestione dei disturbi maggiori in adolescenza (aspetti epidemiologici, diagnostici, terapeutici), per l’organizzazione di un modello di assistenza basato sull’integrazione fra Servizi dell’età evolutiva e dell’età adulta, l’esperienza formativa ha assunto un spazio significativo, in termini qualitativi soprattutto. Nel progetto generale le Aziende Ulss coinvolte sono state tre, e adesso ha collaborato al progetto il Centro Specialistico dell’Ulss16 di Padova. Hanno partecipato: psicologi, neuropsichiatri e psichiatri (complessivamente circa 20 operatori delle aziende interessate). L’attività di formazione si è concretizzata in un percorso di più occasioni di confronto e intervento. In particolare negli incontri mattutini si è lavorato su temi generali inerenti la ricerca, la definizione dei pacchetti diagnostici, l’identificazione degli indicatori da considerare e sulla concreta supervisione del lavoro clinico su casi proposti dalle équipe, considerati utili e significativi per la problematica evidenziata. Negli incontri pomeridiani si sono affrontate le situazioni di maggiore urgenza e disagio in carico ai servizi, i consulenti hanno svolto colloqui e valutazione diretta con successivo rinvio agli operatori competenti. La formazione, poi, per l’aggiornamento delle conoscenze degli operatori è stato affidata ad esperti esterni in giornate dedicate. Nello specifico, oggetto di formazione e di ricerca per un periodo di 7 mesi è stata la “…la condivisione di linee guida e protocolli clinici”, e “l’individuazione di buone prassi per l’inquadramento diagnostico, in ambito di gestione dei disturbi maggiori in adolescenza”. La formazione è stata accreditata secondo le linee guida regionali relative ai programmi di Educazione Continua in Medicina, quale attività di “formazione e ricerca sul campo”. L’attività di ricerca, nel suo svolgersi, ha comportato attività di studio, raccolta e organizzazione di materiale bibliografico e clinico, una raccolta di documentazione e di materiale da condividere per l’elaborazione di dati e di risultati. La presentazione dei casi clinici e dei risultati relativi alla applicazione dei protocolli, ha reso necessaria l’individuazione di un coordinatore per ogni singola azienda, consentendo così la stesura di relazioni da parte di ogni singolo gruppo, ciò per mantenere e valorizzare le differenze dei contesti di lavoro e, nell’insieme, strutturare l’evento formativo condiviso. Il periodo di formazione e ricerca è stato relativamente breve, è andato strutturandosi con incontri quindicinali di coordinamento e supervisione, ma con una proficua attività clinica nei rispettivi servizi e di specifica consulenza per l’utilizzo delle procedure nelle nuove situazioni segnalate e prese in carico. Dalle considerazioni emerse nelle Temi ed esperienze 89 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricerca relazioni conclusive dei coordinatori e dalle procedure elaborate e utilizzate, il percorso formativo e di ricerca è stato sostanzialmente positivo ed è stata formulata la richiesta di continuare il lavoro, per verificare longitudinalmente l’efficacia delle procedure apprese e l’evoluzione dei trattamenti avviati. Il modello sperimentato è stato approvato e condiviso con una buona ricaduta formativa per gli operatori che hanno aderito all’esperienza, sono emersi suggerimenti operativi efficaci e possibilità di intervento con impatto sui contesti lavorativi più allargati, negli aspetti relativi alla definizione del setting e nel passaggio di informazioni tra i Servizi coinvolti o comunque interessati. La modalità operativa adottata ha consentito di lavorare all’analisi dei diversi contesti coinvolti, attraverso la presentazione di casi clinici in carico, e ha permesso di formulare una scheda per la raccolta anamnestica, in grado di tener conto sia dei problemi sia dei punti di forza del soggetto e del contesto familiare e sociale. Il percorso ha poi evidenziato la necessità di definire una batteria di test adeguati, rendendo diffusa la conoscenza di tali test e l’effettiva praticità del loro utilizzo. Questi strumenti diagnostici sono stati sperimentati su un campione di casi di nuova segnalazione (complessivamente una ventina, almeno cinque per gruppo di lavoro), rendendo confrontabile ed utile il modello e le relative procedure. Il momento del confronto ha consentito una costruttiva elaborazione dei nodi problematici, ricercando le possibili soluzioni. Questo passaggio di elaborazione e analisi dei risultati ha consentito proposte comuni e ipotesi di miglioramento, differenziate all’interno dei singoli gruppi di lavoro aziendali. Non sempre i contesti formativi favoriscono un cambiamento ed un’elaborazione di nuove prassi. Molto probabilmente il contesto di “ricerca “ ha consentito un’evoluzione del gruppo senza particolari conflittualità, ritrovando nell’obiettivo comune un reciproco arricchimento, attraverso le differenti pratiche applicative. L’elaborazione di linee guida in fase di iter diagnostico e la loro applicazione in contesti differenti, ha favorito la riflessione e quindi la condivisibilità, suggerendo più chiavi di lettura. La tematica relativa alla presa in carico di adolescenti, nella fascia di età 14-22, coinvolge più servizi e presuppone più livelli di procedure, di percorsi di intervento e di trattamento. La fascia di età interessa, infatti, servizi per minori ed altri per adulti con mandati istituzionali differenziati. Il contesto formativo, di ricerca, è pertanto partito dal presupposto di elaborare proposte condivise di miglioramento, ed ha consentito lo svilupparsi di una strategia connessa alla consapevolezza dei differenti mandati, inserendoli negli scopi stessi della ricerca; garantendo così le differenze, ma sviluppando nel contempo un aspetto interattivo in grado di perseguire scopi comuni. Potremmo descrivere l’esperienza formativa come una co-costruzione di alleanze in grado di strutturare “nuove possibilità di intervento con scambi ricchi e differenziati”. Nel libro Il triangolo primario E. Fivaz-Depeursinge e A. Corboz-Warnery sviluppano il tema della dinamica relazionale triadica in ambito familiare, non quale fonte di relazioni disfunzionali, ma come base costruttiva di alleanze in grado di consentire crescita e apprendimento. Quindi se si prende in considerazione la strutturazione di processi interattivi modulati e differenziati secondo le fasi di crescita del bambino, la relazione può essere vista nella duplice ottica di accrescimento 90 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricerca affettivo del bambino, ma anche dei genitori, che affinano e acquisiscono competenze e modalità interattive nuove. Questi processi interattivi possono essere scomposti in due sub-unità, una strutturante rappresentata dalla componente “coparentale”, ed una “evolutiva” rappresentata dal bambino. Utilizzando questo schema interattivo, ogni sequenza o unità interagente, che costruisce nuovo apprendimento, nuove conoscenze, ristruttura il precedente e pertanto questo “modello interattivo” rappresenta potenzialmente un modulo formativo ristrutturante. L’utilizzo di questo modello è una chiave di lettura per tutti quegli eventi formativi in grado di costruire alleanze di lavoro ristrutturanti ovvero portatrici di nuove procedure e modalità operative. “…le famiglie volontarie non chiedono un intervento, ma quelle cliniche se lo aspettano”1. L’attesa di un qualcosa dall’esterno caratterizza il modello formativo classico, con la richiesta all’esperto di accrescere e modificare conoscenze e aspetti operativi, diverso è ricercare qualcosa con l’atteggiamento di apertura proprio della ricerca sul campo, con la possibilità di riformulare ipotesi e premesse. L’atteggiamento di intraprendere un percorso per validare o modificare ipotesi di lavoro consente una partecipazione individuale aperta e disponibile, non imbrigliata in rigidità comunicative come nelle interazioni dei gruppi familiari problematici. Partendo dalla nostra esperienza va evidenziato che nella presentazione e discussione di ogni specifica tematica o caso clinico, è stato possibile valutare le criticità, condividere i suggerimenti pratici e la possibilità di sperimentare ed evitare percorsi chiusi o inopportuni. Nel gioco delle parti tra chi presenta il problema e chi osserva, si sono stabilite le premesse per lo sviluppo di sequenze tra componenti strutturanti contenitive e moduli evolutivi di consapevolezza del problema. La “volontarietà” ha connotato l’esperienza anche nella fase di sperimentazione di nuove procedure. L’attività di “ricerca sul campo” si è inserita nel lavoro di ciascun Servizio, ma con una collocazione logistica e spaziale differente nella sua fase di elaborazione, quindi è apparsa estranea ai vincoli istituzionali. Per costruire un’alleanza di lavoro in ambito istituzionale, spesso si pensa allo spazio della formazione o alla supervisione del lavoro del gruppo degli operatori, ma l’aspettativa di intervento e di cambiamento appare riposta all’esterno e il gruppo si struttura nell’interscambio in un’attesa indefinita del nuovo. Pertanto, come nel lavoro con famiglie “cliniche”, gli scambi interni/esterno possono essere influenzati dal tipo di coerenza interna (collusiva, disturbata, o relativamente buona); se manca la negoziazione dei compiti, dei ruoli, della temporalità, si rischia infatti di rinforzare e irrigidire il modello relazionale preesistente e gli aspetti disfunzionali, ovvero il gruppo si chiude maggiormente e non crea novità operativa. Nella logica del miglioramento delle prassi operative appare necessario confrontare modelli formativi differenziati per fornire maggiori possibilità e opportunità operative. Nel nostro caso gli incontri interlocutori e la costruzione di un percorso secondo fasi, a volte anche 1 E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery, Il triangolo primario. Le prime interazioni triadiche tra padre, madre e bambino, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 175 Temi ed esperienze 91 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricerca rigide, ha consentito di produrre a scadenze fisse materiale di studio con successivi feed-back clinici, così la casistica che ogni singolo servizio ha sperimentato è diventata patrimonio del gruppo e ampliamento di conoscenze nei vari contesti. Gli stessi operatori “esperti” sono stati coinvolti nella consulenza diretta e, a turno, potremmo dire, che tutti hanno potuto svolgere le funzioni “strutturanti” ed “evolutive”. Ai fini dell’accreditamento ECM, per i progetti di ricerca sul campo, la Regione Veneto ha predisposto delle linee guida abbastanza rigide per la definizione dei ruoli e dei compiti: responsabile del progetto, garante della ricaduta formativa, tutor, capogruppo o coordinatore di sottogruppi, esperto, partecipante, con una differenziata ipotesi di impegno e di orari. Anche le fasi di lavoro sono state definite dalla Regione, in particolare sono state previste: - analisi del problema, esplicitazione delle ipotesi di lavoro, indicazione dei metodi di controllo e di validazione dei risultati; - raccolta dati su un campione di riferimento; - analisi dei risultati: - validazione o rifiuto della ipotesi di lavoro. Lo schema rigido di accreditamento e la