anno XIII, n°1 - Gennaio, Febbraio, Marzo 2009

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anno XIII, n°1 - Gennaio, Febbraio, Marzo 2009
Rivista di educazione, formazione e cultura
anno XIII, n°1 - Gennaio, Febbraio, Marzo 2009
Pedagogika.it/2009/XIII_1/
Rivista di educazione, formazione e cultura
esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni
Anno XIII, n° 1 - Gennaio/Febbraio/Marzo 2009
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Cappa, Cristiana La Capria, Giancarla Codrignani,
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2
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Stampa Periodica Italiana
.
Pedagogika.it/2009/XIII_1/sommario
s o m m a r i o
5
Editoriale
Maria Piacente
dossier scuola/non uno di meno
7
Introduzione
64
Dalla parte della
Costituzione
Alcide Malagugini
../temi ed esperienze
70
Prospettive famigliari nei
giovani. La famiglia tra
valore e possibilità
Enrico Miatto
10
La scuola tra speranze
e agguati
Franco Frabboni
14
Altre vie. Una scuola oltre l’ovvio
Raffaele Mantegazza
19
La scena educativa
Francesco Cappa
83
Il benessere senza
responsabilità. Alcune
indicazioni educative
Cristiana La Capria
Adolescenti e legalità. Il
disimpegno morale e la
“mal-educazione degli adulti
Cecilia Armenise
89
Il “Progetto di ricerca” e
la qualità della formazione
in ambito pubblico
Emanuele Toniolo, Emilia
Canato, Giannamaria Grisolo
94
La differenza di genere
nell’Odissea. Donne,
sentimenti, incontri
Dario Costantino
100
Il percorso vale più della meta
Annamaria Bianchi Cesareo
27
34
A scuola si diventa cittadini
di oggi e di domani?
Giancarla Codrignani,
40
Critica della scuola per
una pedagogia critica
Piergiorgio Reggio
46
Educare o istruire?
Dafne Guida Conti
50
61
L’interrogazione dello
stereotipo. Un metodo
possibile nell’educazione alla
differenza e alla relazione
Letizia Lambertini
L’accoglienza e
l’integrazione nelle
scuole degli alunni
istituzionalizzati e adottati
Carmelo Benfante Picogna
75
Adolescenza: assunzione
del o esposizione al rischio
Valeria Perrucci
../cultura
104 A due voci
Angelo Villa, Ambrogio Cozzi
108 Scelti per voi
Ambrogio Cozzi (a cura di)
115 Arrivati in redazione
../In_vista
118 L’educatore sociale in un
mondo globalizzato
3
Pedagogika.it/2009/XIII_1/
ABBONARSI È IMPORTANTE
Piano editoriale 2009
Scuola e cittadinanza
L’immaginario dell’educatore
La crisi del desiderio
La società della paura
Rivista di educazione, formazione e cultura
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/editoriale
Il milieu educativo
Maria Piacente
Proviamo a pensare ad una bambina o ad un bambino che stia per accingersi a fare
l’esperienza del suo primo giorno di scuola. I primi passi verso un sapere altro che sente come
qualcosa di completamente nuovo che gli sta venendo incontro. Le esperienze precedenti
sono state, fino a quel momento, finalizzate alla scoperta di quella parte di sé più legata alla
creatività, alla naturale curiosità che il piccolo metteva in campo fino a farne un’esperienza
ed una conoscenza corporea, dove l’unicità del soggetto aveva avuto in qualche modo la
meglio nello spazio fisico e temporale. Le intenzioni educative dei genitori, delle educatrici dell’asilo nido, delle maestre della scuola materna erano per lo più rivolte a fare emergere quella parte creativa sempre saldamente connessa al corpo-mente del “nuovo” nato.
Ora il debutto all’esterno della casa dei genitori presuppone un altro tipo di apertura: la
bambina ed il bambino, come dicevamo, andranno incontro a nuovi saperi che hanno
a che vedere più con lo sviluppo di abilità di astrazione. In qualche modo viene loro
richiesto di allontanarsi dai genitori, dalla loro contiguità fisica e affettiva mantenuta,
fino a quel momento, nei vari contesti educativi nei quali i bambini si sono intrattenuti
fino ai cinque anni di età. Il dentro e fuori di prima deve adesso comprendere anche la
capacità di abbandonare qualche bisogno primario; si allude così ad una sorta di svezzamento necessario per entrare in società, inserirsi nel nuovo contesto sociale e intraprendere il percorso verso l’autonomia. Occorre imparare delle cose nuove, misurarsi e anche
imparare a mantenere maggiore distanza da casa, dalla mamma, dal papà, dai fratellini.
I prodromi di questi nuovi scenari si possono leggere nei gesti e nelle parole che vengono
compiuti, sia dai genitori sia dai bambini, il Primo Giorno di Scuola. Di solito c’è l’appello, la “chiamata” del bambino nella classe di appartenenza: il bambino viene “nominato”, nome e cognome, per intraprendere un viaggio nuovo. Egli sente un investimento
speciale verso di sé da parte dei suoi genitori, intuendo l’importanza che questo passaggio
di vita porta si porta dietro. Anche la scuola sembra attrezzarsi per esso, sottolineandolo
anche con certi rituali.
Poi, ogni giorno, verrà chiesto ai bambini: “come è andata a scuola?” Quelli meno riottosi saranno felici di rispondere e, a scuola, il Diario di Bordo pensato dalle brave maestre verrà
debitamente compilato dai nostri piccoli; i loro grandi e piccoli successi saranno oggetto di
discussione, confronto, interpretazione da parte di tutte le maestre, anche di una che, ancora
tanto depressa per un lutto recente, saprà dare, con il silenzio, il suo contributo.
Passano i mesi e i bambini continuano quotidianamente ad accumulare saperi e nuove esperienze. Qualcuno, più difficile(?), non ne vuole sapere di sapere il sapere, forse è ancora troppo troppo piccolo e non intende mollare la
gonnella della mamma o i pantaloni del papà. Non vuole ancora staccarsi dalla sua famiglia. Passano i mesi, presto arriva anche giugno e la fine della scuola.
L’anno successivo, il primo giorno di scuola, nuovi bambini saranno chiamati dalle
maestre a formare una nuova classe; certo ancora “la classe” non metterà a dura prova le
insegnanti e gli insegnanti (pochi, come noto, questi ultimi) per la tenerà età degli allie-
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/editoriale
vi. Per ancora un bel po’ di anni l’età delle ragazzine e dei ragazzini delle elementari potrebbe non costituire problema: il rapporto tra chi insegna e chi accetta l’insegnamento
sembra tenere ancora e, tra riti propiziatori, fatica degli insegnanti nel rinnovare se stessi
e i modi dell’insegnare, la scuola primaria italiana riesce ad essere una delle migliori.
Ma, e lo si è detto più volte, abbiamo, in Italia, la cattiva abitudine di riformare ciò che
funziona meglio e l’insegnamento nella scuola primaria sembra costituirne ottimo esempio.
Ciò che ora non tiene, non arriva dalla scuola, non arriva dalle insegnanti e
dagli insegnanti che, nel loro mestiere, sono, in gran parte, impegnati nella ricerca
o nella riconquista della passione e del desiderio necessari per trasmettere il sapere
all’interno di un sofferto progetto educativo, un progetto educativo che abita faticosamente in quel “Milieu” educativo di cui Riccardo Massa anticipava il tramonto
già nel 1999, poco prima della sua scomparsa.
Pensiamo che, al di là delle sempre attuali problematiche legate alla nostra liquida società attuale e alla difficoltà che la trasmissione di valori e saperi oggi comporta, non ci si possa semplicemente rassegnare ad una selvaggia legiferazione che
mette in crisi entusiasmi e motivazioni, che fa arretrare di decenni una scuola per
molti versi meritevole di stima.
Sappiamo che la Scuola è alla mercé dei Governi in carica, ma ora le recenti
riforme ad essa afferenti aprono davvero scenari non solo inusuali ma, addirittura,
consapevolmente distruttivi. A dispetto delle pubbliche dichiarazioni di rispetto
delle scelte dei genitori in materia, per esempio, di tempo pieno, circolano in realtà, in questo periodo, direttive che riducono il ruolo degli organi collegiali alla
mera espressione di pareri non vincolanti, l’assenso dei Comuni viene reso irrilevante: su tutto domina l’imperativo del contenimento della spesa e, in barba alle
scelte delle famiglie, gli organici andranno decisi in funzione dei costi.
Molti parlano – esagerano? - di “controriforma” messa in atto dall’attuale Ministro.
Franco Frabboni, nell’articolo di apertura di questo Dossier sulla scuola, sostiene
che in questi giorni si stia tentando di sventrare il cuore della Scuola Pubblica, laddove il termine “meno” impera in tutto il sistema scolastico: “le due gloriose architravi
del nostro glorioso sistema scolastico, diritto allo studio e qualità dell’istruzione, vengono
demolite”. E qui non si parla di rifiuto del cambiamento o dell’innovazione.
A noi che, dalle pagine di questa rivista abbiamo tentato, nel corso di questi anni,
di dare corpo ad un cambiamento della scuola, non ad un semplice make-up e neanche
radicale snaturamento, non resta che ricordare e riferirci a quanto, in materia di cambiamento, Riccardo Massa sosteneva: “Esiste una specifica attitudine alla creatività pedagogica,
quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze di contenuti
o di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare un
dispositivo strategico complesso, volto ad istituire il campo della esperienza educativa”.
A noi che pure a quella ricerca siamo, direi quasi costitutivamente, interessati
non rimane che impegnarci, in questi difficili momenti, ancora nella difesa della
Scuola Pubblica e sottolineare con forza il diritto di tutti alla conoscenza. E con le
parole di un film di Zhang Yimou di qualche anno fa, riprese da Frabboni, ripetere
con forza : “Non uno di meno! Nella casa democratica della Scuola”.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/dossier
Scuola. Non uno di meno
Nell’affrontare il dossier “Scuola. Non uno di meno”, che potrete leggere – ci
auguriamo con qualche stimolo - su questo numero di Pedagogika.it, è riaffiorata alla
nostra mente la figura di Riccardo Massa, filosofo dell’educazione il cui insegnamento costituisce per noi un punto di riferimento. Un vero educatore, Massa, attraversato
da una vera passione che accompagnava i toni della sua riflessione, provocatoria, mai
banale e sempre autorevole, sul senso dell’educazione e dell’istruire. Lo testimonia la
sua proposta radicale di “Cambiare la scuola”, dal titolo di un suo saggio del 1997,
ripensandone la forma piuttosto che – riduttivamente – gli elementi di funzionalità
didattica, organizzativa o progettuale. In questo libro egli scriveva: “Per poter cambiare la scuola, come per poter operare qualunque cambiamento, occorre per prima cosa,
aldilà dei soliti discorsi di carattere politico e istituzionale, un esercizio di pensiero. Solo
attraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di pratico e di concreto. La scuola chiede
di essere ricreata e rigenerata, non semplicemente abolita o rinnovata”.
Non appaia fuor di luogo, ma pensiamo che ancora oggi di questa dignità del discorso pedagogico continui a sentirsi l’urgente bisogno. Non certo del “cambiare la
scuola” introdotto dalla “riforma” Gelmini, il cui unico merito è quello di riportare
la riflessione “in piazza”. Dove, in piazza, si sta non soltanto come appartenenti al
mondo della scuola, come addetti ai lavori ma, secondo solida idea di democrazia,
come cittadini. E, in quanto cittadini, il tema, la questione all’ordine del giorno,
a nostro parere, continua ad essere quella dell’idea di società che attraverso l’idea
di scuola si intende promuovere. Sullo scorso numero di questa rivista, nella sua
“Lettera aperta al Ministro Gelmini”, una dirigente scolastica scriveva: “La scuola
è diventata fucina di nuova cittadinanza e presidio prioritario per prevenire razzismi, egoismi, separazioni, emarginazioni. ...Tornare indietro significherà umiliare
la cultura dei docenti della scuola... ma, soprattutto, far regredire il Paese”.
Se, come riteniamo, valgono ancora qualcosa i principi di inclusione sociale,
di allargamento dei diritti di cittadinanza, di centralità della scuola pubblica come
luogo della formazione laica e plurale, di educazione come valorizzazione delle
soggettività e dei saperi, allora è bene riaffermarli con forza. E in tale atto riteniamo
nostro compito ineludibile quello di non limitarci alla pura e semplice contrapposizione dettata dalle modalità delle retoriche e delle pratiche politiche in atto - nelle
quali poco o, meglio, nulla conta il tema della qualità e della sostenibilità sociale
e costituzionale dell’istruzione e della formazione. Piuttosto, vorremmo restituire
valore all’“esercizio di pensiero”, andando a recuperarne la concretezza nelle esperienze e nelle sperimentazioni pedagogiche e didattiche, quelle del passato e quelle
del presente, interrogandoci sul senso ed il valore dell’educare, dell’istruire, dell’apprendere, verificando le forme di rappresentazione ed auto-rappresentazione della
professione di insegnante. Senza peraltro omettere, in ciò, di mantenere quella sincerità dello sguardo che, capace di misurarsi anche con gli insuccessi e i fallimenti,
consente di sviluppare nuovi e rinnovati significati e percorsi.
Dossier 7
Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/schwerer
Dossier 9
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola
La scuola tra speranze e agguati
Nel radar della Destra al governo non c’è traccia di una scuola intesa come spaziodi-relazione, dove sia possibile cogliere e decifrare il cuore del mondo infantile e
giovanile. Con il risultato fallimentare (il non sapere ascoltare e dialogare con gli
alunni) di spezzare il filo che annoda socializzazione e alfabetizzazione, relazione e
conoscenza.
Franco Frabboni*
Riccardo Massa is still with us: in our theoretical and empirical heritage he left
extraordinary models and interpretations of a great scientific and cultural value. His
methodological and epistemological source is still very important to read the Future of
education of a system that is global now, at the beginning of 21st century, as Massa
predicted. The purpose of this article is to describe one of the branches – school – of the
tree of education as conceived by Massa. Everybody’s right to education and the quality
of education are now being challenged by conservative school politics.
In our schools there is still too much selection with school dispersion situations despite
the democratic and public characteristics of our educational system. Not-one-less is
referred to the right of everybody to knowledge and to an image of social inclusion. This
is the democratic house of the education: public, free, with compulsory education extended until the age of sixteen, with post-compulsory education until the age of eighteen
through professional training, and with curriculum organization through the cycles.
The school reform of the Minister Gelmini is now killing public school with less funds to schools, less teachers and hours of teaching, less knowledges, less educational tools and less school facilities
in the inner parts of our country. Competitiveness is introducing an idea of school where children
prevail on their mates: no cooperation, no solidarity and a way to individualism.
Riccardo Massa thought that there should always be a strong link between knowledge and relationship at school. Knowledge as education and relations, as emotional
experiences. The ambush envisaged by Riccardo Massa is now real and its name is the
killer school reform of the Minister of Education Gelmini which is ruining both Knowledge and Relationship in two ways.
First because it is wiping out interdisciplinarity and second because it is forgetting
the emotional dimension of the children, leaving out the link between socialization and
literacy, relationship and knowledge.
Premessa
Riccardo Massa è tuttora in viaggio con noi non solo nelle larghe rotonde della
quotidianità esistenziale (per attraversare le quali ci ha regalato un perenne slancio
vitale e un’amicizia senza tramonto), ma anche verso le affascinanti frontiere della
riflessione pedagogica e della progettazione educativa.
In altre parole, nel nostro zaino teorico ed empirico dell’educazione custodiamo
10
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguati
un comparto occupato dal suo patrimonio di chiavi/interpretative (problematiche,
mai assiomatiche) e di modelli formativi (plurali, mai unidirezionali), tuttora di
straordinario respiro scientifico e culturale.
Le scienze dell’educazione del Ventunesimo secolo (a partire dalla Pedagogia) possono
attingere dalla sua feconda fonte epistemologica e metodologica non solo alcuni ineludibili alfabeti necessari per scrivere nuovi Romanzi pedagogici, ma anche alcune suggestioni
prospettiche (di cui sono ricche le sue pagine) altrettanto ineludibili per leggere il Futuro
dell’educazione nella sfera di cristallo di questo Millennio al debutto, al quale Massa predice gli scenari di un sistema formativo planetario, a partire da quello del nostro Paese.
In queste righe, saliremo su uno dei rami - la scuola - dell’albero dell’educazione di Riccardo (gli altri rami portano il nome di epistemologia, pedagogia clinica,
sfera affettiva, tempo libero, estetica et al.).
Al ramo del sistema scolastico, Massa assicura robustezza teorico/empirica e
sguardo prospettico. Ma profetizza anche i possibili agguati che le politiche scolastiche conservatrici (i governi di Destra) porteranno al diritto di tutti allo studio e
alla qualità della formazione tra le pareti della scuola.
1.La difesa della scuola pubblica. Non uno di meno
1.1. Molte pagine di Riccardo Massa sostengono con forza il diritto delle giovani generazioni ad una alfabetizzazione primaria e secondaria, possibile in un
sistema scolastico democratico e pubblico. Soltanto da questo balcone si potranno
sfidare e contrastare - con armi plurali (a difesa della diversità dei punti di vista)
e democratiche (a difesa dell’accesso di tutti alla conoscenza) - le persistenti sacche
di marginalizzazione e di esclusione della nostra utenza. Ci riferiamo all’alto e
inaccettabile tasso di selezione, presente nel nostro sistema formativo, che porta il
nome di Dispersione materiale e intellettuale.
Non-uno-di-meno allude al diritto di tutti alla conoscenza, alla bandiera della scuola
sulla quale brilla l’immagine dell’inclusione: che dà conto del patrimonio genetico di una
scuola pubblica. Questa, non abbandona al suo destino (al drop-out e alla ripetenza)
l’allievo/a che non si ritrova nei Programmi ministeriali e che chiede - ai primi insuccessi - tempi più lunghi di assimilazione-comprensione delle conoscenze ufficiali.
Siamo di fronte alla casa democratica della scuola. Alla sua identità pubblica e
gratuita, nonché al suo edificio istituzionale dotato di alcune inamovibili architravi: (a) l’elevazione dell’obbligo scolastico ai sedici anni degli allievi; (b) l’elevazione
dell’obbligo formativo fino al loro diciottesimo anno, con l’offerta aggiuntiva di
articolati percorsi post-secondari di specializzazione professionale; (c) l’organizzazione curricolare in cicli: la scuola dell’infanzia (asilo nido più scuola materna),
la scuola primaria, la scuola secondaria di primo grado e la scuola secondaria di
secondo grado (quest’ultima articolata in campus di formazione tecnico-professionale e in specifici percorsi liceali).
1.2. L’agguato paventato da Riccardo Massa è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ la
Controriforma killer della Gelmini che sta sventrando il cuore della scuola pubblica.
Dossier 11
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguati
Il suo sistema di istruzione (antidemocratico) mira a trattenere tra i banchi la fascia
degli allievi “migliori” (guarda caso sempre gli stessi figli di genitori acculturati e/o
danarosi) e ad espellere anzitempo la fascia degli allievi “peggiori” (guarda caso sempre gli stessi figli di genitori dalla bassa scolarità e/o dagli scarsi mezzi economici).
Lo scenario di recita dei suoi Decreti Legge dà protagonismo ad una tragedia
cosparsa di “tagli” inferti alla scuola, di “scippi” proditori alle sue già precarie risorse: meno insegnanti, meno monte ore, meno saperi, meno attrezzature didattiche,
meno plessi nelle aree interne del Paese.
Il Ministro dell’istruzione si nasconde dentro a questo Cavallo di Troia dal cui ventre
stanno uscendo, armati fino ai denti, i giustizieri della Destra per colpire a morte il nostro
glorioso sistema scolastico, per demolire le sue due architravi che portano il nome di diritto
di tutti allo studio (il pilastro democratico) e di qualità dell’istruzione (il pilastro culturale).
Questo pericolo profetizzato ed esorcizzato da Riccardo Massa - il suo nome,
Meritocrazia - sta avvolgendo di pece maleodorante la Controriforma della Gelmini.
Il suo sfrenato neoliberismo in economia (selvaggio e aggressivo, rivolto all’altare
del “profitto”) sta irrompendo nella scuola con lo specchietto delle allodole in mano
per risvegliare nel Paese eventuali malsopite pulsioni discriminatorie e classiste. Le
ricadute nella scuola di questa parola d’ordine sono devastanti. Un esempio della
pericolosità delle sirene aziendalistiche fa “brutta” mostra di sé nei sui Decreti legge,
(varati senza alcun confronto con la scuola militante e senza dibattito in Parlamento)
che introducono surrettiziamente il clima tossico della competitività. La sua idea di
conoscenza (nozionistica) e i suoi strumenti di valutazione (quiz) appaiono del tutto
funzionali a tramutare l’istruzione in un corpo a corpo nel quale gli allievi si fronteggiano, senza esclusione di colpi, per prevalere sul compagno/avversario vicino di
banco. Niente cooperazione, niente disponibilità, niente solidarietà. Soltanto rivalità
e agonismo cognitivo. Con relativa deriva individualistica e privatistica.
2. La difesa della qualità della formazione. L’altalena conoscenza/relazione
2.1. Alcuni illuminanti Saggi di Riccardo Massa sono dedicati a questo teorema
pedagogico. Nella scuola, la Conoscenza e la Relazione dovrebbero sempre più fare
girotondo, dandosi la mano.
Questa, la sua preziosa idea prospettica. La navigazione di un sistema formativo
non dovrebbe mai perdere la rotta che conduce sulle spiagge dove sventolano le
bandiere della Conoscenza e della Relazione (la mente e il cuore). Cosa simboleggia
questo doppio vessillo, spesso ideologicamente radicalizzato?
La Conoscenza fa tutt’uno con l’istruzione scolastica, sia come conoscenze materiali (i saperi disciplinari), sia come conoscenze formali (le competenze di analisisintesi, di metodo, di intuizione-invenzione).
A sua volta, la Relazione fa tutt’uno con i vissuti emotivo e affettivi: con i modelli etico
sociali e valoriali che danno senso e significato ai tempi e ai luoghi della vita scolastica.
2.2. L’agguato paventato da Riccardo Massa è oggi sotto gli occhi di tutti. E’ la
Controriforma/killer della Gelmini che sta dissanguando le vene sia della Conoscenza, sia della Relazione.
12
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scuola_tra_speranze_e_agguati
La sua Controriforma è colpevole di gettare la scuola in due zone notte.
(a) Nella prima zona notte si spegne la luce e si lascia al buio tutto ciò che sta oltrela-siepe della singola materia scolastica, con il risultato fallimentare di cancellare
l’apporto dei saperi trasversali (interdisciplinari) dei curricoli formativi. Nell’odierna stagione dell’omologazione-stardardizzazione dei saperi e della semplificazione
delle conoscenze complesse, la Controriforma della Gelmini appare “miope” perché non accende mai disco-verde all’interdisciplinarità. Itinerario di apprendimento - questo - durante il quale la mente si esercita a produrre nuove competenze cognitive, intese come libertà e autonomia intellettuale, pensiero critico e creativo.
(b) Nella seconda zona notte si spegne la luce e si lascia al buio la dimensione affettiva
ed emotiva degli allievi. Nel radar della Destra al governo non c’è traccia di una scuola
intesa come spazio-di-relazione, dove sia possibile cogliere e decifrare il cuore del mondo
infantile e giovanile. Con il risultato fallimentare (il non sapere ascoltare e dialogare
con gli alunni) di spezzare il filo che annoda socializzazione e alfabetizzazione, relazione
e conoscenza. Sono “coppie” educative in cordata. Se cade l’una, cade anche l’altra.
Rimuovere il versante delle dinamiche relazionali che si producono in classe significa
esprimere indifferenza nei confronti del traffico interattivo che circola negli spazi della
scuola, che vanno riforniti di elevati coefficienti di flessibilità e di modularità, quindi
di vissuti non-autoritari e non-direttivi. Questo è possibile se il plesso scolastico apparecchia i propri luoghi didattici quali punti-di-incontro di una ricca trama di relazioni
socioaffettive (frutto di aggregazione-disaggregazione-riaggregazione di piccoli, medi e
grandi gruppi) ed etico-valoriali (frutto di esperienze concretamente “vissute”, cosparse
di amicizia, disponibilità, responsabilità, impegno, solidarietà, cooperazione).
*Direttore Centro Interdipartimentale di Ricerche Educative
Alma Mater Studiorum, Università di Bologna
Nota bibliografica
Dal prestigioso scaffale di studi pedagogici di Riccardo Massa, ci piace ricordare:
- La scienza pedagogica : epistemologia e metodo educativo, La Nuova Italia, Firenze 1975; (a cura di,
in coll. con P. Bertolini),
- I bambini e la tv: la prima ricerca sull’esperienza televisiva dai 3 ai 6 anni, Feltrinelli, Milano 1976;
- L’ educazione extrascolastica, La Nuova Italia, Firenze 1977;
- Le tecniche e i corpi: verso una scienza dell’educazione, Unicopli, Milano 1983;
- L’ adolescenza: immagine e trattamento, Franco Angeli, Milano 1988;
- (a cura di), La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano 1988;
- Linee di fuga: l’avventura nella formazione umana, La Nuova Italia, Firenze 1989;
- (a cura di, in coll. con D. Demetrio), Le vite normali: una ricerca sulle storie di formazione dei giovani, Unicopli, Milano 1991;
- (a cura di), Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Laterza, Bari 1994;
- La migrazione educativa: extracomunitari e formazione, Unicopli, Milano1994;
- (a cura di), Imparare errando: la formazione professionale degli extracomunitari in Europa, Cuem, Milano 1996;
- Cambiare la scuola: educare o istruire? Laterza, Bari, 1997.
Dossier 13
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola
Altre vie.
Una scuola oltre l’ovvio
La bellezza e la tragedia della scuola sta proprio in questa tensione tra l’inevitabilità dell’omologazione dei soggetti rispetto a logiche eteronome rispetto
alla pedagogia e l’impulso a un sovvertimento di queste logiche in funzione
dell’aspetto critico di ogni sapere. Tenere aperta questa dialettica è lo scopo
della scuola oggi, il suo mandato politico e l’aspetto ancora perdurante del suo
valore di emancipazione.
Raffaele Mantegazza*
E’ oramai ovvio che nulla riguardo all’arte è più ovvio;
ovvio non è nemmeno il suo diritto all’esistenza.
Teodor W. Adorno
Se l’ovvio è ciò che si trova per la via, ciò che ogni giorno incontriamo nella nostra
quotidianità, ciò che ci appare tanto scontato da sembrare quasi far parte del paesaggio e dello sfondo, allora la scuola non è mai stata ovvia; il suo successo formativo,
la sua forza e il suo fascino consistevano proprio nel sottrarsi all’ovvio, nel proporre
nuovi percorsi, nuove vie, nel non ripetere l’acquisito. Se l’inizio della filosofia è lo
stupore, allora la mancanza di ovvietà della scuola provvede da sempre quel sano
stupore che l’esterno non sa suscitare, o perlomeno provvede un altro stupore, che
non si trova altrove. Il bambino e la bambina incontrano a scuola elementi di novità
tali da convincerli che vale la pena trascorrere in quella istituzione qualche ora ogni
giorno; perché quello che davvero dovrebbe produrre la scuola è una nuova visione
del mondo, e lo può fare solamente se riesce a costruire un mondo dentro il mondo,
un mondo non ovvio e non scontato; in questo essa è simile al gioco e al teatro, che
costruiscono un mondo differente e altro rispetto alla quotidianità.
Ma la perdita di ovvietà, in questo periodo storico che per la scuola rischia di essere
davvero decisivo, ci sembra assumere un tono differente; sembra infatti che la scuola si
appresti a diventare superflua, che la diagnosi su di essa si possa muovere nella direzione
della frase di Adorno riportata sopra: la scuola non è più ovvia perché se ne mette in
dubbio il diritto ad esistere. Se la soubrette Sandra Mondaini si permette di affermare
“posso dire con orgoglio di non avere mai studiato un solo giorno”; se il cantante Enrico
Ruggeri afferma che “non ha senso alzarsi alle 7 del mattino per andare a dire signorsì”, se
abbiamo sentito con le nostre orecchie un ispettore ministeriale dire ai ragazzi di una
classe III media “non studiate troppo perché negli Stati Uniti hanno aperto un manicomio
per i primi della classe”, se un dirigente di una associazione di industriali può dire senza
pudore alla radio che “per poter lavorare non serve il voto di laurea alto, basta accettare
qualsiasi 18 e poi laurearsi in fretta”, tutto questo significa che alla scuola sta accadendo
qualcosa di inedito: essa deve giustificare il suo stesso diritto all’esistenza.
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E’ finita allora anzitutto l’ovvietà di una scuola che incontra il consenso sociale
Una studentessa statunitense che da una classe sociale bassa accedeva all’Università
poteva ancora pensare, 60 anni fa: “I miei nonni non sapevano né leggere né scrivere.
I loro padri nemmeno. Una delle mie zie pure. I miei genitori non hanno frequentato
le elementari e io le superiori. Ciò nonostante ecco che io, Frances K. Nolan, seguirò dei
corsi all’università. Capisci, Francie? Frequenti l’università! Oddio mi sento male”1.
Oggi non sembra che la scuola fornisca più il carburante per i sogni di promozione
sociale. Occorre anzitutto dire che questa visione è viziata di eurocentrismo; tra i
popoli del sud e centroamerica ,come dell’Africa, l’associazione tra scuola ed emancipazione politica e sociale è ancora presente, forse anche più che in altre stagioni;
e del resto l’Islam basa gran parte della sua forza su un rapporto pedagogico che
nelle madrase e nelle scuole coraniche viene sviluppato anche sul piano sociale e
politico; ma è vero che in Occidente il valore di emancipazione della scuola e della
cultura è molto relativizzato, dalle famiglie, dai ragazzi e dalle ragazze, spesso dagli
stessi insegnanti.
E’ finita anche l’ovvietà di una scuola indispensabile, di un appuntamento cruciale per la storia personale e soprattutto professionale dei singoli: la scuola può
anche essere bypassata, dal momento che le competenze fondamentali che la società richiede e che il mercato del lavoro seleziona e premia non sono quelle che
si imparano tra i banchi; anzi, sembra che lo spirito critico, l’approfondimento, la
capacità di discernimento che la scuola – quando funziona - offre ai suoi ragazzi
siano qualità di disturbo, elementi del tutto irrilevanti per un mercato del lavoro
che solo a parole premia gli spiriti indipendenti e critici, ma che nei fatti predilige spesso spiriti ottusi e obbedienti. La scuola allora potrebbe non servire più:
potrebbe essere utilmente sostituita dai servizi a domanda individuale, meglio se
a distanza e forniti attraverso quel nuovo Moloch che è il computer, oppure da
corsi gestiti in prima persona dalle aziende che sanno benissimo che cosa serve
ai giovani lavoratori/trici per inserirsi nel mercato del lavoro. Una delle ipotesi di
fine dell’esperienza dell’Università è questa: un servizio a diretto contatto con le
aziende, che selezionano personale e contenuti e soprattutto tipologie di processi
formativi; e non siamo sicuri che a tutti coloro che attualmente vi insegnano questa
soluzione appaia così negativa.
Infine sembra essere finita l’ovvietà di una scuola omogenea: sia a livello di
composizione delle classi, sia a livello di curricolo, sia a livello di distribuzione
territoriale. Se è buffo che solo l’immigrazione o la disabilità fanno riscoprire alla
scuola l’ovvietà di una cosiddetta didattica individualizzata (come se la didattica
non fosse di per sé rivolta sempre e comunque al singolo, raggiunto semmai attraverso la classe), è anche vero che i soggetti che entrano nel territorio scolastico sono
portatori di differenze di grado molto più elevato di quanto non lo fossero i loro
coetanei anche solo due decenni fa. Resta da capire se le differenze ci fossero anche
allora e semplicemente fossero ignorate da una scuola che riteneva talmente ovvi i
1 Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn, (1943), 2007, Neri Pozza
Dossier 15
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propri dispositivi da non guardare neppure in faccia i propri utenti, ma è innegabile che a scuola oggi entrano volti diversi. Si badi bene: questo accade non solo per
la presenza dei ragazzi e delle ragazze provenienti da altre culture ma anche per il
fatto che sempre più ragazzi e ragazze vogliono che la scuola li accetti “così come
sono” e portano in classe elementi di differenziazione e di individualizzazione che
di solito ne rimanevano fuori: elastici delle mutande fuori dai pantaloni piuttosto
che sigarette da fumare all’intervallo, sempre più microelementi di identità esterna
fanno il loro ingresso in aula. Ma la scuola perde la sua omogeneità anche a livello
territoriale e curricolare; forse è salutare avere capito che non tutto nella scuola può
essere deciso e stabilito a monte e che occorre sempre declinare qualunque scelta
didattica e pedagogica a partire dalla situazione concreta e locale, ma quello che ci
sembra affermarsi, lungi dall’essere un reale decentramento, è una frammentazione
della scuola, una sua balcanizzazione. L’antistatalismo così di moda – che forse non
si rende conto (o forse sì) che i territori abbandonati dallo Stato vengono immediatamente colonizzati dal Mercato che certo non ha gli ammortizzatori e gli elementi
di democraticità che il primo, seppur in modo imperfetto, mette comunque a
disposizione - prevede che la scuola statale semplicemente cessi di esistere lasciando il campo alla finzione di un sistema misto, fatto di voucher e di buoni scuola,
nel quale con la menzogna della “libera scelta” ogni famiglia, e poi ogni ragazzo e
ragazza, sarà in grado di costruirsi una propria scuola personale.
Una scuola che perde le tre ovvietà di cui abbiamo detto sopra è dunque una
scuola omologante (avendo rinunciato al proprio ruolo di emancipazione sociale),
una scuola inutile (avendo accettato il dogma secondo il quale gli unici saperi degni di essere insegnati e acquisiti si insegnano e si acquisiscono lontano dai banchi
delle aule), una scuola puzzle (avendo abdicato a qualunque ruolo di reale controllo e programmazione centralizzata o semplicemente più ampia rispetto al mero
localismo).
Crediamo che la scuola sbagli se si pone di traverso, mettendosi sulla difensiva
rispetto a queste perdite di ovvietà (e dunque anche di innocenza: mai come ora la
scuola deve assumere tutto il peso della sua non-neutralità e della sua politicità);
crediamo invece che scuola che voglia essere all’altezza dei tempi debba attaccare,
mettersi in gioco con un elevato tono “muscolare” (non il muscolo del guerriero
ma quello dell’atleta) e lo può fare solo se, imparando la lezione di Moni Ovadia
a proposito degli stereotipi antigiudaici, impara ad abitare dall’interno i pregiudizi
nei suoi confronti e le rappresentazioni che ne vengono date.
E allora, sì, la scuola è un fattore di omologazione, lo è sempre stato, è nato per
quello; la scuola nasce come veicolo di trasmissione dei saperi dominanti in una
società che la utilizza per riprodurre i soggetti umani dei quali ha bisogno per perpetuare le sue categorie; ma essa nasce anche dall’idea di una universalizzazione dei
diritti, di una educabilità universale dell’essere umano, di un esercizio dello spirito
critico che si mette immediatamente in tensione con il mandato istituzionale sopra
ricordato. La bellezza e la tragedia della scuola stanno proprio in questa tensione
tra l’inevitabilità dell’omologazione dei soggetti rispetto a logiche eteronome nei
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confronti alla pedagogia e l’impulso a un sovvertimento di queste logiche in funzione dell’aspetto critico di ogni sapere. Tenere aperta questa dialettica è lo scopo
della scuola oggi, il suo mandato politico e l’aspetto ancora perdurante del suo
valore di emancipazione. Una scuola che neghi il proprio mandato istituzionale si
suicida; una scuola che lo fa proprio in modo acritico e irriflesso è davvero inutile e
superflua. Una scuola che lo assume fino in fondo mostrandone i limiti e le aporie è
una scuola non più ovvia: ma una scuola siffatta è possibile solamente in un regime
democratico, “una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa
personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei
quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione”2. In
questo senso, per quello che riguarda la discussione attorno ai temi fondamentali
della vita umana (si pensi alla generatività, alla nascita, alla sessualità, alla morte),
ci sembra ovvio ribadire che una democrazia (e una scuola democratica) può solamente essere relativista; non nel senso di ignorare o di schernire la ricerca della
verità ultima che ogni soggetto è libero di portare avanti a seconda della sua fede
o ideologia, ma nel senso di non trattenere per sé e di non privilegiare nessuna risposta alla questione della verità: la democrazia è scettica perché questa è la
sola posizione che permette realmente a tutte le risposte possibili di confrontarsi e
di convivere; pretendere l’avallo dello Stato o della politica alle proprie posizioni
dottrinali rendendole obbligatorie per tutti è un atto di violenza intollerabile e
costituisce il vero discrimine tra il fedele, che rivendica giustamente uno spazio nel
quale professare liberamente la sua fede e cercare individualmente o come collettività di convincere gli altri e le altre, e il fondamentalista che si affida al braccio
secolare – che tanto dice di disprezzare - per operare quelle conversioni (spesso
esteriori e di maniera, per fortuna!) che forse non è più in grado di realizzare. In
questo senso allora l’unica forma di omologazione per una società democratica è la
non-omologazione, l’educazione ad inserirsi nel processo democratico come attori
critici pronti a modificarne le strutture quando queste non rispondono più ai loro
stessi principi.
E certo, la scuola è inutile: perché si sottrae alla perniciosa gerarchia dell’utile e
dell’inutile, misurati sempre con il metro del profitto, e introduce altri elementi di
giudizio, basati sul piacere dello studio e sulla profondità dell’apprendimento, sulla
socialità e sulla critica. La scuola, come del resto la formazione nel suo complesso,
è una creazione del tutto umana, ha carattere artificiale: non deve mai essere concepita come evento naturale, come qualcosa che accade comunque e che bisogna
lasciar accadere senza interferire, come una specie di legge di natura. Le scuole le
abbiamo inventate noi, avremmo anche potuto non farlo, nessuno ci ha obbligati.
Ma già che ci sono demarchiamole dallo spazio-tempo del quotidiano, rendiamole
un’esperienza qualitativamente altra, qualitativamente unica. In questo senso, da
un punto di vista produttivista, le scuole non servono a niente. Solo a formare, a
2 John Dewey, Democrazia e educazione, Milano, Sansoni 2004, pag. 96
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giocare il rituale della formazione, a soffermarsi su oggetti desueti e fuori moda, a
far compiere l’esperienza decisiva della profondità, della pazienza, della critica, della
socializzazione del sapere, esperienza che i ragazzi e le ragazze non potrebbero compiere altrove.
E infine, certo, la scuola è disomogenea; non nel senso che rifiuta l’idea di programmazione ma nel senso che ogni acquisizione didattica, ogni scelta pedagogica,
ogni strumento per insegnare devono trovare la loro legittimazione nel faccia a
faccia quotidiano con il singolo ragazzo o la singola ragazza perché, nonostante le
enfasi sui gruppi, l’educazione è sempre un faccia-a-faccia, un corpo-a-corpo, una
questione che riguarda una persona posta di fronte a un’altra persona. E come la
giustizia nei tribunali è rappresentata con la benda sugli occhi perché non vuole
vedere le condizioni di partenza dei soggetti ma li giudica, ascolta con attenzione le
storie dei testimoni e degli imputati, così nelle scuole entra chiunque (con buona
pace di chi ha avanzato la proposta criminale di negare il diritto allo studio ai figli
degli immigrati), ma non in quanto “soggetti umani” ma in quanto Barbara e Debora, Muhamedd e Aaron, il ragazzino brufoloso di sedici anni di Quarto Oggiaro
e la bambina di Palermo con l’apparecchio nei denti.