possibilità di negoziare in premessa ruoli e funzioni, sono stati un valido strumento di differenziazione, utile per la costruzione di una alleanza di lavoro collaborante. Le fasi di lavoro così strettamente predeterminate hanno scandito i tempi di lavoro, coordinando i vari sottogruppi. La possibilità di accrescere in gruppo le conoscenze sul tema, attraverso una raccolta di informazioni e di materiale autogestita e condivisa, ha rappresentato il filo conduttore dell’esperienza formativa. Alcune situazioni cliniche sono state seguite in corso di diagnosi e/o in psicoterapia, all’interno di un assetto teorico di tipo psicodinamico ad orientamento psicoanalitico. Il confronto nel gruppo è stato particolarmente interessante perché ha permesso un processo di integrazione tra il materiale clinico e gli aspetti emersi sia nei test proiettivi e psicometrici, sia nei questionari valutativi dei genitori, effettuati da operatori diversi. In questo modo il lavoro con gli adolescenti è stato arricchito ed i singoli operatori si sono sentiti sostenuti nel loro lavoro. A livello macro organizzativo l’esperienza ha consentito un benchmarking “di buone prassi” fra gruppi di lavoro diversi e, parallelamente, ha permesso di rafforzare un’integrazione verticale fra i servizi che si occupano di fasi evolutive successive, operando nella direzione prevista dal P.O. Tutela della salute mentale 1998-2000 e delle linee nazionali per la salute mentale (2008). L’analisi della casistica, le considerazioni sulla prevalenza trattata e lo scarto con la prevalenza attesa secondo i dati della letteratura, hanno introdotto la necessità di una riflessione sia sui modelli organizzativi dei servizi (accessibilità, capacità di intercettare i bisogni), sia sulla congruità fra risorse disponibili e bisogni presenti nella popolazione. *Direttore Dipart. di Salute mentale Az. USSL 18 Rovigo ** Psicologa e Psicoterapeuta Az. USSL 18 Rovigo *** Neuropsichiatra infantile Az. USSL 18 Rovigo 92 Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/come_libri_al_rogo Dossier 93 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/ La differenza di genere nell’Odissea. Donne, sentimenti, incontri La ricerca del sé autentico passa necessariamente attraverso la dimensione dell’alterità, che diviene elemento rilevante. L’amore di sé necessita dell’amore che l’altro ci può offrire Dario Costantino* I personaggi femminili hanno un forte valore educativo nel processo di formazione di Ulisse e testimoniano concretamente una tangibile “cultura della differenza di genere”. Il nostro eroe arricchisce la propria personalità, confrontandosi con una “femminilità di valore”, che è fondamento e motore dell’azione investigativa e conoscitiva dell’uomo. Ulisse interagisce con un ampio catalogo di donne, ciascuna con una funzione precisa nel percorso dell’eroe. La principale educatrice – in ordine di tempo – dell’uomo/Ulisse è Anticlea1, la madre. Ulisse incontra la sua genitrice durante la discesa nel regno degli Inferi. Drammatico l’incontro tra i due. L’atmosfera è inquietante, ma di profonda riflessione. L’incontro con la morte è per l’uomo-Ulisse un’esperienza estrema, ma anche una tappa necessaria di crescita. È forte in Ulisse il desiderio di “toccare” fisicamente la madre. Egli la sente ancora viva, ma in realtà, non lo è più. Di fronte alla madre, il figlio conosce e riconosce l’amaro significato della rinuncia2, per questo matura e diviene sempre più consapevole di sé. Egli è addolorato per essere stato involontariamente causa della morte della madre. È singolare pensare che colei che ha già dato la vita ad Ulisse, da morta, fornisce al figlio valide motivazioni per continuare a vivere. La madre rafforza nell’eroe la volontà e il bisogno di tornare in patria3. L’incontro con la madre si configura come “un nuovo venire alla luce”, una nuova rinascita, dolorosissima come un secondo travaglio. La donna offre al figlio un reale e sincero strumento di ricerca del suo sé autentico. Lo rinsalda nel suo proposito di fare ritorno in patria. Antitetico nel significato, ma altrettanto intenso, l’incontro con le Sirene, metafora della perdizione umana. Questi demoni marini sono personificazione dei pericoli del mare, ma rappresentano anche uno straordinario strumento di crescita pedagogica. La femminilità delle Sirene è distruttiva, ma non per questo Ulisse rinuncia all’incontro, né a godere del loro inebriante canto. La loro forza è trascinante e violenta, distruttivo 1 Figlia di Autolico e Anfitea. Sposa di Laerte, morta secondo alcuni di dolore, secondo altri uccidendosi nell’apprendere la falsa notizia della morte del figlio. Cfr. G.L. Messina, Dizionario di mitologia classica, Roma, Angelo Signorelli Editore, 1985, p. 26. 2 A. Semeraro, Omero a Baghdad, Roma, Meltemi, 2005, p. 82; cfr. P. Citati, La mente colorata, Milano, Mondadori, 2002. 3 G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero. Lettura dell’Odissea, Torino, Einaudi, 2005, p. 171. 94 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdissea e decisivo l’effetto. Sono un limite da superare. Il desiderio di Ulisse non è solo la dilatazione dei confini della conoscenza umana, ma lo sviluppo dell’essenza stessa dell’uomo, l’essere con gli altri. L’incontro con le Sirene è pericoloso e probabilmente negativo, ma avviene uno scambio reciproco tra i protagonisti. Ulisse cresce grazie al pericolo rappresentato da queste due creature marine. Le Sirene, dal canto loro, grazie all’eroe, conquistano gloria imperitura e assurgono ad archetipo di creature maliarde e dissacranti. Nel suo percorso Ulisse incontra anche altre donne, che non rivestono una rilevante funzione narrativa, ma che hanno un grande spessore umano e svolgono, comunque, una funzione educativa. È il caso di Euriclea, fedele nutrice, figura emblematica. Presenza forte ma discreta nella famiglia di Ulisse; in alcuni momenti risulterà anche decisiva. Accoglie Ulisse, tornato a Itaca sotto mentite spoglie. È pronta a lavare i piedi allo straniero/Ulisse, che vive una condizione di disagio, forse, simile a quella del suo amato padrone. La nutrice mostra nei confronti del mendico/Ulisse un’empatica condivisione delle sofferenze e della sorte avversa. Comprende che l’uomo che le sta di fronte ha pudore e ritrosia per il suo stato fisico, a tal punto da fuggire addirittura lo sguardo delle ancelle. Probabilmente – pensa – che, in un altro luogo, anche il suo Ulisse abbia lo stesso problema. Euriclea, mossa da compassione, lava i piedi allo straniero. È il momento della anaghnórisis (riconoscimento di ciò che è familiare). La fedele nutrice lo “riconosce”. Recupera immediatamente un patrimonio identitario straordinario. Euriclea è stata testimone di un atto, che ha definito per sempre l’identità di Ulisse. Il passato dell’eroe e la cronistoria della ferita4, procuratagli da un cinghiale, le balzano alla mente d’un tratto. La donna tocca con le palme delle mani la ferita e la riconosce al tatto. Coglie fisicamente l’identità del suo padrone; la cicatrice è l’inequivocabile segno di riconoscimento. Un incontrastabile senso di gioia e dolore la pervade, il pianto scende copioso, la voce le si arresta in gola. Sta per urlare l’identità di Ulisse, ma questi con forza l’afferra per la gola e la blocca. La minaccia, svelandole la sua identità e i disegni di vendetta. Euriclea, allora, rinnova con forza la lealtà al sovrano. L’iter dell’eroe Ulisse è labirintico e tortuoso. Gioie e dolori, amicizia e inimicizie, separazioni e condivisioni. Sensazioni forti si susseguono senza soluzione di continuità con un affascinante ritmo alternato, che rende unici questi “incontri al femminile” Aréte e Nausicaa, madre e figlia, principessa e regina dei Feaci offrono un grande aiuto all’eroe bisognoso. Aréte accoglie l’ospite con grande benevolenza. È lei lo strumento per ottenere una nave per fare ritorno in patria. La regina è “curiosa” dello straniero, “desiderosa” di conoscerlo, ma anche di “comprenderlo”. Rispetto, voglia di confronto e soprattutto desiderio di ascolto, caratterizzano questa donna, che vede nel naufrago/Ulisse l’altro con cui confrontarsi, e un’occasione di crescita personale. La principessa Nausicaa, illuminata da Atena, soccorre con dolcezza lo straniero, e lo aiuta nel suo progetto di ritorno in patria. 4 Cfr. Omero, Odissea, XIX, vv. 392-395, trad. it. di G.A. Privitera, Milano, Fondazione Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori Editore, 1985-1990. Temi ed esperienze 95 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdissea Aréte e Nausicaa sono esempi di forte identità femminile, che Omero arricchisce con particolari descrizioni. Aréte attua pienamente il cerimoniale dell’ospitalità. La regina vuole offrire il meglio allo straniero. Ospitalità è anche sinonimo di cultura della “differenza di genere”. L’elemento femminile segna una lenta, ma profonda transizione educativa e sociale. Si afferma nella cultura greca e non solo come elemento identificante. Tra i Feaci, ad esempio, le decisioni importanti sono prese con una fattiva e concreta partecipazione anche dell’elemento femminile. Basti pensare alla posizione decisiva di Aréte in merito all’aiuto concesso ad Ulisse. Esempi di pari incisività educativa, però, sono rappresentati anche da Calipso e Circe. La ninfa occulta nel suo confortevole antro l’eroe, per ben sette anni. Importante la sua funzione narrativa, ma ancor più la sua valenza pedagogica. Numerose le analogie con Circe. Calipso è occasione di confronto e crescita per lo straniero. È l’assolutizzazione del desiderio femminile. Calipso è ostacolo e sprone per la crescita di Ulisse. Lo blocca, infatti, nella sua isola. A seguito dell’ordine di Zeus, però, Calipso diviene occasione e strumento di crescita per l’eroe. Egli non ha fiducia nei confronti della sua “dolce carceriera”. La ninfa, però, lo rassicura sulla necessità del suo ritorno, offrendogli ospitalità prima e assistenza nella realizzazione della zattera dopo. Ulisse si riconferma eroe della scelta. Vive un profondo dilemma tra un’immortalità anonima e un’esistenza mortale, ricca dei ricordi delle esperienze vissute. Non avrebbe mai potuto accettare un dono illusorio; nessun mortale si sarebbe mai potuto impegnare in un eterno rapporto d’amore. L’itacese è un eroe errante, identificato dalla speranza di un approdo definitivo al luogo caro, irrinunciabile: Itaca. La ninfa maliarda chiede all’eroe un impossibile contraccambio per il suo vantaggioso dono, ma Ulisse è segnato dalla necessità del rientro in patria. Calipso con il suo comportamento comunica una reale condivisione e compartecipazione delle sofferenze di Ulisse. Rinuncia a un amore, che è stato rubato dalla volontà divina, affinché Ulisse compia il suo destino. Accetta, sia pur con dolore, il volere della divinità, infrangibile e ineluttabile. L’eroe, dal suo canto, cresce grazie a questo amore, comprendendo sempre più come la sua identità sia legata alla necessità del ritorno in patria. In realtà la permanenza nell’isola di Calipso ha rinsaldato ulteriormente il “desiderio di umanità” di Ulisse e la ricerca di una personale e autentica identità. La dea è immortale e senza vecchiaia, Ulisse, però, desidera ugualmente tornare dalla sua Penelope. Non importa che il ritorno alla sua identità richieda enormi sacrifici, egli è pronto a patire di nuovo, ad affrontare innumerevoli peripezie. L’amore di Calipso è supremo atto donativo; serve a chi dona, ma anche a chi vuole ed è capace di accogliere il dono5. Calipso asseconda Ulisse in tutto, lo lascia andare senza rancore, confidando nel suo bene. Amore è donarsi, ma anche sacrificarsi per il bene altrui. Notevoli sono gli spunti di riflessione pedagogica, che anche la maga Circe propone. Forte e significativo il contributo che la sua femminilità offre alla paidéia di Ulisse. La maga accoglie caldamente il sovrano di Itaca, angosciato nel ricevere la sua 5 A. Semeraro, Omero a Baghdad, cit., p. 91; cfr. A. Bellingreri, Per una pedagogia dell’em- patia, Milano, Vita e Pensiero, 2005. 96 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdissea irrifiutabile ospitalità. Amore, odio tra i due. L’una tenta i suoi incantesimi, ma invano, quindi chiede pietà. L’altro la aggredisce e ne esce vittorioso. Si compie la profezia. Cessano le ostilità tra i due, affinché si possano unire e scambiarsi reciproca fiducia. Palese il cambiamento di comportamento di Circe. Si confronta con il sovrano itacese e si perde nella loro unione d’amore. Passo dopo passo, il nostro eroe compie la sua paidéia. È costretto a superare difficoltà e soprattutto se stesso. Gli ostacoli sono insiti nel suo essere uomo. La sua dimensione individuale matura grazie alla dea. Sarà Circe con i suoi preziosi suggerimenti a fornire all’eroe la chiave del successo di questa ennesima avventura, il suo viaggio di ritorno a Itaca. Circe e Calipso hanno instaurato con l’eroe un vero rapporto di philía, di amore. Hanno desiderato Ulisse e, a malincuore, se ne sono separate, sapendo che la separazione era a fin di bene, voluta dal destino. Ulisse costituisce la sua identità attraverso speciali “rapporti di amore” con la differenza. Crea due rapporti forti, tali per cui in ogni caso il partner è diventato l’altro mio6. È il caso di Calipso, di Circe, ma anche di Penelope. Tra gli amanti si stabilisce una tacita e reciproca garanzia di appartenenza, che si rinnova continuamente. L’eroe di Itaca è consapevole delle difficoltà, ma anche dell’ineluttabilità del suo destino, che è comune agli uomini di tutte le generazioni. È il mistero della vita, che lo guida e lo sorregge. Last but not least la fedele sposa Penelope, donna paziente, sa soffrire. La sua tela è strumento di difesa e di lealtà nei confronti del marito, ma anche metafora dell’esistenza stessa. Penelope assurge a paradigma di una femminilità, che riesce a ritagliarsi un proprio “spazio”. Non si piega al ruolo e al confinamento che la società e il marito Ulisse potrebbero assegnarle7. La regina di Itaca rappresenta un nuovo orizzonte identitario, sa di non essere come Ulisse, né vuole esserlo. È l’eroina dei sentimenti, del fermentum che si genera nel suo animo. Mantiene fermi i valori riconosciuti coram populo. È exemplum di femminilità e differenza di genere saldamente connotata, creatrice di nuovi e forti rapporti. Separa con straordinaria chiarezza due ruoli femminili. Il primo è legato a una idea non propositiva della femminilità, assimilata a mansioni prettamente domestiche, l’altro a una identità che crea nuove relazioni – basti pensare all’incontro con il marito – che conferiscono all’eroina una nuova identità femminile. Tutto ciò è indicativo di una transizione culturale in atto. Siamo in una società in cui la donna vive una condizione di segretezza e di confino, dalla quale la regina, con la forza della sua dignità, vuole uscire. Come Ulisse è eroina della métis (“senno, saggezza, prudenza”). È speculare al marito, è il suo alter ego femminile. La regina, esperta tessitrice, come lo sposo architetta un abile inganno. La sua intelligenza e astuzia consistono proprio nella azione femminile del tessere e disfare la tela8. Solo apparentemente accetta un ruolo femminile 6 A. Semeraro, Omero a Baghdad, cit., p. 83. 7 A. Cavarero, Nonostante Platone, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 23. 8 Ivi, p. 20. Temi ed esperienze 97 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdissea impostole dall’ordine simbolico, che vede la donna in paziente attesa del marito e attenta alle pratiche domestiche. Penelope sceglie il silenzio e la più tipica delle attività femminili dell’antichità, per assurgere ad archetipo di una nuova e attiva identità femminile. Penelope è condizione necessaria e indispensabile del ritorno di Ulisse. L’Odissea non è solo la glorificazione di Ulisse, ma anche di Penelope. I due coniugi devono riconoscersi tali. Penelope spiega che possiede con Ulisse dei segni inequivocabili della loro identità, che nessuno conosce. Chiederà allo sposo la chiave identificativa del loro amore. Ulisse comprende che la sua identificazione deve necessariamente passare attraverso altre prove. Momenti e difficoltà lo miglioreranno e gli consentiranno di palesare la sua vera identità. L’accorta personalità di Penelope è “perfettamente speculare a quella di Ulisse”. Egli accetta la momentanea indifferenza della regina, dovuto all’aspetto poco regale, comprendendo l’incredulità della moglie. Ulisse sceglie di confrontarsi con Penelope, concordando con lei quale sia lo strumento migliore per testare la sua identità. È il “miracolo del riconoscimento”, che dona nuova luce ad Ulisse, che potrà finalmente abbracciare la consorte. Egli toglie all’alterità ogni opacità, perché Penelope si ricongiunge con l’agognato sposo. Tra i due vi è un sistema di segni, che li rende sintoni e autentici. Penelope e Ulisse superano il reciproco risentimento, l’una per essere stata messa alla prova, l’altro per non avere ricevuto subito l’accoglienza sperata. I due sono provati, ma il loro amore ne è uscito migliore, più forte. Un’altra dura prova, però, “senza misura”, attende i devoti amanti. Penelope vuol sapere, non vuole attendere dopo il dolce sonno. È necessario che si compia la profezia di Tiresia. Solo dopo avere conosciuto popoli altri, i due potranno ricongiungersi serenamente in vecchiaia. Penelope comprende che questa prova renderà migliore Ulisse. I due si abbandonano al desiderato amore e Penelope gode dei lunghi racconti del marito. Il reciproco riconoscimento rinsalda e rifonda il loro legame nuziale. Ulisse racconta anche di Calipso, del dono rifiutato dell’immortalità. Attraverso la reciproca agnizione Ulisse recupera, finalmente, l’io autentico e il loro “amore proprio”. Il loro rapporto ha alla base un progetto etico-morale, consolidato da questa esperienza estrema. Egli si confronta a fondo con Penelope, perché è colei che può consentirgli di “trarre un più alto sentimento” di se stesso. Il catalogo dei feminina si chiude con un personaggio particolarmente importante nel percorso formativo dell’eroe: la dea Atena. È figura chiave nel percorso di maturazione di Ulisse e compagna fedele in ogni sua avventura. Atena sente una reale e concreta condivisione con il suo “amico”, che patisce in terre lontane dolori, vittima di raggiri ad opera di maghe maliarde. Stimola, provoca, sprona continuamente Ulisse e gli infonde coraggio. La dea ha un “preciso progetto formativo”: rendere migliore il suo pupillo. Gli dà consigli validi su come agire. Funge da educatore e secondo padre per Telemaco. Si conferma così discreta, ma costante, presenza nella vita di Ulisse e di coloro che egli ama. Interviene in alcuni momenti, rendendo padre e figlio più forti e/o più belli. Riversa opportunamente sul giovane Telemaco grazia divina. L’educatrice “facilita” in parte il travagliato percorso dell’eroe. Crescere è difficile, ma è un passo necessario per diventare degno erede di un tale padre. Le tecniche pedagogiche di Atena sono incisive, talvolta difficili a comprendersi e 98 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdissea comportano dure esternazioni. È una figura femminile, che, per la maturità e la consapevolezza attribuitale da Omero, rappresenta davvero un momento ineludibile di crescita, di maturazione ed esempio per i suoi allievi. Ulisse, uomo moderno, grazie a lei, ha imparato a sopportare, a non protestare più, a “sintonizzarsi” con il proprio destino (móira). Le figure femminili dell’Odissea interagiscono concretamente con Ulisse. L’atto d’amore – è il caso di Calipso, Circe e Penelope – è una spinta verso l’Altro, per espandere e superare il soggetto stesso. È il tentativo, sia da parte maschile che femminile di “trapiantarsi nell’Altro”, aggiungendogli qualcosa, ma anche guadagnandola. È il tentativo di preservare la propria identità, ma anche di creare qualcosa di nuovo, che sia qualcosa “di più”. Privarsi del proprio amato è il gesto d’amore più grande che le eroine possano compiere (Circe, Calipso), ma anche attenderlo per vent’anni per l’adempimento della propria missione (Penelope), o guidarlo nel suo percorso di vita (Atena), o dargli l’estremo materno saluto (Anticlea). Calipso e Circe soffocano in sé il dolore del discidium con Ulisse e, per il suo bene, ne accettano il ritorno in patria. Penelope, invece, aspetta l’amato consorte vent’anni e accetta che subito dopo riparta per l’ultima missione, prima del definitivo ritorno in patria e del godimento di una serena vecchiaia. Nel suo viaggio di conoscenza, Ulisse comunica sempre con le donne amate. La sua è una comunicazione aperta attraverso un ricordo che è sempre forte in lui. Questo amore resta sempre vivo e pronto a direzionare le sue forze verso altro. È una memoria giusta quella di Ulisse. Le gioie conosciute attraverso Calipso e Circe, l’inebriante canto delle Sirene (“goduto” legato ai ceppi dell’albero maestro della nave) diventano parte integrante del background esperienziale dell’eroe di Itaca. La ricerca del sé autentico passa necessariamente attraverso la dimensione dell’alterità, che diviene elemento rilevante. L’amore di sé necessita dell’amore che l’altro ci può offrire. È il caso delle eroine che incontriamo. Questi personaggi, con i loro sguardi e comportamenti, attivano azioni positive in Ulisse, che cerca sempre la loro approvazione. Il femininum e il masculinum interagiscono, si differenziano, lottano per conquistare una nuova identità e finalmente si riconoscono l’uno arricchito dall’altro. *Docente di pedagogia sociale, Facoltà di Scienze motorie, Università di Palermo Blibliografia CANTARELLA E., Itaca: eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano, Feltrinelli, 2004. COSTANTINO D., Ulisse e l’Altro. Itinerari della Differenza nell’Odissea, Milano, FrancoAngeli, 2007. LORAUX N., Il femminile e l’uomo greco, Roma, Laterza, 1991. LORAUX N., a cura di, Grecia al femminile, Roma, Laterza, 1993. PANCERA C., La paideia greca: dalla cultura arcaica ai dialoghi socratici, Milano, Unicopli, 2006. PRIVITERA G.A., Il ritorno del guerriero: lettura dell’Odissea, Torino, Einaudi, 2005. VERNANT J.P., Le origini del pensiero greco, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 19974. VERNANT J.P., C’era una volta Ulisse: e anche Perseo, Polifemo, Circe e Medusa, trad. it. di I. Babboni, Torino, Einaudi, 2006 Temi ed esperienze 99 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze Il percorso vale più della meta La mano nel cappello: dal libro ad un convegno per intravedere nuovi orizzonti