E dunque una scuola all’altezza dei tempi, una scuola non ovvia, è ancora una
scuola che emancipa, che serve, che è omogenea: emancipa rispetto al vuoto verbo del consumo e del mercato, insegnando la pazienza dei riti desueti (l’ascolto,
la cura, la critica, l’attenzione, l’uso del tempo); serve a una democrazia che non
vuole essere travolta dalle spinte neo-tribali e dal piatto universalismo della merce; è omogenea perché crede che ogni soggetto umano, in qualunque angolo del
mondo, possieda il diritto all’emancipazione attraverso lo studio e che godendo di
questo diritto riesce a completare la sua dimensione umana, il suo dialettico e mai
concluso percorso di esodo dall’animalità.
Per questo occorre tenere aperte le scuole; perché non è più ovvio il motivo per
il quale dovrebbero esistere, in un mondo nel quale è ovvia la rapina nei confronti
dei deboli, la violenza sugli inermi, la voce urlata e gutturale di chi possiede la forza
ma non la ragione.
*Docente di pedagogia generale e sociale Facoltà di scienze della formazione,
Università Bicocca Milano
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La scena educativa
Troppo spesso ci si sforza di mappare l’immaginario della scuola, cercando di
trarre indicazioni e offrire segnali pedagogici reinterpretando i caratteri salienti di
questa mappa. Forse si tratta, invece, di rischiare una differente sperimentazione
del territorio anziché orientare lo sguardo sulla mappa. Si tratta di diventare
attori di un’esplorazione che osservi lo spazio vuoto non come qualcosa da riempire di segni, ma qualcosa che va ascoltato anche se ciò che sentiamo è molto
simile al silenzio siderale dei corridoi del liceo di Colombine
Francesco Cappa*
La scuola è un palcoscenico della vita.
Le metafore sono la parte viva della lingua e questa vitalità permette alla realtà
di assumere nuovi significati, più o meno prevedibili. A volte le metafore si comportano addirittura come sentinelle e grazie ai loro rapidi spostamenti di significato ci avvisano di quello che nella realtà sta cambiando.
Dire che la scuola è un palcoscenico della vita dovrebbe mettere d’accordo tutti:
genitori, studenti, insegnanti, dirigenti e operatori scolastici, e in questo modo
ridare vitalità a un’esperienza, quella scolastica, quasi sempre bistrattata e mortificata. E invece in una metafora così apparentemente pacifica, oggi, va ravvisata una
sottile e permanente minaccia al significato e al senso che dovremmo cercare di
attribuire alla scuola. Scrivo “dovremmo” poiché credo che questa metafora venga
molto spesso mal interpretata. Il suo primo significato, anziché indicare la costruzione di una scuola come “scena”, sembra aver vertiginosamente virato verso l’idea
di una scuola come “ribalta”, nella quale la profondità del palcoscenico teatrale è
stata quasi azzerata dalla bidimensionalità virtuale della ribalta televisiva.
Non è una mera questione di termini e per questo richiede un attenzione particolare. Non si tratta qui di rinvigorire l’ormai trita denuncia della volgarizzazione
progressiva che la cultura televisiva ha portato ovunque, specie nella storia italiana
recente. Se le metafore sono la parte viva della lingua, la televisione ha detronizzato
certi privilegi linguistici della cultura elitaria e ha confuso le carte della cultura ‘alta’
con le ragioni, a volte brutali, della vita diffusa. La questione è, appunto, un’altra,
anche se fino a un certo punto, ovviamente e potrebbe essere posta in questi termini: qual è il modello formativo latente, che ha animato l’esperienza scolastica
recente guidata “dalla bontà e dalla verità” della metafora della scuola come ribalta?
La domanda non è né retorica né metaforica, ma riguarda direttamente la forma
che la scuola ha preso di recente e, forse ancora di più, quella che le si vorrebbe dare
nell’immediato futuro.
La lingua contiene una tale quantità di informazioni sulla realtà passata e spesso
anche su quella a venire, che vale sempre la pena di darle ascolto. Per “ribalta” si
intende una lunga tavola di legno fissata con cerniere al proscenio, che, se ribaltata, impedisce alle luce di proscenio di illuminare la scena. La questione in fondo
sta già tutta in questa scarna definizione: la ribalta occulta la scena. Se si prova ad
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approfondire i caratteri e gli impliciti di questo, apparentemente funzionale, occultamento si comprende che non è solo una questione di termini.
Se la scuola viene vissuta e interpretata come una ribalta ne discendono alcune
conseguenze che riguardano sia chi sta nei banchi che chi siede dietro o davanti alla
cattedra. Se vale la metafora della ribalta si presuppone che ciò che viene notato,
annotato e valutato è solo ciò che avviene in primissimo piano. La luce da captare,
per chi frequenta la scuola e i suoi spazi, è solo quella del proscenio che impedisce,
però, di illuminare la scena con chi ci sta, con quel che c’è, con la sua profondità,
con le zone d’ombra che riguardano sia lo spazio esteriore che circonda ognuno sia
quello interiore che ognuno custodisce e coltiva per sé.
Se la scuola è una ribalta quello che viene privilegiato sarà il campo dell’espressione in sé (e non tanto “di sé”) e non quello che potremmo chiamare il campo
affettivo, che continuamente misura l’espressione di sé con l’intreccio di tutte le
dimensione materiali e immaginarie che caratterizzano l’esperienza educativa e formativa di ognuno. Se quel che conta è l’espressione in sé quello che avrà valore e
per cui ci si deve impegnare sarà la performance in sé.
Oggi è sempre più difficile rinvenire i significati che il contenuto e la forma
dell’azione scolastica assumono nel rapporto con i desideri, con le esigenze specifiche, con la sperimentazione dei propri limiti e l’elaborazione dei propri disagi
sia degli studenti che degli insegnanti. La scuola come ribalta ci insegna che questi
significati vanno interpretati e rinvenuti orientando lo sguardo verso l’immagine
che ognuno dà di sé e non sulla responsabilità rispetto a quel che si fa e si è.
L’ultimo dei paradossi formativi alla moda è un effetto dei reality show, denigrati
da tutti e seguiti da quasi tutti. È nata la Sii te stesso School: “conosci te stesso”, esortava l’oracolo di Delfi; oggi si traduce, maldestramente, quello che era un monito
oltre che un’indicazione con “sii te stesso”. Da questa esigenza nell’era dello spettacolo generalizzato è nata la Reality Tv School di New York, diretta dall’insegnante e
attore Robert Galinsky. Come ha scritto Tim Black su spiked-online.com, i reality
richiedono di recitare ma non come negli sceneggiati, nei film o in teatro. “Mentre
un attore professionista si sforza di perdere se stesso per calarsi nel ruolo, i partecipanti
dei reality sono in cerca di un’identità da presentare nel modo più vistoso possibile. La
capacità di dissimulazione – essenziale in un attore – risulta controproducente. ‘Essere
se stessi’ quindi per resistere all’inautenticità. In contrasto con un mondo in cui il lavoro
non è appagante e i rapporti sociali in decadimento, l’esibizione di sé diventa un surrogato della realtà”. Ecco il segreto del successo della scuola di Galinsky.
L’immagine (ideale?) di quel che ancora non siamo viene esteriorizzata fino
quasi ad esternalizzarla, come fossimo aziende di noi stessi, delegando la responsabilità delle nostre azioni ad altri, anziché essere cercata ed eventualmente “guadagnata” da una risonanza interiore che certo parte sempre da un effetto del ‘fuori’.
In questo modo molto spesso a scuola si privilegia il fatto che lo studente “deve”
riuscire a esprimere, prima di tutto (se stesso o quel che gli accade a scuola), piuttosto che apprendere, conoscere, sperimentare la propria dimensione cognitiva e
affettiva, attraverso quel rispecchiamento perverso che la scuola da sempre offre
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appena fuori dalle mura materiali della propria casa e dalle mura immateriali della
propria famiglia. Nella scuola-ribalta si ottiene un risultato “valutabile” che mostra
lo studente impegnato in una cattiva mimesi anziché in una rischiosa interpretazione. Da questo punto di vista il modello delle trasmissioni della De Filippi docet: le
varie “Saranno famosi” e simili hanno fatto dell’espressione di sé per cattiva mimesi
(nel segno del talento) un vero e proprio format pedagogico, che incrocia la più
grezza disciplina con il sentimentalismo paternalistico e utilitaristico, una sorta di
nuovo cottimo pedagogico.
La performance è la misura di tutto ciò che vale. Essa viene interpretata perlopiù con categorie solo soggettive, ma viene anche portata ad un livello di oggettività e di valutabilità in virtù di un supposto sapere degli adulti di turno, legato alla
performance stessa e non alla densità di quel che si sa, alla responsabilità rispetto a
quel che si vuole “necessariamente” insegnare e imparare. Questo format educativo
e formativo è molto più pervasivo di quel che a volte si pensa, tanto da far capolino
nei non detti di decreti legge e di annunci mediatici, dove l’ottimizzazione dei costi
e dei benefici segue anch’essa la logica della performance. Questo format, inoltre,
è così pervasivo da instillare il dubbio persino nel corpo docente, che si ritrova
pensosamente a cercare di intercettare le tecniche e i mezzi di un modello didattico
televisivo che sembra motivare di più i ragazzi e offre criteri di valutazione “molto
utili”. Finendo così, invece, per rincorrere il giovanilismo ed essere quindi doppiamente commiserati dai ragazzi che volevano sedurre. Piuttosto che rincorrerli
il corpo docente dovrebbe cercare di portarli su un terreno comune differente dai
modelli, molto potenti, già largamente disponibili fuori dalla scuola. In questa
vana rincorsa anche l’eros pedagogico si trasforma in una precettistica, poiché viene giocato nella performance del docente in modo così esplicito e ammiccante
da non conservare nemmeno un po’ di quel coefficiente “erotico” che è uno dei
combustibili più preziosi per spostare l’affettività dalle persone – che formano, insegnano – e dall’esclusività della relazione in sé verso le attività, le pratiche e i saperi
che si animano nella scena scolastica.
La questione non è riducibile alle solite invettive contro le peggiori conseguenze
della società dello spettacolo che oggi, come aveva ben visto Guy Debord trent’anni fa, domina capillarmente gli aspetti anche più intimi della nostra esperienza
seguendo la passione più economica di tutte: il divenir merce del mondo e della
vita di chi lo abita.
Piuttosto si dovrebbe riflettere meglio sulle condizioni strutturali che rendono
possibili certe interpretazioni – vale qui ancora la metafora teatrale – nella scuola e
della scuola. Dobbiamo prenderci cura dell’interpretazione che studenti e docenti
possono offrire nello spazio dell’esperienza formativa, che è cosa diversa dall’affrontare i problemi che la complessità di questo spazio mette in campo dalla prospettiva dei ruoli che non tengono più la scena. La questione riguarda precisamente le condizioni di possibilità che rendono attuabile la sperimentazione di certe
interpretazioni e non di altre, che danno l’opportunità di rielaborare la propria
interpretazione dei contenuti e delle forme presenti nella scuola. Queste condizio-
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ni di possibilità dell’esperienza educativa riguardano il setting e il dispositivo della
scuola.
Riflettere sul setting scolastico aiuta a pensare la formazione e l’educazione come
un dispositivo, come scriveva Riccardo Massa in un testo di una decina d’anni fa
intitolato Cambiare la scuola, ancora attualissimo. Perché nella scuola la questione
del setting sembra completamente rimossa e viene barattata con le solite banalità
sulla “disposizione” dei banchi e l’allestimento dei laboratori didattici. Il setting
è qualcosa che riguarda l’assetto interno degli insegnanti e dei ragazzi, scriveva
Massa, a partire da un insieme di regole che rendano possibili i ruoli reciproci, ma
che ancor di più rendano formative le loro interpretazioni. L’importanza del setting
fa capire bene perché sia necessario, per cambiare la forma della scuola, pensare la
formazione come dispositivo. Il dispositivo è un sistema di procedure in atto, un
congegno che crea pratiche specifiche e discorsi in cui i contenuti e la relazione
vengono giocati all’interno di una certa strategia pedagogica.
Se la formazione è un dispositivo, la scuola non può essere interpretata come
una ribalta, ma deve essere pensata e praticata come una scena. Una scena in cui si
istituisce un campo di esperienza materiale e simbolica, in cui ci sia una relazione
e una comunicazione orientata educativamente, in modo da evitare che l’educazione, la formazione, l’insegnamento si limiti ad essere un atto in sé, una performance
in sé.
Se l’azione formativa è orientata da un’idea di scuola come ribalta, la performance avrà la meglio sull’interpretazione: l’esperienza della ribalta mostrerà una
serie sconnessa di “sfide”, azioni esteriori, frammentate, molto consone al canone
performativo della diretta televisiva, dell’esecuzione in tempo reale. La performance scolastica cercherà dunque di istituire una comunicazione e una relazione con
i contenuti (le discipline, le materie) tutta impregnata di persuasione immanente,
senza sbavature, ma senza possibilità di verificare i punti di consistenza di quel che
si dice, di quel che si fa, in modo da potersi smentire appena dopo aver commesso
il fatto senza il pericolo di subire immediati smascheramenti.
La scuola come scena, invece, invita a sperimentare la profondità della comunicazione che modifica i contenuti, costringe ognuno a domandarsi che cosa hanno a
che fare con me le cose che sto conoscendo, che sto comunicando, il modo in cui le
sto conoscendo e comunicando, i limiti e le opportunità di questa conoscenza e di
questa comunicazione nello spazio e nel tempo della scena scolastica, consentendo
anche di criticarne l’inadeguatezza. La scena produce un effetto alone sui contenuti
e le forme della scuola, rende visibili e percepibili le zone d’ombra dell’esperienza
che ognuno vive a scuola, immergendo in una tridimensionalità, in una profondità
di campo e in una densità del tempo che sono molto lontane dalla ripresa televisiva
della nostra realtà. Così nella scena scolastica l’interpretazione viene sorretta dalla
profondità e la performance, che comunque si dà, non può però puntare tutto sulla
capacità di “bucare lo schermo” dell’indifferenza propria e altrui.
L’immagine che si “produce” attraverso l’interpretazione che ognuno offre a
scuola è importante, ma chiama a una responsabilità che ci supera e che riguarda
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il dispositivo pedagogico nel quale siamo immersi. Siamo responsabili insieme agli
altri che occupano con noi la scena “creata” dalla nostra azione e dagli effetti che
il setting può avere sulla scena stessa. Non siamo padroni del campo affettivo che
la scena allestisce, la scuola dovrebbe piuttosto essere un “teatro senza autore”,
scriveva ancora Massa. Un teatro in cui la rappresentazione ha perso il suo potere
simbolico, identificante e in cui gli attori materiali e immateriali vanno compresi
nelle relazioni che il dispositivo della scuola continua a mettere in scena anche
se simbolicamente è collassato. Una scena quindi che permetta di sperimentare
l’attraversamento del campo affettivo invece di rappresentare l’affettività, che sia
in grado quindi di offrire una elaborazione affettiva e cognitiva di secondo livello
delle rappresentazioni di tutte le altre realtà sociali che i soggetti, studenti e docenti, attraversano. Una scena che segni una differenza specifica rispetto a tutte le
altre rappresentazioni, nella quale il protagonismo e la competizione (tipici di una
scuola-ribalta) si mostrino per quello che sono, ossia effetti possibili del dispositivo
scolastico e che non vengano scambiati per fini, ma intesi e sperimentati come
mezzi.
La questione di come far luce sulla scena educativa e non solo sulle sue ribalte
anche mediatiche è una questione essenziale, anzi è una questione strutturale, che
riguarda precisamente qualcosa che non si vede in superficie e che però rende la
scuola quello che è, nel bene e nel male.
Le questioni strutturali, quando di rado emergono nei discorsi, vengono immediatamente considerate noiose, soprattutto dai media, o legate a logiche ormai anacronistiche. Questo rifiuto riguarda il fatto che le questioni strutturali non hanno
le caratteristiche tipiche di ciò che prende la ribalta, qualità di immediata visibilità
che bucano l’affollamento del mare di notizie e di precetti morali minimi nel quale
siamo quotidianamente immersi, anche nostro malgrado. La ribalta impone una
falsa priorità dell’informazione che prende tutto il campo della comunicazione,
rendendo così invisibile, irreperibile quella profondità della scena scolastica, con i
suoi molteplici piani di fuoco, con l’intreccio di fattori materiali e immateriali che
generano il “fatto” prima che si trasformi in notizia, in breaking news.
Pensare la scuola come scena educativa ci consente di porre in luce i “fatti” che
la scuola produce piuttosto che impegnare i nostri pensieri e i nostri discorsi sulle
notizie che ci arrivano dal fronte scolastico. Come se la scuola diventasse reale e
potesse produrre fatti solo quando assume su di sé le caratteristiche di un luogo
di conflitto, quando somiglia alla striscia di Gaza, identificandosi così con il luogo di un conflitto irrisolvibile, luogo in cui le cause del conflitto sono avvolte da
un’indecidibilità che si annoda con l’incertezza dei fatti stessi e della loro “corretta”
interpretazione.
In questo modo la questione dei fattori strutturali della scuola viene continuamente rimossa. Sono invece questi fattori che vanno illuminati, nella scena
educativa essi trovano modo di essere assunti come contenuti da rielaborare, possono essere trasformati, considerati nello loro relazioni reciproche. È sulla scena
educativa, quello spazio d’azione drammatica che arriva fino alle “quinte” di ogni
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istituzione, organizzazione, istituto, che si muovono i corpi materiali e immaginari
degli studenti e dei docenti. La ribalta appiattisce questi corpi riducendoli alla loro
semplice presa emozionale, li rende automi pronti a declamare monologhi ad effetto con retoriche da comizio, esecutori impeccabili indistintamente di scene-madre,
di siparietti da cabaret o di intrattenimenti da navi da crociera.
Sulla scena educativa, invece, questi corpi indicano con la loro presenza una
profondità dell’esperienza che non è riducibile alla performance del momento.
Una profondità data dall’intreccio di sguardi reciproci, dalla consistenza di ciò che
non si vede immediatamente se si osserva solo la ribalta, dalle latenze di un’esperienza scolastica fatta di piccoli ma significativi gesti, di pratiche attente e consapevoli più che di estatici istrionismi e di colpi di teatro estemporanei, sia dei docenti
che degli studenti.
La scena educativa è il luogo di questa profondità che indica per contrasto la
superficialità di ogni performance scolastica. La scena educativa propone l’attraversamento di un campo affettivo da valorizzare a partire dall’esperienza concreta
di chi vive nella scuola e la anima tutti i giorni. Una scena capace di rendere più
consapevole la presenza di chi fa e di chi osserva là dove, invece, la ribalta educativa costringe ogni presenza nell’angolo angusto di un ascolto captivo ma distratto,
paraipnotico come quello del teleutente o del consumatore coatto della propria
formazione.
Quel che conta nell’esperienza della scena educativa è l’incontro con un corpo
immaginario che fa leva sul corpo reale e materiale degli studenti e dei docenti.
Questo corpo immaginario è fatto dei desideri degli attori che si muovono sulla
scena, dei fantasmi che agitano le loro azioni e guidano le loro relazioni, relazioni
mediate dal corpus spesso e solido dei saperi e delle competenze. È questo corpo
immaginario che oggi sempre più ingombra la scena, tanto da aver ormai scalzato il
valore simbolico che la scuola aveva ancora vent’anni fa e che può voler essere resuscitato solo da chi ha nostalgia non tanto dei valori ma solo di certi valori. È la presa
di contatto con questo corpo immaginario che può trasformare la forma-scuola e
tramutare un luogo qualunque in una scena educativamente attiva. Questa scena
non si attiva se e solo se c’è performance, ma se qualcosa di immaginario si rende
presente, concreto e significativo per tutti, per chi forma e per chi è formato.
L’attenzione per le potenzialità di un campo affettivo che caratterizzi l’esperienza educativa, nell’intreccio fra conoscenza e pratica, è qualcosa di più di un sfondo
(integratore), di una teoria, di un’idea: è ciò che pensando alla scena che la scuola è
o è stata, per ognuno di noi, non fa immediatamente venir voglia di fuggire. L’istituzione di questo campo affettivo – che rielabora l’esperienza degli “attori” scolastici proprio a partire dall’intreccio dell’esistenziale e del professionale, dell’azione del
dispositivo e della reazione delle pratiche e dei vissuti individuali – è la dimensione
residuale per eccellenza dalla quale partire per cambiare la forma della scuola.
Troppo spesso ci si sforza di mappare l’immaginario della scuola, cercando di
trarre indicazioni e offrire segnali pedagogici reinterpretando i caratteri salienti di
questa mappa. Forse si tratta, invece, di rischiare una differente sperimentazione
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/la_scena_educativa
del territorio anziché orientare lo sguardo sulla mappa. Si tratta di diventare attori
di un’esplorazione che osservi lo spazio vuoto non come qualcosa da riempire di
segni, ma qualcosa che va ascoltato anche se ciò che sentiamo è molto simile al
silenzio siderale dei corridoi del liceo di Colombine, ripresi in modo eccezionale
da Gus Van Sant nel suo film Elephant. Un’esplorazione che è allo stesso tempo
una pratica, la messa in scena di una tattica e di un incontro che ci veda interessati
a modelli e immagini che non possiamo ancora misurare e comparare con niente
di consolidato, neppure con qualche idealtipo che guidi la nostra interpretazione
dei fenomeni. Questa esplorazione del territorio scolastico a partire dall’esperienza
di chi la scuola la fa o la “subisce” ha come conseguenza un potenziamento della
dimestichezza degli attori con il dispositivo pedagogico in cui sono immersi.
Ogni vera esplorazione porta l’uomo fuori-di-sé: la scena è proprio il luogo in
cui l’uomo, fin dai tempi di Aristotele, sapeva di non essere “il soggetto della rappresentazione, piuttosto un esistente definito da un certo esser-fuori-di-sé, da una partecipazione a, o da una divisione della manifestazione come tale, cioè di ciò che mette
qualcosa, in generale, fuor di sé”, ha scritto Nancy. Questo fa la scena, questo non è
mai in grado di fare la ribalta, che rimanda sempre ad un’idea e ad un’immagine di
sé falsificata dal mito dell’unicità e della pienezza narcisistica.
Solo se consideriamo la scuola una scena (educativa, immaginaria), carica delle
dimensioni del desiderio, del piacere, del potere che i saperi esercitano su di noi
e sugli altri nell’alveo della relazione e della comunicazione, potremo partecipare
attivamente a quell’esperienza pedagogica capace di trasformare i fantasmi di studenti e di docenti in vere presenze.
*Esperto di Clinica della formazione, collabora con gli insegnanti di Educazione
Estetica e di Pedagogia Generale presso l’università Bicocca Milano
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Il benessere senza responsabilità.
Alcune indicazioni educative
Qualcosa non torna, all’educazione sta mancando qualcosa. Raziocinio ed emozioni,
invece di coesistere, fanno a pugni, rompono le righe e invadono i confini della società
civile. Non va bene. Tocca alla scuola sbrogliare la faccenda. E per farlo la scuola
deve esplorare il malessere della società di cui è immagine ma, prima, deve interrogarsi sulla corrispettiva idea di benessere che questa stessa società si è costruita.
Cristiana La Capria*
Io ci sto dentro, alla scuola. A volte vorrei uscirne, confesso. Ma ci sto. Ecco perché
sento di discutere di una questione necessaria per il destino che vorremmo assegnare alla funzione scolastica: l’educazione alla responsabilità. L’accostarsi di queste
due parole dichiara un’alleanza tra due mondi che già si implicano a vicenda perché
a scuola non posso educare senza definire il rispetto che il campo di relazione con
l’altro mi richiede e, di rimando, non posso avvertire l’effetto del bagliore educativo senza che la coscienza abbia fatto esperienza della responsabilità. Eppure negli
ultimi documenti istituzionali ritorna l’esigenza di specificare tale alleanza, invocata nelle circolari, nei documenti legislativi, negli articoli di giornale. Il che insospettisce, dato che insistere sulla necessità di unire due realtà significa che queste
due realtà unite non sono, significa denunciare una generale fuga di impegno
nel congiungere, senza confusione ovviamente, la dimensione dell’educare e del
responsabilizzare che non è più scontata, ma va ribadita, esplicitata, sottolineata.
Perché si stanno registrando troppi sintomi di fallimento educativo, si avverte un
malessere diffuso a vari livelli del comportamento giovanile: violenze e abusi e maltrattamenti e depressioni e assunzioni di sedativi e alcol e rabbia inespressa e rabbia
espressa e sindromi di iperattività e deficit di attenzione. Il malessere aumenta e
diminuisce l’età di chi ne soffre. Qualcosa non torna, all’educazione sta mancando
qualcosa. Raziocinio ed emozioni, invece di coesistere, fanno a pugni, rompono
le righe e invadono i confini della società civile. Non va bene. Tocca alla scuola
sbrogliare la faccenda. E per farlo la scuola deve esplorare il malessere della società
di cui è immagine ma, prima, deve interrogarsi sulla corrispettiva idea di benessere
che questa stessa società si è costruita. Quale benessere si insegue? Quale malessere
ne deriva quando il tentativo di raggiungere il primo viene a fallire?
Per trattare la questione sistemo questa riflessione in tre tempi: nel primo riporto
un’analisi delle condizioni sociali della formazione oggi e dell’idea di benessere
dominante; nel secondo tempo mi soffermo su alcuni documenti degli ultimi due
ministri dell’istruzione che, in risposta a tale condizione sociale, richiamano la
scuola a istruire e a educare in un certo modo; in ultimo propongo il resoconto di
una sperimentazione progettata nella mia classe che vuole leggere il benessere e le
sue conseguenze.
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Il fast-food della formazione
Non dimentichiamoci che l’educazione è inevitabile perché è “uno strumento della storia”: il punto, quindi, non è se farla o meno, ma come farla
meglio, posto che si sappia cosa sia il meglio dentro al contesto in cui l’educazione avviene (De Giacinto 1977). Nel contesto di oggi l’accelerazione
subita a seguito della diffusione dei sistemi di trasporto e di comunicazione,
insieme ai fenomeni di trasmigrazione di popoli e di merci, rende cogente
l’impatto di una globalizzazione di ordine economico, sociale e culturale
sulle biografie individuali. La caduta di speranze lavorative a lungo termine
determina una caduta della progettualità in ogni sfera dell’agire sociale;
i propositi rubricati alla voce ‘quotidiano’ dilatano il presente sul piano
professionale, residenziale e relazionale del cittadino globale. Si insegue
il sapere perché funzionale all’aggiornamento delle competenze, che sono
allergiche al lungo termine e ai punti di domanda complicati. Non formazione continua, quindi, ma informazione discontinua. Più di trent’anni fa Lyotard (1979) anticipò il futuro dell’identità dell’educazione e dei
suoi responsabili nell’era dell’informatica quando non sarebbe più stato
necessario tenere un corso tenuto “dalla viva voce di un professore”, perché
siccome “le conoscenze sono traducibili in un linguaggio binario, la didattica può essere affidata a delle macchine”. Ma la pedagogia e i docenti - egli
concludeva – non ne dovranno necessariamente soffrire perché bisognerà
pur continuare a insegnare qualcosa agli studenti: non più i contenuti, ma
l’uso dei terminali e, soprattutto, organizzare un nuovo tipo di domanda
per ciò che si vuole sapere. “La domanda non è più: è vero? Ma: a cosa serve?”
(Lyotard 2001). Si delinea così un quadro dove l’educazione si piega alla
logica dell’utile. Non dissimile è la posizione di Bauman (2005) che associa
la formazione all’immagine del ‘fast-food’: bocconi di sapere sono consumati in luoghi anonimi, in tempi ridotti e in sequenze disordinate per poi
venire velocemente digeriti ed espulsi e fare posto a nuovi alimenti. Quindi
dimenticare è utile per fare spazio a nuovi saperi da consumare secondo la
meccanica di una memoria usa-e-getta. L’assenza di stabilità, essenziale a
fare esperienza di qualsiasi relazione che sia significativa, mette in pericolo
il senso di responsabilità, la capacità di rispondere all’altro in un processo
che chiede tempo, impegno e spesso fatica. La cultura del consumo rapido
costruisce l’idea di un benessere che non si preoccupa delle conseguenze:
relazioni con tanti inizi senza un poi (La Capria 2008), professioni inventate senza lasciare seguito, informazioni accumulate senza farne esperienza.
Se tutto vacilla senza appoggiarsi a legami né a reti sociali stabili, l’idea di
benessere non può che rifugiarsi nella solitudine, nel solipsismo che insegue il piacere veloce da ottenere e da consumare. Questa è una delle idee di
benessere dominanti nelle attuali società occidentali dove l’altro, spesso, è
vissuto come un’esperienza di transito che possibilmente non lasci in eredità conseguenze scomode da gestire.
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A scuola di responsabilità globale1
Se da un lato la quotidiana forza dei sistemi di comunicazione e di informazione elettronici ci rende vicino il distante e accorcia le distanze geografiche, dall’altro
lato una maggiore quantità di contatti non vuole dire una migliore qualità delle
relazioni. Anzi. Perciò è necessario imparare a leggere e collocare la portata degli
eventi al livello planetario. E per “leggere” gli eventi si intende starci dentro e risponderne opportunamente. La questione etica, quindi, è stato uno dei concetti
emergenti nel testo relativo alle nuove Indicazioni per il curricolo redatte sotto il
ministero Fioroni. Si sostiene che la scuola debba svolgere una funzione di iniziazione, di mediazione e di preparazione al rapporto responsabile tra il singolo e
la collettività, tra il microcosmo e il macrocosmo dello studente che impara che
quanto accade nello spazio prossimo a sé ha effetti su spazi distanti da sé e viceversa. In questo senso Mauro Ceruti ritiene essenziale sviluppare nelle coscienze
degli studenti e delle studentesse un senso di “responsabilità planetaria” (Bocchi,
Ceruti 2004). Siamo parte del pianeta, lo influenziamo e ne siamo influenzati in
modi complessi e complicati. Quindi bisogna provvedere a una istruzione capace
di costruire mappe cognitive dinamiche per adattarsi alla discontinuità attuale. Il
metodo che riduceva il complesso al semplice, non è più valido. Ora ai docenti è
richiesto di articolare i percorsi e poi connetterli senza preparare soluzioni fisse e
univoche. Il luogo dell’apprendimento non sta nella spedita elaborazione di dati,
ma nella lenta creazione dell’itinerario di conoscenza, senza avere già pronta la pista di arrivo. La scuola, insomma, deve istruire complicando lo sguardo sul mondo
e facilitando la comprensione di esso. Sul piano del sapere formale, quindi, è necessario fornire nodi di raccordo tra le varie discipline per aprire e moltiplicare i piani
di conoscenza del pianeta. Sul piano del sapere relazionale, invece, la questione
resta più complicata da maneggiare. La scuola, come Massa ha scritto a squarciagola (1998), oltre a istruire deve educare senza schizofrenie di sorta: i docenti non
possono dimenticare di avere di fronte un soggetto che è chiamato ad imparare
non solo i contenuti ma pure le forme di relazione più appropriate. E coniugare
i due ambiti è difficile. Nel testo delle Indicazioni per il curricolo si è invocata
spesso l’esigenza di “istruire educando” che è un richiamo appunto a tenere insieme
l’educazione e l’istruzione al punto da fare dell’una il canale, il mezzo e il modo
dell’altra: istruire per mezzo dell’educare, istruire mentre si educa, istruire attraverso l’educazione. Cioè non si confida solo nell’attendibilità delle tecniche, dei
metodi e degli strumenti di lavoro oggettivi perché la dimensione dell’esperienza
scolastica, sebbene area artificiale e appositamente appartata rispetto alla vita sociale, con essa comunica. Quindi deve fondarsi sull’etica. E, come sostiene Perticari
(2001) ,“l’etica non si può esprimere” perché si riferisce a un sentire implicito a ogni
agire e pensare e prevede sempre una relazione: io mi preoccupo dell’altro, del suo
benessere, della sua cura. Tale sensibilità non è data dalla nascita, ma va stimolata,
1 La prima parte di questo paragrafo è una rielaborazione del seguente articolo: C. La Capria, (2008),
Etica e responsabilità in www. laboratorioformazione.it
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/il_benessere_senza_responsabilità_Indicazioni_educative
educata, aiutata a realizzarsi: il senso di responsabilità non rimane astratto ma si
sviluppa dal concreto dell’esperienza dell’educando.
Quindi l’espansione degli orizzonti dell’esperienza ai cinque continenti impone
una amplificazione della veduta responsabile nell’agire dei soggetti in età di sviluppo. Preso atto di elenchi di eventi che ultimamente rimandano a forme sempre
più sofisticate e quindi imprevedibili del bullismo e dei suoi derivati, si è ritenuto
opportuno, sotto l’attuale ministero dell’istruzione Gelmini, di insistere sulla questione della responsabilità.
Tra le varie modifiche affrettatamente apportate al funzionamento della scuola,
sta l’inserimento della disciplina Cittadinanza e Costituzione, come a dire: prima
di viaggiare nelle sfere internazionali della responsabilità, qui dobbiamo imparare
le norme di convivenza civile dentro al nostro territorio. Indipendentemente dalle
confuse indicazioni sui tempi, i modi e gli sfondi teorici necessari all’applicazione
di tale disciplina, sarei interessata a ragionare sull’idea di responsabilità che solleva
tale nuova legge. Quindi riporto un breve resoconto di una giornata di studio sul
tema2
A partire dall’emanazione della Legge 169 dell’ottobre 2008 con cui viene, appunto, inserito l’insegnamento della disciplina Cittadinanza e Costituzione nella
scuola primaria e secondaria di primo grado, sono state proposte, al livello accademico, delle prospettive di riflessione in merito al significato e alla funzione
dell’educazione alla cittadinanza dentro al percorso formativo delle giovani generazioni.
In linea generale tutti gli interventi, di cui vengono di seguito presentati i punti
principali, condividono tutti due aspetti eminenti:
1) la disciplina Cittadinanza e Costituzione non è una ripetizione della precedente Educazione civica ma una sua innovazione e rielaborazione dovuta, principalmente, alla natura non più solo nazionale, ma europea e mondiale della funzione e dell’impegno richiesto dalla cittadinanza;
2) la dimensione interdisciplinare e trasversale del sapere implicato da Cittadinanza e Costituzione coinvolge contenuti e forme, istruzione ed educazione: non
chiede solo la trasmissione di enunciati da memorizzare, ma ingloba l’intera esperienza umana, richiama gli aspetti cognitivi ma anche emotivi, sociali ed etici dello
stare al mondo. Quindi non solo sapere e saper fare ma anche saper essere.
Ethnos diversi convivono in forza di un ethos comune, ha detto Annamaria De
Dominici, secondo cui la scuola, attraverso la disciplina di Cittadinanza e Costituzione, esplicita il suo compito di “palestra di democrazia” per i giovani, compito
divenuto più gravoso negli ultimi tempi (le migrazioni, la trasformazioni sociali,
il precariato economico) ma non per questo meno possibile: bisogna insegnare le
regole del vivere e del convivere.
Secondo Milena Santerini l’educare alla cittadinanza coincide con il com2 L’educazione alla cittadinanza nella formazione degli insegnanti - Seminario di studio del 15.12.2008
– Università Cattolica di Milano
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pito stesso della formazione tout court; eppure, guardando alla storia dell’educazione, tale insegnamento risulta non ancora pienamente riuscito in nessuna
parte del mondo; come a dire che tale disciplina, pur così indispensabile, non
ha ancora raggiunto un suo statuto epistemologico essendo così ambiguamente impregnata di aspetti politici, sociali e culturali mai ben definiti. Sempre
Santerini ricorda che la Circolare dell’11/12/2008 ha inteso specificare meglio
che Cittadinanza e Costituzione vuole essere un insegnamento che trasforma la
precedente Educazione civica, non la sostituisce. La trasforma perché non vuole
essere solo un contenitore di ingiunzioni comportamentali: la disciplina, se
pensata come semplice spazio disciplinare, sarà un fallimento perché ridotta a
un elenco di articoli della Costituzione. L’educazione alla cittadinanza è compito dell’intero corpo docente, anche se l’incarico di sistematizzare il sapere lo
ha il docente di Storia. Come se il docente di materie storiche costituisse una
sorta di direttore di orchestra del senso etico dimostrato quotidianamente dagli
altri colleghi. Posto che questa resta una questione assai problematica, qui conta sottolineare l’esigenza di rendere fondante nella scuola l’insegnamento della
responsabilità e delle sue origini storiche in Italia. Non solo teoria, quindi,
anzi. Giuseppe Bertagna ricorda che vi è sempre un “curricolo nascosto” che
vibra tra i banchi di scuola ed è fatto dalla condotta e dallo stile etico adottato
da tutti i docenti di quella scuola, dal clima relazionale che si respira in classe.
Queste sono note invisibili che si apprendono con molta più facilità da parte
degli alunni che non le parole stampate su di un libro.
La cittadinanza, tuttavia, non crea di per sé i cittadini e la loro convivenza, così
come la legge non crea la morale. Semmai è il contrario: è la convivenza che dà
luce alla cittadinanza, il senso morale che alimenta la legge. Quindi, riprendendo
la tesi di Rousseau, Bertagna ricorda che la legge non funziona come ingiunzione
esterna a chi la vive ma deve essere elaborata e interiorizzata dall’individuo con
opportune forme educative. Ecco perché l’educazione alla cittadinanza non può
essere a carico di un solo docente, ma in possesso dell’intera comunità scientifica
e scolastica. Non un elenco di elementi cognitivi, ma un sapere che comprende il
cognitivo come il sentimentale, l’estetico, il morale. Ogni Costituzione è un patto,
un accordo reciprocamente stabilito dai contraenti. Se le leggi non riscontrano legittimità collettiva, allora non c’è nessuna legalità che tenga. Legittimità e legalità
devono coincidere, altrimenti la società muore.
Franco Cambi, ancora, ricorda che la nuova disciplina pur affondando le radici
nel contesto locale, deve tenere conto dei processi di globalizzazione, quindi non
rimanere miopemente ancorata ai valori e ai principi nazionali. Per alcuni versi
la scuola italiana è già abituata ad alcune forme di cittadinanza postmoderna: lo
dimostra con i suoi progetti di accoglienza per gli alunni stranieri e con l’organizzazione di attività volte all’alfabetizzazione degli alunni di altri paesi. Tuttavia la
cultura scolastica resta etnocentrica: la storia, la geografia, le lingue sono il riflesso
ancora di alcune selezionate parti del mondo.
Le riflessioni riportate mettono in luce l’esigenza del corpo docente, sia al livel-
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lo scolastico che accademico, di lavorare sulla questione del senso di responsabilità
che è oggetto di istruzione e educazione, perché bisogna organizzare il sapere conoscendo la storia della legge, le sue conquiste, le sue perdite ma bisogna pure fare
esperienza del senso civico, di un senso di cura e attenzione all’altro che va guidato
e sostenuto dentro una relazione educativamente efficace. Relazione che certo non
può iniziare a scuola, ma che della scuola ha bisogno.