nelle professioni sociali che si occupano della persona con disabilità Annamaria Bianchi Cesareo* Nello scambio comunicativo tra chi scrive e chi legge appare utile trovare le parole per trasferire il senso dei contenuti. Vorrei provare a farlo raccontando una delle tappe, che registro con soddisfazione, nella storia del percorso che da anni ho intrapreso professionalmente. L’idea di realizzare La mano nel cappello, cioè l’incontro tra operatori interessati alla questione della disabilità, appartiene alla convinzione che solo la costanza nel tenere aperti spazi culturali, di ricerca e di studio, inneschi processi migliorativi della condizione umana. Gli operatori sociali che si occupano di disabilità sono chiamati quotidianamente ad interrogarsi, sono delegati alla cura, ma anche a leggere i mutamenti dei contesti interni ed esterni in cui si esprime l’esistenza della persona con handicap grave. Questo cammino professionale è costellato di situazioni difficili da sostenere e da affrontare. Il sistema dei servizi, nonostante aggiornamenti e riforme, appare un sistema che corre il rischio di essere ingessato da normative, orari e schede di programmazione che tendono a prevalere sulle storie soggettive delle persone di cui ci occupiamo. A loro vogliamo dedicare un tempo speciale e insostituibile: dall’osservazione alla riflessione, allo studio e alla comprensione delle istanze, siano esse comunicate verbalmente o con i comportamenti. Anche a noi stessi appare utile dedicare un tempo speciale, affinché ci sia spazio per accogliere le nostre istanze, quelle che ci sorprendono nei gesti e nei rituali del servizio, quelle che ci portiamo a casa e accompagnano i nostri pensieri, a volte involontari, a volte curiosi e interessati. Per questo si è sentita l’esigenza di istituire un tempo dedicato a porre a confronto riflessioni ed esperienze. Avviare un processo culturale intorno alla questione della disabilità, che a partire dal convegno del 23 gennaio a Fino Mornasco (Co), si snodasse nel tempo, promuovendo azioni, coinvolgendo le istituzioni e tutte quelle figure professionali che contribuiscono nei territori a garantire i diritti di cittadinanza a tutte le persone. I temi della mattinata portavano due punti di vista diversi, ma entrambi utili per la ricerca di senso del nostro lavoro. Un concetto comune: “preservare la dignità della soggettività”. Dobbiamo essere capaci di porci il problema. Finché eviteremo di farci delle domande, non potremo cercare le risposte. Giovanni Merlo, direttore dell’Associazione LEDHA, ha provocato stimoli di riflessione di un certo spessore, invitando l’assemblea di 120 persone a riflettere sull’attualità della condizione della persona con disabilità, riferendosi alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, qualcosa di più specifico rispet- 100 Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/Il_percorso_vale_più_della_meta to alla Dichiarazione dei Diritti Umani. Ha illustrato una proposta da prendere sul serio, con cui non è più possibile non confrontarsi. Angelo Villa, psicoanalista e supervisore di numerosi gruppi di lavoro dei servizi per la disabilità, ci ha tenuto strettamente attenti e partecipi al tema del “dire qualcosa di nuovo”. Il nuovo non è ciò che viene per ultimo, ma è qualcosa che rompe con il consueto. Il fulcro sta nel fatto che la soggettività del disabile può trovare voce nel momento in cui incontra la soggettività dell’operatore. La soggettività funziona per entrambi. Come cercare di dire qualcosa in proposito rinunciando a “cose scontate”? Come porre al centro del nostro lavoro la riflessione sulla soggettività? In cinque punti declinati, ci siamo portati a casa un bel po’ di carburante per ripartire nel nostro percorso professionale e umano. “Un giorno insieme” tra operatori del sociale, che svolgono ruoli professionali differenti, ma che grazie alle attività dei gruppi pomeridiani, hanno trovato un rinnovato entusiasmo nel riscontrare che le loro difficoltà sono quelle di altri e che le loro proposte sono condivisibili, nella considerazione di “essere in un percorso” che nel tempo, a scansioni di tappe periodiche, innesterà quel germoglio di cambiamento socio-culturale, ritenuto necessario per l’espressione della reciproca soggettività. Dal suo libro La mano nel cappello sono sgorgate riflessioni corroboranti per aprire il confronto, per discutere, per crescere professionalmente e per affrontare i mutamenti del contesto, sapendo promuovere innovazione di servizio e valorizzazione dei diritti umani. *Presidente Coop. Sociale Il Mosaico, Bulgarograsso (Co) Temi ed esperienze 101 Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/werden 102 103 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura 104 Non dimentico la risata che mi feci Da alcuni anni mi interrogo su una quando una mia amica bibliotecaria difficoltà di linguaggio che mi trovo mi chiese se Davide Van de Sfroos, il ad affrontare e alla quale mi sembrava sublime bardo “laghée”, fosse originadi non trovare risposta. La difficoltà è rio del paese dei tulipani. Questioni di inerente all’uso del dialetto. Sono creprovenienza geografica, probabilmensciuto in un ambiente bilingue, dove te. Per me che avevo trascorso una accanto all’italiano, nelle relazioni si parte consistente della mia infanzia e usava quasi sempre il dialetto, l’italiadella preadolescenza “su per i bricchi”, no era riservato alle occasioni ufficiali, giusto sopra quel ramo del lago di alle interazioni con le istituzioni pubComo, immortalato dal grande (ebbebliche, all’ambiente scolastico. Negli ne, sì) don Lisander Manzoni, il proanni, allontanandomi dal mio paese, le blema della corretta interpretazione di occasioni di lunghi discorsi in dialetto quel nome d’arte non si è mai posta. si sono fatte più rare ma nell’ultimo C’ero abituato. Mia nonna, amorevoperiodo, tornandovi in modo più frele certo, ma tosta e asciutta come una quente, assisto ad uno strano fenomecima della Grigna, quel nome, infatti, no negli incontri con amici o parenti: me lo appioppava spesso, come un mi sembra che mi manchino le parole rimprovero. Fagociper esprimermi in tando il mio senso dialetto. Ho attridel dovere che, già buito all’inizio quesin da piccolo, non ste difficoltà alla abbisognava d’essere disabitudine, ma incoraggiato. Pena la la risposta mi semsua successiva trasforbrava insoddisfamazione in un sadico cente. Mi sono poi strumento di tortura accorto che questa (e di godimento) ad difficoltà insorge uso esclusivamente quando devo espripersonale. Quando mermi su argomenlei, donna di chiesa, ti che sono lontani supponeva o scopriva da quel mondo, che io avevo combivuoi per contenuti, nato qualche pasticma soprattutto per cio o qualche, lo giuesprimere sentiro, innocua trasgresmenti od emozioni. sione, mi accusava di Sembra quasi che avere l’aria sfuggente, quel linguaggio sia Benito Mazzi evasiva. E, quindi, monco, manchi di Nel sole zingaro. sospetta. Mi colpealcune possibilità, Storie di contrabbandieri volizzava, sperando sia privo di parole Interlinea Edizioni, Novara, 2007 che tradissi l’ipotetiper uscire da quegli pp. 140, € 12,00 ca malefatta. In poorizzonti, sia ade- Ambrogio Cozzi Angelo Villa A due Voci Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/a_due_voci che parole, dato che parlava dialetto, additava la mia condotta come tipica di quelli che “ van de sfroos” , a cui ero all’istante assimilato. I contrabbandieri, insomma. Quelli, cioè, che hanno qualcosa da nascondere. E che quindi, a loro volta, si nascondono, tirano via frettolosamente, cercando e sperando di non essere visti o notati. Mia nonna, in quell’improbabile italiano che avrebbe gettato nella più cupa e rassegnata costernazione anche il più rozzo dei linguisti, su eventuale richiesta italianizzava all’occasione l’espressione, proponendo un quasi letterale “andar di sfroso”. Chissà, ma qui è la mia benevolenza e la mia gratitudine verso di lei a stravolgere la realtà, magari contando su una analogia significante con un vocabolo che gli fa da eco come “di frodo”. Chi, ad esempio, pesca di frodo è infatti ben possibile che, in ragione del reato che sta commettendo, se ne vada di “sfroso”.Ovviamente, l’interpretazione è tirata per i capelli. Il bisticcio , però, mi si è incastrato nella memoria, simile a un chiodo, fisso per l’appunto. A testimonianza, alla faccia del super-io, del fascino che quelli che vanno di “sfroso” conservano per me. In particolare, aggiungo, la loro figura è a miei occhi enfatizzata dal luogo cui inevitabilmente sono associati, quello della frontiera. Debbo confessare che sono rimasto dispiaciuto quando in Europa, le frontiere sono state, quasi, abolite. Mi ricordo, infatti, in passato, quando ci si avvicinava a un Paese straniero. La frontiera, nel bene come nel male (penso ai Paesi dell’Est o alla Spagna franchista), era un luogo. Uno spazio a se stante, una terra guato ad un mondo piccolo, chiuso. Una sorta di universo autosufficiente che nomina le cose vicine ma fatica ad accogliere e dire cose lontane. Un mondo di cose immediate che quasi possono essere indicate invece che nominate, dove le parole sono ancora aderenti alle cose, fatto di silenzi sui sentimenti e sugli affetti. Questa premessa mi è sembrata necessaria per introdurre uno dei motivi più interessanti del testo di Benito Mazzi. Mi è sembrato di ritrovare anche lì questa difficoltà, risolta attraverso costruzioni sintattiche che cercano di rendere conto della chiusura del mondo della valle Vigezzo, dove il racconto è ambientato. Chiusura che si ritrova come contenuto nei distacchi che avvengono da quel mondo e che coincidono o con la discesa a lavorare a Milano, lontananze su cui cala il silenzio dei protagonisti, di cui si coglie lo spaesamento, lo smarrimento nella lontananza, solo per cenni, mezze parole. Sembra che anche qui manchino le parole e che il ritorno coincida con il chiudersi nelle abitudini e in quel linguaggio che sa dire quel mondo, ma è afono sul resto del mondo. La valle si chiude, e si chiude proprio in prossimità di una linea di confine che viene continuamente attraversato, quasi a disegnare una aleatorietà del confine per un verso e a tracciarne un altro, più consistente, che è il confine di un mondo segnato dalla miseria. I confini tracciati dalla Storia non coincidono con quelli delle storie, le epoche che il testo di Mazzi attraversa ben delineano questa discrepanza, questa differenza che segna le esistenze; nelle pieghe della Storia si insinuano le Cultura 105 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/a_due_voci enigmatica tra un Paese e un altro. Un Paese immaginato, prima ancora che reale, proprio grazie a un confine che faceva sorgere la fantasia su quel che stava aldilà. L’emozione era garantita, perché si passava, è il termine esatto, da una cultura, da una lingua, da una storia a un’altra. Da un mondo che si conosceva a un altro meno conosciuto. Il confine materializzava l’idea di un transito, non solo reale ma simbolico. Ora, i contrabbandieri sono quelli che illegalmente continuano a passare. I “passeurs”, per definizione, come i protagonisti dei romanzi di Biamonti, apprezzati da Calvino, un sanremese. Ambientati intorno alla linea di confine che, a pochi chilometri dalla città dei