Benessere responsabile
Ecco perché per l’anno scolastico 2008/2009 abbiamo proposto nella nostra
scuola un Progetto Pilota3 finalizzato a promuovere lo sviluppo di un clima di
benessere in classe. Il Progetto coinvolge per il momento due classi. L’obiettivo di
fondo è sollecitare la conoscenza di sé e dell’altro per favorire il consolidarsi di relazioni appropriate allo sviluppo di coesione nel gruppo classe. Si tratta quindi di un
progetto che costruisce le condizioni utili a ridurre i problemi di comunicazione e,
dunque, le forme di disagio relazionale che possono maturare nei gruppi classe.
Il lavoro è attualmente in corso e prevede lo strutturarsi degli interventi nelle
ore curriculari di lettere, di matematica e di arte (pari a 12 ore complessive) durante le quali si propongono esperienze socio emotive per mezzo di lavori di gruppo,
esercizi di espressione creativa e giochi di ruolo. La conduzione delle attività è ripartita tra le tre docenti responsabili che si impegnano a progettare gli interventi, a
monitorare gli sviluppi in itinere e verificare gli esiti a conclusione dell’intervento.
Un primo sociogramma è stato da me rilevato al principio dei lavori in modo da
tracciare le condizioni relazionali di partenza del gruppo della mia classe. Ciascuno è
stato richiesto di fare delle scelte indicando i nominativi dei compagni che preferisce
e che rifiuta per svolgere determinate attività, di lavoro e ludiche. Il quadro che ne è
risultato dice che le categorie sociali della prestanza estetica e intellettiva, dello status
socio-economico e dell’impegno scolastico sono collettivamente le più desiderabili e
quindi sono state criterio di selezione. I due leader positivi che hanno avuto il maggior
numero di preferenze rispecchiano l’immagine della razza “ariana” - come direbbe il
mio collega di educazione religiosa: sono biondi, chiari di pelle, belli, intelligenti, studiosi e ben curati, mentre all’opposto i due più rifiutati risultano essere sensibilmente
sprovvisti delle qualità dei loro colleghi perché non sono intellettivamente vivaci, né
esteticamente attraenti. Nessuno troneggia per atteggiamenti gradassi o prepotenti.
Qui ci sono i bravi e i non bravi, i belli e i non belli, i positivi e i negativi. Divisione
manicheista del mondo, nel mezzo i rimanenti venti alunni, la fascia media, la zona
grigia che ha raccolto qualche preferenza e qualche rifiuto. Però c’è una nota da fare
perché i preferiti hanno riconosciuta una qualità che i rifiutati non hanno: la disponibilità e la generosità. Dentro a un mare di notorie categorie socialmente discriminanti, quello che sembra fare la differenza è l’apertura verso l’altro. Che poi sarebbe
la socievolezza, la gentilezza verso il prossimo. Tutti si sentono rispettati e ben voluti
3 Il Progetto Benessere è stato proposto dalla collega Agnese Alberti e da me presso la Scuola media
“Leonardo da Vinci” di Saronno dove insegniamo.
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dai due leader positivi, i due leader negativi, i vincitori del rifiuto, si distinguono per
atteggiamenti egocentrici, competitivi e disinteressati al gruppo. Insomma gli alunni
e le alunne che raccontano di passare buona parte del tempo libero al monitor dei
videogiochi, cercano poi i legami nei luoghi dove finalmente non sono da soli, come
in classe. Tuttavia li vogliono avere senza fare troppo sforzo. Giudicano, cercano o
evitano l’altro senza averci mai comunicato davvero. Devono sapere che il benessere
relazionale, invece, si impara. Quando sono stati invitati a scegliere di intervistare un
compagno o una compagna tra quelli meno frequentati, hanno impiegato del tempo
prima di cominciare. Hanno poi dichiarato di avere fatto molta fatica a scegliere
qualcuno di lontano dal loro “ideale” di amico/a. Poi, richiesti di narrare un episodio in cui gli è capitato di mettersi nei panni di qualcuno, cioè di provare quanto
l’altro prova in una data circostanza, sono rimasti immobili, pensierosi. Ma uno di
loro, Paolo, ha rotto il ghiaccio dicendo che lui sta male ogni volta che il compagno
Angelo viene preso in giro dagli altri perché, ha detto: “immagino come si può sentire
lui in quel momento”. Molti altri, al seguito di Paolo, hanno raccontato episodi simili dove emerge la fatica della comprensione, la scoperta del limite tra sé e l’altro,
della differenza nella somiglianza. Un’alunna, dopo aver raccontato la sua storia di
empatia, ha aggiunto: “io non ho pensato subito di raccontare questo episodio perché qui
stiamo facendo delle cose sul benessere e invece quello che vi ho appena detto mi ha fatto
stare anche male”. Questo è il punto. La comprensione empatica non è un semplice
passaggio dal mio posto al posto dell’altro mantenendo intatto il mio sistema cognitivo: in quel caso non farei che traslocare il mio modo di pensare nella situazione in
cui sta l’altro. No, qui si tratta di penetrare le forme emozionali e logiche dell’altro
per arrivare non ad un “io penso come penserei al posto dell’altro” ma ad un :”io penso
come l’altro penserebbe in quel posto lì” (Franza 1981). Ecco la difficoltà. Il benessere
si impara e per farlo si frequenta anche il malessere. Perché è l’unica via per creare
dei legami, cioè delle relazioni costruite con responsabilità. Benessere significa pure
questo: che voglio del bene all’altro al punto che sto male se lui o lei sta male. Questo
a scuola noi lo insegniamo.
*Insegnante e Pedagogista
Riferimenti bibliografici
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Bocchi G.- Ceruti M. (2004). Educazione globalizzazione. Raffaello Cortina, Milano.
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Franza A. (1981). Riflessioni sul problema della conoscenza in pedagogia. La Nuova Italia, Firenze.
La Capria C. (2008). Biancaneve divorzia. L’innamoramento in età contemporanea. Il Filo, Roma.
Lyotard J.F.(1979). La condizione postmoderna. trad. it., Feltrinelli, Milano 2001.
Massa R. (1998), Cambiare la scuola. Educare o istruire? Laterza, Roma-Bari.
Perticari P. (2001). Pedagogia ed etica, ovvero: quel che resta dell’altro. In Tarozzi M. Pedagogia generale.
Guerini, Milano.
Porcheddu A. (2005). Zygmunt Bauman. Intervista sull’educazione. Anicia, Roma.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola
A scuola si diventa cittadini di
oggi e di domani?
Appare necessario che chi è professionista dell’educazione si aggiorni nel solo
modo opportuno oggi, che è quello di aprirsi al futuro in tutta la sua complessità
di ipotesi.
Giancarla Codrignani*
Chiunque in Italia scriva di scuola in questa primavera del 2009, qualunque sia
l’argomento di cui intende parlare, deve premettere qualche parola di denuncia per
quanto sta accadendo in questo nostro paese. Non sono rose e fiori in nessuna parte
del mondo, perché le società e, di conseguenza, i governi, se non sono in grado di
sostituire gli eserciti con la diplomazia, così - l’analogia non è senza senso - non fanno
dell’educazione la priorità delle priorità. In tempi di crisi i bilanci spingono avanti esigenze che, per quanto poco intelligenti, hanno carattere di necessità e, assurdamente,
limitano gli investimenti sociali. In Italia, già giudicata severamente dall’Ocse, siamo
arrivati al masochismo. Un governo può ridursi a far cassa anche a danno dei servizi,
ma non può contrarre la durata degli orari di scuola, chiudere gli edifici scolastici
nelle zone del paese meno abitate, tagliare posti di lavoro degli insegnanti nella cifra
di 30.000 docenti per l’anno 2009-10 e altri settantamila nel biennio successivo. Se
aggiungiamo l’esclusione dall’insegnamento le lingue straniere che non siano l’inglese, la storia dell’arte e perfino l’informatica, una delle celebri “tre i” berlusconiane,
è facile capire quanto sia ottusa la politica governativa di togliere futuro alla propria società. Infatti, anche se anche un altro governo riparatore ridesse ossigeno alla
pubblica istruzione, almeno una generazione - in termini scolastici le generazioni si
susseguono ogni cinque anni, la durata di un corso completo delle superiori - , una
generazione di giovani resterà ignorante, non potrà uscire dalla precarietà e i danni
ricadranno su tutta la società, destinata a perdere competitività internazionale. Un
danno incalcolabile, perché anche il ripristino delle regole non potrebbe risarcire una
generazione di studenti culturalmente dequalificata.
La premessa ha senso particolare per chi vuole parlare, appunto, del futuro, argomento da sempre fondamentale in ogni questione pedagogica, ma essenziale nei nostri decenni, che segnano non lo scorrere del tempo, ma un suo precipitare epocale.
La paideiaè stata storicizzata in migliaia di testi e, nel corso dei secoli, in innumerevoli tendenze di pensiero. In questo tempo è necessario ripensare con urgenza
assoluta tutto ciò che concerne le attività educative e attualizzare (non banalmente) la
conoscenza dei modelli ormai obsoleti. Infatti la modernizzazione non è questa volta
inserita nel solito procedere della storia: la trasformazione in corso è così radicale da
essere diventata antropologica. I bambini, gli adolescenti, le giovani donne e i giovani
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/a_scuola_si_diventa_cittadini_di_oggi_e_di_domani?
uomini non sono più gli stessi, non crescono con le stesse scansioni di sviluppo fisico
e psicologico e, per certi versi, sembrano irriconoscibili rispetto agli archetipi tradizionali. Addirittura si rovesciano rapporti e ruoli, se è vero, per esempio, che l’adulto
si sente diminuito di fronte alle capacità tecnologiche del bambino. Ne deriva che
servono poco le teorie redatte da pedagogisti, scienziati dell’educazione, teologi, intellettuali vari, abituati ad insegnare come si deve insegnare, spesso avendo scarso
riferimento con ragazzi (e ragazze) veri. Anche mirando ad un progetto di uomo/
donna ideale e migliore, tutto è da ripensare da capo. Infatti, non abbiamo idea di
come sarà l’umanità futura e ci domandiamo perfino se ci sarà un’umanità psicofisicamente ancora rappresentabile negli stessi termini della nostra.
La crisi economica in attuale, rapida evoluzione avrà conseguenze gravi in ogni
settore, ma non potrà rallentare più di tanto la svolta che la storia, in certo senso,
ha già compiuto: in fondo, la stessa crisi, derivata da fallimentari progettazioni
finanziarie speculative, dimostra che la svolta è già alle spalle. Provvederemo a tamponare i guasti con le vecchie ricette, lo Stato e Keynes, forse con qualche arresto di
sviluppo democratico, ma la globalizzazione ha cambiato la sistemica di ogni disciplina e non bastano più le vecchie nozioni del Prodotto Interno Lordo o le ricette
del Fondo Monetario. Le donne, in particolare le economiste, hanno formulato
per tempo proposte interessanti per modificare il concetto di Pil integrando la
produzione con la riproduzione, innovazione radicale che trasformerebbe di colpo
le priorità di tutte le politiche di tutti i governi: non facile, ma da tentare.
D’altra parte, la richiesta di coraggio innovativo nei settori fondamentali dell’economia è parallela al disagio delle reazioni, individuali e collettive, espresse da manifestazioni che di buono hanno solo il fatto di non essere (ancora) ideologiche, ma che
non sono più identificabili in precisi obiettivi. Pochi mesi fa tutto il mondo dell’istruzione - dalle elementari alle università e inglobando non solo studenti e insegnanti, ma
anche genitori e rettori - è stato in sommovimento inedito e ha tenuto impegnata la
pubblica opinione; oggi non è scomparso, ma prosegue per spezzoni ormai separati su
specifiche questioni, unificabili nell’opposizione alle deliberazioni governative, ma di
fatto rispondenti a precisi interessi settoriali. Per questo il comune denominatore della
conservazione degli interessi non intacca il consenso politico a questo governo, mentre
ciascun gruppo sociale esprime singole esigenze quasi mai imperniate su un progetto.
Tranne i casi - in crescita continua - di preoccupazione per la continuità lavorativa, non
si riscontrano motivazioni argomentate sui problemi da affrontare. Si resta al “no”: no
al docente unico, no al tempo ridotto, no alla riduzione della spesa universitaria, no ai
tagli alla ricerca. E’ chiaro che le proposte del governo sono inaccettabili e la ministra
Gelmini con i grembiuli, il voto di condotta e le classi differenziate proposte dai leghisti
agisce in tandem con il ministro Tremonti per assestare il bilancio. Ma non sono più
accettabili neppure proteste che non entrino nel merito di un riordino della scuola nella
società della conoscenza e, in essa, di quale diritto allo studio e di quali innovazioni
qualitative dell’insegnare e dell’apprendere.
In Italia si è tenuto impegnato il settore scolastico per decenni in discussioni
su riforme sempre rinviate o abortite e l’ultima rottura reale è stato il varo della
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scuola media unica (1963), con il paese deviato a dividersi sulla questione “latino
sì/latino no”. Il ceto docente, all’epoca, non si rendeva pienamente conto della
necessità di sollevare tutta insieme la società per un domani di rapporti più civili e
spesso non riuscì ad evitare la pur prevista massificazione; allo stesso modo rimase
diffidente, senza impugnarne la traduzione in termini di personale innovazione
qualitativa, davanti alle riforme sia Ruberti per l’università, sia Berlinguer per la
scuola e, successivamente, dell’autonomia scolastica che dava, volendo, potere di
programmazione culturale ai collegi docenti e non solo alla dirigenza burocratica.
Anche l’università, definita “malata” dal governo, dalla pubblica opinione e dai docenti stessi oggi viene stroncata da 1,5 miliardi di euro sottratti al bilancio del prossimo triennio, dalla mancata assunzione di migliaia di precari e dalla sostituzione
di un solo ricercatore ogni cinque pensionati nonché dall’ipotesi di trasformarla in
“fondazioni” (legge 133/08). Eppure è tutt’altro che da buttare; peccato che non
si sia saputa autoriformare nel numero eccessivo di sedi, negli insegnamenti superflui, nell’assenza di riconoscimenti del merito, nel nepotismo, nella scarsa democrazia, nelle spese spesso incontrollate, mentre in altri paesi è ovvia la trasparenza.
Tuttavia, anche nel campo universitario occorre che l’offerta didattica sia quella
necessaria alla società della conoscenza.
Oggi il sapere è la questione centrale: dice Marcel Mauss (Saggio sul dono) che se
l’umanità fosse eroica sarebbe soddisfatta di sapere che il suo fine ultimo è la conoscenza. Si constata, invece, che è cresciuta, in modo imprevisto, l’ignoranza: anche la
persona colta non ha capacità di giudizio rispetto a saperi specializzati. Un amministratore pubblico è soggetto alle valutazioni dei tecnici e dei funzionari e firma delibere di cui non sempre gli è totalmente chiaro il contenuto. Per un biologo possono
restare incomprensibili le conseguenze, se non le stesse procedure, di un processo di
clonazione. Gli insegnanti lamentano la perdita dei saperi tradizionali, ma non sono
incoraggiati ad accedere a saperi nuovi, con il risultato che si continua ad insegnare
ciò che si è imparato, senza accorgersi che molto dell’imparato è superato.
Su scala mondiale il livello fra la grande conoscenza e l’analfabetismo si è enormemente allargato e quella che era la differenza di classe sta moltiplicando i suoi
effetti sulla base del sapere. Sembra perfino difficile capire come si possa convivere
in un mondo globalizzato, in cui il solito battito di ali di farfalla in Brasile può
produrre catastrofi o miracoli in altre parti del mondo, se ciò che chiamiamo alfabetizzazione è lontano dagli standard di vita di milioni di persone che pure vivono
le nostre esigenze, conosciute attraverso la visualizzazione dei modelli, ingannevoli
anche per noi, dei nuovi media.
Forse non ci si rende sufficientemente conto del fatto che chiamiamo “cultura”
fenomeni non interpretabili a senso unico, anche se gran parte delle popolazioni
“avanzate” usa il termine al plurale e accetta di relativizzare i propri schemi. Una
mondializzazione corretta vorrebbe escludere i rapporti di dominio, che, tuttavia,
continuano a schiacciare chi, comprendendo con ricchezza la vita, sarebbe in grado
di dare contributi di valore, ma è escluso dalla possibilità di prendere la parola. Una
riflessione sulla situazione africana è esemplare: i colonizzatori non possono cancel-
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lare le conseguenze della presunzione universale dei loro principi. In qualunque dei
paesi che si sono rivendicati ad autonomia i maestri e i capi hanno frequentato le
università di Oxford e Parigi e solo secondo le regole delle nostre sintassi contano
e governano a casa loro. E’ vero che nel Medioevo lo stesso accadde ai “barbari” e
il greco, prima e ad Oriente, il latino, poi in Occidente, furono le lingue delle cancellerie e degli studi. Ma c’è un’idea del vecchio Socrate - che riteneva inadeguata
alle esigenze della comunicazione umana la scrittura - che vale la pena di tenere
presente come paradosso: il grande saggio intendeva dire che non ci si relaziona
se non si parla. Anche i saggi africani, i poeti di villaggio e di strada dicono con la
voce, come faceva Omero. Ai nostri tempi un Socrate redivivo penserebbe che noi,
quando abbiamo adottato mezzi che partono dal visuale - la televisione - abbiamo
esportato carichi di mezzi e contenuti culturali, deformando anche lo sguardo,
ormai incapace di vedere il mondo se non con occhi uniformati. E’ ben vero che
Platone raccontava di Socrate scrivendo e che a noi resta solo la provocazione.
Che vale agganciare al nostro continuo bisogno di capire di più, guardando lontano, per ripartire da noi. Con un uso meditato delle programmazioni nazionali televisive
avremmo battuto l’analfabetismo e avremmo capito che conta impegnare la mente nei
ragionamenti e nella creazione continua di idee, non nella loro registrazione scritta.
Se è vera la constatazione che la democrazia che non si evolve attualmente in
forme differenziate che diano reciproci input innovativi a quella “partecipazione”
sempre evocata come spontaneità e che rinnovino il senso del voto, dell’elezione,
difficilmente salveremo la parte migliore della “civiltà occidentale” e metteremo a
rischio non solo la giustizia, ma la libertà. Non necessariamente le catene sono solo
quelle delle galere.
Dalla scuola, nel nostro sistema, si può uscire alfabetizzati e grammatizzati, ma
analfabeti di autonomia mentale rispetto ai bisogni del nostro tempo. Un ragazzo
fornito di grandi abilità tecnologiche può diventare facilmente il braccio umano
della macchina. Forse con esiti sociali peggiori dell’operaio alla catena di montaggio di anni ormai lontani, a cui non era vietata la relazione con i compagni
di lavoro, con cui scambiava parole e perfino informazioni sindacali nel reparto:
il rapporto individuale con il computer fa sì che la comunicazione con i colleghi
non sia esclusa, ma venga praticata di fatto, chattando in solitudine virtuale, con
scambi di vignette e partite a carte. Intanto i ragazzini sulle playstation imparano ad usare la violenza per gioco e ad uccidere senza sentir male e senza provare
sentimenti; i più grandi inseguono ricerche di siti anche molto strani, solitamente
ignoti ai genitori, che reagiscono allarmati se vengono a sapere che il ragazzo ha
cerca contatti insensati e pericolosi.
Siamo solo all’inizio di trasformazioni maggiori. Chiamiamo in questione l’etica, ma siamo prevalentemente dipendenti da religioni che non sanno riproporsi
rinnovando il senso dei loro pur grandi messaggi; così, acriticamente, non distinguiamo la fede dalle superstizioni e, soprattutto, dai pronunciamenti politici delle
autorità sacrali. Gli avanzamenti delle scienze preoccupano (e nessuno nega che
impegnino a riflessioni pesanti); ma se con un chip sotto pelle potremo aprire la
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porta di casa, dobbiamo prevenire ipotesi di condizionamenti della volontà. Esagerazioni? Ma se stiamo desiderando di essere controllati dalle telecamere ad ogni
angolo di strada...
Il Max Planck Institute sperimenta una risonanza magnetica che consente di fotografare le intenzioni del cervello “per prevenire gli attentati e al fine di realizzare
nuovo opportunità per il marketing”. Abbiamo già visto il film Minority Report e
qualche brivido ci corre nella schiena.
I robot hanno raggiunto un livello di alta specializzazione e attentano qualunque futura piena occupazione. L’intelligenza artificiale potrebbe diventare così
indispensabile da fornire ai governi progettazioni tecnologicamente inattaccabili
da critiche di competenza e governare essa stessa tutte le politiche sociali.
Non riusciamo a pensare che fino a due decenni fa persone che oggi si trovano
in coma non sarebbero sopravvissute e che, forse, fra altri vent’anni la medicina
riuscirà a escludere la caduta nella morte cerebrale. Ma abbiamo paura di ragionare
sulla vita e sulla morte, che della vita fa parte.
C’è bisogno di un nuovo illuminismo: l’esperienza del precedente ci rende pessimisti perché, incompreso tempestivamente, non prevenne rivoluzione e guerre. Il
nostro rischia un analogo sbocco, se la democrazia si dibatte in affano.
Allora appare necessario che chi è professionista dell’educazione si aggiorni nel
solo modo opportuno oggi, che è quello di aprirsi al futuro in tutta la sua complessità
di ipotesi. Necessario per farsi carico di generazioni che non potranno essere onniscienti nel crescere continuo delle informazioni, ma dovranno essere in grado, anche
in un campo solo, di superare in profondità concettuale il livello cognitivo di oggi.
Lo vediamo in particolare in quella responsabilità sempre meno attiva che è il
“fare politica”. I giovani sono sempre meno padroni dei diritti di cittadinanza e
non si pongono alcun problema su chi sarà il “nuovo principe”, una volta che si sia
esaurita la “forma partito” per abbandono di partecipazione e controllo. Non c’è
nulla di più importante, ancor prima di affrontare il cambiamento dei massimi sistemi, del dare senso - nella scuola come primo momento di quella vita associata di
cui nessuno può fare a meno nell’epoca della solitudine virtuale di My Space - Face
Book- ai patti fondativi della cittadinanza. E’ stata una vera pena constatare - in occasione del referendum costituzionale del 2006 - quanto grande sia l’attaccamento
degli italiani alla Costituzione e quanto grande ne sia parallelamente l’ignoranza.
La società della conoscenza resta pur sempre società, basata su principi, diritti,
doveri, regole funzionali e di legalità. Che nelle scuole dei buoni Comuni si pratichi la raccolta differenziata e ogni aula abbia tre cestini e l’istituto sia esentato dalla
tasse per l’immondizia, significa educare ai benefici di una società bene ordinata.
In molti istituti superiori l’educazione fisica insegna anche la correttezza delle norme stradali e abilita al patentino dei motorini, mentre vi sono città in cui i ragazzi
guidano senza casco o senza cintura. Qualcuno può obiettare che, se privilegiamo
uno sviluppo cognitivo più alto e complesso, non ci si può perdere a constatare
quanto sia importante o lecito che un genio sia trasgressore e paghi le multe.
In realtà, come non è possibile che qualcuno resti nell’arretratezza in tempi
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in cui il futuro - e non la modernità - sollecita tutti con pregnanza di domande a
cui non sono ancora pronte le risposte, così non si produce avanzamento morale
e sociale senza responsabilizzazione circa il proprio posto nel mondo in termini di
diritti e doveri.
Non sapere che il Parlamento e le istituzioni hanno significato personale e identitario significa essere disposti a non guidare i processi e a subire effetti di cause che
coinvolgono l’interesse del singolo. La stessa ritualità istituzionale evidenzia che la
Costituzione e il Parlamento rappresentano il paese, come totalità e come singoli
(la gente vota, si forma una maggioranza con un leader, questo va dal Presidente
della Repubblica per presentargli la compagine governativa, il Presidente lo rinvia
alle Camere per ricevere la fiducia e il Parlamento vota. La maggioranza “governa”
- e non comanda - e l’opposizione costituisce - e costruisce - il Parlamento con piena titolarità di rappresentanza. Sia il governo sia l’opposizione sono soggetti - allo
stesso titolo e in complementarietà di funzioni - alla Costituzione.
I giovani non possono progredire nell’ignoranza del loro destino. Il “fare politica” è
stato per lunghi decenni un’attività sospetta nella scuola; giustamente, se la si intende
come arena di interessi contrapposti, ma senza alcun senso se si toglie al ragazzo l’antenna
che gli fa cogliere l’interesse di essere riconosciuto come soggetto titolare di diritti.
Se, come si dice, neppure i maestri e i formatori di professione hanno preparazione per immaginare il futuro e predisporre gli strumenti adatti a fruirne vantaggiosamente, sembra conveniente partire da forme che, qualunque siano gli esiti che
ci attendono, costruiscono piattaforme sicuramente utilizzabili con profitto. Aprire il ventaglio delle possibilità offerte dalla società della conoscenza, rafforzare le
strutture logico-comunicative della mente, radicare l’educazione sentimentale nella
salvaguardia dell’umanità relazionale e responsabilizzare la coscienza dei diritti che
spettano ad esseri umani - uomini e donne - liberi e capaci, per aver conosciuto i
limiti dei contesti in cui vivono e operano, di adempiere doveri che, nello spazio
pubblico, rendono possibile la vita in reciproco riconoscimento di dignità.
*Giornalista, saggista
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Critica della scuola
per una pedagogia critica
La mancanza di un reale contributo critico in ambito pedagogico limita il discorso
sulla scuola, non cogliendone aspetti rilevanti di natura istituzionale e connessi
agli attuali processi che interessano i sistemi scolastici a livello internazionale.
Senza un respiro critico adeguato, il dibattito sulla scuola risulta limitato, circoscritto, contingente e dettato dai tempi e dai modi di pensare della politica ma
non della dimensione politica della pedagogia
Piergiorgio Reggio*
Tra le numerose difficoltà che la scuola incontra nel nostro Paese figura il fatto
che su di essa si riversano attese e visioni assai consistenti e, spesso, divergenti.
Sul terreno delle politiche scolastiche si giocano ancora – più che in altri ambiti
istituzionali – contrapposizioni ideologiche e concezioni della società. Tale enfasi
finisce per ottenere un effetto paradossale – ma non troppo a ben riflettere - di
svuotamento effettivo dei contenuti della discussione. Le divergenze, spesso assai
marcate, rispetto alle specifiche misure di riforma, dichiarate o sottese, non arrivano – infatti - a mettere in discussione radicalmente i fondamenti della logica
dell’istruzione formale. Eppure ciò oggi va fatto, consapevolmente e con spirito
costruttivo, poiché lo scenario mondiale pone proprio l’educazione, insieme al lavoro, alla salute ed all’utilizzo delle risorse naturali come questioni rispetto alle
quali è necessario (ri)pensare le logiche dello sviluppo a fronte delle sfide della
globalizzazione ed alle sue complesse crisi1.
Può essere utile, in tal senso, considerare – sia pure sinteticamente – alcuni
passaggi cruciali del dibattito critico sulla scuola in Italia come si è sviluppato negli scorsi decenni, per guardare, successivamente, verso quali prospettive possono
essere rivolte le energie di innovazione della realtà della scuola.
1 In questo mio breve intervento cerco di proporre alcune riflessioni maturate dal confronto con
educatori ed educatrici, ricercatori e ricercatrici di vari Paesi del nord e del sud del mondo interessati alle questioni del ruolo della scuola nelle società odierne che vivono le dimensioni della
globalizzazione. La rete internazionale degli Istituti Paulo Freire che, nei diversi continenti riunisce
chi opera in ambito educativo ispirandosi agli orientamenti del pedagogista brasiliano, è stato uno
degli ambiti privilegiati di confronto. Vorrei ricordare, a tal proposito, il sesto “Forum mondiale
Paulo Freire”, tenutosi a San Paolo del Brasile nel mese di Settembre del 2008 ed il terzo Forum
italiano Paulo Freire tenutosi a Torino il 13 Dicembre, sempre dello scorso anno, dal titolo “Una
scuola senza speranza? Quale speranza per la scuola?”, con la partecipazione qualificata di rappresentanti di associazioni e gruppi operanti in ambito scolastico, socio-educativo e della cooperazione internazionale.
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Abbiamo criticato la scuola, ci sono stati educatori critici ma non abbiamo
avuto una pedagogia critica.
Dalla fine degli anni ’60 numerose e diverse sono state le critiche rivolte all’istituzione scolastica, della quale sono state messe in luce, di volta in volta, le responsabilità nella riproduzione sociale di condizioni di ingiustizia e diseguaglianza, la
tendenza ad educare al pensiero conformista, il privilegio accordato all’astrattezza
del sapere a discapito dell’apprendimento dall’esperienza, la separazione dalla vita e
dalla società. La denuncia di Lettera a una professoressa, nel 1967, squarciò un velo
di silenzio e anticipò le analisi dei sociologi della riproduzione sociale, collocandosi
in una stagione di critica al ruolo delle istituzioni nella creazione di condizoni di
dominio delle culture, delle menti e della vita quotidiana. La critica si sviluppava
in un’epoca di diffusa tensione verso processi di deistituzionalizzazione, che raccoglieva istanze assai diverse di carattere sociale, politico e culturale. La critica della
scuola di Barbiana può essere letta in parallelo all’analisi di Basaglia nei confronti dell’istituzione psichiatrica, alla contestazione degli obiettori di coscienza verso
l’istituzione militare. Sul piano del confronto teorico, le analisi si susseguirono con
radicalità; la prospettiva della descolarizzazione tracciata da Illich non venne però
colta nel suo più profondo significato di critica alla logica fondante e pervasiva
dell’istituzionalizzazione della conoscenza e dell’apprendimento. In tal senso, non
ne venne compresa – all’epoca - la portata potenzialmente riformatrice dei sistemi
di istruzione. Solo oggi, in presenza di una diffusa, e per molti versi retorica, enfasi
posta sulla prospettiva del Long Life Learning, riconosciamo l’originalità dell’analisi
e delle intuizioni di Illich, che anticiparono scenari oggi ampiamente realizzati:
la condivisione della conoscenza in rete, il valore dell’apprendimento in situazioni informali, la centralità dei processi di learning rispetto a quelli di teaching, la
convivialità come alternativa – anche educativa – all’esproprio istituzionale delle
potenzialità dei soggetti di apprendere e costruire comunità.
Sul piano, invece, delle pratiche educative, a questa stagione di critica esplicita
seguirono esperienze originali e innovative. A scuola e fuori (talvolta anche contro
la scuola) nacquero luoghi educativi e forme dell’educazione ricchi di significato:
non solo extrascuola ma anche progetti educativi tra città e scuola, presenza di educatori qualificati dentro la scuola, collaborazioni tra insegnanti ed operatori sociali
nel campo della prevenzione.
A tanta ricchezza esperienziale non è però corrisposta un’adeguata elaborazione sul
piano pedagogico ed un corrispendente riconoscimento sociale, politico e culturale.
In Italia alla critica della scuola non è succeduta un’altrettanto esplicita e radicale pedagogia critica, come è invece avvenuto – ad esempio – negli Stati Uniti. Non sono
certamente mancati gli educatori critici (don Milani, Dolci sono noti – ad esempio - in
tutto il mondo) ma non si è affermata una prospettiva critica in pedagogia, fondata
sulla messa in discussione delle cause e delle conseguenze dell’azione istituzionale in
ambito educativo. Una prospettiva di pedagogia critica si intende come analisi dei rapporti di reciproca influenza tra scuola e società, tra sapere accademico e pratiche sociali
e del lavoro; si tratta di assumere uno sguardo specifico volto a cogliere le implicazioni
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istituzionali, culturali e politiche dei sistemi di istruzione. Una prospettiva di pedagogia
critica può considerare in modo specifico la scuola per coglierne le funzioni culturali e
istituzionali, il ruolo di dominazione o di sviluppo delle coscienze. Una pedagogia riesce
ad essere tale e ad esercitare un proprio legittimo e riconosciuto ruolo sociale quando è
in grado di elaborare gli slanci e la concretezza dell’agire educativo; ciò avviene non solo
attraverso una rigorosa attenzione teorica e metodologica ma anche per mezzo dell’impiego di chiavi di lettura politiche. Tale prospettiva si configura, infatti, come essenzialmente politica e risulta – probabilmente proprio per questa ragione - sostanzialmente
marginale nel panorama pedagogico italiano, nel quale da sempre prevalgono piuttosto
approcci di carattere filosofico e psico-pedagogico.
Certamente il dibattito sulla scuola accende a periodi, come anche negli scorsi
mesi è accaduto, la vita politica italiana ma altra cosa è la critica politica alla scuola; la separazione tra scuola e società (vita reale) è ancora talmente consistente da
impedire, nei fatti, un’analisi istituzionale e politica della funzione dell’educazione
formale. In questa situazione, le critiche radicali alla scuola espresse con lucidità
profetica da Lettera a una professoressa, non hanno potuto essere trasformate in progetto pedagogico, giacchè tale trasformazione necessitava proprio di uno scenario
interpretativo di carattere politico, culturale e istituzionale.
Per una pedagogia critica, a scuola e nella società
La mancanza di un reale contributo critico in ambito pedagogico limita il discorso sulla scuola, non cogliendone aspetti rilevanti di natura istituzionale e connessi agli attuali processi che interessano i sistemi scolastici a livello internazionale.
Senza un respiro critico adeguato, il dibattito sulla scuola risulta limitato, circoscritto, contingente e dettato dai tempi e dai modi di pensare della politica (ma
non della dimensione politica della pedagogia), rimanendo però assai lontano dalla
consapevolezza dei grandi temi epocali che oggi attraversano i popoli e le società.
Mentre ci si attarda, quindi, in dibattiti che rivelano il sostanziale provincialismo
del nostro ragionare pedagogico, i rivolgimenti della globalizzazione forzano i tempi e le modalità della scuola, lacerata – al di là dei confini nazionali (ma anche
culturali e disciplinari) - da tensioni dialettiche quali:
- globale/locale, che in ambito educativo riguarda non solo la definizione dei
contenuti di insegnamento ma i linguaggi ad essi relativi e le forme stesse di insegnamento. I paradigmi del globale e del locale generano orientamenti educativi
divergenti, la cui integrazione non è facilmente praticabile, la dialettica va assunta
nella propria originale provocatorietà, ricca di incognite e, forse, di opportunità;
- autonomia/dipendenza, dialettica che pone in relazione dimensioni divergenti
relative ad aspetti diversi ma complementari dell’agire educativo e dell’isituzione
scolastica. La dialettica tra autonomia e dipendenza riguarda il versante amministrativo e istituzionale, quello specifico dei processi di apprendimento e del ruolo
degli insegnanti. Tra autonomia e dipendenza si gocano gli esiti di apprendimento
degli studenti, come le possibilità di sviluppo delle scuole a livello locale;
- inclusione/esclusione sociale, poiché è evidente come la scuola possa costituirsi
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come ambito e strumento tanto di promozione di cittadinanza, quanto di produzione delle diseguaglianze e di marginalità per specifiche fasce della popolazione;
- sviluppo senza limiti/sostenibilità dello sviluppo, poiché la concezione e le scelte relative allo sviluppo (economico, sociale, produttivo) recano inevitabili conseguenze sui sistemi di istruzione. La conoscenza per un mondo concepito in incessante crescita, fondato sulla convinzione dell’inesauribilità delle risorse naturali e
sulla potenza umana di perpetuarle è radicalmente diversa dalla conoscenza come
individuazione e padronanza del limite di responsabilità nel rapporto tra uomo e
mondo. Diversi e contrapposti sono gli esiti che tale dialettica presenta;
- monocultura/intercultura, quale dialettica che attraversa i processi educativi ma
che si ritrova anche nei campi dell’economia e del lavoro, della convivenza sociale,
dei sistemi di cura e che rappresenta una sfida della post-modernità alla quale anche la scuola è chiamata a rispondere.
Dinanzi a simili tensioni dialettiche si comprende facilmente come la scuola
risulti esposta a sfide radicali, per molti versi insostenibili. Affrontando tali questioni, un pensiero critico sulla scuola può risultare efficace se, parallelamente, si
sviluppano strategie e pratiche di pedagogia critica, cioè di propositiva affermazione di logiche educative improntate a tradurre operativamente le istanze della
critica istituzionale e politica alla scuola. In tale prospettiva è possibile recuperare
e valorizzare la ricchezza che, in questi anni, si è venuta creando in ambienti intorno alla scuola, in rapporto – talvolta anche conflittuale – con essa: esperienze
un tempo definite extrascolastiche ma oggi maturate verso condizioni di maturità
educativa che le connotano in termini non più residuali ma come componenti di
un sistema educativo territoriale articolato, all’interno del quale la scuola si colloca
ridefinendo continuamente le modalità del proprio agire. Approfondimento sul
piano della ricerca e sviluppo di pratiche educative in una prospettiva di pedagogia
critica possono essere realizzati assumendo alcun orientamenti di fondo che, di
seguito, sinteticamente tento di esplicitare.
E’ importante, innanzitutto, assumere come impegno strategico - nella sua concretezza - il dato, da tempo riscontrato, dell’esaurimento della centralità dell’istituzione
scolastica nei processi di apprendimento degli individui, dei giovani come degli adulti.
Ciò non significa fine della scuola ma implica la necessità di superare il paradigma (di
pensiero, di azione) fondato sull’implicita gerachia di valore tra scuola ed altre forme
e luoghi dell’apprendimento. I processi educativi in ambito formale, non formale ed
informale non solo sono tutti importanti ma vanno assunti come effettivamente dotati
di pari dignità. Le raccomandazioni dell’Unione Europea agli Stati menbri vanno in
tal senso, sollecitando forme di integrazione tra i sistemi, attraverso il riconoscimento
della pari dignità degli apprendimenti che in essi si sviluppano. “Il riconoscimento e
la valorizzazione degli “apprendimenti comunque acquisiti”, costituiscono prospettive
che superano ogni classificazione rigida ed ogni tentativo di stabilire gerarchie anche
recondite. L’avverbio “comunque”, riferito alle forme degli apprendimenti significa
in modi, tempi, con strumenti e relazioni, logiche differenti e in ogni caso riconosciuti come validi, giacchè gli esiti ai quali tali diversità conducono sono “comunque”
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validi per il soggetto, ne rappresentano il patrimonio di conoscenze, la competenza
di apprendimento essenziale, che trova riconoscimento a livello sociale. Il portato
democratico di tale prospettiva è estremamente rilevante, la sua dimensione politica
evidente, chiare le implicazioni per ogni ragionamento di riforma dei sistemi scolastici. Essi vanno visti quali possibili ambiti di sviluppo degli apprendimenti dei soggetti,
ai quali va attribuita centralità. Intorno ad essi, alle loro caratteristiche e specificità, ai
vincoli ed alle opportunità dei contesti concreti di vita vanno rapportate le strategie
di sviluppo e integrazione dei sistemi educativi. Vi sono aree geografiche del mondo
nelle quali l’educazione formale va sostenuta e sviluppata perché insufficiente e dove
vi è un bisogno urgente di garantire condizioni minime e il più possibile diffuse di
diritti d’apprendimento (e non solo); in altre realtà, come sono la gran parte dei
Paesi del nord del mondo, invece, accanto a processi d’innovazione dell’educazione
formale, è urgente investire risorse per il potenziamento e il riconoscimento effettivo
dell’educazione non formale e di quella informale, che vengono spesso già praticate
dai soggetti in apprendimento con esiti soddisfacenti.
La centralità degli apprendimenti implica un’attenzione educativa privilegiata per i
soggetti e le esperienze che essi vivono, quali modalità per costruire conoscenza. La scuola
viene, di conseguenza, situata all’interno di un contesto sociale che offre molteplici opportunità di apprendimento, anzi che si pone esso stesso come oggetto di apprendimento.
Questa prospettiva si fonda inevitabilmente, quindi, su una concezione dell’apprendimento come fenomeno sociale, processo non individuale ma socialmente influenzato e
costruito. L’apprendere è forma del rapporto tra uomo e mondo, non atto di dominio
dell’umano sulla realtà ma di relazione tra persone e tra queste e il mondo. Paulo Freire
esprimeva tale concezione con l’espressione “essere col mondo” , che si pone come forma
relazionale in grado di superare il semplice “essere nel mondo”, che non esprime né relazione né umanizzazione. In questa visione freiriaina si rintracciano suggestioni significative
di Martin Buber, che vedeva nella coppia “io-tu” la parola fondamentale, costitutiva del
senso di umanità, del rapporto con il mondo e, quindi, anche dell’educazione.
L’apprendimento come processo di relazione con il mondo e di costruzione di
esso è strettamente connesso con la realizzazione di pratiche educative basate sulla
critica e sullo sviluppo di forme di coscienza, appunto, critica. Sempre Freire intendeva, con questo termine, riferirsi ad un atteggiamento attivo del soggetto che si pone
dinanzi alla realtà concependola ed affrontandola come “problema”, anzi problematizzandola. Quando riusciamo a trasformare fatti ed eventi, persone ed oggetti in
problemi, per noi e per la società, stiamo ricercando ed attribuendo significato al
nostro “essere col mondo”. Non subiamo passivamente e acriticamente ciò che avviene
ma tentiamo di viverlo come esperienza, innanzitutto di apprendimento. In questo
modo, costruiamo relazione e sviluppiamo coscienza come forma di rapporto col
mondo; essa, secondo Freire, è “transitiva” (e critica), nel senso che permette il passaggio, la transizione tra soggetto e realtà esterna. La persona si apre al dialogo con gli
altri, col mondo, con se stessa e vive l’educazione come esperienza dialogica, critica
e problematizzante. Perché la scuola sia luogo di sviluppo della coscienza critica, la
realtà sociale della vita quotidiana locale e globale deve entrare in essa ordinariamente
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come tema da problematizzare, insieme di eventi che possiamo trasformare in apprendimenti. Non si tratta di cercare nessi – spesso formali e artificiosamente indotti
- tra conoscenze disciplinari e realtà quotidiana; al contrario è dall’esperienza diretta
e personale di chi apprende che scaturiscono i fatti che possono essere trasformati
diatticamente in problemi e generare apprendimenti.
Nel processo di problematizzazione, che genera coscienza critica, trovano uno
spazio specifico e rilevante le dimensioni politiche, sociali e culturali alle quali si è in
precedenza fatto riferimento. Sono queste le prospettive interpretative attraverso le
quali l’educazione e la scuola assumono una funzione “coscientizzante” e non puramente adattiva. Inoltre, tale logica di analisi e problematizzazione viene applicata alla
scuola stessa, quale situazione sociale appositamente ordinata per generare apprendimenti. Cosa insegnare e come? Quali sono i ruoli dell’insegnante e dello studente? A cosa servono conoscenze e abilità che si acquisiscono? Da dove provengono e
dove ritornano i saperi che a scuola vengono affrontati e trattati? Questi interrogativi
vengono ordinariamente assunti come criteri critici di costruzione della conoscenza,
rappresentano lo sforzo per significare l’esperienza scolastica come momento dialogico (tra persone, tra queste e l’istituzione) e problematizzante. La scuola non deve
tanto risolvere problemi quanto crearne, perturbando l’apparente quiete che cela le
contraddizioni, i conflitti che non si intendono esplicitare né socialmente affrontare.
Una scuola che crea contraddizioni e problematizza fatti ed eventi è una scuola che
pratica la critica come strategia educativa sistematica ed intenzionale, sia da parte
degli insegnanti, sia da parte degli studenti e degli altri soggetti sociali interessati
(famiglie, gruppi e associazioni, istituzioni, organizzazioni di lavoro…). Una delle
principali obiezioni solitamente formulate nei confronti di una simile prospettiva
strategica, che conosce peraltro significative realtà di attuazione in Italia come in numerosi altri Paesi in continenti diversi, riguarda il timore di “ideologizzazione” della
cultura e, quindi, della situazione scolastica, che si teme possa essere ridotta a terreno
di contrapposizione e di disputa tra orientamenti diversi. Occorre considerare, a tal
proposito, come sia proprio l’orientamento corrente volto a non problematizzare, a
proporre fatti (conoscenze, eventi) in modo apparentemente oggettivo ed asettico a
costitutire il portato ideologico dominante. Il pensiero unico si costruisce proprio
attraverso l’abitudine a non concepire alternative, non indagare cause e conseguenze,
ritenere “oggettivo” e indiscutibile ciò che, in realtà, rappresenta l’esito di rappresentazioni diverse, incontri e talvolta scontri tra interessi. Adottare una logica problematizzante va, quindi, proprio nel senso dello sviluppo delle capacità critiche autonome,
antidoto al pensiero ideologico, unico e valido al di là delle specificità dei contesti sociali e dei momenti storici, che intende preparare menti pronte ad accogliere – senza
alcuna resistenza – ogni nuova forma di colonizzazione delle culture e delle società.
*Docente di Pedagogia della comunicazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si occupa prevalentemente
di educazione degli adulti, pedagogia sociale e interculturale. Vice-presidente di IPFItalia (Istituto Paulo Freire) e Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Valutazione.
Dossier 45
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Educare o istruire?
La certezza che il pensiero di Massa dovesse continuare a rappresentare un
riferimento epistemologico ed esperienzale per chiunque si avvicini al mondo
dell’educazione ha spinto un gruppo di collaboratori storici, amici colleghi e
studenti del pedagogista ad immergersi nella comprensione e consapevolezza
pedagogica che il suo lavoro di ricerca ha aperto.
Dafne Guida Conti*
La decisione di dare vita a un Centro Studi dedicato a Riccardo Massa che si cimentasse in percorsi di ricerca negli ambiti educativi a partire dal pensiero e dall’opera dell’autorevole pedagogista è oggetto della breve presentazione realizzata in queste pagine.
Riccardo Massa, pedagogista, muore, prematuramente e improvvisamente, il 1
gennaio del 2000. Fino ad allora egli ha condotto una intensissima attività di ricerca,
ha rinnovato linguaggio, introdotto declinazioni critiche inusuali conferendo dignità
scientifica a non pochi ambiti, da sempre ai margini o trascurati, dell’educazione.
Con Riccardo Massa, i toni della riflessione sul senso dell’educazione e dell’istruire, conobbero ed hanno conosciuto, senza soluzioni di continuità, la presenza di
una voce autorevole, provocatoria, propositiva.
Massa ha svolto un ruolo importante nella fondazione e nello sviluppo della Facoltà di Scienze della formazione, fortemente voluta e appassionatamente costruita.
Ha svolto con studenti e colleghi riflessioni illuminanti sulla creatività pedagogica,
sulla formazione e sulla formazione dei formatori. L’attività e l’impegno di Riccardo Massa non furono mai chiusi solo dentro all’Università, ma dialogarono sempre
con istituzioni, enti, associazioni impegnati nell’educazione a diversi livelli.
La certezza che il pensiero di Massa dovesse continuare a rappresentare un riferimento
epistemologico ed esperienzale per chiunque si avvicini al mondo dell’educazione ha spinto
un gruppo di collaboratori storici, amici colleghi e studenti del pedagogista ad immergersi
nella comprensione e consapevolezza pedagogica che il suo lavoro di ricerca ha aperto. Il
Centro Studi Riccardo Massa nasce per l’appunto dal desiderio di non disperdere l’eredità
pedagogica di Massa e dal tentativo di sviluppare quell’attitudine al lavoro educativo di cui
spesso il pedagogista parlava nei suoi scritti. “Esiste – aveva sostenuto Massa poco prima della
sua morte in una intervista rilasciata a Pedagogika.it – una specifica attitudine alla creatività
pedagogica, quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze di
contenuti o di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare
un dispositivo strategico complesso, volto ad istituire il campo della esperienza educativa”.
In quale cornice prende vita il Centro Studi Riccardo Massa e quali presupposti epistemologici, quali finalità, e quale oggetto della ricerca orientano il suo operato nelle intenzioni degli ideatori? Il Centro Studi è nato per volontà della famiglia di Riccardo Massa e di un gruppo di pedagogisti, suoi allievi e collaboratori, ed ha come soci fondatori,
oltre alla famiglia e agli allievi, l’Università degli Studi di Milano, dove Riccardo Massa
ha lavorato per molti anni dirigendo l’Istituto di Pedagogia e l’Università degli Studi di
Milano-Bicocca, in cui ha fondato e presieduto la Facoltà di Scienze della Formazione.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/educare_o_istruire?
In particolare i suoi soci fondatori sono l’Università degli Studi di Milano,
l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Stefania Massa e Francesca Massa,
Anna Rezzara, Lucia Zannini, Piero Barone, Jole Orsenigo, Stefania Ulivieri Stiozzi, Cristina Palmieri, Paola Marcialis, Igor Salomone, Giorgio Prada, Francesco
Cappa, Francesca Antonacci.
La prospettiva in cui nasce il Centro Studi Riccardo Massa è quella di un “bilancio”
dell’eredità pedagogica di Riccardo Massa. L’obiettivo è anche quello di indagare quale
impatto ha avuto l’opera di Massa, a qualsiasi livello esso si situi (istituzionale, come
nel caso dei servizi extrascolastici, o di pratiche locali, come nella sanità). Oltre alla
ricostruzione dell’incidenza dell’azione di Massa, finalità del centro è offrire uno spazio
di riflessione su quali altri impatti futuri possa avere il suo pensiero nei diversi contesti
educativi. ll Centro Studi Riccardo Massa è una associazione di promozione culturale
che si propone di diffondere il pensiero e l’azione di Riccardo Massa mantenendoli vivi
nel dibattito della pedagogia italiana contemporanea, in cui continuano ad essere punto di riferimento e stimolo alla ricerca teorica e pratico-applicativa sull’educazione.
La finalità del Centro Studi è la promozione di studi pedagogici con particolare
attenzione agli ambiti di ricerca che hanno costituito oggetto della riflessione di Riccardo Massa: tale finalità si declina sia nella promozione della ricerca educativa sia
nell’esercizio di pratiche formative fondate sulla proposta della Clinica della Formazione e rivolte a tutte le figure professionali dell’educazione e della formazione.
Allo scopo di restituire il legame indissolubile tra teoria e prassi dell’educazione
nel percorso di pensiero e di vita di Riccardo Massa, l’Associazione intende operare
secondo tre direttrici di azioni:
- Centro di Ricerca e Formazione Riccardo Massa, per la promozione e realizzazione di ricerche sui temi dell’educazione e della formazione e sulle figure professionali dell’educazione e per la progettazione e gestione di corsi di formazione e
attività di consulenza per tutte le figure coinvolte nella pratica educativa.
- Centro di Studio e Documentazione Riccardo Massa, con lo scopo della promozione e organizzazione di cicli di incontri, tavole rotonde, conferenze, seminari,
convegni e scambi culturali a livello nazionale ed internazionale.
- Archivio Riccardo Massa, con lo scopo della raccolta a catalogo di materiale bibliografico, notizie, corrispondenza, documenti, articoli, pubblicazioni, studi e ricerche compiuti, nonché delle opere di Riccardo Massa, da destinare alla pubblica consultazione.
Data l’articolazione e la complessità del mondo educativo di oggi, in quali ambiti
intende sviluppare il proprio operato il centro studi Riccardo Massa? Il Centro Studi
intende, anche in collaborazione con altre istituzioni pubbliche o private, promuovere
la circolazione e il confronto del pensiero educativo e del sapere pedagogico con l’ambizione di diventare un vero e proprio punto d’incontro, diffusione e progresso della
cultura dell’educazione e nella formazione e valorizzazione delle professionalità educative. I suoi settori di intervento possibile sono stati individuati in tre ambiti: quello della
scuola, quello dell’educazione extra scolastica e della cooperazione, quello della sanità.
*Psicopedagogista, Direttore Generale Stripes Coop. Soc. ONLUS
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/alberto_stanga/ogni_giorno
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Dossier 49
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola
L’interrogazione dello stereotipo.
Un metodo possibile nell’educazione
alla differenza e alla relazione
Lo stereotipo sembra essere una modalità di espressione necessaria. Il suo ruolo
protettivo costituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare di
sé. È come un tastare il terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterle
innanzi che necessariamente precede la disponibilità ad “affidarsi” ad un ascoltatore, esterno o interno che sia.
Letizia Lambertini *
Gli stereotipi del femminile e del maschile sono una delle più significative espressioni
di quello che all’interno della riflessione femminista è stato definito l’ordine fallologocentrico, un sistema di rappresentazioni sostanzialmente teso a istituire e mantenere il
potere di un genere sull’altro e la deprivazione della possibilità per l’uno e per l’altro di
confrontarsi realisticamente e di ridefinirsi in una relazione di effettiva reciprocità.
Si tratta di uno dei sistemi di potere più pervasivi e subdoli, capace di esaltare
talmente gli uomini da far perdere loro la misura, anche rassicurante, della propria
finitudine e di idealizzare a tal punto le donne da sottrarre loro il diritto di raggiungere
la propria pienezza se non a rischio di divenire incomprensibili e terrificanti.
Il fallologocentrismo nega il femminile escludendo le donne dalle pratiche autorappresentative e finisce con questo per negare anche gli uomini, costringendoli a un
confronto tutto simbolico e perciò irreale e acritico. Come scrive Hélène Cixous “il
fallologocentrismo è il nemico: di tutti. Gli uomini rischiano di perdere conservandolo,
in maniera differente ma tanto seriamente che le donne”.1
Lavorare sugli stereotipi femminili e maschili significa avere ben chiaro che essi sono
la risultante e non il presupposto di un processo e che pertanto, in una prospettiva educativa, è più utile, piuttosto che contrastarli, andare alla ricerca del punto di intersezione individuale tra il sistema di potere che rappresentano e le potenzialità di ciascuna e
di ciascuno di sottrarsi ad un destino predefinito.
È l’opportunità di ogni donna e di ogni uomo di costruirsi in libertà. Non la libertà assoluta dell’individualismo ma la libertà relativa nella quale la nostra definizione “dipende”
dalla possibilità e dalla capacità delle altre e degli altri di accoglierla e di comprenderla.
Una prospettiva che non può essere altro che politico-culturale nella misura in cui la
forza prodotta dalla ridefinizione di ciascuna e di ciascuno costringe ogni altra e ogni
altro che la incontra a interrogarla e a interrogarsi.
Dal punto di vista metodologico, l’obiettivo prioritario di un progetto di educazione alla
differenza e alla relazione tra i generi è quello di porre l’attenzione sui processi di costruzione
1 Hélène Cixous, Sorties, in Emily Menlo Marks e Isabelle De Courtivron, New french feminism,
Schocken, New York 1981.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
del sistema-identità e di capire quali connessioni legano coercizioni espressive e personalità.
Non si tratta cioè di sostituire stereotipi con controstereotipi o di destrutturare gli stereotipi a
partire dai nostri convincimenti culturali quanto piuttosto di sostenere percorsi di costruzione di
identità consapevoli e progetti esistenziali sostenibili. Ancora, non si tratta di portare le persone
dove pensiamo sia “giusto” andare ma di accompagnarle là dove possono e vogliono andare.
Costruire un progetto educativo intorno a queste evidenze significa guidare a consapevolezza la domanda “chi sono io?” e, insieme, sostenere e incoraggiare un’attenzione a “chi
non siamo”, disponibile a porre a lei/lui, prima di ogni cosa, la domanda “chi sei tu?”.2
Significa cioè fare dell’esperienza della differenza e della relazione il nucleo di quei
sentimenti di unicità e di partecipazione capaci di salvarci al tempo stesso dal rischio
dell’uniformazione e da quello del solipsismo.
Il luogo della nascita del Male,
la fonte dell’infelicità è l’Uno
Hanna Arendt
L’uomo esiste solo in quanto coesiste,
è reale solo nell’opposizione io e tu.
Hans Urs von Balthasar
Maschi e femmine sono diversi
Per riconoscersi.
Alessandro
Lo stereotipo
I primi due lavori prodotti, nell’ambito del progetto Alla scoperta della differenza, uno con un gruppo di soli bambini, l’altro di sole bambine furono intitolati
dagli stessi partecipanti Noi forzuti e Il libro delle scarpette di cristallo.
Lo stereotipo, nel lavoro all’interno del grande gruppo, ha una iniziale funzione protettiva. Si tratta dell’utilizzo convenzionale di un’espressione che permette
di riconoscersi. Per molti e molte costituisce il punto di partenza reale senza l’affermazione del quale il tragitto che porta alla sua elaborazione non ha motivo di
cominciare. Lasciare allo stereotipo il tempo di esprimersi, senza contrastarlo immediatamente, significa essere disposti a riconoscere la persona così come sceglie
o è costretta a presentarsi e ad accettare di cominciare il lavoro da quell’innegabile
dato di fatto.
2 “Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della
condizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come essere distinto e unico tra uguali.
Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificamente umano deve
nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: ‘Chi sei?’”. Hanna
Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991.
Dossier 51
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
Io sono bella.
Sono una femmina perché ho i capelli lunghi
e perché certe volte a casa porto anche la
gonnellina.
Le femmine si riconoscono perché hanno
le collane di perle,
vanno al mercato e comprano le cose da
mangiare.
(Concetta, 5 anni, Il libro delle scarpette
di cristallo 1996 )
Io sono M., sono un maschio perché ho
due spade per uccidere gli altri uomini
cattivi. Ho una casa con l’oro per comprare delle armi e vicino alla casa c’è una
roccia. Ho anche un pugnale e quando ho
le spade mi chiamo guerriero.
(Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996 )
Mi piace essere maschio perché ci si può
difendere con le cose che insegnano ai
militari
(Stefano, 9 anni, Generi in famiglia 1997)
La mamma pensa che le femmine sono
importanti per l’uomo perché fanno da
mangiare, lavano, stirano e fanno i lavori
casalinghi
(Sabrina, 9 anni, Generi in famiglia 1997)
Io voglio essere un re per comandare.
(Enrico, 6 anni, La storia della forza tremante 1996)
Mi piace essere maschio perché abbiamo
schiave le donne
(Giuliano, 9 anni, Generi in famiglia 1997)
Questa sono io. A me piacciono i vestiti, mi
metto gli anelli e le collane. Le femmine
giocano con i bambolotti... Le femmine si
mettono i tacchi alti.
(Cristina, 5 anni, Il libro delle scarpette
di cristallo 1996)
In questa fase la funzione degli operatori è quella di permettere alle persone coinvolte di
dire di più. Spesso è attraverso un semplice “cioè?” oppure un “ho capito bene..?” che
essi inseriscono nella conversazione una sollecitazione a “dirla proprio tutta”. Si tratta di
una richiesta di chiarimento più che di una domanda nel senso forte del termine.
Una richiesta di chiarimento attenta a non aggiungere mai elementi che non siano
già contenuti nelle parole che la precedono.
- Noi facciamo degli altri giochi. Dei giochi che le femmine non fanno
perché le femmine giocano con la cucina...
Noi giochiamo alla lotta.
- Fate anche la lotta?
- Il gioco di pollo arrosto.
- Come funziona questo gioco?
- Eh, che bisogna dire pollo arrosto e diventi più forte.
- E cosa vuol dire diventare più forte?
- Vuol dire che hai più muscoli e sei più forte,
Sei forte vuol dire che spacchi le panche.
- E le femmine giocano a pollo arrosto?
- No perché sono magre e non sono forti”
Pietro, Lorenzo, 5 anni, Noi forzuti 1996
- Noi siamo delle femmine.
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- Che cosa vuol dire essere una femmina per voi?
- Perché siamo delle bambine.
- E come si fa a capire?
- Perché siamo nate bambine.
- Quando siete nate come hanno fatto
a capire che eravate delle bambine?
- Perché... eravamo nate col fiocco rosa.
- Siete venute fuori dalla pancia con
un fiocco rosa?
- No, ce l’hanno messo.
- Ma come hanno fatto a capire che
voi eravate delle femmine?
- Ci hanno visto col fiocco rosa.
(Michela, Marina, Cristina, 5 anni,
Il libro delle scarpette di cristallo, 1996)
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
Lo stereotipo sembra essere una modalità di espressione necessaria. Il suo ruolo protettivo
costituisce il mezzo attraverso il quale, in molti casi, inizia il parlare di sé. È come un tastare il terreno a partire dalle proprie sicurezze, quel metterle innanzi che necessariamente
precede la disponibilità ad “affidarsi” ad un ascoltatore, esterno o interno che sia.
Ma se si ha la pazienza di ascoltarlo, senza opporvisi ideologicamente, di farlo parlare
fino, per così dire, ad esaurirsi, allora accade che dal suo involucro comincino ad emergere voci estremamente più complesse di quanto il suo schematismo lasci trapelare:
Mi sono sentito fare e dire delle cose che
non avevo mai detto.
La cosa più difficile è la rabbia...
Perché a scuola se piangi non c’è conforto invece a casa c’è la mamma che mi consola.
(Antonio, 10 anni, Corpo aggressività
violenza 1997)
Perdi il contatto con le capacità del tuo
corpo, le conoscenze del tuo corpo, di
misurare le sue possibilità... Ci autolimitiamo. Esplorare lo spazio? Quale spazio?..
Mi sono ritrovata a farlo per la prima volta.
(Mara, 43 anni, L’unità divisa 1997)
Mi sono sentita della forza nel corpo.
La mia forza comandava.
(Zineb, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997)
L’uomo e la donna non hanno ruoli fissi,
ma la nostra abitudine ci suggeriva che la
donna doveva lavorare in casa e l’uomo
doveva lavorare fuori
(Vincenzo, 13 anni, Generi in famiglia 1997)
Ora, per quanto queste voci possano apparire tutt’altro che stereotipate, scinderle
dallo stereotipo, all’interno del quale, in un primo momento, si esprimono non è
per niente facile. Per non dire poi decisamente arbitrario.
Lo stereotipo rimane accanto all’espressione liberata dal suo stesso schematismo
e la fatica sta nello stare di fronte a questa contraddizione senza la presunzione di
volerla “risolvere”.
- Che cosa vuol dire per voi essere
una femmina?
- Essere una ballerina.
- Con la corona.
- Con l’anello.
- Gli orecchini.
- Il vestito.
- È una principessa.
- E cosa fa questa principessa? Come
si comporta?
- Bene.
- Che cosa vuol dire bene?
- Gli piace ballare.
- Gli piace cantare.
- La femmina c’ha anche un cuoricino.
Cioè?
- Così... d’amore... Vuol dire che vuole
bene.
- Ah, allora la femmina vuole bene?
- Vuole bene a tutti.
- ... È gentile.
- E cosa vuol dire essere gentile?
- Così, guarda, così. (Una da un bacio
all’altra).
- E buona.
- E buona? Come si fa ad essere buona?
- Si deve stare in silenzio.
- E ascoltare.
- Ascoltare chi?
- La maestra.
- Poi cosa fare?
Dossier 53
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
- La mamma, lavorare.
- Ubbidire sempre.
- Ubbidire al papà, ai fratelli, a tutti.
- Ma a voi piace questa cosa?
- Sì.
- Vi piace ubbidire o vorreste fare delle altre cose qualche volta?
- Io ubbidire..
- Io ubbidire..
- Io ubbidire..
- Sempre ubbidire?
- Sììì!!!
- Perché, è così bello ubbidire?
- Perché se no andiamo a letto senza cena.
- E a ubbidire come vi sentite?
- Bene.
(Cristina, Claudia, Manuela, Ester, Michela, 5 anni, Il libro delle scarpette di
cristallo 1996 )
- I maschi difendono le femmine.
- E come fanno a difenderle?
- Con la guerra.
- I maschi le salvano.
- Perché le femmine da sole non si
sanno salvare?
- Perché loro non hanno i muscoli e i maschi le difendono da...
- Chi vince... si prende una donna, invece
se vince il cattivo il buono va via e si
prende la sposa ma se la sposa vuole il catti-
vo, la sposa si prende l’altro e se, la sposa,
vince il buono non vuole il buono prende
il cattivo.
(Lorenzo, Pietro, 5 anni, Noi forzuti
1996)
- E i maschi?
- I maschi sono cattivi.
- Ah, sono cattivi?
- Un pochino.
- Cioè spiegatemi.
- Eh, fanno un po’ gli sciocchini.
- Fanno i dispetti, danno i calci.
- I pugni.
- Le sberle, gli schiaffi.
- E voi no?
- No, noi non gli facciamo niente, ma
dopo glieli ridiamo indietro.
Perché loro ci hanno fatto male a noi.
(Elena, Martina, 5 anni, Il libro delle
scarpette di cristallo 1996)
- A noi piace avere un bimbo nella pancia.
- A me piacerebbe avere un bimbo nella
pancia.
- Anche a me perché lo vorrei tenere tutto
per me...
- ... Anch’io e dargli il nome, il nome Giovanni
- A me piace molto averlo...
- Però farà un po’ male alla pancia...
(Pietro, Davide, Lorenzo, 5 anni, Noi
forzuti 1996)
La funzione della domanda: quando e come porla?
Arriva a questo punto il momento in cui è possibile porre una domanda.
La domanda va posta in modo tale da non impedire alla contraddizione di esprimersi ma anzi di rendersi manifesta e di essere compresa nel suo carattere di “indizio”. Siamo quello che diciamo di essere ma c’è anche dell’altro.
E che cosa è questo altro?
La domanda serve ad evidenziare le tracce da seguire per poter progredire.
Ma sebbene inviti a seguire, non chiede un cammino passivo.
Essa ha lo scopo di attrarre l’attenzione su quel punto di non connessione (l’indizio, la traccia) che è inizio di comprensione.
Comprensione letteralmente significa “tenere insieme cose diverse tra loro”, “ab-
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
bracciare”. È il punto nel quale i forzuti dicono di desiderare un figlio, la sposa
salvata dal buono decide di andare con il cattivo e le ballerine dalle scarpette di
cristallo restituiscono, per sana legge del taglione, i calci ricevuti.
È la scoperta della differenza a partire da sé e l’inizio di un percorso (l’acquisizione
di un’identità) che chiede necessariamente di accogliere la propria contraddizione.
- Io ho sempre saputo fin da piccola che le femmine maturano prima, che capiscono di più,
che sanno com’è la vita e il mondo.
- Perché i maschi quando vogliono una
cosa insistono sempre.
- ... Noi femmine invece non ci arrabbiamo mai...
- ... Le femmine esprimono solo dolcezza...
- Le femmine però non mi sembra
che siano solo dolci...
- Certe volte quando sono al limite devono
sfogarsi
e diventano aggressive.
- Siete sicure che solo quando sono
al limite?
- Però anche quando siamo a metà.
- Chi è stanca di essere dolce?
- Io, vorrei essere amara, cattiva...
- Quando mi arrabbio sento una cosa
dentro di me,
tipo un diavolo che ti dice:
Dai sfogati, dai un calcio a quell’altro...
Lo sento nel cuore e nella mente.
(Elena, Ave, Marta, 9 anni, Corpo aggressività violenza 1998)
- Io sono felice quando lei mi prende e poi
mi lascia perché ha il diritto di stare anche
con le altre e non deve stare solo con me.
- Ma sei felice?
- Sì.
- Io non ti ho visto tante volte felice.
(Fa il gesto così così).
- Così così, cioè cosa vuol dire?
- Un po’ mi sento un po’ male perché credo
che non sia più mia amica e però mi sento
anche un po’ felice perché ha il diritto di
andare anche con le altre.
- E la riesci a sopportare questa cosa?
- Così così.
- E quando lei ti lascia tu che cosa fai?
- Io mi tengo qua (indica la gola) il pianto.
- Dove qua, nella gola?
- Sì.
- Ti viene il magone?
- Eh sì, il magone.
- E non lo vuoi buttare fuori?
- No .
- E perché?
- Perché mi vergogno.
- Di chi ti vergogni?
- Perché io sono già sono un po’ grande
allora mi vergogno di piangere.
- Perché piangere non si può da grande?
- Sì, si può ma mi vergogno.
- E... Quel pianto com’è?
- È un po’ sorridente e un po’ piange.
- E come lo definiresti quel pianto se
gli dovessimo dare un aggettivo? Ti
viene da piangere perché sei?
- Sono un po’ contenta e un po’... non contenta.
- Cioè, non contenta cosa?
- Perché credo che non mi voglia più
bene.
- E quindi che cosa hai verso di lei?
- Un po’ di rabbia.
(Marta, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)
- Se uno è grosso fino al cielo il drago è
meno forte. (M)
- ...
- A voi piacerebbe essere grandi?
- Sì. (M,F)
Dossier 55
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
- Perché se siete grandi cosa avete?
- La forza. (M)
- E con la forza cosa si può fare?
- Tutto. (M)
- E invece essere piccoli cosa vuol
dire?
- Vuol dire che non si riesce a fare niente e
neanche qualcos’altro. (F)
- E come si sente una cosa piccola?
- Si sente un po’ scomoda. (F)
- Cioè cosa vuol dire scomoda?
- Vuol dire che vuol diventare grande. (F)
- E quindi?
- Si sente un po’ così cosà. (F)
- Cioè?
- Male. (F)
- Perché?
- Perché essere piccoli non piace. (F)
- È una cosa che fa paura essere piccoli? A chi?
- Io. (M).
(Giacomo, Michele, Giada, Fiorenza,
Sara, 5 anni, Il libro stregato 1997)
Ma non sono sempre gli operatori a porre la domanda. Avviene infatti anche che essa
provenga dalla parte cui si presumeva di indirizzarla. Si tratta di domanda nel senso forte di cui si è detto prima. Domanda capace di cogliere il punto di crisi e di riproporlo,
in questo caso all’operatore, come traccia da seguire nel suo percorso di approfondimento. (Il neretto indica, in questo caso, la voce dei bambini e delle bambine).
- La vera domanda è cos’è la paura? (M)
- Eh... Cos’è la paura?
- Eh, io non lo so. Io me lo chiedo,
ma non so la risposta... (M)
- Cos’è la paura per te? (M)
- Cos’è la paura? È un bel problema in effetti.
- Noi l’abbiamo detto, però sei te che
non hai detto niente. (M)
- Hai ragione.
- Adesso te fai la bimba, va bene? (F)
- E noi siamo sedici maestri. (M)
- Allora cos’è la paura... Infatti questa domanda che tu mi hai fatto mi ha molto
colpita. Se devo dire la verità non è che poi io
sappia tanto rispondere a questa domanda.
- Nessuno lo sa. (M)”.
(Fiamma, Beatrice, Giovanni, Luca, 7 anni,
I nostri mostri oscuri 1997)
- I maschi hanno un pisello e le femmine una pisella...
- Il pisello e la pisella sono segni della diversità e così nella scuola siamo partiti da
quello per capire cosa vuol dire essere diversi o simili...
- E cosa vuol dire buono o cattivo? Perché per la gente buono e cattivo sono
due cose diverse ma non è così.
(Marta, 9 anni, Conversazioni 1997)
Comincia a manifestarsi una posizione
Se la domanda è una domanda reale e non preoccupata di trovare conferme al suo
porsi, anzitutto in chi la esplicita, se è posta al momento giusto, se infine ha la forza di
accettare quello che non può a questo punto definirsi come una mera risposta ma come
una vera e propria posizione, allora lo stereotipo non ha più ragione di r-esistere.
La concretezza della propria storia affiora in tutta la sua complessità e l’esperienza di sé in
quanto maschi e femmine comincia a mostrarsi in tutta la sua contraddittoria vitalità.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
Parametri di convenzionale valutazione delle posizioni femminile e maschile risultano a quel punto scardinati da espressioni realmente variegate e tutt’altro che
confuse. Esse dimostrano come l’acquisizione di un’identità avvenga nella messa in
relazione di forze tra loro contrastanti, differenti, nell’assunzione della complessità,
della contraddizione che siamo.
- E allora com’è? Ce l’aveva paura o no?
- Per me la paura ce l’aveva ma non la usava.
- Cosa vuol dire non usare la paura?
- Di non essere coraggiosi.
- La paura l’aveva ma non la usava,
cioè? Prova a spiegarci meglio... Che
cosa vuol dire che non la usava?
- Che... non mi viene la parola.
- Cosa intendi tu per usarla?
- Se la uso ho paura, se non la uso vuol dire
che non ho paura però ce l’ho la paura.
- Ho capito, allora se la usi vuol dire
che hai paura e hai paura, invece...
Invece se non la usi vuol dire che ce l’ho
dentro di me però non la uso, la tengo lì
dentro a fare niente
- Quindi che cosa vuol dire? Uno dentro di lui ha paura... vuol dire una cosa
tipo che fa finta di non averla?
- Eh, sì. Lui la paura la pensa solo, però
non fa: “Aiuto!”, sta zitto.
(Giovanni, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1998)
- Io invece quando parlo che poi dico
delle cose che a mia mamma la fanno ridere
lei è gentile e poi dice: Eh quando sarai grande
non li devi fare questi discorsi.
E poi quando la faccio arrabbiare
che tante volte gli faccio... (agita una mano)
ma non gliela do...:
“Mamma, la vedi questa mano?..”,
allora lei mi dice:
Eh guarda che ce ne vuole ancora di tem-
po per diventare grandi...
Perché io faccio così se no gli do una sberla...
- La vorresti picchiare, le vorresti dare
una sberla?
- Sì e lì quando mia mamma mi picchia
mi sento grande
e invece quando sono buona mi sento piccola
(Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)
Mi piace essere maschio perché non devo
partorire mai.
Non mi piace essere maschio
quando si deve andare con la banda di
soli uomini per esempio in guerra o qualcos’altro
(Salvatore, 9 anni, Generi in famiglia 1997)
L’aggressività la tiro fuori con molta facilità,
non altrettanto l’intimità. Mi sento più
sicura quando sono aggressiva. Sono diventata così anche nel rapporto sentimentale.
Voglio dominare io, condurre il gioco io...
Faccio fatica a toccare le persone e non mi
piace essere toccata.
(Monica, 35 anni, L’unità divisa 1998)
Io quando penso a essere sempre e non
guardo niente,
dico: Ho coraggio, comando tutto,
poi dopo... si guarda attorno
e pensa che non può comandare tutto.
(Flavio, 7 anni, I nostri mostri oscuri 1998)
Le cose sono molto intrecciate.
(Francesca, 8 anni, La forza dell’amore
rapito 1996)
Comprendere la complessità
Ora se la complessità è percepita anzitutto internamente, e se il lavoro educativo ne sollecita l’elaborazione in quanto punto di forza, la persona che la esperimenta, la riconosce
Dossier 57
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
e la nomina diventa anche consapevole di avere in sé gli strumenti che le consentono di
rapportarsi all’altro, all’altra; di sostenere la sua presenza senza tradire la propria.
Paura e desiderio, disponibilità e difesa, forza e debolezza sono allora comprese in
un ordine. L’identità le contiene e le esprime senza esserne sopraffatta ma divenendo piuttosto in tal senso veicolo di reciprocità.
Mio babbo dice che per litigare bisogna
essere sempre in due
(Gabriele, 9 anni, Generi in famiglia 1996)
Ho provato tristezza, paura, felicezza, rabbia.
(Filippo, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997)
Maschi e femmine sono diversi per riconoscersi
(Alessandro, 11 anni, Merlo o merla? 1998)
Quando spingevo l’altro sentivo
che qualcuno mi desse tutta la forza
per spingere l’altro,
praticamente un sentimento che non avevo mai sentito.
Quando l’altro mi spingeva io sentivo
un coraggio meraviglioso dentro di me
che cercava di mantenermi ferma.
(Zineb, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997)
Io la odio e la vorrei ammazzare, distruggere.
Sarei un po’ triste se la distruggo ma sarei felice.
Quando faccio così mi sento aggressiva e
dopo mi sento bene.
(Olga, 10 anni, Corpo aggressività violenza 1997)
- Quando hai paura cosa fai?
- Sono così (trema tutto).
- Tremi allora.
- Ma dopo sento il cuore che mi dice: “Non
tremare, non tremare che tu sei forte”.
Allora ho smesso di tremare e dopo sono
stato fermo.
(Marco, 7 anni, La paura ti spaventa e
poi scappa via 1997)
- ... Questi personaggi provano dei sentimenti non sempre uguali... E a voi vi
succede di essere anche così diversi,
di essere buoni però anche cattivi, di
essere tristi però anche arrabbiati...
Di volere bene e...
- Come un divorzio?
- Cioè?
- Ti innamori e poi ti lasci.
(Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)
- Il momento della divisione è il momento
della liberazione.
Ricomincio a stare da sola... sto bene.
- ... Si stava bene insieme... Da sola continuavo a pensare come si stava bene insieme
- Io dico sempre che da sola sto bene ma
non è vero.
Mento a me stessa.
(Serena, Angelica, Mara, 31, 40, 43
anni, L’unità divisa 1997)
L’incontro
Ed è attraverso la consapevolezza del proprio essere “fatti di parti” che arriva ad
esprimersi l’esigenza dell’incontro.
Si tratta dell’aspirazione ad una pienezza, ad un ricongiungimento profondo, intimo
cui l’“anelito amoroso”, fin dalle sue prime manifestazioni, cerca in qualche modo di
dare voce. È una voce che ad ascoltarla bene, non separa mai interno ed esterno ma
piuttosto continuamente collega e insieme contiene quelli che il nostro linguaggio
dualistico altro non riesce a definire che “dentro” e, separatamente, “fuori”.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
C’era un’oca e un oco.
Questo oco andava a giocare con la mucca.
Una volta la mucca gli ha dato una spinta con il muso
che dopo l’oco è andato sotto la ruota del
trattore.
Allora dopo la donna, l’oca,
lo cercava sempre però non l’ha più trovato
e così per il dispiacere che lui era morto
non ha più covato le uova
quindi non ha fatto più figli.
(Pietro, 7 anni, Merlo o merla? 1998)
- L’amore non può essere solo baciare, può
essere anche volersi bene che non ci si
bacia... Uno vuole bene a una persona
però non la bacia.
- Però l’amore non vuol dire proprio tra
maschio e femmina che... Ad esempio io
voglio bene all’I., io voglio bene alla C., ad
esempio io voglio bene alla G., ma non ci
amiamo, cioè ci amiamo però...
(Cecilia, Giulia, 8 anni, L’amore indimenticabile di un’unità 1998)
Dove sei mia unica figlia? Tu mio dolce
germoglio?
Rispondi a tua madre che ti cerca e ti cerca;
ti cercherò fin in capo al mondo pur di
trovarti, so che sei da qualche parte, rispondi...
Ti cercherò fin in capo al mondo.
Chiunque l’avrà presa me la pagherà cara,
anzi carissima.
Fino al tuo ritorno mi circonderanno dolore, rabbia e tristezza.
Torna o mio germoglio, torna o mia unica
figlia, torna, torna da tua madre.
(Marta, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1996)
- Un giorno in piscina siamo entrati nello
spogliatoio delle femmine e le abbiamo
viste tutte nude.
- Erano bellissime.
(Michele, Lorenzo, 7 anni, Corpo aggressività violenza 1997)
Quando ho incontrato l’altra un po’ tremavo ma non era paura, era imbarazzo.
Quando lei se n’è andata ho sentito una
sensazione di solitudine.