fiori, separa l’Italia dalla Francia. Benito Mazzi con il suo Nel sole zingaro. Storie di contrabbandieri ci porta, invece, da un’altra parte, in val Vigezzo, la valle dei pittori, sopra Domodossola. La frontiera è quella, stavolta, con la Svizzera. Il contrabbandiere, cioè lo “sfrosìno”nel lessico di Mazzi, è un povero Cristo, un eroe popolare. Fuori legge per necessità. O, forse, chissà per recondita passione. Un personaggio in grado di animare un immaginario romantico di cui Mazzi ricostruisce l’epica di un tempo che sembra distante anni luce da quello attuale, nel mentre vi si allontana solo di qualche decennio. La memoria, ormai, è corta, si nutre avidamente solo dell’ambizione insoddisfatta del presente. Il resto non conta. Bene fa, dunque Mazzi, a ricordarci da dove veniamo. I racconti che compongono il libro sono tessere di un 106 storie dei soggetti, la attraversano, ne risentono i colpi ma non si esauriscono in essa. Si vedano le pagine che analizzano come le decisioni politiche si ripercuotono sulla vita dei contrabbandieri, oppure quelle dedicate alle partenze per il servizio militare che si prolunga perché interviene una guerra, e pr alcuni non c’è più ritorno. Ma il testo di Mazzi indaga anche all’interno di quel mondo, riesce lì a trovare le parole per consegnarci un mondo rigido, segnato da valori sociali immobili e immobilizzanti, fatto di relazioni segnate dalla violenza dell’esclusione, dove anche le scelte affettive sono segnate dalla famiglia e dalle convenienze economiche, dove anche il denaro accumulato con il contrabbando non apre ad altri orizzonti ma segna una differenza che viene esibita in feste interne alla piccola comunità, momenti di svago per i pochi intimi. Qui il contrabbando, privato di orpelli romantici, si lega a scelte che includono la violenza, il rischio di morire per qualche fucilata per poter sopravvivere, per poter sfuggire ad un destino di povertà sentito come immutabile. Le pagine dedicate all’immediato dopoguerra ci tratteggiano questo mondo con tinte dolenti, la parola viene affidata alle cronache dell’epoca, si fa asciutta nell’elencare episodi e morti. Questa parte si stacca dallo sfondo come capitolo a se stante, nelle pagine precedenti e in quelle che seguono i soggetti sono dotati di vita, vengono seguite le loro storie, a volte a partire dall’infanzia, a volte li incontriamo all’improvviso già adulti, caratterizza- Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/a_due_voci mosaico che si declina sullo sfondo di un mondo povero e dolente, sebbene non privo di orgoglio e dignità, come quello della montagna. Mia madre e la sua gente lo riassumeva in una formula, quella delle “tre effe” che, tradotte nella lingua italiana, corrispondono a fame, freddo e fastidi. Poco da mangiare, poco da scaldarsi, tanti problemi. Quando venne in città aggiunse un’altra effe, quella di fumo: le fabbriche. Altri tempi, insomma. Un contrabbandiere, uno “sfrosìno”, uno spallone si portava sulla schiena qualcosa come trenta o quaranta chili di roba. Avanti e indietro per la Svizzera. Scambiava merce contro altra merce. Era il suo lavoro, a metà tra bisogno e ricerca di libertà. I doganieri, la finanza rappresentavano i suoi acerrimi nemici. Ma, attenzione, non era un gioco. La vita era , infatti, non di rado la posta in palio. Si scappava, si sparava e, come scrive Sinigaglia nella sua presentazione, soprattutto si rischiava la pelle… Mazzi sostiene che “col sacco in montagna, dopo il ’60, ormai non sfrosava più nessuno in Vigezzo”. Ora, aggiunge con una nota di tristezza, il contrabbando ha altri volti, insegue altre strade. Nessuno si avventura più per sentieri scoscesi e pericolosi, come un Ercole solitario e inquieto, confortato da un’unica compagna, ovvero la luna, la “tenue luna dei contrabbandieri”; cioè, per l’appunto, ecco svelato l’enigma del titolo, Il sole zingaro. Leggerlo fa bene come guardarsi in uno specchio non compiacente, inviso a Narciso. Colonna sonora consigliata: Davide Van de Sfroos. Ci sono dubbi? ti da una vitalità che si esprime nella ribellione, una ribellione non solo all’arbitrarietà dei confini, ma anche alle regole di vita della valle, quelle regole che scandiscono il ritmo delle relazioni sociali, e alle quali i protagonisti sfuggono per scelta, per la decisione di sottrarsi ad un destino amaro. In questa scelta si costruiscono solidarietà, legami che rimangono chiusi all’esterno vuoi per la sopravvivenza necessaria per quel “mestiere”, vuoi perché si legano ad un’estraneità più profonda, a cicatrici di cui non si può parlare, perché le parole non ci sono (si veda il silenzio che cala sul passato di spazzacamino in città di uno dei protagonisti). Ci sono scene in cui si riesce a ridere, episodi buffi o francamente comici, episodi in cui sembrano riecheggiare le risate carnascialesche di Gargantua e Pantagruel analizzate da Bachtin, ma in quelle risate rimane un fondo tragico, quasi a segnare la marginalità di quei gesti come piccole rivincite di una ribellione destinata a perdere contro il destino segnato dalla Storia. Un come eravamo che ci riporta alle radici di quel mondo non per inseguire sciocche nostalgie, ma per ricordare un mondo che è rimasto senza memoria e che solo nella forma di ricordi che ingigantiscono e rimpiccioliscono, affidati ai racconti orali permane oltre la sua scomparsa. Ritrovare la parola di quel mondo è il pregio di questo testo che cerca di restare fuori dalle mitizzazioni e di trovare un discorso che ne parli e lo fissi per noi come un’immagine in uno specchio poco rassicurante ma forse più veritiera. Cultura 107 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura Scelti per voi Libri, musica, cinema a cura di Ambrogio Cozzi Franco Lolli Percorsi minori dell’intelligenza. Saggio di clinica psicoanalitica dell’insufficienza mentale Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 144 ,€ 16.00 Cos’è l’intelligenza? La domanda potrebbe trascinarsi dietro un dibattito tanto interessante quanto infinito. Speculazioni su speculazioni, si vola alto. Più interessante e, indubbiamente, più coraggioso è però provare a rispondere all’interrogativo, laddove l’intelligenza stessa sembra persino non godere di un suo diritto di cittadinanza. Espropriata da un umano in cui l’umano, o più esattamente, il “normale” fatica a riconoscersi. E, di conseguenza, a riconoscervi dell’umano. Stiamo parlando della disabilità, aggiungo grave. L’individuo avvertito potrebbe, infatti, facilmente obiettare: sì, ma cosa c’entra, in questo caso l’intelligenza? Non ci troviamo di fronte a una franca, innegabile contraddizione? Il libro di Lolli scava, e come scava!, tale contraddizione con competenza e invidiabile rigore scientifico. Il quesito si trova quindi capovolto, rovesciato. Sintetizziamolo così: cos’è, cosa può essere l’intelligenza in individui, per definizione, non intelligenti? L’inter- 108 rogativo non è affatto privo di una sua tenace pertinenza, specie allorché non è, come accade in questo testo, consegnato a una retorica vacua e ideologica. Quel che, infatti, qui viene messo in primo piano è l’analisi di come funziona, come si esprime, come cerca una voce lo psichismo di un individuo segnato da una grave disabilità. La posta in gioco è decisiva, poiché, come il libro di Lolli mostra bene, il problema stesso dell’intelligenza finisce per incontrare necessariamente quello della soggettività, quale manifestazione più autentica e veritiera di un singolo individuo. Più il deficit è devastante, più il problema dell’intelligenza ha, del resto, meno a che fare con una questione “cognitiva”, con il dilemma di una facoltà e più invece aderisce all’essenza stessa dell’essere del soggetto. Sino a rappresentarne il nodo più radicale. E’ qui, infatti, che si coglie il senso della prospettiva cui mira il testo di Lolli: evidenziare il funzionamento dell’intelligenza o della soggettività in individui portatori d’handicap. Cioè, in definitiva, indicare la presenza di quel che denota, caratterizza un lavoro dell’umano in situazioni di oggettiva carenza, testimoniandolo attraverso una ricerca clinica attenta e rispettosa. Alla luce del pensiero analitico, Percorsi minori dell’intelligenza offre un panorama esaustivo e ben documentato della dialettica che presiede al processo di costituzione della soggettività nel disabile, focalizzandone le impasse, senza per questo dimenticare la tensione vitale che, non senza fatica, sopravvive nelle pieghe dell’affacciarsi del soggetto all’incontro con l’Altro. Decisamente un testo utilissimo e stimolante per chi lavora e vuole riflettere, in maniera non Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi superficiale e sbrigativa, sulla disabilità e sull’enigma che essa pone ai cosiddetti normali. Angelo Villa Eugenio Gaburri, Laura Ambrosiano La Spinta a esistere. Note cliniche sulla sessualità oggi Borla, Roma, 2008, pp. 200, € 23.00 Bush va in una scuola elementare e la maestra dice ai bambini che possono fare qualsiasi domanda al presidente, allora si alza il piccolo Bob e dice: “Signor presidente avrei tre domande per lei: perché ha deciso di fare la guerra all’Iraq? Perché ha voluto fare tanto male al popolo iracheno? Perché al primo mandato è stato eletto senza la maggioranza dei voti?” Il presidente non fa in tempo a rispondere perché suona la campanella dell’intervallo. Al termine della ricreazione rientrano in classe e la maestra dice che possono fare tutte le domande che vogliono, allora si alza il piccolo Sam e dice: “Signor presidente avrei cinque domande per lei: perché ha deciso di fare la guerra all’Iraq? Perché ha voluto fare tanto male al popolo iracheno? Perché al primo mandato è stato eletto senza la maggioranza dei voti? Perché la ricreazione è iniziata venti minuti prima? dov’è Bob?” Riprendo questa storia dalla pagina 16 del testo perché mi sembra di poterla utilizzare come bussola di lettura. Gli autori analizzano casi non eclatanti di disturbi della vita sessuale, sottolineando come inquadrarli nell’ambito delle perversioni possa portare ad un grosso frainteso, che non ne permetterebbe la comprensione. Questi disturbi nella vita sessuale si collegano con una rinuncia a vivere, con una paura a riprendere le domande di Bob. La plasticità della vita sessuale, ai confini tra natura e cultura, impregnata dagli umori di entrambe, ben si presta ad essere il campo in cui queste paure si svelano, o meglio si rivelano, nel senso che la sessualità permette di calare un nuovo velo, di evitare l’impatto con domande che porterebbero ad una necessità di differenziazione. Necessità di differenziazione rispetto ad uno sfondo indistinto al quale si sente di appartenere, indistinto perché nell’appartenenza si è cosa, si è parte di un tutto omogeneo, di un blob come dice uno dei pazienti citati nel testo. Ma in questa indistinzione, l’appartenenza gioca un ruolo rassicurante, garantisce un’esistenza al riparo dalle scelte che l’incontro con la sessualità invece ripropone. Da qui una vita sessuale degradata, impoverita, quasi nulla, per continuare a stare nella sicurezza del riparo e per tentare di mantenere questa sicurezza si replica nella vita sessuale l’indifferenziazione. La replica è una ripetizione dell’identico senza la percezione di alcuno scarto, come un’opera