(Armanda, 56 anni, L’unità divisa 1997)
- Io prima di oggi non ci ero mai andato
a pensare,
non mi ero mai fermato a pensare da dove
deriva l’amore... (M)
- Gli studiosi scientifici lo sanno come è
nato l’uomo,
però dell’amore lasciano immaginare
perché non lo sanno... (M)
- Sanno come si fa, ma non sanno da cosa
viene... (M)
- Noi bambini non è che ce ne intendiamo
tanto dell’amore... (M)
- Perché cosa bisogna avere per intendersi dell’amore? (F)
- Esperienza. (M)
- ... Poi a scuola le nostre maestre ci dicono
che noi siamo troppo piccoli per amare. (F)
- E voi cosa ne pensate? (F)
- Non è giusto... (F).
(Arianna, Ruggero, Erica, Matteo, 8-10
anni, Uguali ma diversi 1998)
- A. e A. sono innamorati.
- Ah, siete innamorati? E secondo te
Ave che cos’è l’amore? Prima hai detto
che è una cosa bella?
- Sì perché sei felice, perché poi se non ti sposi, non ti innamori sei sola, non sai cosa
fare...
- Per me è un sentimento di emozione.
(Ave, 8 anni, La forza dell’amore rapito 1997)
- Perché è più forte di loro...
- Che cosa è più forte di loro?
- L’amore.
- E cioè cosa vuol dire?
- Vuol dire che non si riescono... Come si dice?
- ... A separare.
(Edoardo, Tommaso, 6 anni, La storia)
della forza tremante 1996)
Dossier 59
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/l’interrogazione_dello_stereotipo
Unicità e unità
La definizione, pur anche stereotipata, del maschile e del femminile è quel punto di
partenza che permette di sottolineare quella differenza che è sottesa a tutte le altre.
La funzione di questo lavoro è quella di sollecitare chi la riconosce a compiere un percorso. Per
suo tramite, la differenza stessa dal suo grottesco stigmatismo, dimettendo progressivamente
l’abito della contrapposizione, impara a scoprirsi anche nell’identità. È il passaggio dall’identità
dualistica che comprende in sé schematicamente polarizzati maschile e femminile all’identità
integrata quella che così mirabilmente Simone Weil esprime nei suoi Commenti a Platone:
La nostra sventura è di essere in stato di dualità... La separazione dei sessi non è che un’immagine sensibile di questo stato di dualità... che è la nostra sventura è il taglio, la frattura per cui
colui che ama è altro da ciò che è amato, colui che conosce è altro da ciò che è conosciuto, la
materia dell’azione è altra da colui che agisce; è la separazione tra soggetto e oggetto.
L’unione è lo stato nel quale soggetto e oggetto sono una sola e medesima cosa, è lo stato di colui
che conosce se stesso e ama se stesso. (Simone Weil, Intuitions pré-chrétiennes, 1941-1942).
Ora, tornando per concludere ai testi riportati in apertura, ritengo utile esprimere
qualche considerazione che ne renda forse più comprensibile la citazione.
L’Uno di Hanna Arendt nulla ha a che fare con l’unità di cui scrive Simone Weil. L’unità è
la ricongiunzione a seguito della separazione, l’Uno è l’indifferenziato che nega la pluralità.
Simone Weil parla dell’unione ma di quest’unione continua a nominare le componenti. La
sola e medesima cosa di soggetto e oggetto potremmo anche definirla l’identità che accoglie
e ama la propria complessità e che per questo è pronta ad accogliere ed amare ogni alterità.
In questi termini essa ricompone alfine la differenza senza negarne l’esistenza, senza
dimenticare che è la via attraverso la quale è divenuta tale. L’unità non confonde; la
separazione è assorbita ma non ne viene cancellata la memoria.
L’Uno concede invece l’unica possibilità della subordinazione, rimarcando alfine la
differenza nell’unica forma della polarizzazione.
*Specializzata in antropologia di genere. Lavora dal 1993 per organismi di Pari Opportunità
occupandosi di formazione, orientamento al lavoro, mediazione linguistica e culturale e,
in particolare, di progetti di educazione al confronto tra generi e culture.
Bibliografia
Arendt H., Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1997.
Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1998.
Braidotti R. e Butler J., Femminismo, anche con altro nome…, in Bellagamba A., Di Cori P. e
Braidotti R., Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender
theories, in Il filo di Arianna (a cura di), La Differenza non sia un fiore di serra, Angeli, Milano 1991.
Butler J., Corpi che contano. I limiti discorsivi del ‘sesso’, Feltrinelli, Milano 1997.
Cigarini L., La politica del desiderio, Pratiche Editrice, Parma 1995.
Cixous H., Sorties, in Menlo Marks E. e De Courtivron I., New french feminism, Schocken, New York 1981.
Irigaray L., Chi sono io? Chi sei tu?, Biblioteca di Casalmaggiore, Casalmaggiore 1999.
Restaino F. e Cavarero A., Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola
L’accoglienza e l’integrazione
nelle scuole degli alunni
istituzionalizzati e adottati
La scuola, oggi più che in passato, è chiamata a dare risposte sempre più appropriate
a richieste educative nuove, talvolta anche insospettabili e per le quali spesso si trova
impreparata. Tuttavia, essa, pur di non venire mai meno ai suoi compiti istituzionali,
etici e sociali, una volta intercettato il nuovo bisogno educativo, si organizza per conoscerlo, interpretarlo e soddisfarlo. E’ proprio in questo ambito della pedagogia speciale
che si colloca l’esperienza che sto conducendo nella provincia di Caltanissetta.
Carmelo Benfante Picogna*
Tra i tanti aspetti critici della quotidianità scolastica, quello dell’accoglienza degli alunni destinatari di provvedimenti giudiziari, personali o di riflesso, e adottati
è uno dei meno codificati.
Nel primo caso si tratta di alunni che, per svariatissimi motivi riguardanti loro
personalmente o le famiglie di provenienza, sono allontanati, momentaneamente o
definitivamente, dal loro ambiente di appartenenza per essere affidati ai servizi sociali o comunità penali di luoghi più o meno lontani dalla loro residenza abituale
mentre nel secondo caso si tratta di alunni adottati o in affido eterofamiliale.
In entrambi i casi comunque siamo di fronte a bambini o ragazzi con bisogni speciali.
E’ ovvio, e su ciò siamo tutti d’accordo, che questi bambini o ragazzi, ancora soggetti all’obbligo scolastico, devono frequentare la scuola. Quello che invece è impensabile
concepire, ma ahimè è esattamente quello che avviene, è il fatto che questi bambini da
un giorno all’altro (e non è un modo di dire), si vedono catapultati da una famiglia, o
casa-famiglia, da una scuola, da una città ad un istituto, ad un’altra scuola ad un’altra
città. Già basta questo per comprendere a quali turbamenti siano sottoposti!
L’avere allontanato il soggetto da una situazione manifestamente o potenzialmente
patologica va giustamente interpretato come un fatto positivo oltre che giuridicamente
doveroso, ma l’aver o il non aver considerato adeguatamente l’accoglienza nella nuova
realtà è un fattore molto determinante per il recupero della serenità del bambino/ragazzo.
Nelle scuole in cui il flusso in entrata e uscita di questi alunni è molto alto il problema sta
evidenziando implicazioni socio-educative e professionali molto rilevanti. Da una parte vi
è il dovere del rispetto delle norme al quale nessuno vuole sottrarsi e quello etico-sociale
connaturato con la missione della scuola, dall’altra la difficoltà oggettiva a dare seguito
a queste istanze senza gli strumenti che richiederebbero. Si tratta, dunque, di trovare un
punto d’incontro tra le diverse esigenze, giudiziarie, sociali, scolastiche e psico-pedagogiche
per far si che la presa in carico dell’alunno de quo avvenga in modo sinergico, tempestivo
e con la massima attenzione al suo già fragile sistema psicologico. Per far questo occorre
costruire un know how adeguato e non demandato solo ed esclusivamente alla scuola.
Dossier 61
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/L’accoglienza_e_l’integrazione_nelle_scuole
Ecco, dunque, il protocollo d’intesa seguito ad un anno di lavoro presso l’Ufficio
Scolastico di Caltanissetta. Dopo aver monitorato il fenomeno nelle scuole ed avere
accertato che oltre cento alunni si trovano nelle condizioni appena descritte abbiamo
costituito un gruppo di lavoro istituzionale, affiancato successivamente da quello
interistituzionale (Prefettura, Procura della Repubblica e Tribunale per i minorenni,
Istituto penale minorile, case-famiglia, Provincia, Questura, AUSL) per capire come
ciascuna Istituzione opera nella gestione della propria parte del caso. Ci siamo resi
immediatamente conto che occorrono maggiore comunicazione, sinergia ma soprattutto una regia unica che, pur rispettando la specificità (e nel caso degli atti dell’Autorità Giudiziaria il massimo riserbo) degli interventi di ciascuna Istituzione, affronti
la gestione dell’alunno adottato o istituzionalizzato sin dal primo atto.
Il protocollo è stato siglato lo scorso 12 dicembre presso i locali dell’Ufficio
Scolastico di Caltanissetta ed erano presenti oltre il Dirigente, il Prefetto, il Presidente della Provincia, Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i
minorenni, il Presidente del Tribunale per i minorenni, il Questore, il Direttore
Amministrativo dell’AUSL2 e tutto il gruppo di progetto che ha lavorato nella
definizione del testo del protocollo.
Già il prossimo mese di gennaio si partirà con la formazione del personale scolastico e degli altri operatori appartenenti alle amministrazioni partners.
Di seguito il testo di alcuni degli articoli più significativi del Protocollo siglato:
PROTOCOLLO D’INTESA TRA
UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO-PREFETTURA -CALTANISSETTA
PROVINCIA REGIONALE - CALTANISSETTA
PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI
TRIBUNALE PER I MINORENNI -CALTANISSETTA;
QUESTURA DI CALTANISSETTA -UFFICIO MINORI;
AUSL 2 DI CALTANISSETTA -SERVIZIO DI PSICOLOGIA- U. O. ADOZIONI
UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE CALTANISSETTA;
PREMESSA
Il diritto allo studio rappresenta per tutti gli alunni l’affermazione di un principio Costituzionale ineludibile il cui esercizio non può e non deve essere messo in discussione né tantomeno
minato da problemi di comunicazione e integrazione in seno alle Istituzioni. In particolare,
l’inserimento e l’integrazione dei minori adottati o comunque provenienti da altri Paesi e/o
di differenti culture nonché dei minori seguiti dagli Uffici Giudiziari Minorili rappresenta un
passaggio importante e delicato, che richiede la piena partecipazione delle Istituzioni firmatarie del presente Protocollo. Infatti, la scuola, che in questi momenti così particolari della vita
del bambino costituisce un importante punto di riferimento, da sola rischierebbe di fallire in
questo intento se non adeguatamente supportata dalle altre Istituzioni. E’ nella scuola, infatti, che saranno affrontate le necessità connesse alle specifiche condizioni dei predetti alunni,
anche con riferimento alle diverse fasi dello sviluppo e della crescita di essi.
Diviene, pertanto, necessario individuare dei punti di convergenza, di incontro programmatico
e di distribuzione-integrazione dei compiti tra i diversi Enti e le diverse Istituzioni territoriali.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/L’accoglienza_e_l’integrazione_nelle_scuole
Articolo 1 – Oggetto ed obiettivi
L’UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE (NUCLEO AUTONOMIA SCOLASTICASUPPORTO ALLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE) per assicurare, ottimizzare e coordinare, con le istituzioni scolastiche, di prevenzione e giudiziarie, sanitarie e con il territorio, i
servizi da erogare e le azioni da intraprendere a favore degli alunni, istituisce un Tavolo Tecnico
permanente per esaminare e gestire in modo concertato le problematiche che riguardano la
loro accoglienza, integrazione ed il loro esercizio completo del diritto allo studio; la formazione
e l’aggiornamento del personale scolastico (Dirigente, Docente, ATA), giudiziario, sanitario,
degli Enti Locali e delle Forze dell’ordine. Ciascun soggetto nel cooperare alla programmazione
e alle attività comuni è chiamato a rendere effettivi gli scambi con altri soggetti, le competenze,
il linguaggio e il sapere specifico; a ciascun soggetto dovrà comunque essere offerta l’opportunità di porsi in relazione, nel rispetto delle diverse identità.La collaborazione tra le Istituzioni
sottoscrittrici sarà realizzata tenendo conto di tutti gli elementi connessi all’analisi dei bisogni,
alle risposte da offrire e alla necessaria mutevolezza delle stesse in relazione allo stato di salute e
allo sviluppo del percorso formativo del singolo individuo.
Articolo 2 – Tavolo Tecnico
Il Tavolo Tecnico, che ha sede presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta, è composto da un rappresentante per ciascuna Istituzione sottoscrittrice designato dai rappresentanti legali di ciascuna delle Parti.
Il Tavolo Tecnico dovrà:
• Sovrintendere alla corretta applicazione del Protocollo d’intesa;
• Formulare le proposte adeguate ad ogni singola situazione e proporle agli organi competenti presso ciascuna delle Istituzioni firmatarie;
• Coordinare l’attività degli interventi;
• Promuovere la formazione, l’aggiornamento, la ricerca, il monitoraggio, il coordinamento,
occupandosi della supervisione;
• Svolgere attività permanente di osservatorio sull’impatto delle decisioni;
• Evidenziare le aree di criticità da portare all’attenzione di altri tavoli e organismi che operano nel settore;
• Redigere una relazione annuale delle attività da presentare ai Legali Rappresentanti delle
singole Istituzioni sottoscrittrici;
• Coordinare preventivamente l’inserimento degli alunni attraverso opportuni contatti con
gli operatori scolastici.
Il Tavolo Tecnico si riunisce ogni tre mesi nei locali dell’Ufficio Scolastico Provinciale.
Articolo 3 – Formazione
Le Parti si impegnano, ciascuna per la loro competenza, a fornire proprio personale per
progettare, realizzare e supportare percorsi formativi rivolti agli operatori delle istituzioni
aderenti al Protocollo e ai genitori.
*Insegnante, si occupa di supporto all’Autonomia Scolastica
presso l’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta
Dossier 63
Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola
Dalla parte della costituzione
Parlerò da uomo di scuola, che nella scuola ha sempre profondamente creduto,
che la scuola non ha mai considerato un mestiere e che, se gli fosse dato di rinascere, tornerebbe a fare il professore
Alcide Malagugini*
Non ripeterò, o almeno mi sforzerò di non ripetere, quanto hanno detto altri
colleghi, specialmente l’onorevole Binni, e poco fa l’onorevole Codignola, con le
cui conclusioni sostanzialmente concordo, anche se da essi qualche sfumatura mi
divide: di forma più che altro e di intonazione. Non lo ripeterò, anzitutto per
ragioni di buon gusto e di economia di tempo, ma anche perché essi sono giovani
e filosofi, ed io, ahimé, giovane più non sono e con la filosofia, intesa almeno nel
senso dottrinale e scientifico della parola, non ho mai avuto, lo confesso e non me
ne vanto, una soverchia dimestichezza.
Non disturberò, quindi, le ombre magnanime dei grandi pensatori antichi e
moderni, ma parlerò praticamente da uomo di scuola, che nella scuola ha sempre
profondamente creduto, che la scuola non ha mai considerato un mestiere, che alla
scuola ha dato - perdonatemi l’espressione anche se può sembrare immodesta – il
meglio del suo intelletto e del suo cuore; e che, se gli fosse dato di rinascere, tornerebbe a fare il professore.
Curioso destino il mio, che mi consente di parlare di questo argomento alla
luce di una esperienza multiforme, talvolta non lieta, ma sempre istruttiva. Infatti,
ho iniziato la mia carriera nelle scuole di Stato; estromessone per incompatibilità
con le direttive politiche del governo fascista, ho insegnato per parecchio tempo
in un vecchio istituto privato, ora scomparso, che chiamerò laico tanto per intenderci, anche se diretto da una figura ascetica di apostolo della scuola e della fede,
Francesco Grassi; che nessuno o quasi di voi avrà sentito nominare, ma che fu
scienziato illustre e maestro incomparabile, di una vita così illibata, di una religiosità così alta e pura, da farmi pensare, colleghi democristiani, che la santità non
possa avere caratteristiche o aspetto diversi dal suo. Poi fu la volta di un istituto
religioso parificato, fra i più seri e accreditati; infine ebbi l’audacia di dar vita a una
scuola mia personale, di carattere strettamente privato, senza alcun riconoscimento
legale, vissuta, come potete immaginare, piuttosto pericolosamente, ma che resistette tenace fino a quando, incalzando gli eventi, la maggior parte dei docenti e
dei discepoli prese la via della congiura o della montagna. Scuola di Stato, scuola
privata aconfessionale, istituto religioso parificato, mi ebbero successivamente insegnante; una scuola personale, non legalmente riconosciuta, assolutamente libera,
mi ebbe direttore e maestro. E fu - ve lo assicuro - osservatorio assai interessante.
Nella scuola di stato pre-fascista non tutto, è vero, andava nel migliore dei modi;
ma si studiava sul serio e i professori, pur con stipendi modesti, compivano nobilmente il loro dovere. E i giovani crescevano moralmente sani e affrontavano gli
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/scuola/dalla_parte_della_costituzione
uffici e le libere professioni sufficientemente preparati. Una prima scossa la scuola
subì in occasione della guerra 1915-1918; non tanto durante il suo svolgimento,
quanto dopo la sua conclusione. Era il collasso inevitabile dopo lo sforzo immane.
Poi la lotta politica assunse forme sempre più aspre, ma la scuola non ne risentì, se
non in una minore severità di giudizio resa inevitabile dalla necessità di sanare lo
sconvolgimento prodotto dalla guerra. Allora le scuole private non erano molte;
pochissime, come adesso del resto, le scuole pareggiate; e la parola «parificazione»
non era stata ancora inventata o, per lo meno, non era stata introdotta nel vocabolario della legislazione scolastica. Con il fascismo cominciarono, ed era naturale, i
guai. E se è vero che la scuola oppose per qualche tempo una certa resistenza, che
torna a suo onore, una certa resistenza passiva al nuovo ordine che si proclamava
di voler instaurare in tutti i settori della vita nazionale, non si può d’altra parte
negare che dopo il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 ogni resistenza fu infranta
e si passò, lentamente ma inesorabilmente, alle abdicazioni e alle prostituzioni,
attraverso le quali la scuola perdette ogni suo carattere educativo per diventare
strumento di dominio e preparatrice di servi ignoranti e presuntuosi. La scuola, ho
detto, tutta la scuola con poche apprezzabili eccezioni e senza sensibili distinzioni.
Tutta la scuola: pubblica e privata, parificata e non parificata, dal cosiddetto ordine
elementare all’ordine medio o secondario, all’ordine universitario. [...] A che cosa
è servita la scuola privata, la scuola libera, la scuola orientata, come direbbe l’onorevole Colonnetti; quale compito diverso dalla statale ha essa assolto in regime di
servitù politica [...]? E quali posizioni minacciate deve essa ora difendere in regime
democratico se la scuola di Stato è (non sono parole mie, sono parole dell’onorevole Moro che traggo dalla sua relazione) se la scuola di Stato è la scuola di tutti a
servizio di tutti?
D’accordo con lui, che essa deve «meritare la fiducia di tutti i cittadini i quali
possono conformarla come meglio credono in relazione ai loro orientamenti spirituali e morali».
D’accordissimo che essa deve «esprimere senza falsificazione la profonda volontà del popolo italiano e deve essere tale da meritare la fiducia delle famiglie ». E
come può egli temere che avvenga altrimenti se la scuola di Stato sarà organizzata
dallo Stato attraverso le leggi studiate ed emanate dal Parlamento, libera espressione di quella profonda volontà del popolo italiano che, se non erriamo, è tutt’uno
con le famiglie di cui deve meritare la fiducia? Perché la scuola esprima la volontà
del popolo e meriti la fiducia delle famiglie, creda a me l’onorevole Moro, credano
a me i colleghi della Democrazia Cristiana, non occorre tanto che vi si insegni il
catechismo [...] ma è necessario che vi si spieghino seriamente e intelligentemente
le lettere e le scienze costituenti il programma dei singoli corsi, che si coltivino con
amore le attitudini naturali dei figlioli, che si infonda loro entusiasmo per tutto ciò
che è bello, che è vero, che è buono (io rimango fedele a questo vecchio trinomio
anche se a tal uno sembrerà che odori di naftalina); occorre in una parola che l’insegnante sia un maestro nel senso più nobile e più completo della parola. Ed eccoci
al punto per me fondamentale.
Dossier 65
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L’onorevole Colonnetti, iniziando il suo discorso, ha detto che il problema della scuola è un problema di libertà. Ebbene, a costo di passare per semplicista, io
affermo che il problema della scuola è un problema di insegnanti o il problema
degli insegnanti. Assicurare agli insegnanti condizioni economiche, giuridiche e
morali dignitose che consentano loro non solo di vivere materialmente, ma di
integrare ed aggiornare continuamente la loro cultura e la loro preparazione: ecco
il dovere dello Stato. E poi essere inesorabile nel pretendere che essi facciano tutto
intero il loro dovere, eliminando senza pietà gli inetti e gli indegni. Un problema,
lo so, che non si risolve in poco tempo; occorreranno degli anni, bisognerà a poco
a poco rinnovare i quadri, ché i vecchi irrugginiscono o scompaiono e i giovani,
anche se colti e preparati a insegnare, non sono sempre maturi per essere degli educatori, dato il clima in cui son nati e in cui si sono formati. Ma una cosa è certa:
che lo Stato dovrà concentrare ogni suo sforzo per una soluzione alla quale tutti
sentiamo, che sono legate le possibilità di resurrezione morale del nostro Paese.
[...] Un accenno, rapidissimo, al cosiddetto «esame di Stato» che - come ebbi a
dire qualche giorno fa interrompendo un collega - non deve essere l’esame contro lo Stato, cioè fatto per imbrogliare lo Stato. [...] Bisognerà rivedere la tecnica
dell’esame di Stato. Vi siete mai domandati, egregi colleghi - parlo a quelli di voi
che non sono giovanissimi e che, o come insegnanti o come padri di famiglia, o
anche come candidati hanno avuto a che fare con l’esame di Stato - vi siete mai
domandati perché, anche nella sua forma originaria, questa prova abbia rivelato
nella pratica attuazione tanti inconvenienti? Il difetto fondamentale consisteva nella formazione delle commissioni esaminatrici, non sempre all’altezza del compito
ad esse affidato [...]. In secondo luogo, molti dei commissari, pur valenti nella loro
singola materia, mancavano di equilibrio e di comprensione e o non davano alcuna
importanza alla carica e promuovevano tutti, o peccavano di eccessiva severità -e
facevano strage, persuasi che nello scibile non esistesse altra disciplina che la loro,
oppure si comportavano in modo stravagante, facendo domande impossibili, le più
strane e strampalate, e provando una sadica voluttà quando vedevano la vittima
prescelta confondersi e arrendersi a discrezione. Ebbene, in quegli anni lontani,
io ho sempre chiesto a me stesso (non potevo chiederlo ad altri, da quel reprobo
che ero) ho sempre chiesto a me stesso come mai il Ministero non utilizzava i suoi
ispettori, integrandone magari il numero con altri elementi idonei, per distribuirli
come osservatori nelle varie sedi di esame, in modo che dopo tre o quattro anni si
costituisse un corpo di esaminatori selezionati, con la eliminazione degli scettici,
dei cerberi e dei pazzi. Quello che non si è fatto allora - perché, come le successive
deformazioni hanno dimostrato, non si volevano e non si sapevano fare le cose sul
serio -si potrà e si dovrà fare domani, quando l’Assemblea legislativa sarà chiamata
a riordinare tutta la complessa materia scolastica. Ho detto riordinare, evitando
di proposito la parola riforma, della quale l’esperienza mi ha insegnato a diffidare.
Io penso, e non da oggi, che in fatto di scuola, di educazione, di cultura, tutti gli
ordinamenti sono buoni o suscettibili di buoni risultati: il problema sta tutto nel
modo con cui la scuola si fa, con cui la cultura si impartisce, con cui l’educazione
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si forma. In una parola - ripeto quanto ho già detto poc’anzi - il problema sta tutto negli insegnanti. [...] Libertà nella scuola, più e prima che libertà della scuola;
purché si tenga sempre presente il principio del retore antico maxima debetur puero
reverentia, non molto dissimile, del resto, dal res sacra puer, che è stato più volte
ricordato da precedenti oratori. Principio che solo le tirannidi non possono, per
ovvie ragioni, accettare e al quale solo uomini liberi e amanti della libertà possono
attenersi.
Nel lontano 1926 un Ministro fascista, alla caccia di pretesti per allontanare
dalla scuola gli spiriti liberi, affermava, tra l’altro, che il mio passato politico di
fervente sovversivo non offriva nessuna garanzia di fedele adempimento dei miei
doveri scolastici. Ebbene, in una lettera che il tempo ha ingiallito, ma che io conservo come il mio maggior titolo di orgoglio, rispondevo -pur riaffermando la mia
fede incrollabile nella idealità socialista, che poteva come può essere mal servita
dagli uomini o magari bestemmiata dai partiti, ma è pur sempre « luce nuova, sole
nuovo che sorgerà dove l’usato tramonterà» -, rispondevo, ripeto, che nella scuola
io non avevo e non avrei mai portato l’eco delle battaglie politiche o, peggio, il fermento delle passioni di parte. Questa concezione, dopo tanti anni e tante vicende,
io non mi sento di abbandonare; a questa concezione persisto a credere che tutti
gli uomini liberi debbano rendere omaggio. Del resto, egregi colleghi, tutte queste
iniziative, queste manifestazioni, questi tentativi di svincolarsi dalla autorità dello
Stato, queste conversioni, spesso di data recente, a forme di autonomia in altri tempi aspramente combattute o sprezzantemente derise, sono sempre molto sospette.
Si ha l’impressione - io almeno ho l’impressione che credo condivisa da questa
parte dell’ Assemblea -che, fino a quando lo Stato era tutto e completamente nelle
mani dei ceti privilegiati e delle forze conservatrici, da parecchi degli attuali assertori di libertà e di autonomia (o meglio dai loro naturali legittimi predecessori) si
facesse ogni sforzo per consolidarne l’autorità e difenderne la sovranità in tutti i
suoi attributi. [...] Oggi in cui le forze nuove, le forze del lavoro hanno cominciato
a penetrare, purtroppo ancora assai debolmente, negli ingranaggi dello Stato, e tentano, nel più scrupoloso rispetto della legalità democratica, di smantellare l’edificio
del privilegio e della conservazione trasformandolo nella casa di tutti per creare
condizioni di vita più umane agli umili e ai diseredati -gli statalisti di ieri, quelli
che facevano propria e applaudivano la formula «tutto nello Stato, nulla fuori dello
Stato, nulla contro lo Stato» sono improvvisamente diventati fierissimi fautori del
principio opposto e attribuiscono al centralismo statale tutti i guai di cui soffre il
nostro infelicissimo Paese.
Io non intendo qui soffermarmi sul complesso problema, che avrà modo di
essere ampiamente trattato a proposito di altri titoli della Costituzione. Affermo
soltanto che, anche per quel che riguarda la scuola, sono affiorate e vanno moltiplicandosi da qualche tempo a questa parte, spesso inconfessatamente e da parte
di tal uni forse involontariamente, preoccupazioni e tentativi del genere. Ora noi
diciamo, rifacendoci a quanto nella discussione generate ebbe a raccomandare il
compagno nostro onorevole Basso, che la Costituzione non può e non deve essere
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- o almeno non dovrebbe essere –un documento di parte, sia pure della parte che
ha nell’ Assemblea il maggior numero di rappresentanti. Già in taluni degli articoli
fin qui approvati c’è stata la prepotente affermazione di questa volontà preponderante. Non credo che fareste opera saggia e duratura, o colleghi della Democrazia
Cristiana, se continuaste oggi, a proposito della scuola, come domani per altri
gravi problemi che verranno in discussione, ad imporre il vostro punto di vista
fidando su maggioranze occasionali e provocando alleanze innaturali o pericolose.
(Commenti). Io non voglio aver la pretesa di darvi consigli né aver l’aria di abusare della mozione degli affetti. Vi dico soltanto: facciamo una Costituzione che
sia veramente tale e non un ibrido miscuglio di principi generali e di disposizioni
legislative. Credete nella bontà della vostra politica? Avete la certezza o almeno la
fiducia che il Paese la comprenda e la segua? Ebbene, quest’autunno tornerete qui,
a riprendere il discorso e a fare le leggi: anche le leggi per la scuola. Ci troverete
fermi -quelli di noi, s’intende, che verranno -al nostro posto di leali combattenti.
Per ora siate paghi di enunciare formule che uniscano, non particolari vincolativi
che possano dividere il popolo italiano. Il quale, credetelo -e non è l’uomo di
parte che parla, ma l’uomo della scuola che anche in questa veste obbedisce a una
fondamentale esigenza unitaria -il quale popolo italiano non ha nella sua enorme
maggioranza altro desiderio che quello di poter mandare con serena fiducia i propri
figliuoli alla scuola pubblica. Lavoriamo insieme per irrobustirne la struttura, per
rafforzarne la autorità, per far si che diventi veramente la scuola di tutti e prepari,
in un clima rinnovato di effettiva democrazia, i quadri dirigenti della società di
domani. (Vivi applausi a sinistra - Congratulazioni).
(Discorso alla Costituente sulla scuola del 21-aprile-1947)
* Alcide Malagugini nacque a Rovigo il 15 ottobre 1887. Avvicinatosi giovanissimo
agli ideali socialisti (a Rovigo fu compagno di liceo di Matteotti), si laureò in lettere a
Pavia dove, agli inizi del Novecento, fu segretario della Camera del Lavoro. Fu l’ultimo
Sindaco democraticamente eletto di Pavia prima del Fascismo, dal 1920 all’ottobre del
’22, quando fu costretto alle dimissioni e al trasferimento a Milano. Nel 1924-25 insegnò Lettere classiche al Liceo Manzoni, da dove fu allontanato per “incompatibilità con
le direttive del fascismo”. Convinto sosteni-ore della scuola pubblica, fu allora costretto
per vivere a insegnare in scuole private: potrà tornare nel suo Manzoni, questa volta
come Preside, solo dopo la Liberazione, dal 1945 al 1955. Fu membro della Consulta,
poi eletto alla Costituente, quindi alla Camera dei deputati per il collegio MilanoPavia per le prime quattro legislature: per il PSI sino al gennaio 1964, quando, con
la formazione del primo Governo di centro-sinistra, passò allo PSIUP, che nel 1964 lo
indicò come proprio candidato di bandiera alla carica di Presidente della Repubblica.
Morì a Milano il 24 dicembre del 1966.
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Prospettive famigliari nei giovani.
La famiglia tra valore e possibilità
La famiglia continua ad occupare un ruolo fondamentale nei processi di crescita
della persona, rappresentando l’agenzia primaria e il sistema educativo di base
nel quale generi, generati e generazioni si affiancano in una esperienza evolutiva
fondata su legami forti.
Enrico Miatto*
Uno degli aspetti peculiari dell’età giovanile risiede nella dimensione progettuale
che la connota e che caratterizza l’essere del giovane nei suoi aspetti vocazionali, affettivo-relazionali oltre che etico-valoriali e di senso. Da queste dimensioni rappresentative
di elementi identitari forti prendono forma, nell’esistenza giovanile, le scelte di coraggio
che talvolta orientano percorsi relazionali, affettivi, professionali ed esistenziali.
In particolar modo, nella nostra società, che agli sguardi sociologici appare frammentata e caratterizzata da rischio1 e fluidità relazionale2, una delle scelte principali, sul piano
della realizzazione personale in età giovanile, ha a che vedere con l’esperienza di coppia e
la prospettiva di costruzione famigliare. Si tratta di una prospettiva che si presenta oggi,
più che mai nella storia, modificata e non priva di elementi di complessità, nella quale il
“mito famigliare” resiste e pare rappresentare ancora una meta auspicale per la realizzazione piena del sé e per la soddisfazione del desiderio di generatività insito nell’uomo3. Un
“mito” che, tuttavia, viene a dipendere da una realtà sociale profondamente trasformata e
da un aumento esponenziale dei modi di “metter su famiglia”, riconoscibili nelle famiglie
multiple, monoparentali, ricomposte, allargate, unipersonali, ecc4.
Di generazione in generazione, infatti, il “mito famigliare” sembra aggiungere
nuovi pezzi al puzzle che raffigura la famiglia, sostituendo o affiancando, di volta
in volta, pezzi già esistenti, e modificando così i modi di essere, di fare, di vivere, di
riprodurre lo stesso spazio famigliare5.
Di fatto, a condizionare il desiderio di famiglia presso i giovani, sul versante esi1 U. BECK, La società del rischio. Verso una seconda modernità (tit.orig. Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine
andere Moderne, 1986), Carocci, Milano, 2005, pp. 155-184.
2 Cfr. Z. BAUMAN, Amore liquido (tit. orig. Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, 2003),
Laterza, Roma-Bari, 2004.
3 E.H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità (tit. orig. Identity Youth and Crisis, 1968), Armando,
Roma, 1987, p. 160.
4 Il rapporto Eurispes 2003, in particolare, mette in risalto come di famiglia si possa parlare in modo
pluriforme essendo questa descrivibile in qualità di famiglia estesa, famiglia allargata, famiglia nucleare normo-costituita, famiglia di genitori soli, famiglia ricostituita, famiglia multi-etnica, convivenza
more-uxorio, famiglia unipersonale. Per approfondimenti si rimanda al testo EURISPES, Rapporto Italia
2003. Percorsi di ricerca nella società italiana, Ed. Eurispes, Roma, 2003, pp. 1213-1225.
5 P. LE REST, L’errance des jeunes adultes. Causes, effets, perspectives, L’Harmattan, Parigi, 2006, pp. 205-206.
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stenziale, sembra concorrano due prospettive fondanti e imprescindibili. La prima
insita nell’esperienza vissuta della famiglia presso il nucleo famigliare e relazionale
di origine e rintracciabile negli stili relazionali sperimentati ed appresi dentro al
mondo famigliare, nei modi propri di essere del nucleo famigliare, nelle esperienze
di crescita personale, nel “lessico famigliare”, nello scambio dialogale proprio dei
rapporti tra genitori e generati, negli episodi di gratuità, testimonianza e vicinanza,
ed infine, nei modi della cura, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro e della
responsabilità all’interno della stessa famiglia.
La seconda prospettiva, invece, mai slegata dalla prima in quanto nasce dalla stessa esperienza vissuta presso la famiglia di origine, risponde al desiderio “di
essere in un certo modo” quel che l’esperienza famigliare di origine permette, influenzando la possibilità medesima, per i giovani, di costruire una propria famiglia
perseguendo un determinato modello coniugale, prima che famigliare.
Avvicinando lo sguardo a queste due prospettive, mediante un’ottica pedagogica, in grado di scorgere gli spazi di crescita e di autoformazione che l’esperienza
famigliare permette, è possibile rendersi conto che la famiglia non cessa oggi di
rappresentare, nel presente e nelle sue possibilità future di manifestazione, quel
preciso “spazio-territorio relazionale”6, intriso di valore, in cui trovano vita generatività, gratuità e responsabilità verso l’altro da sé.
Esperienza e possibilità di famiglia
Su questa base, dunque, l’osservazione ravvicinata della prima prospettiva individuata, permette di scorgere come la famiglia, al di là delle modificazioni assunte
a causa delle evoluzioni istituzionali e dell’organizzazione sociale, delle alterazioni
economiche e degli sviluppi culturali della società legati a contingenze storiche che
hanno sancito il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare7, non abbia
smesso di essere connotabile, al suo interno, come il luogo principale della relazionalità e dell’affetto8, in cui è possibile sperimentare la protezione, la trasmissione
di valori e norme, la socializzazione e lo sviluppo attraverso un percorso educativo
congiunto.
La famiglia, infatti, continua ad occupare un ruolo fondamentale nei processi di
crescita della persona, rappresentando l’agenzia primaria e il sistema educativo di base
nel quale generi, generati e generazioni si affiancano in una esperienza evolutiva fondata
su legami forti9, in cui la reciprocità si corrobora mediante due modalità ben precise:
l’essere con e l’essere per. Il primo come frutto dello stare insieme e dell’unione tra identità
6
7
8
9
V. IORI, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo, corpo nei processi formativi, Erickson, Trento, 2006, p. 81.
C. SARACENO, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, il Mulino, Bologna, 1998, pp. 23-46.
Cfr. C. Xodo, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, op.cit.
Cfr. P. DONATI, (a cura di) Quarto rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1995 e Identità e varietà dell’essere famiglia. Il fenomeno della “pluralizzazione”. VII
rapporto CISF sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2001.
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e differenze, il secondo inteso negli aspetti della cura e della responsabilità per l’altro10.
Nel suo ruolo educativo di sostegno e accompagnamento allo sviluppo della personalità e di introduzione del bambino all’interno della società, la famiglia
muove dalla dimensione della cura e dell’affetto, dal bisogno e dal desiderio, connaturati alla persona, di essere amata da coloro che contano, di essere presa in
considerazione, accolta e accompagnata lungo le vicende che segnano lo sviluppo e
le esperienze dell’esistenza. È, infatti, nella famiglia e attraverso di essa che l’uomo
apprende, progressivamente, a stare nel mondo, dando vita ad un rapporto dialettico tra il divenire della propria identità e la scoperta dell’altro da sé.
In essa il nucleo famigliare, spazio-territorio relazionale privilegiato dalla relazione, accompagna il bambino a diventare grande nella doppia dimensione del tempo,
sia in termini cronologici determinanti il progressivo percorso temporale verso l’essere adulti, sia in termini valoriali di un tempo privilegiato della maturazione, della
guida ai valori attraverso la condivisione dello spazio abitato dalla famiglia.
Nucleo peculiare di relazionalità, la famiglia consente, attraverso l’abitare,
l’esperienza della crescita, della scoperta e del dono. Una esperienza, nel contempo,
di effettività e di possibilità nella quale la famiglia, habitat della relazione, raffigura
lo spazio dello sviluppo11, ma anche l’occasione di abitare e far proprio il mondo
circostante e i valori che lo caratterizzano.
In qualità di luogo degli affetti e del valore, la famiglia raffigura, dunque, il nido
da cui muoversi per affrontare le giuste prove di volo verso l’autonomia, l’indipendenza e la realizzazione del proprio sé.
Proprio da questa angolatura della vicenda famigliare, in cui ci si affaccia ad
una esperienza condivisa di famiglia12 recuperando la centralità affettiva ed eticovaloriale che essa è in grado di garantire13, attraverso i legami intra e inter-generazionali, è possibile l’osservazione della seconda prospettiva individuata, in grado di
condizionare, sul versante esistenziale, il desiderio di famiglia presso i giovani.
Si tratta di una prospettiva racchiusa nel desiderio “di essere in un certo modo”,
che l’esperienza famigliare di origine consente, preparando progressivamente, attraverso la sperimentazione diretta di un preciso contesto relazionale, affettivo e
valoriale, il terreno di esperienza da cui il giovane potrà attingere per costruire una
propria vita di coppia e una personale esperienza di costruzione famigliare.
Le premesse a questa prospettiva sono rintracciabili nelle riflessioni di J. Nuttin
sulla dimensione progettuale futura. Lo studioso, infatti, asserisce che la genesi di
una prospettiva che coinvolge il futuro, nonché l’idea stessa di progetto nel futuro,
viene data da un progressivo processo di sviluppo. Pertanto, “nella misura in cui un
10 N. GALLI, Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Vita e Pensiero, Milano, 2006, p. 158 e seg.
11 V. IORI, Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, La Scuola, Brescia, 2001, pp. 93-99.
12 B. BETTELHEIM, Un genitore quasi perfetto (tit.orig. A good enough parent, 1987 ), Feltrinelli,
Milano, 2004, p. 371.
13 E. SCABINI, V. CIGOLI, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina Editore,
Milano, 2000, p. 39 e seg.
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individuo, sull’esempio di modelli che egli imita e rinforza, per esperienze riuscite nel
passato, si costruisce degli scopi nuovi, egli sorpassa, un po’ alla volta, il suo orizzonte
temporale” 14, facilitando, così, l’elaborazione di progetti futuri.
Così intesa, l’esperienza vissuta nella famiglia di origine influenza non solo l’idea di
famiglia che il giovane prospetta nel suo prossimo, ma anche la rappresentazione stessa
del patto coniugale, raffigurando15 le relazioni famigliari, i processi e gli stili educativi
da prendere in considerazione e il più generale ruolo simbolico che la famiglia, quale
istituzione prima e primaria, rappresenta e rappresenterà nella sua esistenza.
La famiglia: valore possibile?
Le due prospettive prese in esame, individuate come elementi in grado di condizionare il desiderio di famiglia presso i giovani, portano a chiedersi se ancora oggi, a
fronte delle numerose manifestazioni famigliari (che fondono insieme struttura famigliare, famiglia relazionale e legami parentali), la famiglia come modello relazionale ed
educativo privilegiato, venga riconosciuta come una traiettoria valoriale percorribile
dai giovani. O, invero, se in alternativa ad essa i giovani adulti di oggi preferiscano altri
modelli di costruzione famigliare basati sul principio della semplice coabitazione.
A tal proposito pare interessante sottolineare gli esiti di una indagine condotta
presso i giovani sulla famiglia come valore, la quale ha preso in esame l’esperienza
famigliare nei suoi vissuti emozionali e nei significati esistenziali, sondando la praticabilità del “mito famigliare” nei desideri futuri dei giovani16.
Ciò che ci preme rimarcare, più che una ripresa in toto della ricerca, è che il valore
rappresentato dalla famiglia, emerso da tale indagine, è risultato essere in larga misura
riconosciuto presso i giovani, al punto che è possibile affermare che la famiglia è presente anche nei desideri e nella prospettiva futura dei giovani. Essa si configura come
una strada percorribile, nonché come una meta auspicata e raggiungibile per i giovani. Meta che assume valore e significato per la proiezione futura giovanile, proprio in
virtù dell’esperienza significativa sviluppata presso la famiglia di origine17.
Si tratta di un dato che lascia il lettore positivamente sorpreso, se comparato con
gli andamenti individuati dalle osservazioni sociologiche in merito ai cambiamenti
relativi alla formazione della famiglia moderna. È, infatti, noto come il “mito fami14 J. NUTTIN, Motivazione e prospettiva futura (tit.orig. Motivation et Perspectives d’Avenir, 1980),
LAS, Roma 1992, p. 15.
15 M. DELAGE, La famille permanente ou du besoin d’attachement in J. Aïn, (a cura di) Familles. Explosion ou évolution?, Rès, Ramonville Saint-Agne 2008, pp. 131-146.
16 Cfr. C. XODO, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, op.cit.
17 Nell’indagine, il 72% dei giovani intervistati avverte la presenza educativa della famiglia nella
propria vita. L’81% sottolinea la coerenza dei genitori rispetto ai valori affermati. Il 92% dei giovani ritiene fondamentale il ruolo esercitato dalla famiglia nella loro fase di vita. L’85% condivide
lo stile relazionale della propria famiglia. Il 60% considera i genitori come un modello positivo e,
dato interessante, l’81,5% dei giovani si proietta nel futuro con una propria famiglia. Circa l’80%
dei rispondenti intende instaurare con il proprio partner un legame fondato sul matrimonio.
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gliare”, nell’ultimo trentennio, sia stato esposto a molteplici modificazioni18. Si è
assistito, nelle società occidentali, all’elevarsi dell’età del matrimonio degli uomini e
delle donne, all’aumento della quota di persone celibi e nubili, alla crescita del numero di giovani adulti che vivono soli, all’incremento delle convivenze more uxorio e al
prolungamento della permanenza dei giovani presso la famiglia di origine19.
La famiglia ha assunto i contorni di una realtà dinamica, in continua costruzione e aperta all’imprevedibilità delle mutazioni dei rapporti tra le persone, secondo
un “processo che, quotidianamente, deve metabolizzare le sollecitazioni esterne, l’evoluzione e le trasformazioni dei singoli, e correggere, adattandola, la trasformazione
conseguente dell’insieme famigliare”20.
Nonostante tali modificazioni le prospettive individuate e i dati della ricerca a cui
abbiamo brevemente fatto cenno fanno emergere, chiaramente, il desiderio di famiglia
presso i giovani, esplicitato nell’auspicio di costituire legami e unioni famigliari solide.
Un desiderio che proietta il “metter su famiglia” nella progettualità futura, che
prende in esame la costruzione di una famiglia diversa da quella di origine; differente non tanto nella trasmissione dei valori e del loro riconoscimento, ma soprattutto nella gestione delle relazioni e del dialogo21. La famiglia immaginata dai
giovani, si fonda su alleanze coniugali sancite attraverso il matrimonio religioso
o l’unione civile, ma è anche caratterizzata dalla presenza cospicua di figli e dalla
vicinanza, significativa e preziosa, al nucleo famigliare di origine.
In conclusione, lontani dalle analisi che decostruiscono la possibilità e l’esistenza del “mito famigliare” presentandolo come superato, pare possibile affermare che
anche dai giovani, la famiglia ritorna, o chissà continua, ad essere proposta come
valore e modello relazionale, unico ed unitario, nel quale è possibile prefigurare,
accogliere e crescere ancora l’umano.
*Dottore di ricerca in Scienze pedagogiche e didattiche
Collaboratore alla cattedra di Pedagogia generale
Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Padova
*Il presente articolo presenta una riflessione a partire dal contributo Come il giovane abita la famiglia
presente e pensa quella futura pubblicato in C. XODO, (a cura di) Dopo la famiglia, la famiglia, Pensa
Multimedia, Lecce, 2008, pp. 205-240.
18 Cfr. M. BARBAGLI, C. SARACENO, a cura di, Lo stato delle famiglia in Italia, il Mulino, Bologna,
1997; P. DI NICOLA, a cura di, Prendersi cura delle famiglie, Carocci, Roma, 2002; C. SARACENO,
Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, op. cit.
19 E. RAMOS, Rester enfant, devenir adulte. La cohabitation des étudiants chez leurs parents, L’Harmattan, Parigi, 2002, pp. 129-231.
20 V. IORI, Per una pedagogia fenomenologia della famiglia in Adultità: Immagini di famiglie, n. 14, 2001, p. 59.
21 M. BENETTON, Il ruolo educativo della famiglia in C. XODO, a cura di, Dopo la famiglia, la famiglia,
Pensa Multimedia, Lecce, 2008, pp. 105-167.
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Adolescenza: assunzione del
o esposizione al rischio?
L’esperienza del “vissuto emotivo perturbante”, della sfida del limite, dell’agire
concretamente le emozioni, anche quando l’acting è connesso alla rimozione
delle stesse, sono fenomeni normali, necessari perché evolutivi. Tuttavia, per
alcuni adolescenti particolarmente vulnerabili essi possono cristallizzarsi in patologia, in fuga antievolutiva volta ad eludere l’elaborazione dolorosa dei vissuti
altamente eccitatori e/o perturbanti legati alla crescita.
Valeria Perrucci*
L’adolescenza è un cambiamento improvviso, percepibile come travolgente e
burrascoso – nell’accezione positiva ma, anche, negativa dei termini – in quanto
sovversivo dell’ordine delle cose. Segna l’ingresso nell’“epoca” delle nuove e importanti esperienze; suscita grandi emozioni, tant’è che viene frequentemente ricordata con calore e nostalgia da chi ormai se l’è lasciata alle spalle.
Con la prepubertà inizia la Via verso la “seconda nascita” (Dolto, 1988), verso
la riedizione del Sé e la ricontrattazione della propria identità di genere, sessuale
e sociale. I rapporti fra genitori e figlio conosceranno, da qui in poi, una trasformazione dolorosa ma necessaria, in quanto evolutiva, che, se avrà successo, mai
più riporterà alla calda, tenera, sicura, avvolgente, ma inglobante e totalizzante,
condizione infantile. È un “duplice distacco” (Vegetti Finzi, Battistin, 2000), fisico
e mentale, durante il quale i genitori giudicati e contestati rimangono comunque
modelli di riferimento e di identificazione, ma che porta il ragazzo a cercare nuove
relazioni oggettuali significative con i coetanei. Se gli adulti divengono sempre
meno credibili e via via sempre più “incapaci” di comprendere quanto il ragazzo
sta vivendo, i pari sono i nuovi oggetti privilegiati con cui condividere la vicenda
trasformativa individuale, che porta cambiamenti e di questi si alimenta.
L’uscita, fisica e mentale, dal nido familiare tuttavia non è un abbandono. I
ragazzi, ora ancor più che in adolescenza, continueranno a farvi ritorno, ogniqualvolta le tendenze regressive susciteranno il bisogno di accoccolarsi fra le braccia
dei genitori, nonostante l’alta statura e il sentirsi grandi. Il corpo prepubere prima
“latente” si risveglia, assumendo forme nuove e talvolta esperite come inquietanti.
I fuochi pulsionali infantili tornano ad ardere, e, unitamente alla nuova tempesta
ormonale, travolgono l’ex bambino in una metamorfosi senza ritorno, inarrestabile, alla quale è impossibile opporsi. Non rimane che cedere alla corrente e remare
verso la meta ignota, affinché la propria barca prenda le onde migliori. Oppure
lasciarsi trasportare passivamente, aspettando che qualcosa accada, sperando di
non schiantarsi contro gli scogli, e annegare. O ancora, si rimanda la partenza.
Il viaggio viene negato, ci si aggrappa fortemente alla riva, unghie infilzate nella
sabbia, come a non voler lasciare la gonna della mamma, ignorando la risacca che
puntualmente torna a ricordare l’ora di partire.
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L’adolescenza, quindi, rappresenta una seconda nascita, richiede il conseguimento del “processo di separazione” dalla nicchia primaria e della individuazione
identitaria, conseguente, quest’ultima, all’adeguata avvenuta elaborazione del duplice lutto – oggettuale e narcisistico – legato alle rappresentazioni infantili. Lo
sviluppo adolescenziale prosegue lungo regressioni, progressioni e ritiri narcisistici
volti a mantenere l’autostima e il sentimento di integrazione di Sé. Vi è una normale tendenza difensiva a negare la dipendenza.
Normalmente, quindi, ai cambiamenti adolescenziali si accompagna un senso di disagio più o meno intenso: contro di esso viene facilmente posta in essere la menzogna,
una forma di negazione conscia e/o inconscia più o meno massiccia, che contribuisce a
determinare la differenza fra maturazione adolescenziale normale versus patologica.
Sviluppo adolescenziale, famiglia e società
Gli adolescenti di oggi si rapportano con le trasformazioni epocali avvenute dal dopoguerra in poi, tutt’ora sussistenti e in evoluzione. Micro e macro società (la famiglia e
l’ambiente allargato di appartenenza) sono nettamente differenti rispetto al passato.
La famiglia da etica s’è fatta affettiva (Pietropolli Charmet, 2000) o, spesso,
anaffettiva (Francesconi, 2006). È spesso incapace di trasmettere valori e norme
adeguate e di educare i figli secondo un corretto equilibrio fra gratificazione e
frustrazione. In essa vengono confusi funzioni e ruoli: accanto ad una figura materna ipertrofica, totalizzante, “onnisciente”, “onnipresente” e, tendenzialmente,
“onnipotente”, fagocitante, sussiste spesso la dissolvenza della “Legge del Padre”,
fondamentale, tuttavia, per accedere alla risoluzione edipica e narcisistica.
La scuola, le agenzie di socializzazione e la società tutta propongono modelli
formativi, educativi, ricreativi nuovi, talvolta di grande interesse, altre volte inadeguati o fuorvianti. I ruoli e le funzioni dei responsabili dell’educazione dei ragazzi
stanno via via cambiando, in direzione evolutiva ma anche, spesso, omologante e
confusiva. Nuove figure professionali, “specialisti” dell’età adolescenziale, vengono
costantemente formate: psicologi, psicopedagogisti, insegnanti tutor, counselor.
L’assetto stesso della “mente gruppale sociale”, infine, è in continuo cambiamento, ora coinvolto in una lotta tra miti: chi, tra Edipo e Narciso, avrà la meglio
nell’imporsi come organizzatore psichico individuale e collettivo? La cultura adulta
vigente inneggia a valori e modelli di stampo prevalentemente individualistico e
narcisistico: pubblicizza la possibilità della negazione del limite, dell’attesa, della
frustrazione, esalta la ricerca del “bello ad ogni costo” e della perfezione. Vi è quindi, nella struttura familiare e sociale, una pervasiva dissolvenza dell’Edipo – organizzatore psichico e sociale – ed una dominanza narcisistica. Molti adolescenti faticano così a trovare, spesso sin dall’infanzia, validi punti di riferimento e adeguati
modelli con cui identificarsi. La costruzione identitaria passa attraverso travagliati
vissuti narcisistici, per i quali tollerare la frustrazione, il “no”, il “diverso da me” e,
dunque, non rispecchiante, diviene sempre più difficile.
L’adolescente si trova “nel punto di incrocio tra bambino e adulto, tra gruppo e
individuo, tra gioco e lavoro, tra sviluppo maturativo e deviazioni perverse, è nella po-
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sizione di massimo movimento e di più difficile e delicato equilibrio” (Lussana, 1992,
p. 167). Tutti i cambiamenti che avvengono intorno a lui – nella famiglia, nella
scuola, nel gruppo dei pari, nella società – influiscono sulle stesse trasformazioni
che avvengono nel suo mondo interno, contribuendo alla definizione della organizzazione identitaria post-adolescenziale.
Alcuni ragazzi “migrano” dall’infanzia all’adultità senza troppe “spaccature” nel
loro percorso evolutivo, senza far “troppo rumore”. Altri, invece, possono esperire
vissuti più dolorosi o confusivi. In loro, l’elaborazione del percorso identitario si fa
più ardua; talvolta la sofferenza viene percepita come incomprensibile, insostenibile e incontenibile, tanto da dover essere impulsivamente e coattivamente espulsa
attraverso l’azione, anche rischiosa.
Adolescenza e acting out
L’esperienza del “vissuto emotivo perturbante”, della sfida del limite, dell’agire
concretamente le emozioni, anche quando l’acting è connesso alla rimozione delle
stesse, l’esposizione al e l’assunzione del rischio sono fenomeni normali, necessari
perché evolutivi. Tuttavia, per alcuni adolescenti particolarmente vulnerabili essi
possono cristallizzarsi in patologia, in fuga antievolutiva volta ad eludere l’elaborazione dolorosa dei vissuti altamente eccitatori e/o perturbanti legati alla crescita.
Per acting out si intende una reazione comportamentale “compulsiva”, irrazionale, o apparentemente razionale, distruttiva o di rottura con l’abituale stile
comportamentale del soggetto; è espressione del vissuto emotivo rimosso e perturbante, può diventare potenzialmente dannosa e pericolosa per l’incolumità del
soggetto, e/o di terzi, e da questi talvolta difficilmente identificabile e motivabile
(Laplanche J., Pontalis J B., 1967). È relazionale, ovvero ha in sé un messaggio,
solitamente una richiesta di attenzione, aiuto, contenimento, per l’Altro.
“Acting” – dall’inglese to act out – rimanda a capacità evolute di creatività,
espressività, simbolizzazione. Acting maturi sono l’espressione artistica, musicale,
la scrittura, la cura e la personalizzazione dell’immagine di sé. Anche il “rischio
come azione di prova” (Carbone, 2003) rappresenta una modalità matura di elaborazione della e apprendimento dalla esperienza. Diverso è il concetto psicodinamico
di acting out: ad esso sono legati impulsività, inibizione intellettiva e analfabetismo
introspettivo. Non è possibile l’elaborazione e l’apprendimento dall’esperienza, ma
persiste una coazione a ripetere agiti antievolutivi. Ci si espone al rischio ma senza
assunzione di consapevolezza e responsabilità. Gli acting più citati nella letteratura
dell’adolescenza sono le gare automobilistiche, l’abuso di alcool, spesso associato
alla guida, le dipendenze, gli agiti sessuali, l’uso tirannico/depressivo/eccitatorio
del corpo, le psicosomatosi, gli incidenti stradali.
Adolescenti e incidenti stradali
Per incidente, domestico, stradale o sportivo, si intende un episodio provocante
lesioni fisiche, che è determinato da un comportamento lesivo/autolesivo non intenzionale. Generalmente le motivazioni addotte dai ragazzi riguardano la distrazione, la
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fatalità, la fretta, il destino e “profezie autoavverantesi” conseguenti a premonizioni.
Ciò rimanda ad una mancanza di consapevolezza e ad un atteggiamento altamente
deresponsabilizzato, alimentato spesso dagli adulti che, colludendo, definiscono l’incidente una ragazzata o una disgrazia. In tal modo, curando soltanto “l’arto ferito”, non si
interviene sul vissuto psicologico perturbante che soggiace e che ha scatenato l’evento.
La letteratura chiarisce infatti come vi possa essere una profonda correlazione fra incidente e problematiche legate allo sviluppo adolescenziale, quali la maturazione sessuale,
la tematica edipica, il processo di separazione dalla nicchia primaria familiare. Ancora la
costruzione identitaria, il rapporto con l’altro sesso, i sensi di colpa, la fragilità narcisistica, la difficoltà di rinunciare al senso di onnipotenza infantile, i sentimenti depressivi,
la fuga nell’azione, il ricorso massivo a meccanismi di difesa come negazione, diniego,
formazione reattiva, intellettualizzazione, razionalizzazione, isolamento.
Gli incidenti, quindi, possono rappresentare, in senso psicodinamico, “tentati
suicidi velati semi-intenzionali, provocati da un’intenzione inconscia che attende il
verificarsi di un’occasione che si possa sostituire alla causa reale” (Freud, 1901). La
differenza fra tentato suicidio e incidente risiede nel livello di pensabilità e consapevolezza del progetto autodistruttivo.
È importante affrontare la problematica da un punto di vista psicologico, per aiutare
i ragazzi a responsabilizzarsi e a prendere consapevolezza di quali siano le dinamiche psicologiche ed emotive che li hanno portati, spesso ripetutamente, ad essere “vittime” di
incidenti. Altrimenti si rischierebbe il reiterarsi di un circolo vizioso “trauma-fantasmatrauma” per cui l’adolescente rischia, a seguito di plurime insufficienti elaborazioni, di
incorrere ripetutamente in pericoli fisici e fissazioni psicologiche. Problemi psicologicorelazionali possono portare infatti all’imporsi di meccanismi difensivi disfunzionali che,
se “sorretti” da una insufficiente elaborazione dei vissuti perturbanti, tendenzialmente
portano alla “fuga nell’azione”. Ciò determina un’esposizione ai pericoli e la possibilità
di incorrere più facilmente in incidenti. La lesione somatica che ne consegue “nasconde” quella emotiva-psicologica scatenante. Ne deriva un’ulteriore insufficiente elaborazione ed una nuova fuga nell’azione che alimenta così il circolo vizioso traumatogeno.
La sofferenza non elaborata conduce a incidenti “per eccesso o per difetto”: acting out
derivanti da fughe maniacali (incidente a seguito di trasgressioni, sfide, esibizione) o da
cadute depressive (incidenti conseguenti a distrazione, “atti mancati”).
L’incidente non va quindi sottovalutato, in quanto altamente correlato con le
dinamiche psicologiche e le fasi evolutive proprie dell’adolescenza; va considerato
come un comportamento rischioso, o un sintomo psicopatologico che si inserisce
all’interno della “psicopatologia di un evento della vita quotidiana”. Questo non significa che si debba patologizzare in tutti i casi l’incidente, ma neppure sottovalutarne il valore di segnale (Carbone, 2003).
Negli ultimi trent’anni, con l’introduzione di nuove leggi e misure protettive,
si è ridotta considerevolmente, nella popolazione in generale, la mortalità da incidenti; questo miglioramento, però, non ha interessato gli adolescenti, soprattutto
quelli appartenenti alla fascia d’età, quella più a rischio, tra i 15 e i 24 anni. Molti
ragazzi, nonostante i progressi normativi e tecnologici, nonché le numerose inizia-
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tive informativo-preventive, continuano a rischiare, spesso facendosi seriamente
male, talvolta rimettendoci la vita (Carbone, 2003).
Malgrado l’esposizione al e l’assunzione del rischio siano fenomeni normali e maturativi in adolescenza, essi, per alcuni ragazzi particolarmente vulnerabili, possono
anche sconfinare nella patologia.
“C’è da chiedersi se questa passione per il rischio rappresenti una caratteristica inalterata nelle generazioni dei giovani, una sorta di stigmate della loro imprudenza, del
loro desiderio di uscire dalle convenzioni e contrapporsi alle norme più restrittive e
claustrofobiche, o se vi sia qualcosa di sinistramente attuale, qualcosa che fa si che
questo bisogno trasgressivo sia presente oggi ancora più che tra le generazioni passate...
Il rischiare la vita ha esercitato sui giovani, da sempre, un fascino tutto speciale, legato
com’è all’onnipotenza che trasmette: è un’età quella dove la vita non la si vuole solo
vivere, ma, soprattutto, dominare esorcizzando la morte. Nessuno di quei ragazzi che
all’alba, dopo un sabato notte in discoteca, spingono a folle velocità i loro piccoli e potentissimi bolidi dentro la nebbia o lungo strade tortuose vuole davvero morire; essi, al
contrario, paradossalmente vogliono provare a se stessi di vivere e lo vogliono fare… a
modo loro, con il loro ritmo sincopato, con la loro fretta, con la loro superficialità. In
assenza o scomparsa dei riti di passaggio, quando il superamento dello scoglio dell’adolescenza non è marcato dalla società in cui vive l’individuo… l’iniziativa spetta a lui. In
questo senso, il gioco con l’idea della morte favorisce nel giovane un’esplorazione di sé e
della propria relazione con il mondo, portandolo a costatare la sua personale precarietà
e quella di chi gli sta vicino” (Goisis, 2000).
Prevenzione in adolescenza
La tematica della prevenzione in adolescenza, dal rischio patologico, dagli incidenti, dai TS, dai DCA, non è certo di facile comprensione, dati gli innumerevoli
aspetti socio-psicologici collettivi e individuali implicati, né di semplice attuazione,
come testimoniano plurime esperienze fallimentari o controproducenti.
Ciò che è chiaro, tuttavia, è che l’essere umano, in adolescenza, è facilmente
travolto da emozioni piacevoli e dolorose, contrastanti, che vuole/deve esprimere, sopprimere, ignorare o negare. L’organizzazione più o meno stabile ed evoluta
dell’Io ne determinerà la (o la mancata) elaborazione-integrazione.
Sono i ragazzi più vulnerabili, quelli che hanno sperimentato più insuccessi
sociali, scolastici, amorosi, personali, familiari, che tendono a vivere le emozioni,
belle o brutte che siano, a un livello più superficiale e corporeo. Più il vissuto si fa
intenso, insostenibile e incontenibile, più l’autoriflessione e l’autocontenimento
sono bloccati a favore di un agito e/o di una somatizzazione che divengono significanti della sofferenza/ipereccitazione esperita.
La prevenzione comincia in casa. Ma la famiglia “tipo” attuale sta riorganizzando se stessa, “vive” la crisi e la (con)fusione dei ruoli, accettandola come normale,
liberatoria, deresponsabilizzante. Molti adolescenti faticano a trovare, nei genitori,
contenimento, ispirazione, riferimenti adeguati. A scuola la situazione è spesso
analoga: anche laddove l’organizzazione delle strutture e delle funzioni sia adegua-
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ta, spesso ne persiste il totale disconoscimento da parte dei genitori e, conseguentemente, dei ragazzi stessi.
Tutto ciò ha promosso il continuo sorgere di nuove agenzie educative e relative
figure formativo-preventive. Esse sono impegnate ad accogliere quegli adolescenti
più vulnerabili che necessitano di recuperare nello psicologo, nell’assistente sociale,
nel counselor, nel tutor, quella figura capace di contenimento, competenza, coerenza
e obiettività che non sono riusciti a trovare nei genitori, nella scuola, negli amici.
La società si trova ad aver bisogno di investire sempre di più sulla prevenzione
sia perché la famiglia non è più capace di trasmetterla al suo interno, attraverso
una corretta educazione dei figli, sia perché l’ambiente stesso talvolta offre poche
e/o inadeguate possibilità d’espressione ai bisogni e ai vissuti adolescenziali, gli
ambienti di vita sono spesso degradati, non tanto in senso economico, quanto in
termini di opportunità formative, ricreative, professionali.
Purtroppo molte delle campagne preventive realizzate sinora sono state per lo
più fallimentari, o non hanno sortito alcun effetto nel lungo termine o hanno
addirittura provocato un effetto boomerang, per citare un solo esempio, le frasi
incollate ai pacchetti di sigarette.
La cause sono diverse. Innanzitutto, sussiste un “paradosso preventivo” (Carbone, 2003): vengono create campagne per influenzare la “minoranza estrema” ma
non la “maggioranza meno estrema”. Gli adulti si focalizzano sugli aspetti più eclatanti del rischio, come l’abuso di alcool associato a guida spericolata, le stragi del
sabato sera, dimenticando, però, che la maggioranza di adolescenti rischia, anche
quotidianamente, ma secondo modalità assai diverse e più “silenziose”. Inoltre, la
prevenzione viene progettata prevalentemente come intervento informativo-esortativo-intimidatorio. I ragazzi, però, sono spesso “ultra-informati”, e guardano a
queste iniziative con noia, disprezzo o atteggiamento di sfida.
Le azioni preventive sono poi pensate sulle singole “categorie” comportamentali
rischiose (fumo, sesso, droga, A.I.D.S), mentre dovrebbero favorire la riflessione su
che tipo di significato ha il rischio per l’adolescente. Questo non solo per incentivare un lavoro introspettivo incentrato sul quid che porta al rischio, ma anche perché
spesso, alla rinuncia di un comportamento rischioso, se ne sostituisce un altro. Se è
vero che la famiglia affettiva ha perso gran parte della sua funzione di trasmissione
di regole sociali, e l’aspetto normativo lo si rileva maggiormente nel gruppo dei
pari dove, peraltro, si manifesta la maggioranza dei comportamenti rischiosi - sulla
scia di dimostrazioni di fedeltà, coraggio, conformismo- si può ipotizzare che la
prevenzione andrebbe realizzata e rivolta non tanto al singolo individuo, quanto
alle aggregazioni formali e informali adolescenziali.
Prevenzione, quindi, che venga “giocata” in modo interattivo coinvolgendo la
famiglia, la scuola, le agenzie educative e gli operatori esperti. Una società allargata
che si renda corresponsabile dell’educazione, della protezione, del recupero di quei
ragazzi che ne hanno bisogno. Ciò significa infondere negli adolescenti, e negli adulti
che presiedono alla loro crescita, un’etica del limite e una cultura della norma adeguata
e dell’ascolto, che vadano a sostituirsi alla prevenzione intesa come sovrainformazione
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o intimidazione, alla cultura narcisistica intollerante alla riflessione e alla frustrazione,
a modalità relazionali “affettive” celanti, in realtà, lassismo e mancanza di ascolto.
La società ha quindi, oggi più che mai, bisogno di adulti che si informino e
si formino circa l’età adolescenziale; adulti che responsabilizzino i ragazzi e che si
responsabilizzino a loro volta, con serietà e, soprattutto, competenza. Non è sempre
detto, infatti, che, come sancisce la sapienza popolare, “volere” sia “potere”.
“Ho detto ai miei alunni:«Domani portate una cassetta. Di legno possibilmente».
Volevo una cassetta con tre fori da un lato e tre fori dall’altro…«Terremo la cassetta qui
sulla cattedra» ho detto, «ci metteremo dentro le vostre domande. D’accordo?». Silenzio
paziente, del tipo: tutto passa, basta tener duro. Poi una ragazza mi ha chiesto:«I fori a
cosa servono?». Ho spiegato che servivano a far respirare le domande. Le domande – ho
aggiunto – sono vive: hanno il punto interrogativo, l’unico segno di interpunzione con
una certa guizzante vivacità. «Voi imbucate le domande nella cassetta e poi ci metteremo a cercare le risposte».
Sono passati giorni e giorni, ma la cassetta delle domande non è comparsa. Certo,
potevo procacciarmene una io, senza aspettare che provvedessero loro, ma non l’ho fatto
perché ho pensato: «Se si decidono a portare la cassetta, vuol dire che poi arriveranno
anche le domande». Così la cattedra è rimasta senza cassetta e senza domande”.
Chi parla è un professore di alunni adolescenti, che si ispira alla cassetta de Il
Piccolo Principe perché affezionato all’idea di una scuola dinamica, creativa, una
“scuola tutta domande”; da anni saccheggia libri in cerca di idee che lo aiutino a
fare l’insegnante, perché non riesce ad arrendersi all’evidenza di un eterno e sterile
rapporto docente-studenti che si esprime soltanto con lunghi monologhi, compiti
e verifiche, valutazioni, e nel quale i ragazzi parlano “solo quando interrogati”.
Egli crede nel dialogo, nella fertilità del confronto: “Con la cassetta delle domande volevo fare un altro tentativo di redenzione mia e dei miei alunni. Se i miei allievi
mi avessero interrogato, avrei saputo qualcosa in più su di loro. Se mi fossi provato a
rispondere, avrebbero saputo qualcosa in più su di me. Ma la cassetta non è piaciuta,
pazienza. Faccio sempre più fatica a stare dietro agli adolescenti. In genere mi assecondano come si fa coi matti. Ma sento che intanto smaniano nei banchi e trovano sempre
meno ragioni per sedermi di fronte ogni mattina... Il problema non sono io; il problema
è allontanare con le buone e le cattive maniere ogni novità scolastica che prometta di
mutarsi subdolamente in studio, rubando altro tempo a ciò che conta... Quello che per
loro conta cerca di trovare una via soprattutto tra i materiali extrascolastici. Perciò
dubito che la mia cassetta delle domande comparirà mai. Ciò che appartiene alle aule
non ha punti interrogativi veri. Alla scuola non si rivolgono domande. Appena apri la
bocca, mette i voti... Di ‘studére’ – essere desideroso di – non è rimasto niente. Per i miei
allievi studiare è un verbo del castigo. «Oggi non posso. Devo studiare»”.
Il professore le pensa tutte. Osserva i suoi studenti con attenzione, riflette, crea,
verifica, suffraga o confuta ipotesi. Pensa a se stesso quand’era ragazzo. Si impegna
a “riesumare” non l’allievo che, tempo addietro, si è sforzato di essere, ma l’allievo
che teneva ben nascosto, “dietro le apparenze, per non sfigurare” agli occhi di insegnanti e compagni di classe. Giura che non avrebbe mai fatto ai “suoi” ragazzi ciò
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che lui stesso, da studente, non avrebbe mai voluto “subire”. Mette continuamente
in discussione se stesso come persona, come docente, nonché il modo con il quale
affronta ed “offre” l’insegnamento.
Inaspettatamente e magicamente, contro ogni previsione, una mattina come
tante la classe lo “accoglie” avvolta da una strana atmosfera. Fra sé, pensa: “«Mettiamoci al lavoro e vediamo che cosa ci suggeriscono oggi gli errori di Eraclito» proporrò. Ma in classe trovo i ragazzi sospettosamente silenziosi. All’inizio non noto niente,
vedo solo la malizia degli occhi. Allora faccio per gettare il cappotto sulla cattedra e
mi accorgo che c’è la cassetta con tre buchi da un lato e tre dall’altro, quella che avevo
chiesto quasi due mesi fa. Non dico niente, è un bel lavoro. L’avranno fabbricata loro,
l’avranno commissionata a un falegname? Borbotto: «Bene, sono contento». Poi ci ripenso, certe volte gli studenti fanno brutti scherzi. Cosa ci avranno messo? Faccio finta
di aver cose da fare…Quindi mi decido, sollevo bruscamente il coperchio della cassetta,
guardo dentro. È zeppa di foglietti colorati, le loro domande. Comincio a leggere. Capisco subito che non so rispondere”1.
*Psicologa, Centro EOS, Pavia
Bibliografia
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Francesconi M., relazione al convegno “I giovani e il fascino del rischio. Insegnanti, genitori e psicologi
a confronto sul rischio in adolescenza”, Novara, 10 e 11 marzo 2006
Freud S. nell’edizione Boringhieri, Torino, 1989, delle Opere: Frammento di un’analisi d’isteria (Caso
clinico di Dora), vol. 4, 1901
Goisis P. R., relazione al convegno “Le ali di Icaro. Wrooam, Screech, Crash: corse, sfide e scontri sugli
schermi. La rappresentazione dell’immaginario adolescenziale”, Roma, 23 e 24 giugno 2000
Laplanche J., Pontalis J.B., (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Editori Laterza, Bari, 2003
Lussana P., L’adolescente, lo psicoanalista, l’artista, Borla, Roma, 1992
Starnone D., “Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso”, Universale
Economica Feltrinelli, Milano, 1998.
Vegetti Finzi S., Battistin A. M., L’età incerta – i nuovi adolescenti, Mondadori, Milano, 2000
1 D. Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso, Milano,
Universale Economica Feltrinelli, 1998.
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Adolescenti e legalità.
Il disimpegno morale e la
“mal-educazione” degli adulti
E’ fondamentale che gli adulti riconoscano le potenzialità dei giovani e ne promuovano il protagonismo attivo, attivando opportunità ambientali più variegate
e protettive, che consentano loro d’incrementare l’autostima e di perseguire gli
obiettivi evolutivi preservando il proprio benessere.
Cecilia Armenise*
Il tema della legalità e, nello specifico, la necessità inderogabile d’individuare
più incisive forme di “educazione alla legalità” per gli adolescenti, è di stringente
attualità, a causa dei numerosi fatti di cronaca dei quali gli stessi molto spesso sono
i protagonisti, incuranti delle norme del vivere civile e, sovente, pure del codice
penale. I mass media, l’opinione pubblica, gli esperti - o presunti tali - quotidianamente dibattono e s’interrogano sulle cause del dilagare di tanta violenza e di comportamenti auto-etero lesivi tra gli adolescenti, evidenziando, tra l’altro, l’assenza
e/o la crisi di riferimenti o presidi valoriali, educativi, normativi.
Il tema del rapporto degli adolescenti con la legalità, la loro percezione della stessa,
a mio avviso si colloca naturalmente nello spazio d’intersezione tra l’adolescente, impegnato nel processo adolescenziale e nei relativi compiti di sviluppo, e l’odierna società
occidentale, nella quale tale processo si dispiega, con tempi sempre più dilatati.
Generalmente, infatti, in questa fase si verifica una più significativa apertura
dell’adolescente alla società, con individuazione di figure di riferimento esterne alla
famiglia, la conseguente scoperta della possibilità di modalità differenti di relazione
e la contestazione dei valori di riferimento.
L’adolescente costruisce la propria identità in un laborioso processo, che passa
anche attraverso l’identificazione in ambito familiare e nel gruppo dei pari.
Secondo il costruzionismo sociale (K. Gergen) la costruzione dell’identità viene
“negoziata” attraverso un “dialogo esteriore ed interiore”, con gli altri significativi e con le
“strutture simboliche della cultura alla quale più o meno coscientemente apparteniamo”1.
L’accento è da porsi, pertanto, sulle principali agenzie educative - famiglia e
scuola - ma anche sull’importante funzione svolta dal gruppo dei pari, il quale può
offrire l’occasione per sperimentarsi in un contesto rassicurante o per assumere
identità preconfezionate, pure negative. Nel perseguire i compiti di sviluppo l’adolescente può passare anche attraverso l’assunzione di comportamenti a rischio, dai
significati e dalle funzioni peculiari, rispetto ai quali i diversi stili educativi e l’educazione morale, in particolare, rivestono un ruolo rilevante tra i fattori protettivi
1 G. Mantovani, La costruzione narrativa dell’identità, in Psicologia contemporanea n.151/99,
Giunti, p.25
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dal rischio. Gli adulti significativi possono svolgere un ruolo decisivo stimolando,
attraverso il dialogo e il confronto, l’adesione ai valori e l’empatia. La famiglia è
uno dei canali fondamentali, se non il principale, per la trasmissione di comunicazione normativa e valoriale.
Il padre, in particolare, esercita un’influenza decisiva per la formazione di una coscienza etica, l’introiezione di regole e valori, oltre che, naturalmente, come modello di ruolo.
Già abbiamo considerato2, tuttavia, come da più parti si osservi da tempo una
progressiva e diffusa “maternalizzazione” della famiglia e dell’odierna società occidentale, con conseguente assenza dei “codici affettivi paterni” (F. Fornari). La
predominanza del codice affettivo materno sembra esaltare l’aspettativa di ricevere
l’appagamento di ogni desiderio, indulgenza e protezione incondizionate. Ciò che
viene a mancare è il “principio paterno” su “cui si fonda la norma, la legge, l’autorità:
il terzo polo nel triangolo familiare che attira a sé il figlio e lo separa dalla madre, stabilendo un ponte verso l’esterno, la società” 3 .
La famiglia, del resto, è immersa nell’atmosfera culturale della società in cui vive. Ai
punti fermi, interiori - convincimenti religiosi o ideologici -, da cui in passato discendevano le leggi morali, si sostituiscono i “valori” imposti da una società massmediale in
incessante trasformazione: denaro, competizione, potere, successo, apparenza.
L’autorità genitoriale, in questo scenario, è spesso esercitata in maniera frammentaria ed incoerente, quando non lascia campo aperto ad un vero e proprio
lassismo; l’amore dei genitori, poi, veste i panni di un “consumismo affettivo” (S.V.
Finzi, A.M. Battistin, p.188) che, insieme all’assenza di divieti e limiti, ha la funzione di tacitare ansia e sensi di colpa, fornendo l’illusione d’evitare insanabili rotture coi figli, e di renderli felici.
La famiglia, d’altro canto, può svolgere un’importante funzione di promozione
sociale e protezione dal rischio: alcune ricerche (Marta e Scabini, 2003) evidenziano
l’importanza di relazioni familiari positive e, in particolare, di una “famiglia prosociale”. Con riguardo alla “trasmissione” della prosocialità, una ricerca (E. Marta 2002)
ha evidenziato l’importanza del supporto e della prosocialità del padre nel rendere
più efficace il ruolo materno, di per sé importante perché il figlio s’impegni concretamente nel volontariato, e nel favorire la partecipazione attiva di quest’ultimo alla comunità sociale. La famiglia prosociale, più nello specifico, sembra rivestire un ruolo
di rilievo nel determinare il coinvolgimento dei giovani nell’impegno di volontariato,
vissuto perciò con maggiore donatività e consapevolezza; impegno che si ritiene abbia una specifica valenza protettiva rispetto al rischio psicosociale di devianza.