teatrale che viene appunto replicata. La ripetizione può però configurarsi come una ripresa, come un’opera teatrale può essere ripresa, cambiando il regista e la scenografia, introducendo quindi un elemento di novità che permette una differenza, che permette di chiedere dov’è Bob. Gesto vitale che crea un’uscita dalla protezione assumendosene i rischi, o detto in altri termini mettendo in gioco il proprio desiderio. Le domande di Bob, nelle loro impertinenza, sono le domande che si situano Cultura 109 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi nell’infanzia, alla lettera nel fuori linguaggio, nel bambino che ognuno accudisce e che trama le relazioni con i propri figli, in una trasmissione tra le generazioni che inconsciamente impedisce che la famiglia faccia da sfondo al singolo posizionandolo nell’indistinzione o in posti simbolici che altri hanno lasciato vuoti. In questo intreccio tra le diverse generazioni si trasmette quell’appartenenza invischiante e al contempo rassicurante che genera la paura del vivere, che impedisce le scelte e in cui il soggetto si sente allo stesso tempo prigioniero e protetto. Sono queste le paure che poi si declinano nel degrado della vita sessuale, che impediscono di cogliere l’ingresso nella sessualità come occasione di differenziazione e di incontro con l’altro. La vita è giocata al risparmio e l’altro si configura come simile o alieno, la curiosità, l’interesse viene abolito, il mondo esterno è un mondo di nemici, luogo dell’ignoto che spaventa, palcoscenico delle paure agite. La domanda di analisi può assumere allora una duplice valenza. La prima come luogo in cui venga accolta una testimonianza che allora qualcosa è accaduto. Evidenziamo i due termini allora e accaduto. Li evidenziamo perché introducono sia una scansione temporale rispetto ad un passato che nell’oggi può essere ripreso, sia perché non tendono a cercare altre testimonianze, altre certezze, ma accolgono appunto la verità del paziente non in toni consolatori, ma come verità che ritrova la parola indistricandosi negli agiti del passato. Testimonianza perché la parola scava e circoscrive un non detto che pesa, che rischia di configurarsi come impossibile a dirsi, trasmettendosi poi ad altre generazioni come un’eredità silente. Il secondo aspetto è quello di cogliere 110 la paura del paziente. Su questo invito a rileggere nel testo l’analisi di un racconto di Conrad, in particolare l’analisi del momento in cui il capitano coglie la paura di Mark, sottraendosi alla sfida, evitando di situarsi nel posto che la folla gli indica e si attende da lui. E’ lo scorgere la paura che permette al capitano, come ben scrivono gli autori, di accogliere il passato di Mark, di permettergli di trovare la parola per narrare l’orrore e la colpa. E’ la paura di uscire dal noto e dal rassicurante, perché percepito come protettivo, che accompagna i pazienti incontrati nel testo, la paura della catastrofe nell’incontro con l’ignoto, e che porta a vivere una vita al risparmio, una vita che spesso si riduce a sopravvivenza, e che nella sessualità si svela. La domanda centrale diviene allora se valga la pena vivere, vivere come scelta e non come sopravvivenza, scegliere di lasciare il fardello che tanto pesa ma tanto è rassicurante, uscire dal gruppo per avventurarsi nel rischio dell’esistenza. Non credo che tutto si riduca al fare i conti con la morte, con la possibilità di morire che è insita nell’esistere. Penso piuttosto che gli autori si riferiscano alla possibilità di vivere come vita activa come scriveva la Arendt, cioè una vita in cui sia data la possibilità di trovare margini nel gioco, anche se le regole sono stabilite, le carte sono state distribuite, ognuno può decidere come giocarle. In questo invito vedo la dimensione etica del lavoro analitico, nell’accompagnare ognuno a riprendere il gioco invece che a replicarlo. L’altra linea di lettura del testo, molto rilevante, la individuo in un sommesso invito alla laicità della psicoanalisi, meglio a recuperare un atteggiamento laico che forse negli anni si è perso. Le Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi pagine dedicate al pericolo che la teoria si trasformi in ideologia sono veramente preziose per chiunque eserciti questa professione. Se l’ideologia è importante per fare gruppo, se spesso intorno ad essa si fa gruppo anche in campo psicoanalitico, gli autori invitano a ritornare alla teoria, al lasciarsi interrogare da ciò che i pazienti dicono e vivono, a cogliere dietro le apparenze le domande centrali che i pazienti portano. La chiusura in gruppi rassicuranti, cementati dall’ideologia, è una possibilità che attrae anche gli psicoanalisti, evitando proprio quell’apertura alla novità e alla differenza che l’incontro con ogni paziente comporta e che porta alle identificazioni nel gruppo attraverso l’individuazione del nemico, sempre alla ricerca di garanzie di partenza che permettono di eludere il peso del passato, l’eco del silenzio di chi abbiamo perso, dimenticando Bob e le sue domande, scordando quell’impertinenza per certi versi sfrontata ma vitale. Dov’è Bob? Ambrogio Cozzi Antonio Erbetta Pedagogia e Nichilismo. Cinque capitoli di filosofia dell’educazione Tirrenia Stampatori Torino, 2007, pp. 144, € 18 Si può tenere come filo conduttore nella lettura del testo una domanda posta dall’autore nell’introduzione “Quale orizzonte politico per un impegno pedagogico che tenti di suturare la zeppa che separa il soggetto e la storia?”. E’ nel tentativo di cercare lo spazio per una risposta che il testo si snoda da Nietzsche, per cui “l’educarsi” deve essere “sempre un educarsi contro il proprio tempo, aprendo in tal modo alla prospettiva del tragico come condizione attiva della formazione dell’uomo”. Da questa condizione attiva nella formazione si inseguono poi i fili in Bataille, nelle rilettura di un racconto di Filippini e in Pessoa e Ottieri. La nozione di nichilismo viene declinata dall’autore come “negazione dei valori correnti”, individuando quindi lo spazio pedagogico come sottratto al conformismo culturale e all’illuminismo senza dialettica, configurando il nuovo campo come “luogo della coscienza culturale entro cui il soggetto tenta la carta della propria formazione esistenziale”. Le righe precedenti erano necessarie per evitare di cadere in risonanze semantiche confusive sul termine nichilismo, inseguendo echi romantici o autodistruttivi. Qui il nichilista si configura come “colui che del mondo qual è giudica che non dovrebbe essere, e del mondo quale dovrebbe essere giudica che non esista”. Tra sottrazione ad accettazione passiva della realtà con un contestuale rifiuto dell’ideale, si scava lo spazio della pedagogia, sottraendosi in tal modo a due esigenze che apparentemente contrapposte rinviano entrambe alla pedagogia come educazione all’obbedienza, alla capitolazione del soggetto, alla rinuncia ai pur ristretti ambiti di libertà esistenti. Il richiamo alla dimensione tragica non è casuale, se individuiamo nella tragedia il luogo della lacerazione, della messa in scena dell’enigmaticità del mondo, ma anche il luogo dove viene esaltata l’assunzione di responsabilità, dove divenendo titolari delle nostre azioni possiamo suturare le lacerazioni dell’esistenza, Cultura 111 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi anche se ne restano le cicatrici. Quindi il rinvio al nichilismo, così precisato dall’autore, e il suo legame con la tragedia, individuano il lavoro pedagogico come non garantito ma anche come sottratto al rinvio all’ideale, e configurano la possibilità di una pedagogia a “proprio rischio e pericolo”, nel senso che essa comporta un’assunzione di responsabilità verso l’altro e verso i propri atti il cui esito non è garantito. La non garanzia rimanda allora ad un effetto sorpresa che provoca una sorta di spaesamento, di incompletezza, che Erbetta individua bene nella sua analisi del racconto di Filippini. Pedagogia e nichilismo è un testo che rimette in campo l’assunzione di responsabilità individuale, sottraendosi al lamento facile sull’esistente, al rimpianto di altre epoche, invitandoci a vivere la nostra, un richiamo etico alto, che ci annoda al passato, ma per evitare di esserne schiavi, ad una pedagogia come “messa in questione, nell’angoscia e nella febbre, di ciò che un uomo sa del fatto di essere”. Ambrogio Cozzi Gaurav Suri, Hartosh Singh Bal Una certa ambiguità. Romanzo matematico Ponte alle GrazieAdriano Salani Editore, Milano, 2008, Pagine 360 € 16,80 Il “Romanzo matematico”, come recita il sottotitolo, affronta il tema filosofico della ricerca della certezza e la matematica si propone, direi quasi inevitabilmen- 112 te, come modello, come frutto ideale del pensiero umano, al quale ispirarsi; solo in questa disciplina infatti sembra valere ciò che può essere dimostrato attraverso una catena logica di passaggi sostenuta da definizioni e assiomi iniziali assolutamente certi e regole di deduzione esplicite: “Tommaso (Ceva) sosteneva che (il libro 1 degli Elementi di Euclide) era come un’opera di Bach: partiva da poche sempilici definizioni che davano il tono e modulava postulati che crescevano a ogni proposizione, laddove ogni movimento aveva infinite e sorprendenti connessioni con quelli che lo precedevano, culminando nel gran finale del teorema di Pitagora” (pag. 253). La vicenda è quella di Ravi Kapoor, un ragazzo indiano, che a diciotto anni lascia il suo Paese per frequentare l’Università di Stanford negli Stati Uniti. Qui viene a conoscenza del fatto che fa da filo conduttore di tutto il romanzo:Vijay Sahni, suo nonno, un eminente matematico amante del jazz, adesso scomparso, ma al quale Ravi era particolarmente legato, era stato chiamato in gioventù dall’Università di Morisette, un piccolo centro vicino a New York; sempre in questa città era stato poi arrestato con l’accusa di blasfemia, per un suo discorso, fatto in una pubblica adunanza, nel quale aveva negato l’esistenza e l’essenza di Dio. Attraverso le cronache riportate su vecchie copie del Morisette Chronicle e documenti di archivio contenenti i discorsi in carcere tra il matematico e il giudice Taylor sul problema della certezza, discorsi in cui si fa largo uso di argomenti matematici, Ravi ripercorre tutta la vicenda giudiziaria del nonno. Nel frattempo Ravi, spinto da un amico, decide di iscriversi al corso di matematica “Pensare l’infinito” del dottor Nico Aliprantis, anche questi appassionato di jazz Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi e suonatore di sax. Inizia così per Ravi e per un gruppo di suoi tre compagni un periodo intenso “fatto” di musica e di matematica, nel quale, con la guida di Nico, domina l’esperienza profonda e affascinante dell’incontro con tutte le problematiche che l’infinito matematico (l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande) pone: molte pagine del libro sono dedicate ai risultati che Cantor, Hilbert, Godel hanno ottenuto in questo ambito e a quelli che Bolyai, Lobacevskij e Riemann hanno ottenuto nell’ambito delle cosiddette geometrie non euclidee, tutti esposti con una chiarezza che è merce veramente rara. Nello svolgersi del romanzo la storia dei colloqui del nonno col giudice Taylor si intreccia costantemente con quest’ultima esperienza e i pensieri e le