Disimpegno morale e società
Il sistema sociale, e con esso tutte le agenzie educative, svolge un’azione determinante per la formazione di una coscienza etica e di un orientamento prosociale. “E’ infatti
il sistema sociale e culturale che detta i principi morali e reclama che l’azione si conformi al
2 C. Armenise, L’adolescente nella società senza padri, in Pedagogika, n.3/2005, Stripes Edizioni.
3 S. Vegetti Finzi, A.M. Battistin, L’età incerta, ed. Mondadori, 2006, pp.188-193
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giudizio che ne consegue” 4 ; ma lo stesso sistema può legittimare azioni in contrasto con
principi morali o doveri, anche se condivisi socialmente, quando prevalgano interessi
o imperativi morali superiori. I media, a loro volta, presentando gli eventi, possono
attivare o disattivare il giudizio morale, attenuando e rimovendo le responsabilità.
Oggi la teoria sociale cognitiva, a partire dalla stretta correlazione tra sviluppo e
funzionamento della personalità ed influenza socio-culturale, individua dei meccanismi di disimpegno morale, ovvero “strategie cognitive che gli individui utilizzano per
svincolarsi dalle norme e dalle responsabilità” 5 ; nel corso dell’esposizione vedremo
alcuni esempi esplicativi di alcuni di essi, tra i più ricorrenti nella personale esperienza professionale. “I meccanismi del disimpegno morale… non sono occasionali
cedimenti ad un ipotetico “istinto perverso” ma ordinari processi di pensiero, pervasivi
e diffusi, che trovano alimento nelle pieghe del discorso morale collettivo” (Caprara,
p.33). Lo scarto tra pensiero e azione morale in genere non è attribuibile ad un deficit dell’intelligenza, a un blocco nello sviluppo o all’assenza di principi, piuttosto
a modi di pensare condivisi e incoraggiati dalla società.
La diffusione di comportamenti quotidiani, quali trasgressioni “lievi” volte a
ricavare vantaggi personali da violazioni meno gravi dei diritti altrui o dell’ordinamento sociale, oppure ad evitare conseguenze delle proprie azioni o responsabilità,
si declina sotto il segno della furbizia, dello scambio di favori, della connivenza.
La fonte d’autoassoluzione, in chiave “risarcitoria”, viene spesso individuata nelle
frodi più gravi o nell’iniquità di alcune leggi.
Tali comportamenti insinuano modi di pensare che, minando i valori e le norme fondanti il vivere civile e le democrazie, alimentano anche il “sentire mafioso”,
“un modello inconsapevole e dogmatico di pensare”, che non comporta l’adesione alla
criminalità, ma “la condivisione, spesso inconsapevole, dei valori della criminalità” 6 .
Disimpegno morale e devianza minorile
La questione dello sviluppo del senso della legge assume un’importanza rilevante, in termini di psicologia evolutiva, anche nell’ottica degli interventi preventivi
della devianza.
Bandura assegna un ruolo determinante ai meccanismi di disimpegno morale
nell’innescarsi di vari tipi di trasgressioni e prevaricazioni, che, tuttavia, non sono
esclusivi di bullismo e delinquenza, bensì pervadono svariati aspetti della vita quotidiana di ciascuno.
Alcune ricerche sul disimpegno morale e civile (G.V. Caprara e Cristina Capan4 G.V. Caprara, Disimpegno morale e autoassoluzione: minima moralia, Psicologia contemporanea,
n.160/2000, pp.34-35
5 Eiss, Il servizio sociale nel sistema della giustizia e la devianza minorile, in Rassegna di Servizio
Sociale n.2/2000
6 G. Lavanco, I luoghi comuni delle mafie, Progetto formativo:“Minori e criminalità organizzata: analisi del fenomeno e ipotesi d’intervento, Scuola di formazione del personale Giustizia Minorile, Roma
9.10.2002
Temi ed esperienze 85
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na), inoltre, hanno evidenziato che gli uomini ed i giovani, rispetto alle donne ed agli
anziani, sono più inclini al disimpegno morale, considerato un importante fattore di
rischio, sul versante dell’individuo, anche dai più recenti orientamenti teorici in tema di
devianza minorile. Questi ultimi individuano nuove variabili cruciali, fattori di rischio
e di protezione - personali, comportamentali ed ambientali - e nuovi processi, sottesi
alla devianza, che “si genera e si costruisce all’interno dell’interazione circolare e ricorsiva tra
i fattori di protezione e i fattori di rischio”.(De Leo G.,’96-’98; De Leo, Patrizi ’92)7
L’osservazione sul campo
L’esperienza e l’osservazione maturate “sul campo” in circa venti anni di esercizio della professione in un servizio minorile della giustizia (Distretto di Corte
d’Appello di Bari), mi hanno persuasa che anche i minori denunciati all’Autorità
Giudiziaria, come vedremo di seguito, fanno spesso ricorso ai meccanismi di disimpegno morale. Ritengo, tuttavia, che lo stesso “sistema giustizia”, qui inteso
nella sua accezione più ampia (con particolare riferimento alle istituzioni, i servizi
ed i professionisti che vi afferiscono o che a vario titolo collaborano per le problematiche dei minori), non sia immune dal fenomeno esplorato.
Nelle aule dei Tribunali per i Minori ad esempio, capita di assistere alla “colpevolizzazione o svalutazione della vittima”, da parte di legali che nel difendere il minorenne autore di reato, insinuano ombre sulla vittima, sulla sua “moralità” o sulla sua
”attendibilità”, con ovvie implicazioni sul piano educativo. Perfino la “Giustizia” non
sembra avulsa da questi meccanismi (si tratta, fortunatamente, di casi eccezionali,
che tuttavia destano preoccupazione e sdegno): una recente sentenza della Corte di
Cassazione, per esempio, ha ridotto la pena inflitta ad un adulto accusato di molestie
sessuali, poiché la vittima, minorenne, aveva già avuto rapporti sessuali.
Infine anche i professionisti d’aiuto, o coloro che comunque svolgono funzioni
educative, talvolta sembrano incorrere nell’utilizzo, anche inconsapevole, di meccanismi di disimpegno morale, quali la “diffusione o il dislocamento delle responsabilità”,
spinti, ad esempio, dal bisogno di giustificare insuccessi, o di fronteggiare situazioni
che per la loro complessità e problematicità possono comportare un intollerante senso
d’impotenza o di frustrazione, specie quando non si disponga di risorse adeguate. Il
disagio e la fatica, rivenienti, poi, dal confronto estenuante con pastoie burocratiche o,
ancora, con l’“Autorità”, sono solo alcuni degli esempi che talvolta possono spingere gli
operatori a “rifugiarsi” in tali meccanismi, assumendo comportamenti “disimpegnati”.
Per quanto concerne più specificatamente gli adolescenti incappati nelle maglie della giustizia, essi adducono spesso motivazioni “autoassolutorie” basate, ad esempio, sul
meccanismo di disimpegno morale della “giustificazione morale” (“ho rubato per aiutare
la mia famiglia”), oppure della “colpevolizzazione o deumanizzazione della vittima” (“responsabile” per esempio, d’aver lasciato “incustodita” l’auto di proprietà con le portiere
“aperte”, o d’aver lanciato “segnali inequivocabili di disponibilità”, come nel caso di vittime
di molestie sessuali, o, infine, d’essere “pazza”), o, ancora, del “dislocamento delle responsa7 Eiss, idem, p.95
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bilità” (minori che si ritengono “costretti” a rubare un’auto, perché il comune di residenza
non garantisce il funzionamento dei mezzi pubblici ad una certa ora). Altre volte, i ragazzi
diluiscono nelle responsabilità del gruppo quelle proprie (diffusione delle responsabilità) e
solitamente “sottostimano le conseguenze” delle proprie azioni (“ho preso il suo motore solo
per giocargli uno scherzo, pensavo di restituirlo, non credevo mi denunciasse…”).
Generalmente, inoltre, non sembrano agevolare l’individuazione degli altri o dei
“veri” responsabili, mostrandosi convinti ed orgogliosi di non essere “infami”, salvo
poi lamentarsi dell’inettitudine o “iniquità”della legge. E’ un atteggiamento assimilabile ad una sorta di “omertà di consorteria”, diffuso non solo tra soggetti appartenenti
alla criminalità organizzata, ma anche tra ragazzi cosiddetti “normali”, come evidenzia anche un’interessante ricerca8. I comportamenti illeciti dei ragazzi, inoltre, frequentemente sono giustificati anche dai loro genitori col richiamo a fatti di cronaca
- i cui protagonisti sarebbero, per esempio, esponenti della politica o rappresentanti
delle forze dell’ordine -, oppure al malcostume o ad un’imperante e generalizzata corruzione (confronto vantaggioso). Il più delle volte, ancora, i genitori sostengono con
veemenza l’innocenza dei loro “bambini” (così li definiscono e spesso li considerano),
negando perfino l’evidenza; ritengono delle “bravate” o delle “sciocchezze” i reati da
loro commessi, anche se comportano forme di violenza sulla vittima, spesso ingiuriata e talvolta tacciata d’“infamità” perché non ha subìto in silenzio.
Si tratta di atteggiamenti, lo evidenziamo, che non si riscontrano solo in famiglie appartenenti al circuito criminale, bensì in nuclei estranei alla criminalità,
rappresentati in eguale misura da quelli segnati da marginalità socioculturale e da
quelli di ceto medio-alto.
Qui s’intravede l’ulteriore scenario del “malessere del benessere”, nel quale la marginalità sociale, il basso status socio-economico della famiglia e il livello di scolarizzazione, per citare alcuni degli indicatori tradizionali, non sono più i fattori principali
che possono determinare il disagio, la devianza o la criminalità tra gli adolescenti.
Considerazioni conclusive
I comportamenti a rischio, quindi, non indicano di per sé il fallimento nel percorso di sviluppo o il segno di un disadattamento patologico, e costituiscono una
sfida ai compiti educativi degli adulti.
L’attuale realtà adolescenziale, infatti, presenta fasce di marginalità che riguardano l’area della relazionalità e dell’interiorità, che pervadono tutto il tessuto sociale, a partire dall’ambito della cosiddetta “normalità”, anch’esso colpito spesso
da varie manifestazioni della devianza minorile. La caratteristica espressiva delle
forme di devianza giovanile più praticate o ammesse può essere letta anche come
una strategia per comunicare un disagio, spesso legato a disfunzioni relazionali e/o
educative, e quindi, come tale, richiede d’essere interpretata e risolta. Sappiamo,
8 F. Perussia, G. Benso, A. Lovisolo, Il senso della legge e della giustizia e del sistema penale in giovani
minorenni maggiorenni, in F. Perussia, (a cura di), Materiali di psicologia sociale e della personalità,
vol.1, Torino, Celid, 1997
Temi ed esperienze 87
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infatti, che la devianza ha forti valenze comunicative, che rappresentano sia rischi
sia risorse: appare fondamentale, pertanto, riconoscere la funzione specifica che i
diversi comportamenti assumono all’interno di un processo teso alla costruzione
dell’identità, individuale e sociale, di quell’adolescente, nel suo contesto di vita;
così come è fondamentale individuare i fattori di rischio che potrebbero stabilizzarne la condotta “rischiosa”, e quelli protettivi, che possono limitare il tempo e
la gravità dell’incursione nel pericolo. Occuparsi di legalità oggi, perciò, significa
saper leggere e conoscere il disagio, il suo manifestarsi, nelle nuove generazioni.
L’educazione alla legalità, quindi, non può che partire dai comportamenti tipici
della sub cultura giovanile, che vede spesso molti giovani considerare leciti o innocui
alcuni comportamenti, siano essi dannosi “solo” per la salute e/o ritenuti illeciti dalla
norma - quali, ad esempio, il consumo d’alcool o di sostanze stupefacenti leggere, la
pirateria musicale, il mancato utilizzo del casco, il fare a botte - e manifestare una
difficoltà sia a riconoscerne l’illiceità, sia a stimarne le conseguenze, anche penali.
E’ fondamentale che gli adulti riconoscano le potenzialità dei giovani e ne promuovano il protagonismo attivo, attivando opportunità ambientali più variegate
e protettive, che consentano loro d’incrementare l’autostima e di perseguire gli
obiettivi evolutivi preservando il proprio benessere. La scuola in questo senso può
svolgere una funzione di rilievo, anche rispetto alla prevenzione di comportamenti
devianti, elaborando un insieme condiviso di regole, di norme precise ed esplicite
da rispettare, e prevedendo sanzioni riparative; in tal modo si può “favorire e sviluppare l’assunzione di responsabilità” (De Leo, 1997), che ha una valenza protettiva rispetto ai comportamenti a rischio. Inoltre, la scuola è il luogo in cui si possono avviare “momenti di riflessione di gruppo finalizzati al riconoscimento dei meccanismi di
disimpegno morale ed allo smascheramento delle strategie assolutorie e giustificative” 9 ,
ed anche implementare competenze sociali e comunicative.
S’impone, quindi, la necessità di una prevenzione diffusa, che favorisca il riconoscimento e l’emergere dei vissuti, delle emozioni e dei bisogni dei ragazzi, occultati
anche da spinte all’adeguamento dell’immagine indotte dalla società dei consumi.
Il benessere globale degli adolescenti, dunque, non è determinato dalle sole caratteristiche individuali o intrapsichiche, o da fattori familiari, essendo in stretta relazione anche con le condizioni di vita ed i processi che si verificano negli ambienti sociali
in cui vivono. Perché l’educazione alla legalità risulti efficace, pertanto, è necessario
che sia intesa e praticata come progetto sostanzialmente condiviso da tutte le agenzie
educative di un determinato territorio (famiglia, scuola, comunità ecclesiali, associazionismo laico), con un approccio metodologico di tipo sistemico, che promuova
azioni dirette ad implementare l’efficacia collettiva e lo sviluppo di una comunità.
*Assistente Sociale
specialista presso L’U.S.S.M. di Bari, Dipartimento Giustizia Minorile
9 S.Bonino, Le condotte antisociali e devianti nell’adolescenza, in Psicologia contemporanea n.155/199,
Giunti, p.25
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Il “Progetto di ricerca” e la qualità
della formazione in ambito pubblico
Per costruire un’alleanza di lavoro spesso si pensa allo spazio della formazione o
alla supervisione del lavoro del gruppo, ma l’aspettativa di intervento e di cambiamento appare riposta all’esterno.
Emanuele Toniolo*, Emilia Canato**, Giannamaria Grisolo***
Nel progetto di ricerca sulla gestione dei disturbi maggiori in adolescenza (aspetti epidemiologici, diagnostici, terapeutici), per l’organizzazione di un modello di assistenza basato sull’integrazione fra Servizi dell’età evolutiva e dell’età adulta, l’esperienza formativa
ha assunto un spazio significativo, in termini qualitativi soprattutto. Nel progetto generale
le Aziende Ulss coinvolte sono state tre, e adesso ha collaborato al progetto il Centro Specialistico dell’Ulss16 di Padova. Hanno partecipato: psicologi, neuropsichiatri e psichiatri
(complessivamente circa 20 operatori delle aziende interessate). L’attività di formazione si
è concretizzata in un percorso di più occasioni di confronto e intervento.
In particolare negli incontri mattutini si è lavorato su temi generali inerenti
la ricerca, la definizione dei pacchetti diagnostici, l’identificazione degli indicatori da considerare e sulla concreta supervisione del lavoro clinico su casi proposti
dalle équipe, considerati utili e significativi per la problematica evidenziata. Negli
incontri pomeridiani si sono affrontate le situazioni di maggiore urgenza e disagio
in carico ai servizi, i consulenti hanno svolto colloqui e valutazione diretta con
successivo rinvio agli operatori competenti.
La formazione, poi, per l’aggiornamento delle conoscenze degli operatori è stato affidata ad esperti esterni in giornate dedicate.
Nello specifico, oggetto di formazione e di ricerca per un periodo di 7 mesi è
stata la “…la condivisione di linee guida e protocolli clinici”, e “l’individuazione di
buone prassi per l’inquadramento diagnostico, in ambito di gestione dei disturbi
maggiori in adolescenza”. La formazione è stata accreditata secondo le linee guida
regionali relative ai programmi di Educazione Continua in Medicina, quale attività
di “formazione e ricerca sul campo”.
L’attività di ricerca, nel suo svolgersi, ha comportato attività di studio, raccolta e
organizzazione di materiale bibliografico e clinico, una raccolta di documentazione e
di materiale da condividere per l’elaborazione di dati e di risultati. La presentazione dei
casi clinici e dei risultati relativi alla applicazione dei protocolli, ha reso necessaria l’individuazione di un coordinatore per ogni singola azienda, consentendo così la stesura di
relazioni da parte di ogni singolo gruppo, ciò per mantenere e valorizzare le differenze
dei contesti di lavoro e, nell’insieme, strutturare l’evento formativo condiviso.
Il periodo di formazione e ricerca è stato relativamente breve, è andato strutturandosi con incontri quindicinali di coordinamento e supervisione, ma con una proficua
attività clinica nei rispettivi servizi e di specifica consulenza per l’utilizzo delle procedure
nelle nuove situazioni segnalate e prese in carico. Dalle considerazioni emerse nelle
Temi ed esperienze 89
Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/il_progetto_di_ricerca
relazioni conclusive dei coordinatori e dalle procedure elaborate e utilizzate, il percorso
formativo e di ricerca è stato sostanzialmente positivo ed è stata formulata la richiesta
di continuare il lavoro, per verificare longitudinalmente l’efficacia delle procedure apprese e l’evoluzione dei trattamenti avviati. Il modello sperimentato è stato approvato e condiviso con una buona ricaduta formativa per gli operatori che hanno aderito
all’esperienza, sono emersi suggerimenti operativi efficaci e possibilità di intervento con
impatto sui contesti lavorativi più allargati, negli aspetti relativi alla definizione del setting e nel passaggio di informazioni tra i Servizi coinvolti o comunque interessati.
La modalità operativa adottata ha consentito di lavorare all’analisi dei diversi
contesti coinvolti, attraverso la presentazione di casi clinici in carico, e ha permesso
di formulare una scheda per la raccolta anamnestica, in grado di tener conto sia
dei problemi sia dei punti di forza del soggetto e del contesto familiare e sociale.
Il percorso ha poi evidenziato la necessità di definire una batteria di test adeguati,
rendendo diffusa la conoscenza di tali test e l’effettiva praticità del loro utilizzo.
Questi strumenti diagnostici sono stati sperimentati su un campione di casi di
nuova segnalazione (complessivamente una ventina, almeno cinque per gruppo di
lavoro), rendendo confrontabile ed utile il modello e le relative procedure.
Il momento del confronto ha consentito una costruttiva elaborazione dei nodi
problematici, ricercando le possibili soluzioni. Questo passaggio di elaborazione
e analisi dei risultati ha consentito proposte comuni e ipotesi di miglioramento,
differenziate all’interno dei singoli gruppi di lavoro aziendali.
Non sempre i contesti formativi favoriscono un cambiamento ed un’elaborazione
di nuove prassi. Molto probabilmente il contesto di “ricerca “ ha consentito un’evoluzione del gruppo senza particolari conflittualità, ritrovando nell’obiettivo comune un
reciproco arricchimento, attraverso le differenti pratiche applicative. L’elaborazione
di linee guida in fase di iter diagnostico e la loro applicazione in contesti differenti, ha
favorito la riflessione e quindi la condivisibilità, suggerendo più chiavi di lettura.
La tematica relativa alla presa in carico di adolescenti, nella fascia di età 14-22,
coinvolge più servizi e presuppone più livelli di procedure, di percorsi di intervento e di
trattamento. La fascia di età interessa, infatti, servizi per minori ed altri per adulti con
mandati istituzionali differenziati. Il contesto formativo, di ricerca, è pertanto partito
dal presupposto di elaborare proposte condivise di miglioramento, ed ha consentito lo
svilupparsi di una strategia connessa alla consapevolezza dei differenti mandati, inserendoli negli scopi stessi della ricerca; garantendo così le differenze, ma sviluppando nel
contempo un aspetto interattivo in grado di perseguire scopi comuni.
Potremmo descrivere l’esperienza formativa come una co-costruzione di alleanze in
grado di strutturare “nuove possibilità di intervento con scambi ricchi e differenziati”.
Nel libro Il triangolo primario E. Fivaz-Depeursinge e A. Corboz-Warnery sviluppano il tema della dinamica relazionale triadica in ambito familiare, non quale fonte di relazioni disfunzionali, ma come base costruttiva di alleanze in grado
di consentire crescita e apprendimento. Quindi se si prende in considerazione la
strutturazione di processi interattivi modulati e differenziati secondo le fasi di crescita del bambino, la relazione può essere vista nella duplice ottica di accrescimento
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affettivo del bambino, ma anche dei genitori, che affinano e acquisiscono competenze e modalità interattive nuove. Questi processi interattivi possono essere scomposti in due sub-unità, una strutturante rappresentata dalla componente “coparentale”, ed una “evolutiva” rappresentata dal bambino. Utilizzando questo schema interattivo, ogni sequenza o unità interagente, che costruisce nuovo apprendimento,
nuove conoscenze, ristruttura il precedente e pertanto questo “modello interattivo”
rappresenta potenzialmente un modulo formativo ristrutturante.
L’utilizzo di questo modello è una chiave di lettura per tutti quegli eventi formativi
in grado di costruire alleanze di lavoro ristrutturanti ovvero portatrici di nuove procedure e modalità operative. “…le famiglie volontarie non chiedono un intervento, ma
quelle cliniche se lo aspettano”1. L’attesa di un qualcosa dall’esterno caratterizza il modello
formativo classico, con la richiesta all’esperto di accrescere e modificare conoscenze e
aspetti operativi, diverso è ricercare qualcosa con l’atteggiamento di apertura proprio
della ricerca sul campo, con la possibilità di riformulare ipotesi e premesse.
L’atteggiamento di intraprendere un percorso per validare o modificare ipotesi di lavoro consente una partecipazione individuale aperta e disponibile, non
imbrigliata in rigidità comunicative come nelle interazioni dei gruppi familiari
problematici.
Partendo dalla nostra esperienza va evidenziato che nella presentazione e discussione di ogni specifica tematica o caso clinico, è stato possibile valutare le criticità,
condividere i suggerimenti pratici e la possibilità di sperimentare ed evitare percorsi chiusi o inopportuni. Nel gioco delle parti tra chi presenta il problema e chi
osserva, si sono stabilite le premesse per lo sviluppo di sequenze tra componenti
strutturanti contenitive e moduli evolutivi di consapevolezza del problema.
La “volontarietà” ha connotato l’esperienza anche nella fase di sperimentazione
di nuove procedure. L’attività di “ricerca sul campo” si è inserita nel lavoro di ciascun Servizio, ma con una collocazione logistica e spaziale differente nella sua fase
di elaborazione, quindi è apparsa estranea ai vincoli istituzionali.
Per costruire un’alleanza di lavoro in ambito istituzionale, spesso si pensa allo
spazio della formazione o alla supervisione del lavoro del gruppo degli operatori, ma
l’aspettativa di intervento e di cambiamento appare riposta all’esterno e il gruppo
si struttura nell’interscambio in un’attesa indefinita del nuovo. Pertanto, come nel
lavoro con famiglie “cliniche”, gli scambi interni/esterno possono essere influenzati
dal tipo di coerenza interna (collusiva, disturbata, o relativamente buona); se manca
la negoziazione dei compiti, dei ruoli, della temporalità, si rischia infatti di rinforzare
e irrigidire il modello relazionale preesistente e gli aspetti disfunzionali, ovvero il
gruppo si chiude maggiormente e non crea novità operativa. Nella logica del miglioramento delle prassi operative appare necessario confrontare modelli formativi
differenziati per fornire maggiori possibilità e opportunità operative. Nel nostro caso
gli incontri interlocutori e la costruzione di un percorso secondo fasi, a volte anche
1 E. Fivaz-Depeursinge, A. Corboz-Warnery, Il triangolo primario. Le prime interazioni triadiche tra
padre, madre e bambino, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 175
Temi ed esperienze 91
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rigide, ha consentito di produrre a scadenze fisse materiale di studio con successivi
feed-back clinici, così la casistica che ogni singolo servizio ha sperimentato è diventata patrimonio del gruppo e ampliamento di conoscenze nei vari contesti.
Gli stessi operatori “esperti” sono stati coinvolti nella consulenza diretta e, a turno,
potremmo dire, che tutti hanno potuto svolgere le funzioni “strutturanti” ed “evolutive”.
Ai fini dell’accreditamento ECM, per i progetti di ricerca sul campo, la Regione
Veneto ha predisposto delle linee guida abbastanza rigide per la definizione dei
ruoli e dei compiti: responsabile del progetto, garante della ricaduta formativa,
tutor, capogruppo o coordinatore di sottogruppi, esperto, partecipante, con una
differenziata ipotesi di impegno e di orari.
Anche le fasi di lavoro sono state definite dalla Regione, in particolare sono
state previste:
- analisi del problema, esplicitazione delle ipotesi di lavoro, indicazione dei metodi
di controllo e di validazione dei risultati;
- raccolta dati su un campione di riferimento;
- analisi dei risultati:
- validazione o rifiuto della ipotesi di lavoro.
Lo schema rigido di accreditamento e la possibilità di negoziare in premessa ruoli e
funzioni, sono stati un valido strumento di differenziazione, utile per la costruzione di una
alleanza di lavoro collaborante. Le fasi di lavoro così strettamente predeterminate hanno
scandito i tempi di lavoro, coordinando i vari sottogruppi. La possibilità di accrescere in
gruppo le conoscenze sul tema, attraverso una raccolta di informazioni e di materiale autogestita e condivisa, ha rappresentato il filo conduttore dell’esperienza formativa.
Alcune situazioni cliniche sono state seguite in corso di diagnosi e/o in psicoterapia, all’interno di un assetto teorico di tipo psicodinamico ad orientamento
psicoanalitico. Il confronto nel gruppo è stato particolarmente interessante perché
ha permesso un processo di integrazione tra il materiale clinico e gli aspetti emersi
sia nei test proiettivi e psicometrici, sia nei questionari valutativi dei genitori, effettuati da operatori diversi. In questo modo il lavoro con gli adolescenti è stato
arricchito ed i singoli operatori si sono sentiti sostenuti nel loro lavoro.
A livello macro organizzativo l’esperienza ha consentito un benchmarking “di
buone prassi” fra gruppi di lavoro diversi e, parallelamente, ha permesso di rafforzare un’integrazione verticale fra i servizi che si occupano di fasi evolutive successive,
operando nella direzione prevista dal P.O. Tutela della salute mentale 1998-2000 e
delle linee nazionali per la salute mentale (2008).
L’analisi della casistica, le considerazioni sulla prevalenza trattata e lo scarto con la
prevalenza attesa secondo i dati della letteratura, hanno introdotto la necessità di una
riflessione sia sui modelli organizzativi dei servizi (accessibilità, capacità di intercettare i
bisogni), sia sulla congruità fra risorse disponibili e bisogni presenti nella popolazione.
*Direttore Dipart. di Salute mentale Az. USSL 18 Rovigo
** Psicologa e Psicoterapeuta Az. USSL 18 Rovigo
*** Neuropsichiatra infantile Az. USSL 18 Rovigo
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Dossier 93
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La differenza di genere nell’Odissea.
Donne, sentimenti, incontri
La ricerca del sé autentico passa necessariamente attraverso la dimensione
dell’alterità, che diviene elemento rilevante. L’amore di sé necessita dell’amore
che l’altro ci può offrire
Dario Costantino*
I personaggi femminili hanno un forte valore educativo nel processo di formazione di
Ulisse e testimoniano concretamente una tangibile “cultura della differenza di genere”.
Il nostro eroe arricchisce la propria personalità, confrontandosi con una “femminilità di valore”, che è fondamento e motore dell’azione investigativa e conoscitiva dell’uomo. Ulisse interagisce con un ampio catalogo di donne, ciascuna con
una funzione precisa nel percorso dell’eroe.
La principale educatrice – in ordine di tempo – dell’uomo/Ulisse è Anticlea1,
la madre. Ulisse incontra la sua genitrice durante la discesa nel regno degli Inferi.
Drammatico l’incontro tra i due. L’atmosfera è inquietante, ma di profonda riflessione. L’incontro con la morte è per l’uomo-Ulisse un’esperienza estrema, ma
anche una tappa necessaria di crescita.
È forte in Ulisse il desiderio di “toccare” fisicamente la madre. Egli la sente
ancora viva, ma in realtà, non lo è più. Di fronte alla madre, il figlio conosce e
riconosce l’amaro significato della rinuncia2, per questo matura e diviene sempre
più consapevole di sé. Egli è addolorato per essere stato involontariamente causa
della morte della madre.
È singolare pensare che colei che ha già dato la vita ad Ulisse, da morta, fornisce
al figlio valide motivazioni per continuare a vivere. La madre rafforza nell’eroe la
volontà e il bisogno di tornare in patria3. L’incontro con la madre si configura come
“un nuovo venire alla luce”, una nuova rinascita, dolorosissima come un secondo
travaglio. La donna offre al figlio un reale e sincero strumento di ricerca del suo sé
autentico. Lo rinsalda nel suo proposito di fare ritorno in patria.
Antitetico nel significato, ma altrettanto intenso, l’incontro con le Sirene, metafora
della perdizione umana. Questi demoni marini sono personificazione dei pericoli del
mare, ma rappresentano anche uno straordinario strumento di crescita pedagogica.
La femminilità delle Sirene è distruttiva, ma non per questo Ulisse rinuncia all’incontro, né a godere del loro inebriante canto. La loro forza è trascinante e violenta, distruttivo
1 Figlia di Autolico e Anfitea. Sposa di Laerte, morta secondo alcuni di dolore, secondo altri uccidendosi nell’apprendere la falsa notizia della morte del figlio. Cfr. G.L. Messina, Dizionario di
mitologia classica, Roma, Angelo Signorelli Editore, 1985, p. 26.
2 A. Semeraro, Omero a Baghdad, Roma, Meltemi, 2005, p. 82; cfr. P. Citati, La mente colorata,
Milano, Mondadori, 2002.
3 G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero. Lettura dell’Odissea, Torino, Einaudi, 2005, p. 171.
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e decisivo l’effetto. Sono un limite da superare. Il desiderio di Ulisse non è solo la dilatazione dei confini della conoscenza umana, ma lo sviluppo dell’essenza stessa dell’uomo,
l’essere con gli altri. L’incontro con le Sirene è pericoloso e probabilmente negativo, ma avviene uno scambio reciproco tra i protagonisti. Ulisse cresce grazie al pericolo rappresentato da queste due creature marine. Le Sirene, dal canto loro, grazie all’eroe, conquistano
gloria imperitura e assurgono ad archetipo di creature maliarde e dissacranti.
Nel suo percorso Ulisse incontra anche altre donne, che non rivestono una
rilevante funzione narrativa, ma che hanno un grande spessore umano e svolgono,
comunque, una funzione educativa.
È il caso di Euriclea, fedele nutrice, figura emblematica. Presenza forte ma discreta
nella famiglia di Ulisse; in alcuni momenti risulterà anche decisiva. Accoglie Ulisse,
tornato a Itaca sotto mentite spoglie. È pronta a lavare i piedi allo straniero/Ulisse,
che vive una condizione di disagio, forse, simile a quella del suo amato padrone.
La nutrice mostra nei confronti del mendico/Ulisse un’empatica condivisione delle sofferenze e della sorte avversa. Comprende che l’uomo che le sta di fronte ha pudore e ritrosia
per il suo stato fisico, a tal punto da fuggire addirittura lo sguardo delle ancelle. Probabilmente – pensa – che, in un altro luogo, anche il suo Ulisse abbia lo stesso problema.
Euriclea, mossa da compassione, lava i piedi allo straniero. È il momento della anaghnórisis (riconoscimento di ciò che è familiare). La fedele nutrice lo “riconosce”. Recupera immediatamente un patrimonio identitario straordinario. Euriclea è stata testimone di
un atto, che ha definito per sempre l’identità di Ulisse. Il passato dell’eroe e la cronistoria
della ferita4, procuratagli da un cinghiale, le balzano alla mente d’un tratto. La donna
tocca con le palme delle mani la ferita e la riconosce al tatto. Coglie fisicamente l’identità
del suo padrone; la cicatrice è l’inequivocabile segno di riconoscimento.
Un incontrastabile senso di gioia e dolore la pervade, il pianto scende copioso,
la voce le si arresta in gola. Sta per urlare l’identità di Ulisse, ma questi con forza
l’afferra per la gola e la blocca. La minaccia, svelandole la sua identità e i disegni di
vendetta. Euriclea, allora, rinnova con forza la lealtà al sovrano.
L’iter dell’eroe Ulisse è labirintico e tortuoso. Gioie e dolori, amicizia e inimicizie,
separazioni e condivisioni. Sensazioni forti si susseguono senza soluzione di continuità
con un affascinante ritmo alternato, che rende unici questi “incontri al femminile”
Aréte e Nausicaa, madre e figlia, principessa e regina dei Feaci offrono un grande aiuto all’eroe bisognoso. Aréte accoglie l’ospite con grande benevolenza. È lei
lo strumento per ottenere una nave per fare ritorno in patria. La regina è “curiosa”
dello straniero, “desiderosa” di conoscerlo, ma anche di “comprenderlo”.
Rispetto, voglia di confronto e soprattutto desiderio di ascolto, caratterizzano
questa donna, che vede nel naufrago/Ulisse l’altro con cui confrontarsi, e un’occasione di crescita personale.
La principessa Nausicaa, illuminata da Atena, soccorre con dolcezza lo straniero, e lo aiuta nel suo progetto di ritorno in patria.
4 Cfr. Omero, Odissea, XIX, vv. 392-395, trad. it. di G.A. Privitera, Milano, Fondazione Lorenzo
Valla Arnoldo Mondadori Editore, 1985-1990.
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Aréte e Nausicaa sono esempi di forte identità femminile, che Omero arricchisce con particolari descrizioni.
Aréte attua pienamente il cerimoniale dell’ospitalità. La regina vuole offrire il meglio allo
straniero. Ospitalità è anche sinonimo di cultura della “differenza di genere”. L’elemento
femminile segna una lenta, ma profonda transizione educativa e sociale. Si afferma nella
cultura greca e non solo come elemento identificante. Tra i Feaci, ad esempio, le decisioni
importanti sono prese con una fattiva e concreta partecipazione anche dell’elemento femminile. Basti pensare alla posizione decisiva di Aréte in merito all’aiuto concesso ad Ulisse.
Esempi di pari incisività educativa, però, sono rappresentati anche da Calipso e Circe.
La ninfa occulta nel suo confortevole antro l’eroe, per ben sette anni. Importante la sua
funzione narrativa, ma ancor più la sua valenza pedagogica. Numerose le analogie con Circe.
Calipso è occasione di confronto e crescita per lo straniero. È l’assolutizzazione
del desiderio femminile. Calipso è ostacolo e sprone per la crescita di Ulisse. Lo
blocca, infatti, nella sua isola. A seguito dell’ordine di Zeus, però, Calipso diviene
occasione e strumento di crescita per l’eroe. Egli non ha fiducia nei confronti della
sua “dolce carceriera”. La ninfa, però, lo rassicura sulla necessità del suo ritorno,
offrendogli ospitalità prima e assistenza nella realizzazione della zattera dopo.
Ulisse si riconferma eroe della scelta. Vive un profondo dilemma tra un’immortalità anonima e un’esistenza mortale, ricca dei ricordi delle esperienze vissute.
Non avrebbe mai potuto accettare un dono illusorio; nessun mortale si sarebbe
mai potuto impegnare in un eterno rapporto d’amore. L’itacese è un eroe errante,
identificato dalla speranza di un approdo definitivo al luogo caro, irrinunciabile:
Itaca. La ninfa maliarda chiede all’eroe un impossibile contraccambio per il suo
vantaggioso dono, ma Ulisse è segnato dalla necessità del rientro in patria.
Calipso con il suo comportamento comunica una reale condivisione e compartecipazione delle sofferenze di Ulisse. Rinuncia a un amore, che è stato rubato dalla volontà divina,
affinché Ulisse compia il suo destino. Accetta, sia pur con dolore, il volere della divinità, infrangibile e ineluttabile. L’eroe, dal suo canto, cresce grazie a questo amore, comprendendo
sempre più come la sua identità sia legata alla necessità del ritorno in patria.
In realtà la permanenza nell’isola di Calipso ha rinsaldato ulteriormente il “desiderio di umanità” di Ulisse e la ricerca di una personale e autentica identità. La
dea è immortale e senza vecchiaia, Ulisse, però, desidera ugualmente tornare dalla
sua Penelope. Non importa che il ritorno alla sua identità richieda enormi sacrifici,
egli è pronto a patire di nuovo, ad affrontare innumerevoli peripezie.
L’amore di Calipso è supremo atto donativo; serve a chi dona, ma anche a chi vuole ed è
capace di accogliere il dono5. Calipso asseconda Ulisse in tutto, lo lascia andare senza rancore, confidando nel suo bene. Amore è donarsi, ma anche sacrificarsi per il bene altrui.
Notevoli sono gli spunti di riflessione pedagogica, che anche la maga Circe propone. Forte e significativo il contributo che la sua femminilità offre alla paidéia di Ulisse.
La maga accoglie caldamente il sovrano di Itaca, angosciato nel ricevere la sua
5 A. Semeraro, Omero a Baghdad, cit., p. 91; cfr. A. Bellingreri, Per una pedagogia dell’em-
patia, Milano, Vita e Pensiero, 2005.
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irrifiutabile ospitalità. Amore, odio tra i due. L’una tenta i suoi incantesimi, ma
invano, quindi chiede pietà. L’altro la aggredisce e ne esce vittorioso. Si compie la
profezia. Cessano le ostilità tra i due, affinché si possano unire e scambiarsi reciproca fiducia. Palese il cambiamento di comportamento di Circe. Si confronta con
il sovrano itacese e si perde nella loro unione d’amore.
Passo dopo passo, il nostro eroe compie la sua paidéia. È costretto a superare difficoltà e
soprattutto se stesso. Gli ostacoli sono insiti nel suo essere uomo. La sua dimensione individuale matura grazie alla dea. Sarà Circe con i suoi preziosi suggerimenti a fornire all’eroe la
chiave del successo di questa ennesima avventura, il suo viaggio di ritorno a Itaca.
Circe e Calipso hanno instaurato con l’eroe un vero rapporto di philía, di amore. Hanno desiderato Ulisse e, a malincuore, se ne sono separate, sapendo che la
separazione era a fin di bene, voluta dal destino.
Ulisse costituisce la sua identità attraverso speciali “rapporti di amore” con la differenza. Crea due rapporti forti, tali per cui in ogni caso il partner è diventato l’altro
mio6. È il caso di Calipso, di Circe, ma anche di Penelope. Tra gli amanti si stabilisce
una tacita e reciproca garanzia di appartenenza, che si rinnova continuamente.
L’eroe di Itaca è consapevole delle difficoltà, ma anche dell’ineluttabilità del suo
destino, che è comune agli uomini di tutte le generazioni. È il mistero della vita,
che lo guida e lo sorregge.
Last but not least la fedele sposa Penelope, donna paziente, sa soffrire. La sua
tela è strumento di difesa e di lealtà nei confronti del marito, ma anche metafora
dell’esistenza stessa. Penelope assurge a paradigma di una femminilità, che riesce
a ritagliarsi un proprio “spazio”. Non si piega al ruolo e al confinamento che la
società e il marito Ulisse potrebbero assegnarle7. La regina di Itaca rappresenta un
nuovo orizzonte identitario, sa di non essere come Ulisse, né vuole esserlo.