riflessioni che essa produce sul problema filosofico della certezza; il risultato, forse anche stavolta inevitabile, è che questo cammino porta, di fatto, al di fuori del contesto della matematica per ripresentarsi, sgradito ospite, altrove. Una certa ambiguità è un libro nel quale percorsi letterari e matematici si incrociano con grande abilità e che propone un cammino di lettura non usuale ma che vale la pena di intraprendere fino alla fine. Marco Taddei Maria Zambrano Per l’amore e per la libertà, scritti sulla filosofia e sull’educazione (a cura di A. Buttarelli) Editrice Marietti, Milano 2008 pp. 208, € 24,00 Non sono sicura di essere entrata davvero nello spirito di Maria Zambrano, ma sicuramente la sento intrigante, come sempre quando la filosofia viene visitata da una donna. In ogni caso riscontro nel suo dire espressioni che travalicano i confini (e questo mi sta bene), ma anche termini legati a contesti di conservazione o, quanto meno, datati (quale l’affetto discepolare che la fa dipendente dal maestro Ortega y Gasset); nell’insieme ci debbo ancora pensare. Recentissima è uscita la traduzione di un libro di suoi interventi “sull’educazione” già edito in Spagna da Angel Casado e Juana Sanchez-Gey (Maria Zambrano, Per l’amore e per la libertà, scritti sulla filosofia e sull’educazione, a cura di Annarosa Buttarelli, Marietti, 2008) che mi ha suscitato non poco interesse. A prescindere dagli equivoci che possono sorgere dalla sua predilezione, per esempio, per il temine vocazione usata per l’ arte del maestro, alcune notazioni sono realmente affascinanti. Mi soffermo sul valore dell’nfanzia. A partire dal suo far riferimento alla nascita e alla vita - che la collega ad Hannah Arendt, quando osservava che Omero chiama gli uomini “i mortali” e non (come direbbe una donna) “i viventi” - Maria, nella parte Sull’educazione e sull’insegnamento (1949-1977), dice a proposito dell’infanzia: “L’infanzia è un vero continente mai abbastanza esplorato perché è l’immediata continuazione della cosa più decisiva e misteriosa della vita: la nascita. Forse, fino a ora, la morte ha ossessionato la mente occidentale molto più della nascita, ma la verità è che parlare di morire non è gran cosa rispetto all’essere nati”. E’ davvero sull’essere vivo e sentirsi unico che si fonda ogni trasfor- Cultura 113 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi mazione morale, spirituale e anche fisica. Zambrano sostiene che “nascere non è un fatto riducibile all’essere. L’uomo è, prima di tutto, un nato, un essere vivente nato” . Risulta evidente che Heidegger non aveva mai partorito se non pensieri. “Rivelazione”, dunque, fondamentale non è essere per la morte, ma “trovarsi nati nella vita ed essendo; essendo già e andando verso l’essere”. Per questo l’infanzia è “una continuazione della nascita, il nascere che si fa manifesto” e che vive sotto il segno della dipendenza dal cibo cognitivo come da quello alimentare. “Se fosse possibile scoprire il coefficiente di desiderio nell’epoca dell’infanzia, si avrebbe un’indicazione di estrema importanza nel futuro. Ma il desiderio, quella tensione aperta a ricevere tutto, dipende in gran parte dall’ambiente; tanto l’estrema insoddisfazione come l’opposto possono sciogliere ma anche fissare in maniera indelebile il desiderio illimitato in colui che è sottomesso al suo dominio”. Ma vi è anche un’altra tendenza del desiderio, che “procede dall’essere che lotta per la sua indipendenza, senza rendersene conto....e porta un essere umano fino al suo ultimo dispiegarsi, la radice stessa della libertà, dell’inesorabile libertà”. E’ qui che appare il senso del futuro, la creazione del tempo propriamente umano: “il desiderio elementare che si aspetta tutto in realtà non sbuca da un prolungato presente; se permanesse al suo interno, l’essere non avanzerebbe di un passo, anche se lo sviluppo fisiologico dell’organismo proseguisse normalmente...”. Il progetto educativo di Zambrano vede nella chiusura dell’orizzonte cognitivo implicito nel desiderio che non si evolve la causa dell’infantilismo e il ritardo mentale del bambino dominato dall’avidità. La 114 tendenza verso il futuro “già presente nel primo involucro della nascita”, viene sostenuta e fatta crescere nella famiglia e nell’educazione. Affrontare la realtà propria di soggetto e del mondo che sta attorno da ogni parte trova il bambino in condizioni di solitudine e di conflittualità: i genitori (spesso ignari della complessità dei processi educativi) in primo luogo, poi i maestri e gli adulti in genere debbono aiutarlo a uscire dall’infanzia, senza fargliela perdere del tutto. Zambrano dice, con un termine un po’ arcaico che l’infanzia resta come patria indistruttibile. Infatti “l’infanzia è il luogo che si porta sempre con sé nel bene e nel male....è la tappa iniziale della vita che dev’essere superata come le altre, ma alla quale si dovrà ricorrere una e un’altra volta ancora, e non solo in virtù della nostalgia, ma per il fatto che è l’infanzia il luogo in cui ci siamo risvegliati alla vita dall’interno della cura, della tenerezza e, quasi sempre, dell’amore”. Giancarla Codrignani Luisa Fressoia Profumo di pane. Voci, storie e memorie del ‘900. Raccolta di autobiografie dall’Umbria Ali&No Editrice, Perugia 2007, pp. 152, € 16,00 Il volume raccoglie le memorie scritte da un gruppo di 10 anziani nati in Umbria e che vivono a Perugia o nei paesi intorno alla città, sulla valle del fiume Tevere. Le storie ripercorrono i grandi cambia- Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi menti che hanno segnato il secolo appena trascorso, in particolare il passaggio dalla società rurale e contadina alla società del benessere. Esse ci raccontano, in una lingua ogni volta originale, i traumi e l’entusiasmo, soprattutto i valori attorno a cui si susseguono e si intrecciano gli eventi, e che determinano le scelte, i comportamenti, i gesti, le parole di uomini e donne e bambini; ci descrivono in forma minuziosa la vita che si svolge nella casa contadina, il sogno che segue di una casa di proprietà e il sopraggiungere delle macchine che cambiano la vita nelle campagne. “Questo libro è una celebrazione dei valori di un’intera generazione”, scrive nella prefazione Laura Formenti: “il valore/ passione del sapere, del capire, dell’onestà, della democrazia, della convivenza e della convivialità, ma anche della persona amata”. E le storie raccontano della madre e del padre, della determinante funzione educativa da questi svolta, della forza, ancora presente, che il loro amore ha impresso nella propria vita. “Valori, che - rileva la curatrice Luisa Fressoia - lungi dal rimanere astrazione o idealità, si materializzano nella famiglia, nella scuola, nella chiesa, nella comunità, nel paese, cioè in tutte le strutture deputate all’educazione e alla socializzazione di quelle stesse persone. Si manifestano nell’etica del lavoro, nella solidarietà, nel rispetto delle Istituzioni (…) affiora dalle storie la consapevolezza di un bisogno di elevazione o di “trascendenza a cui le persone rispondono in varie forme…” L’amore e i valori, ancora, sembrano essere il filo conduttore dei ricordi; attorno a questi le memorie si aggregano e diventano una Storia a tutti gli effetti, dotata di una trama, con una propria coerenza e organicità. L’invito a scrivere di sé è stato raccolto con creatività generosa dagli autori di queste storie, che ci consegnano, attraverso i delicati affreschi della quotidianità, le voci, le credenze, i misteri e gli stessi luoghi della memoria; tratti che accompagnano l’esistenza e l’incredibile vitalità di questi autobiografi, i quali svolgono una parte molto attiva anche oggi da pensionati, e che ci rimanda al concetto di cura, nel suo senso più profondo di “avere a cuore” se stessi e gli altri. Cultura 115 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura ARRIVATI_IN_REDAZIONE Grazia Honneger Fresco I figli, che bella fatica. Il mestiere del genitore Edizioni dell’Asino, Roma, 2008, pp.184, € 14.00 Il duro ed esaltante mestiere del genitore in un contesto sociale sempre più difficile e condizionato dall’invasività dei media e del modello consumistico. L’educazione e la genitorialità di fronte alla prima infanzia e all’adolescenza. Si tratta di un tema sempre più importante di fronte al ruolo negativo che hanno le altre “agenzie educative” delta nostra società. L’effetto invasivo della TV e la crisi del sistema scolastico assegnano ai genitori un ruolo sempre più importante… Halima Bashir, Damien Lewis La bambina di sabbia Sperling & Kupfer, Milano, 2009, pp. 325, € 18.00 Le tiepide notti nel deserto del Darfur e le dolci ninnananne materne sono i primi felici ricordi di Halima, una giovane donna della tribù nera degli zaghawa, nata e cresciuta in un villaggio ospitale nel sud della regione. Motivata dalla forza di carattere, Halima impara presto ad affrontare le difficoltà: si oppone con orgoglio alle compagne e alle insegnanti arabe che la discriminano, riesce a laurearsi e diventa il primo medico della sua comunità. Intanto, però, la minoranza araba al governo scatena una feroce campagna repressiva contro le popolazioni nere... Daniel Woodrell Un gelido inverno Fanucci. Roma, 2007, pp. 224, € 15.00 Ree Dolly è una ragazzina delle campagne del Missouri, esile e pallida, e passa le sue giornate prendendosi cura della madre malata e dei fratelli minori. Suo padre, Jessup, è uscito di prigione impegnando la fattoria per pagare la cauzione, e poi ha fatto perdere le proprie tracce. La data del processo si avvicina, e se l’uomo non si presenterà in tribunale, la casa verrà confiscata. È così che Ree, spinta dalla forza della disperazione, indossa un vestitino giallo... La paura di essere padre Magi., Roma, 2007, pp. 171, € 16.00 La paternità rappresenta, da sempre, un ambito particolarmente problematico. Ce lo raccontano i miti, ce lo svela la Bibbia, continua a testimoniarlo la quotidianità. Può sembrare quasi un paradosso che, mentre la psicoanalisi tutta di fatto si fonda sul Padre, alla paternità venga dedicato così poco spazio. Ogni neo-padre ripercorre la storia evolutiva lunga millenni e i grandi temi mitici vengono rivissuti ogni volta... 116 Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/arrivati_in_redazione Henry Krystal Affetto, trauma, alessitimia Magi., Roma, 2007, pp. 475, € 44.00 È un volume sull’equilibrio emotivo dell’individuo e sui processi che lo creano e lo sostengono, sugli eventi che lo minano e, qualche volta, lo distruggono e sulle modalità di cura – sia psicoterapeutiche che autoterapeutiche – che cercano di ripristinarlo. L’alessitimia, la difficoltà a riconoscere e a descrivere i propri sentimenti, rappresenta il punto focale dell’intera trattazione… Fulvio De Giorgi Il medioevo dei modernisti Editrice La Scuola, Brescia, 2009, pp. 352, € 24.00 Il volume, che coniuga la storia dell’educazione e della pedagogia con quella della cultura italiana tra Ottocento e Novecento, focalizza l’attenzione sul periodo del modernismo. Partendo dallo studio di Fogazzaro, Gallarati Scotti, Semeria e Murri fino a Tocco e Prezzolini... Dario Ianes, Vanessa Macchia La didattica per i bisogni educativi speciali. Strategie e buone prassi di sostegno inclusivo. Con cd-rom Centro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2008, pp. 200, € 19.50 Il libro presenta una metodologia di didattica speciale, cioè più efficace e più umana, alcuni metodi specifici di lavoro e varie “buone prassi” realizzate. L’insegnante avrà così a disposizione una cornice culturale generale, modelli operativi ed esempi... Monica T. Whitty, Adrian N. Carr Incontri@moci. Le relazioni ai tempi di internet Centro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2008, pp. 256, € 16.00 Con un ricco apparato bibliografico e solidi dati di ricerca il volume esamina le implicazioni relazionali dei nuovi media: in che modo le relazioni online sostituiscono, integrano, entrano in conflitto o amplificano quelle tradizionali o ne inaugurano di nuove? “lncontri@moci” è un arguto saggio sull’identità e l’alterazione della rappresentazione di sé Cultura 117 in_vista Pedagogika.it/2009/XIII_1/Copenaghen L’educatore sociale in un mondo globalizzato AIEJI XVII World Congress, Copenhagen, 4-7 May 2009 Il presidente dell’AIEJI (Associazione Internazionale Educatori Sociali), Benny Andersen non ha dubbi: il convegno AIEJI di Copenhagen sarà un’opportunità unica per tutti i membri della Federazione Nazionale degli Educatori Sociali di fare una straordinaria esperienza e di scoprire cosa succede negli altri paesi incontrando altri colleghi dall’estero. Benny Andersen invita tutti a partecipare al XVII Convegno AIEJI: “Cogliete l’occasione e raggiungeteci! Sarà divertente oltre che un importante momento di riflessione”, dice, anche se, con il suo entusiasmo rischia che il numero dei partecipanti sia oltre la soglia prevista. “Ci organizzeremo. Possiamo tranquillamente arrivare a 1.000 persone e anche di più” dice Benny Andersen con uno sguardo che lascia trapelare la preoccupazione di far quadrare i conti. In particolare quando promette ingressi gratuiti ai 200 volontari che sono necessari per l’organizzazione e le 350 famiglie che offriranno ospitalità agli ospiti stranieri. All’ultimo convegno mondiale in Uruguay, il vicepresidente della SL è stato eletto presidente del network globale degli educatori sociali. Per lui questo congresso di quattro giorni di Copenhagen riguarda molto più che le mere politiche educative. Si tratta di avere un’esperienza personale che conta almeno come una settimana di formazione, se non come più settimane. Quasi a costo zero. Andersen pensa che i datori di lavoro dovrebbero concedere dei permessi retribuiti durante il congresso. Sicuramente sarà valsa la pena di aver fatto questo investimento. Pratica e teoria “Incontrerete educatori dai più svariati paesi di provenienza, eppure si scoprirà che i loro problemi sono simili ai vostri problemi. Incontrare colleghi e pari in questo modo accresce molto, favorisce la riflessione e porta nuove conoscenze che sono spendibili poi nel proprio lavoro”, dice. Benny Andersen stenta a trovare le parole giuste per descrivere l’energia che si viene a creare quando quasi un migliaio di educatori sociali con un background così differente si trovano a discutere di educazione sociale – non di counselling o lavoro sociale in generale, ma esattamente dell’intersezione tra persone, organizzazioni e politiche sociali dove gli educatori si trovano ad operare. “Metteremo insieme le relazioni degli esperti alle discussioni al creare contatti: il convegno sarà un misto di workshop e interventi teorici con l’apporto dei migliori teorici e operatori sul campo del mondo.” promette il presidente dell’AIEJI. Il suo entusiasmo è sincero e frutto della sua esperienza personale, dapprima come partecipante al Convegno di Barcellona del 2001 e tre anni fa di nuovo a Montevideo dove venne eletto presidente. Ama il lavoro internazionale, gli incontri in paesi lontani e dal punto di vista personale e professionale la sua è una vera e propria passione. Cominciò nel 2001 quando partecipò a Barcellona con altri 11 educatori dalla Danimarca. “Due degli altri danesi conducevano un workshop, il primo sulla psichiatria infantile e il secondo sul lavoro con i senzatetto mentre noi semplicemente partecipammo al convegno. Mi aprì letteralmente gli occhi” dice. Rompere il ghiaccio nell’educazione sociale Nel 2001 il Congresso mondiale verteva sul tema piuttosto sterile della documentazione e 118 Pedagogika.it/2009/XIII_1/Copenaghen della qualità. “Partecipai a un workshop dove due operatori di un’istituzione americana di reinserimento di delinquenti minori spiegavano come lavorano sulla valutazione. Quella istituzione spendeva il 10% del loro budget sulla documentazione e la riflessione. Al workshop partecipavano trenta persone e i due conduttori, nel migliore stile americano, snocciolavano dati sulle performance e risultati misurabili. Quando arrivammo alla domanda della sessione tutto divenne molto più concreto. Chiesi loro se dovevano preparare tutta quella documentazione per far piacere al loro sponsor, la Kellogg’s, ma in realtà essi erano più interessati al processo che non ai risultati. Avevano trasformato le conoscenze empiriche in conoscenze misurabili, con tanto di dati e numeri, e questa parte era praticamente obbligatoria nel loro tirocinio così come lo era per gli operatori riflettere e cercare di migliorare la loro professionalità”, dice Benny Andersen. Nel loro budget e per ogni educatore sociale erano previsti 20.000 dollari per lo sviluppo di competenze e 5.000 dollari che gli educatori erano liberi di spendere in corsi di formazione a loro scelta. “Ciò che mi colpì è quanto poco valore diamo al nostro lavoro. Come educatori sociali produciamo continuamente nuove conoscenze attraverso la nostra pratica. Se tutto va bene le condividiamo con i nostri colleghi o le appuntiamo sul nostro notes, ma non si va più in là di quello” dice Andersen. Era il 2001. Quando Andersen tornò a casa dal congresso era stato ispirato dai workshop e desiderava lavorare su percorsi di qualità all’interno della sua associazione, la SL. Da allora ha organizzato dei viaggi di istruzione nelle istituzioni del Michigan i cui operatori hanno poi visitato la Danimarca. “Abbiamo avuto dei risultati concreti: i due libri pubblicati sul miglioramento attraverso la qualità sono diretta conseguenza del lavoro cominciato proprio nel workshop di Barcellona”, spiega. Il contatto personale Sempre a Barcellona Benny Andersen ha incontrato un catalano, Jordi, e dopo qualche birra, una sera sono diventati amici e lo sono da allora. Come Benny anche Jordy è un sindacalista attivo, ma lavora anche con i senzatetto nella periferia di Barcellona. “Eravamo stati all’Assemblea Generale nel pomeriggio e avevamo sostenuto ognuno il nostro candidato alla presidenza. Di sera avevamo continuato a discutere e infine eravamo riusciti a capire i nostri diversi punti di vista. Da allora ci siamo incontrati molte altre volte. Mi ha fatto conoscere Barcellona e lui è venuto a visitare Copenhagen e a vedere concerti rock” spiega Andersen. Benny stimava così tanto Jordi da proporre che si candidasse per le elezioni della presidenza AIEJI nel 2005. Che la stima fosse reciproca fu chiaro quando Jordi propose, nello stesso momento che Benny si candidasse. Tutto ciò avveniva nel Congresso Mondiale di Montevideo, Uruguay. “Per me come educatore sociale era molto interessante visitare un’istituzione di un ghetto che lavora con i bambini di strada. I loro metodi sono diversi dai nostri ma come denominatore comune abbiamo che gli educatori sociali devono relazionarsi con le condizioni che ci fornisce la società, non importa se sia a Rio o in Danimarca”, dice Benny. “E’ sorprendente quante cose ci uniscano. Siamo uniti nel cercare di portare attenzione sulle conseguenze delle decisioni politiche. Dobbiamo agire politicamente se vogliamo fare il nostro lavoro fino in fondo – vale a dire essere la voce di chi non ha voce”. Andersen sapeva già tutto ciò ma fu una grande esperienza fare migliaia di kilometri per arrivare alle stesse conclusioni attraverso una prospettiva completamente diversa, quella dei bambini poveri e di un’istituzione quasi altrettanto povera che faceva un’impressione tremenda. Rispecchiarsi Ma al Congresso non si avrà solo modo di trarre ispirazione dal resto del mondo ma si avrà anche la percezione della prospettiva degli altri riguardo le pratiche europee o nazionali, in questo caso, danesi. Benny Andersen dice di averlo sperimentato egli stesso al Congresso di Montevideo. “Durante un workshop degli uruguaiani mi chiesero come lavoravamo. Gli raccontai del personale nei centri residenziali e di come sia importante lavorare sulle relazioni” racconta Benny. Cultura 119 Pedagogika.it/2009/XIII_1/Copenaghen Gli altri partecipanti del workshop trasalirono. In molti paesi latino americani normalmente vi è un educatore sociale ogni 20 ragazzi. “Dopo lo stupore iniziale mi chiesero: ‘e chi rimpiazza l’educatore quando i ragazzi poi devono andare avanti con la loro vita?’ E avevano ragione perché dovremmo essere consci che i legami personali per quanto possano essere forti sono comunque transitori”, dice. Benny Andersen è sicuro che anche al Congresso di Copenhagen gli educatori avranno modo di avere esperienze simili con le proprie istituzioni e pratiche professionali messe in discussione dai visitatori stranieri e conclude quindi con l’invito a partecipare al convegno poiché se le pratiche e le istituzioni danesi sono conosciute dai più di certo non lo sono le reazioni internazionali ad esse. Articolo tratto da SocialPaedagogen, n. 65 Traduzione di Nicoletta Re Cecconi Le iscrizioni sono aperte online sul sito www.aieji2009.dk dove si trovano anche altre informazioni sul Congresso. La dichiarazione di Montevideo Come educatori sociali dobbiamo capire la complessità della globalizzazione per analizzare e valutare i possibili sviluppi della nostra professione nel mondo globalizzato. Le nostre competenze professionali sono messe in discussione – quelle competenze che abbiamo definito come professionali nella Dichiarazione di Montevideo al XVI Congresso Mondiale dell’AIEJI nel 2005 come segue: Riaffermiamo e confermiamo l’esistenza del campo dell’educazione sociale come un compito specifico teso ad assicurare i diritti delle persone per le quali lavoriamo, e che richiede il nostro impegno continuo a livello etico, tecnico, scientifico e politico. Per svolgere questo impegno il ruolo dell’Educatore Sociale deve essere consolidato attraverso l’integrazione in gruppi di lavoro e organizzazioni. Questo compito richiede che l’Educatore Sociale abbia una buona formazione iniziale e permanente. La sua formazione deve focalizzarsi sulla pratica con una continua analisi critica. Consideriamo il processo della sistematizzazione della pratica professionale un importante modo di contribuire alla formazione, all’accrescimento professionale – che è un diritto degli utenti dell’educazione sociale e all’approccio dei nostri obiettivi politici e pedagogici. Riaffermiamo che l’etica deve essere un riferimento continuo, concepito e perseguito collettivamente con la partecipazione critica dei soggetti. Come Educatori Sociali rinnoviamo il nostro impegno per la democrazia e la giustizia sociale, difendiamo il nostro patrimonio culturale e i diritti di tutti gli esseri umani. Siamo convinti che un altro mondo è possibile. Montevideo, 18 novembre 2005 120