È l’eroina dei sentimenti, del fermentum che si genera nel suo animo. Mantiene
fermi i valori riconosciuti coram populo. È exemplum di femminilità e differenza di
genere saldamente connotata, creatrice di nuovi e forti rapporti. Separa con straordinaria chiarezza due ruoli femminili. Il primo è legato a una idea non propositiva della femminilità, assimilata a mansioni prettamente domestiche, l’altro a una
identità che crea nuove relazioni – basti pensare all’incontro con il marito – che
conferiscono all’eroina una nuova identità femminile.
Tutto ciò è indicativo di una transizione culturale in atto. Siamo in una società
in cui la donna vive una condizione di segretezza e di confino, dalla quale la regina,
con la forza della sua dignità, vuole uscire.
Come Ulisse è eroina della métis (“senno, saggezza, prudenza”). È speculare al marito, è il suo alter ego femminile. La regina, esperta tessitrice, come lo sposo architetta
un abile inganno. La sua intelligenza e astuzia consistono proprio nella azione femminile del tessere e disfare la tela8. Solo apparentemente accetta un ruolo femminile
6 A. Semeraro, Omero a Baghdad, cit., p. 83.
7 A. Cavarero, Nonostante Platone, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 23.
8 Ivi, p. 20.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/temi_ed_esperienze/la_differenza_di_genere_nellOdissea
impostole dall’ordine simbolico, che vede la donna in paziente attesa del marito e
attenta alle pratiche domestiche. Penelope sceglie il silenzio e la più tipica delle attività femminili dell’antichità, per assurgere ad archetipo di una nuova e attiva identità
femminile. Penelope è condizione necessaria e indispensabile del ritorno di Ulisse.
L’Odissea non è solo la glorificazione di Ulisse, ma anche di Penelope. I due coniugi
devono riconoscersi tali. Penelope spiega che possiede con Ulisse dei segni inequivocabili
della loro identità, che nessuno conosce. Chiederà allo sposo la chiave identificativa del
loro amore. Ulisse comprende che la sua identificazione deve necessariamente passare attraverso altre prove. Momenti e difficoltà lo miglioreranno e gli consentiranno di palesare
la sua vera identità. L’accorta personalità di Penelope è “perfettamente speculare a quella
di Ulisse”. Egli accetta la momentanea indifferenza della regina, dovuto all’aspetto poco
regale, comprendendo l’incredulità della moglie. Ulisse sceglie di confrontarsi con Penelope, concordando con lei quale sia lo strumento migliore per testare la sua identità.
È il “miracolo del riconoscimento”, che dona nuova luce ad Ulisse, che potrà finalmente
abbracciare la consorte. Egli toglie all’alterità ogni opacità, perché Penelope si ricongiunge
con l’agognato sposo. Tra i due vi è un sistema di segni, che li rende sintoni e autentici.
Penelope e Ulisse superano il reciproco risentimento, l’una per essere stata messa alla prova, l’altro per non avere ricevuto subito l’accoglienza sperata. I due sono
provati, ma il loro amore ne è uscito migliore, più forte.
Un’altra dura prova, però, “senza misura”, attende i devoti amanti. Penelope vuol sapere, non vuole attendere dopo il dolce sonno. È necessario che si compia la profezia di
Tiresia. Solo dopo avere conosciuto popoli altri, i due potranno ricongiungersi serenamente in vecchiaia. Penelope comprende che questa prova renderà migliore Ulisse. I due
si abbandonano al desiderato amore e Penelope gode dei lunghi racconti del marito.
Il reciproco riconoscimento rinsalda e rifonda il loro legame nuziale. Ulisse racconta anche di Calipso, del dono rifiutato dell’immortalità. Attraverso la reciproca
agnizione Ulisse recupera, finalmente, l’io autentico e il loro “amore proprio”. Il
loro rapporto ha alla base un progetto etico-morale, consolidato da questa esperienza estrema. Egli si confronta a fondo con Penelope, perché è colei che può
consentirgli di “trarre un più alto sentimento” di se stesso.
Il catalogo dei feminina si chiude con un personaggio particolarmente importante nel percorso formativo dell’eroe: la dea Atena. È figura chiave nel percorso di
maturazione di Ulisse e compagna fedele in ogni sua avventura.
Atena sente una reale e concreta condivisione con il suo “amico”, che patisce in
terre lontane dolori, vittima di raggiri ad opera di maghe maliarde.
Stimola, provoca, sprona continuamente Ulisse e gli infonde coraggio. La dea ha un
“preciso progetto formativo”: rendere migliore il suo pupillo. Gli dà consigli validi su
come agire. Funge da educatore e secondo padre per Telemaco. Si conferma così discreta,
ma costante, presenza nella vita di Ulisse e di coloro che egli ama. Interviene in alcuni momenti, rendendo padre e figlio più forti e/o più belli. Riversa opportunamente sul giovane
Telemaco grazia divina. L’educatrice “facilita” in parte il travagliato percorso dell’eroe.
Crescere è difficile, ma è un passo necessario per diventare degno erede di un tale padre.
Le tecniche pedagogiche di Atena sono incisive, talvolta difficili a comprendersi e
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comportano dure esternazioni. È una figura femminile, che, per la maturità e la consapevolezza attribuitale da Omero, rappresenta davvero un momento ineludibile di crescita, di
maturazione ed esempio per i suoi allievi. Ulisse, uomo moderno, grazie a lei, ha imparato
a sopportare, a non protestare più, a “sintonizzarsi” con il proprio destino (móira).
Le figure femminili dell’Odissea interagiscono concretamente con Ulisse. L’atto
d’amore – è il caso di Calipso, Circe e Penelope – è una spinta verso l’Altro, per
espandere e superare il soggetto stesso. È il tentativo, sia da parte maschile che femminile di “trapiantarsi nell’Altro”, aggiungendogli qualcosa, ma anche guadagnandola. È il tentativo di preservare la propria identità, ma anche di creare qualcosa di
nuovo, che sia qualcosa “di più”.
Privarsi del proprio amato è il gesto d’amore più grande che le eroine possano
compiere (Circe, Calipso), ma anche attenderlo per vent’anni per l’adempimento
della propria missione (Penelope), o guidarlo nel suo percorso di vita (Atena), o
dargli l’estremo materno saluto (Anticlea).
Calipso e Circe soffocano in sé il dolore del discidium con Ulisse e, per il suo
bene, ne accettano il ritorno in patria. Penelope, invece, aspetta l’amato consorte
vent’anni e accetta che subito dopo riparta per l’ultima missione, prima del definitivo ritorno in patria e del godimento di una serena vecchiaia.
Nel suo viaggio di conoscenza, Ulisse comunica sempre con le donne amate.
La sua è una comunicazione aperta attraverso un ricordo che è sempre forte in lui.
Questo amore resta sempre vivo e pronto a direzionare le sue forze verso altro.
È una memoria giusta quella di Ulisse. Le gioie conosciute attraverso Calipso e
Circe, l’inebriante canto delle Sirene (“goduto” legato ai ceppi dell’albero maestro della
nave) diventano parte integrante del background esperienziale dell’eroe di Itaca.
La ricerca del sé autentico passa necessariamente attraverso la dimensione dell’alterità, che diviene elemento rilevante. L’amore di sé necessita dell’amore che l’altro ci può
offrire. È il caso delle eroine che incontriamo. Questi personaggi, con i loro sguardi e
comportamenti, attivano azioni positive in Ulisse, che cerca sempre la loro approvazione. Il femininum e il masculinum interagiscono, si differenziano, lottano per conquistare una nuova identità e finalmente si riconoscono l’uno arricchito dall’altro.
*Docente di pedagogia sociale, Facoltà di Scienze motorie, Università di Palermo
Blibliografia
CANTARELLA E., Itaca: eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano, Feltrinelli, 2004.
COSTANTINO D., Ulisse e l’Altro. Itinerari della Differenza nell’Odissea, Milano, FrancoAngeli, 2007.
LORAUX N., Il femminile e l’uomo greco, Roma, Laterza, 1991.
LORAUX N., a cura di, Grecia al femminile, Roma, Laterza, 1993.
PANCERA C., La paideia greca: dalla cultura arcaica ai dialoghi socratici, Milano, Unicopli, 2006.
PRIVITERA G.A., Il ritorno del guerriero: lettura dell’Odissea, Torino, Einaudi, 2005.
VERNANT J.P., Le origini del pensiero greco, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 19974.
VERNANT J.P., C’era una volta Ulisse: e anche Perseo, Polifemo, Circe e Medusa, trad. it. di I. Babboni,
Torino, Einaudi, 2006
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Il percorso vale più della meta
La mano nel cappello: dal libro ad un convegno per intravedere nuovi orizzonti
nelle professioni sociali che si occupano della persona con disabilità
Annamaria Bianchi Cesareo*
Nello scambio comunicativo tra chi scrive e chi legge appare utile trovare le
parole per trasferire il senso dei contenuti. Vorrei provare a farlo raccontando una
delle tappe, che registro con soddisfazione, nella storia del percorso che da anni ho
intrapreso professionalmente.
L’idea di realizzare La mano nel cappello, cioè l’incontro tra operatori interessati
alla questione della disabilità, appartiene alla convinzione che solo la costanza nel
tenere aperti spazi culturali, di ricerca e di studio, inneschi processi migliorativi della condizione umana. Gli operatori sociali che si occupano di disabilità sono chiamati quotidianamente ad interrogarsi, sono delegati alla cura, ma anche a leggere i
mutamenti dei contesti interni ed esterni in cui si esprime l’esistenza della persona
con handicap grave. Questo cammino professionale è costellato di situazioni difficili da sostenere e da affrontare. Il sistema dei servizi, nonostante aggiornamenti
e riforme, appare un sistema che corre il rischio di essere ingessato da normative,
orari e schede di programmazione che tendono a prevalere sulle storie soggettive
delle persone di cui ci occupiamo. A loro vogliamo dedicare un tempo speciale e
insostituibile: dall’osservazione alla riflessione, allo studio e alla comprensione delle
istanze, siano esse comunicate verbalmente o con i comportamenti.
Anche a noi stessi appare utile dedicare un tempo speciale, affinché ci sia spazio
per accogliere le nostre istanze, quelle che ci sorprendono nei gesti e nei rituali del
servizio, quelle che ci portiamo a casa e accompagnano i nostri pensieri, a volte
involontari, a volte curiosi e interessati.
Per questo si è sentita l’esigenza di istituire un tempo dedicato a porre a confronto riflessioni ed esperienze. Avviare un processo culturale intorno alla questione della disabilità, che a partire dal convegno del 23 gennaio a Fino Mornasco
(Co), si snodasse nel tempo, promuovendo azioni, coinvolgendo le istituzioni e
tutte quelle figure professionali che contribuiscono nei territori a garantire i diritti
di cittadinanza a tutte le persone.
I temi della mattinata portavano due punti di vista diversi, ma entrambi utili
per la ricerca di senso del nostro lavoro. Un concetto comune: “preservare la dignità della soggettività”. Dobbiamo essere capaci di porci il problema. Finché eviteremo di farci delle domande, non potremo cercare le risposte.
Giovanni Merlo, direttore dell’Associazione LEDHA, ha provocato stimoli di
riflessione di un certo spessore, invitando l’assemblea di 120 persone a riflettere
sull’attualità della condizione della persona con disabilità, riferendosi alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, qualcosa di più specifico rispet-
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to alla Dichiarazione dei Diritti Umani. Ha illustrato una proposta da prendere sul
serio, con cui non è più possibile non confrontarsi.
Angelo Villa, psicoanalista e supervisore di numerosi gruppi di lavoro dei servizi per la disabilità, ci ha tenuto strettamente attenti e partecipi al tema del “dire
qualcosa di nuovo”. Il nuovo non è ciò che viene per ultimo, ma è qualcosa che
rompe con il consueto. Il fulcro sta nel fatto che la soggettività del disabile può trovare voce nel momento in cui incontra la soggettività dell’operatore. La soggettività
funziona per entrambi. Come cercare di dire qualcosa in proposito rinunciando a
“cose scontate”? Come porre al centro del nostro lavoro la riflessione sulla soggettività? In cinque punti declinati, ci siamo portati a casa un bel po’ di carburante
per ripartire nel nostro percorso professionale e umano. “Un giorno insieme” tra
operatori del sociale, che svolgono ruoli professionali differenti, ma che grazie alle
attività dei gruppi pomeridiani, hanno trovato un rinnovato entusiasmo nel riscontrare che le loro difficoltà sono quelle di altri e che le loro proposte sono condivisibili, nella considerazione di “essere in un percorso” che nel tempo, a scansioni
di tappe periodiche, innesterà quel germoglio di cambiamento socio-culturale, ritenuto necessario per l’espressione della reciproca soggettività.
Dal suo libro La mano nel cappello sono sgorgate riflessioni corroboranti per
aprire il confronto, per discutere, per crescere professionalmente e per affrontare i
mutamenti del contesto, sapendo promuovere innovazione di servizio e valorizzazione dei diritti umani.
*Presidente Coop. Sociale Il Mosaico, Bulgarograsso (Co)
Temi ed esperienze 101
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Non dimentico la risata che mi feci
Da alcuni anni mi interrogo su una
quando una mia amica bibliotecaria
difficoltà di linguaggio che mi trovo
mi chiese se Davide Van de Sfroos, il
ad affrontare e alla quale mi sembrava
sublime bardo “laghée”, fosse originadi non trovare risposta. La difficoltà è
rio del paese dei tulipani. Questioni di
inerente all’uso del dialetto. Sono creprovenienza geografica, probabilmensciuto in un ambiente bilingue, dove
te. Per me che avevo trascorso una
accanto all’italiano, nelle relazioni si
parte consistente della mia infanzia e
usava quasi sempre il dialetto, l’italiadella preadolescenza “su per i bricchi”,
no era riservato alle occasioni ufficiali,
giusto sopra quel ramo del lago di
alle interazioni con le istituzioni pubComo, immortalato dal grande (ebbebliche, all’ambiente scolastico. Negli
ne, sì) don Lisander Manzoni, il proanni, allontanandomi dal mio paese, le
blema della corretta interpretazione di
occasioni di lunghi discorsi in dialetto
quel nome d’arte non si è mai posta.
si sono fatte più rare ma nell’ultimo
C’ero abituato. Mia nonna, amorevoperiodo, tornandovi in modo più frele certo, ma tosta e asciutta come una
quente, assisto ad uno strano fenomecima della Grigna, quel nome, infatti,
no negli incontri con amici o parenti:
me lo appioppava spesso, come un
mi sembra che mi manchino le parole
rimprovero. Fagociper esprimermi in
tando il mio senso
dialetto. Ho attridel dovere che, già
buito all’inizio quesin da piccolo, non
ste difficoltà alla
abbisognava d’essere
disabitudine, ma
incoraggiato. Pena la
la risposta mi semsua successiva trasforbrava insoddisfamazione in un sadico
cente. Mi sono poi
strumento di tortura
accorto che questa
(e di godimento) ad
difficoltà insorge
uso esclusivamente
quando devo espripersonale. Quando
mermi su argomenlei, donna di chiesa,
ti che sono lontani
supponeva o scopriva
da quel mondo,
che io avevo combivuoi per contenuti,
nato qualche pasticma soprattutto per
cio o qualche, lo giuesprimere sentiro, innocua trasgresmenti od emozioni.
sione, mi accusava di
Sembra quasi che
avere l’aria sfuggente,
quel linguaggio sia
Benito Mazzi
evasiva. E, quindi,
monco, manchi di
Nel sole zingaro.
sospetta. Mi colpealcune possibilità,
Storie di contrabbandieri
volizzava, sperando
sia privo di parole
Interlinea Edizioni, Novara, 2007
che tradissi l’ipotetiper uscire da quegli
pp. 140, € 12,00
ca malefatta. In poorizzonti, sia ade-
Ambrogio Cozzi
Angelo Villa
A due Voci
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/a_due_voci
che parole, dato che parlava dialetto,
additava la mia condotta come tipica
di quelli che “ van de sfroos” , a cui ero
all’istante assimilato. I contrabbandieri, insomma. Quelli, cioè, che hanno
qualcosa da nascondere. E che quindi,
a loro volta, si nascondono, tirano via
frettolosamente, cercando e sperando
di non essere visti o notati. Mia nonna, in quell’improbabile italiano che
avrebbe gettato nella più cupa e rassegnata costernazione anche il più rozzo
dei linguisti, su eventuale richiesta italianizzava all’occasione l’espressione,
proponendo un quasi letterale “andar
di sfroso”. Chissà, ma qui è la mia benevolenza e la mia gratitudine verso di
lei a stravolgere la realtà, magari contando su una analogia significante con
un vocabolo che gli fa da eco come “di
frodo”. Chi, ad esempio, pesca di frodo è infatti ben possibile che, in ragione del reato che sta commettendo, se
ne vada di “sfroso”.Ovviamente, l’interpretazione è tirata per i capelli. Il
bisticcio , però, mi si è incastrato nella
memoria, simile a un chiodo, fisso per
l’appunto. A testimonianza, alla faccia
del super-io, del fascino che quelli che
vanno di “sfroso” conservano per me.
In particolare, aggiungo, la loro figura
è a miei occhi enfatizzata dal luogo cui
inevitabilmente sono associati, quello
della frontiera.
Debbo confessare che sono rimasto
dispiaciuto quando in Europa, le
frontiere sono state, quasi, abolite.
Mi ricordo, infatti, in passato, quando ci si avvicinava a un Paese straniero. La frontiera, nel bene come
nel male (penso ai Paesi dell’Est o
alla Spagna franchista), era un luogo. Uno spazio a se stante, una terra
guato ad un mondo piccolo, chiuso.
Una sorta di universo autosufficiente
che nomina le cose vicine ma fatica
ad accogliere e dire cose lontane. Un
mondo di cose immediate che quasi possono essere indicate invece che
nominate, dove le parole sono ancora
aderenti alle cose, fatto di silenzi sui
sentimenti e sugli affetti.
Questa premessa mi è sembrata necessaria per introdurre uno dei motivi più interessanti del testo di Benito
Mazzi. Mi è sembrato di ritrovare
anche lì questa difficoltà, risolta attraverso costruzioni sintattiche che cercano di rendere conto della chiusura
del mondo della valle Vigezzo, dove il
racconto è ambientato. Chiusura che
si ritrova come contenuto nei distacchi
che avvengono da quel mondo e che
coincidono o con la discesa a lavorare
a Milano, lontananze su cui cala il silenzio dei protagonisti, di cui si coglie
lo spaesamento, lo smarrimento nella
lontananza, solo per cenni, mezze parole. Sembra che anche qui manchino
le parole e che il ritorno coincida con
il chiudersi nelle abitudini e in quel
linguaggio che sa dire quel mondo, ma
è afono sul resto del mondo.
La valle si chiude, e si chiude proprio
in prossimità di una linea di confine
che viene continuamente attraversato,
quasi a disegnare una aleatorietà del
confine per un verso e a tracciarne un
altro, più consistente, che è il confine
di un mondo segnato dalla miseria. I
confini tracciati dalla Storia non coincidono con quelli delle storie, le epoche che il testo di Mazzi attraversa ben
delineano questa discrepanza, questa
differenza che segna le esistenze; nelle pieghe della Storia si insinuano le
Cultura 105
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enigmatica tra un Paese e un altro.
Un Paese immaginato, prima ancora
che reale, proprio grazie a un confine
che faceva sorgere la fantasia su quel
che stava aldilà. L’emozione era garantita, perché si passava, è il termine
esatto, da una cultura, da una lingua,
da una storia a un’altra. Da un mondo che si conosceva a un altro meno
conosciuto. Il confine materializzava
l’idea di un transito, non solo reale
ma simbolico. Ora, i contrabbandieri sono quelli che illegalmente continuano a passare. I “passeurs”, per
definizione, come i protagonisti dei
romanzi di Biamonti, apprezzati da
Calvino, un sanremese. Ambientati
intorno alla linea di confine che, a
pochi chilometri dalla città dei fiori,
separa l’Italia dalla Francia.
Benito Mazzi con il suo Nel sole zingaro. Storie di contrabbandieri ci porta, invece, da un’altra parte, in val
Vigezzo, la valle dei pittori, sopra
Domodossola. La frontiera è quella,
stavolta, con la Svizzera. Il contrabbandiere, cioè lo “sfrosìno”nel lessico
di Mazzi, è un povero Cristo, un eroe
popolare. Fuori legge per necessità.
O, forse, chissà per recondita passione. Un personaggio in grado di animare un immaginario romantico di
cui Mazzi ricostruisce l’epica di un
tempo che sembra distante anni luce
da quello attuale, nel mentre vi si allontana solo di qualche decennio. La
memoria, ormai, è corta, si nutre avidamente solo dell’ambizione insoddisfatta del presente. Il resto non conta.
Bene fa, dunque Mazzi, a ricordarci
da dove veniamo. I racconti che compongono il libro sono tessere di un
106
storie dei soggetti, la attraversano, ne
risentono i colpi ma non si esauriscono in essa. Si vedano le pagine che
analizzano come le decisioni politiche
si ripercuotono sulla vita dei contrabbandieri, oppure quelle dedicate alle
partenze per il servizio militare che si
prolunga perché interviene una guerra, e pr alcuni non c’è più ritorno.
Ma il testo di Mazzi indaga anche
all’interno di quel mondo, riesce lì a
trovare le parole per consegnarci un
mondo rigido, segnato da valori sociali immobili e immobilizzanti, fatto di relazioni segnate dalla violenza
dell’esclusione, dove anche le scelte
affettive sono segnate dalla famiglia e
dalle convenienze economiche, dove
anche il denaro accumulato con il
contrabbando non apre ad altri orizzonti ma segna una differenza che
viene esibita in feste interne alla piccola comunità, momenti di svago per
i pochi intimi. Qui il contrabbando,
privato di orpelli romantici, si lega
a scelte che includono la violenza, il
rischio di morire per qualche fucilata per poter sopravvivere, per poter
sfuggire ad un destino di povertà
sentito come immutabile. Le pagine
dedicate all’immediato dopoguerra
ci tratteggiano questo mondo con
tinte dolenti, la parola viene affidata
alle cronache dell’epoca, si fa asciutta
nell’elencare episodi e morti.
Questa parte si stacca dallo sfondo
come capitolo a se stante, nelle pagine precedenti e in quelle che seguono
i soggetti sono dotati di vita, vengono
seguite le loro storie, a volte a partire dall’infanzia, a volte li incontriamo
all’improvviso già adulti, caratterizza-
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/a_due_voci
mosaico che si declina sullo sfondo di
un mondo povero e dolente, sebbene
non privo di orgoglio e dignità, come
quello della montagna. Mia madre e
la sua gente lo riassumeva in una formula, quella delle “tre effe” che, tradotte nella lingua italiana, corrispondono a fame, freddo e fastidi. Poco
da mangiare, poco da scaldarsi, tanti
problemi. Quando venne in città aggiunse un’altra effe, quella di fumo: le
fabbriche. Altri tempi, insomma. Un
contrabbandiere, uno “sfrosìno”, uno
spallone si portava sulla schiena qualcosa come trenta o quaranta chili di
roba. Avanti e indietro per la Svizzera.
Scambiava merce contro altra merce.
Era il suo lavoro, a metà tra bisogno
e ricerca di libertà. I doganieri, la finanza rappresentavano i suoi acerrimi nemici. Ma, attenzione, non era
un gioco. La vita era , infatti, non di
rado la posta in palio. Si scappava, si
sparava e, come scrive Sinigaglia nella sua presentazione, soprattutto si
rischiava la pelle…
Mazzi sostiene che “col sacco in montagna, dopo il ’60, ormai non sfrosava più nessuno in Vigezzo”. Ora, aggiunge con una nota di tristezza, il
contrabbando ha altri volti, insegue
altre strade. Nessuno si avventura
più per sentieri scoscesi e pericolosi,
come un Ercole solitario e inquieto,
confortato da un’unica compagna,
ovvero la luna, la “tenue luna dei
contrabbandieri”; cioè, per l’appunto, ecco svelato l’enigma del titolo, Il
sole zingaro. Leggerlo fa bene come
guardarsi in uno specchio non compiacente, inviso a Narciso. Colonna
sonora consigliata: Davide Van de
Sfroos. Ci sono dubbi?
ti da una vitalità che si esprime nella ribellione, una ribellione non solo
all’arbitrarietà dei confini, ma anche
alle regole di vita della valle, quelle
regole che scandiscono il ritmo delle
relazioni sociali, e alle quali i protagonisti sfuggono per scelta, per la decisione di sottrarsi ad un destino amaro.
In questa scelta si costruiscono solidarietà, legami che rimangono chiusi
all’esterno vuoi per la sopravvivenza
necessaria per quel “mestiere”, vuoi
perché si legano ad un’estraneità più
profonda, a cicatrici di cui non si può
parlare, perché le parole non ci sono
(si veda il silenzio che cala sul passato di spazzacamino in città di uno dei
protagonisti).
Ci sono scene in cui si riesce a ridere,
episodi buffi o francamente comici,
episodi in cui sembrano riecheggiare
le risate carnascialesche di Gargantua
e Pantagruel analizzate da Bachtin,
ma in quelle risate rimane un fondo
tragico, quasi a segnare la marginalità
di quei gesti come piccole rivincite di
una ribellione destinata a perdere contro il destino segnato dalla Storia.
Un come eravamo che ci riporta alle
radici di quel mondo non per inseguire sciocche nostalgie, ma per ricordare un mondo che è rimasto senza
memoria e che solo nella forma di
ricordi che ingigantiscono e rimpiccioliscono, affidati ai racconti orali
permane oltre la sua scomparsa. Ritrovare la parola di quel mondo è il
pregio di questo testo che cerca di restare fuori dalle mitizzazioni e di trovare un discorso che ne parli e lo fissi
per noi come un’immagine in uno
specchio poco rassicurante ma forse
più veritiera.
Cultura 107
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura
Scelti per voi
Libri, musica, cinema
a cura di Ambrogio Cozzi
Franco Lolli
Percorsi minori
dell’intelligenza.
Saggio di clinica
psicoanalitica
dell’insufficienza
mentale
Franco Angeli,
Milano, 2008, pp.
144 ,€ 16.00
Cos’è l’intelligenza?
La domanda potrebbe trascinarsi dietro
un dibattito tanto interessante quanto
infinito. Speculazioni su speculazioni, si
vola alto. Più interessante e, indubbiamente, più coraggioso è però provare a
rispondere all’interrogativo, laddove
l’intelligenza stessa sembra persino non
godere di un suo diritto di cittadinanza.
Espropriata da un umano in cui l’umano, o più esattamente, il “normale” fatica a riconoscersi. E, di conseguenza, a
riconoscervi dell’umano.
Stiamo parlando della disabilità, aggiungo grave. L’individuo avvertito
potrebbe, infatti, facilmente obiettare:
sì, ma cosa c’entra, in questo caso l’intelligenza? Non ci troviamo di fronte a
una franca, innegabile contraddizione?
Il libro di Lolli scava, e come scava!,
tale contraddizione con competenza e
invidiabile rigore scientifico. Il quesito
si trova quindi capovolto, rovesciato.
Sintetizziamolo così: cos’è, cosa può
essere l’intelligenza in individui, per
definizione, non intelligenti? L’inter-
108
rogativo non è affatto privo di una sua
tenace pertinenza, specie allorché non
è, come accade in questo testo, consegnato a una retorica vacua e ideologica.
Quel che, infatti, qui viene messo in
primo piano è l’analisi di come funziona, come si esprime, come cerca una
voce lo psichismo di un individuo segnato da una grave disabilità. La posta
in gioco è decisiva, poiché, come il libro
di Lolli mostra bene, il problema stesso
dell’intelligenza finisce per incontrare
necessariamente quello della soggettività, quale manifestazione più autentica
e veritiera di un singolo individuo. Più
il deficit è devastante, più il problema
dell’intelligenza ha, del resto, meno a
che fare con una questione “cognitiva”,
con il dilemma di una facoltà e più invece aderisce all’essenza stessa dell’essere del soggetto. Sino a rappresentarne il
nodo più radicale. E’ qui, infatti, che si
coglie il senso della prospettiva cui mira
il testo di Lolli: evidenziare il funzionamento dell’intelligenza o della soggettività in individui portatori d’handicap.
Cioè, in definitiva, indicare la presenza
di quel che denota, caratterizza un lavoro dell’umano in situazioni di oggettiva carenza, testimoniandolo attraverso
una ricerca clinica attenta e rispettosa.
Alla luce del pensiero analitico, Percorsi
minori dell’intelligenza offre un panorama esaustivo e ben documentato della
dialettica che presiede al processo di
costituzione della soggettività nel disabile, focalizzandone le impasse, senza
per questo dimenticare la tensione vitale che, non senza fatica, sopravvive
nelle pieghe dell’affacciarsi del soggetto
all’incontro con l’Altro. Decisamente
un testo utilissimo e stimolante per chi
lavora e vuole riflettere, in maniera non
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
superficiale e sbrigativa, sulla disabilità
e sull’enigma che essa pone ai cosiddetti
normali.
Angelo Villa
Eugenio Gaburri,
Laura Ambrosiano
La Spinta a esistere.
Note cliniche sulla
sessualità oggi
Borla, Roma, 2008,
pp. 200, € 23.00
Bush va in una scuola
elementare e la maestra dice ai bambini
che possono fare qualsiasi domanda al
presidente, allora si alza il piccolo Bob e
dice: “Signor presidente avrei tre domande
per lei: perché ha deciso di fare la guerra
all’Iraq? Perché ha voluto fare tanto male
al popolo iracheno? Perché al primo mandato è stato eletto senza la maggioranza
dei voti?” Il presidente non fa in tempo
a rispondere perché suona la campanella
dell’intervallo. Al termine della ricreazione rientrano in classe e la maestra dice che
possono fare tutte le domande che vogliono, allora si alza il piccolo Sam e dice:
“Signor presidente avrei cinque domande
per lei: perché ha deciso di fare la guerra
all’Iraq? Perché ha voluto fare tanto male
al popolo iracheno? Perché al primo mandato è stato eletto senza la maggioranza
dei voti? Perché la ricreazione è iniziata
venti minuti prima? dov’è Bob?”
Riprendo questa storia dalla pagina 16
del testo perché mi sembra di poterla
utilizzare come bussola di lettura. Gli
autori analizzano casi non eclatanti di
disturbi della vita sessuale, sottolineando come inquadrarli nell’ambito delle
perversioni possa portare ad un grosso
frainteso, che non ne permetterebbe la
comprensione. Questi disturbi nella vita
sessuale si collegano con una rinuncia
a vivere, con una paura a riprendere le
domande di Bob. La plasticità della vita
sessuale, ai confini tra natura e cultura,
impregnata dagli umori di entrambe,
ben si presta ad essere il campo in cui
queste paure si svelano, o meglio si rivelano, nel senso che la sessualità permette di calare un nuovo velo, di evitare
l’impatto con domande che porterebbero ad una necessità di differenziazione.
Necessità di differenziazione rispetto ad
uno sfondo indistinto al quale si sente di
appartenere, indistinto perché nell’appartenenza si è cosa, si è parte di un tutto
omogeneo, di un blob come dice uno dei
pazienti citati nel testo. Ma in questa indistinzione, l’appartenenza gioca un ruolo rassicurante, garantisce un’esistenza al
riparo dalle scelte che l’incontro con la
sessualità invece ripropone. Da qui una
vita sessuale degradata, impoverita, quasi
nulla, per continuare a stare nella sicurezza del riparo e per tentare di mantenere questa sicurezza si replica nella vita
sessuale l’indifferenziazione. La replica è
una ripetizione dell’identico senza la percezione di alcuno scarto, come un’opera
teatrale che viene appunto replicata. La
ripetizione può però configurarsi come
una ripresa, come un’opera teatrale può
essere ripresa, cambiando il regista e la
scenografia, introducendo quindi un elemento di novità che permette una differenza, che permette di chiedere dov’è
Bob. Gesto vitale che crea un’uscita dalla protezione assumendosene i rischi, o
detto in altri termini mettendo in gioco
il proprio desiderio.
Le domande di Bob, nelle loro impertinenza, sono le domande che si situano
Cultura 109
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
nell’infanzia, alla lettera nel fuori linguaggio, nel bambino che ognuno accudisce e che trama le relazioni con i propri
figli, in una trasmissione tra le generazioni che inconsciamente impedisce che la
famiglia faccia da sfondo al singolo posizionandolo nell’indistinzione o in posti
simbolici che altri hanno lasciato vuoti.
In questo intreccio tra le diverse generazioni si trasmette quell’appartenenza
invischiante e al contempo rassicurante
che genera la paura del vivere, che impedisce le scelte e in cui il soggetto si sente
allo stesso tempo prigioniero e protetto.
Sono queste le paure che poi si declinano nel degrado della vita sessuale, che
impediscono di cogliere l’ingresso nella
sessualità come occasione di differenziazione e di incontro con l’altro. La vita è
giocata al risparmio e l’altro si configura
come simile o alieno, la curiosità, l’interesse viene abolito, il mondo esterno è un
mondo di nemici, luogo dell’ignoto che
spaventa, palcoscenico delle paure agite.
La domanda di analisi può assumere allora
una duplice valenza. La prima come luogo in cui venga accolta una testimonianza
che allora qualcosa è accaduto. Evidenziamo i due termini allora e accaduto. Li
evidenziamo perché introducono sia una
scansione temporale rispetto ad un passato che nell’oggi può essere ripreso, sia
perché non tendono a cercare altre testimonianze, altre certezze, ma accolgono
appunto la verità del paziente non in toni
consolatori, ma come verità che ritrova la
parola indistricandosi negli agiti del passato. Testimonianza perché la parola scava
e circoscrive un non detto che pesa, che
rischia di configurarsi come impossibile a
dirsi, trasmettendosi poi ad altre generazioni come un’eredità silente.
Il secondo aspetto è quello di cogliere
110
la paura del paziente. Su questo invito
a rileggere nel testo l’analisi di un racconto di Conrad, in particolare l’analisi
del momento in cui il capitano coglie la
paura di Mark, sottraendosi alla sfida,
evitando di situarsi nel posto che la folla
gli indica e si attende da lui. E’ lo scorgere la paura che permette al capitano,
come ben scrivono gli autori, di accogliere il passato di Mark, di permettergli
di trovare la parola per narrare l’orrore e
la colpa. E’ la paura di uscire dal noto e
dal rassicurante, perché percepito come
protettivo, che accompagna i pazienti
incontrati nel testo, la paura della catastrofe nell’incontro con l’ignoto, e che
porta a vivere una vita al risparmio, una
vita che spesso si riduce a sopravvivenza, e che nella sessualità si svela.
La domanda centrale diviene allora se
valga la pena vivere, vivere come scelta e
non come sopravvivenza, scegliere di lasciare il fardello che tanto pesa ma tanto
è rassicurante, uscire dal gruppo per avventurarsi nel rischio dell’esistenza. Non
credo che tutto si riduca al fare i conti
con la morte, con la possibilità di morire
che è insita nell’esistere. Penso piuttosto
che gli autori si riferiscano alla possibilità
di vivere come vita activa come scriveva
la Arendt, cioè una vita in cui sia data la
possibilità di trovare margini nel gioco,
anche se le regole sono stabilite, le carte
sono state distribuite, ognuno può decidere come giocarle. In questo invito vedo
la dimensione etica del lavoro analitico,
nell’accompagnare ognuno a riprendere
il gioco invece che a replicarlo.
L’altra linea di lettura del testo, molto
rilevante, la individuo in un sommesso invito alla laicità della psicoanalisi,
meglio a recuperare un atteggiamento
laico che forse negli anni si è perso. Le
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
pagine dedicate al pericolo che la teoria
si trasformi in ideologia sono veramente preziose per chiunque eserciti questa
professione. Se l’ideologia è importante
per fare gruppo, se spesso intorno ad essa
si fa gruppo anche in campo psicoanalitico, gli autori invitano a ritornare alla
teoria, al lasciarsi interrogare da ciò che i
pazienti dicono e vivono, a cogliere dietro le apparenze le domande centrali che
i pazienti portano. La chiusura in gruppi
rassicuranti, cementati dall’ideologia, è
una possibilità che attrae anche gli psicoanalisti, evitando proprio quell’apertura
alla novità e alla differenza che l’incontro
con ogni paziente comporta e che porta
alle identificazioni nel gruppo attraverso
l’individuazione del nemico, sempre alla
ricerca di garanzie di partenza che permettono di eludere il peso del passato,
l’eco del silenzio di chi abbiamo perso,
dimenticando Bob e le sue domande,
scordando quell’impertinenza per certi
versi sfrontata ma vitale.
Dov’è Bob?
Ambrogio Cozzi
Antonio Erbetta
Pedagogia e Nichilismo. Cinque
capitoli di filosofia
dell’educazione
Tirrenia Stampatori
Torino, 2007,
pp. 144, € 18
Si può tenere come
filo conduttore nella
lettura del testo una
domanda posta dall’autore nell’introduzione “Quale orizzonte politico per un
impegno pedagogico che tenti di suturare la
zeppa che separa il soggetto e la storia?”.
E’ nel tentativo di cercare lo spazio per
una risposta che il testo si snoda da Nietzsche, per cui “l’educarsi” deve essere
“sempre un educarsi contro il proprio tempo, aprendo in tal modo alla prospettiva
del tragico come condizione attiva della
formazione dell’uomo”. Da questa condizione attiva nella formazione si inseguono poi i fili in Bataille, nelle rilettura
di un racconto di Filippini e in Pessoa e
Ottieri. La nozione di nichilismo viene
declinata dall’autore come “negazione
dei valori correnti”, individuando quindi
lo spazio pedagogico come sottratto al
conformismo culturale e all’illuminismo
senza dialettica, configurando il nuovo
campo come “luogo della coscienza culturale entro cui il soggetto tenta la carta della
propria formazione esistenziale”.
Le righe precedenti erano necessarie per
evitare di cadere in risonanze semantiche confusive sul termine nichilismo,
inseguendo echi romantici o autodistruttivi. Qui il nichilista si configura
come “colui che del mondo qual è giudica
che non dovrebbe essere, e del mondo quale dovrebbe essere giudica che non esista”.
Tra sottrazione ad accettazione passiva
della realtà con un contestuale rifiuto
dell’ideale, si scava lo spazio della pedagogia, sottraendosi in tal modo a due esigenze che apparentemente contrapposte
rinviano entrambe alla pedagogia come
educazione all’obbedienza, alla capitolazione del soggetto, alla rinuncia ai pur
ristretti ambiti di libertà esistenti.
Il richiamo alla dimensione tragica non
è casuale, se individuiamo nella tragedia
il luogo della lacerazione, della messa in
scena dell’enigmaticità del mondo, ma
anche il luogo dove viene esaltata l’assunzione di responsabilità, dove divenendo titolari delle nostre azioni possiamo suturare le lacerazioni dell’esistenza,
Cultura 111
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
anche se ne restano le cicatrici.
Quindi il rinvio al nichilismo, così precisato dall’autore, e il suo legame con
la tragedia, individuano il lavoro pedagogico come non garantito ma anche
come sottratto al rinvio all’ideale, e
configurano la possibilità di una pedagogia a “proprio rischio e pericolo”, nel
senso che essa comporta un’assunzione
di responsabilità verso l’altro e verso i
propri atti il cui esito non è garantito.
La non garanzia rimanda allora ad un
effetto sorpresa che provoca una sorta
di spaesamento, di incompletezza, che
Erbetta individua bene nella sua analisi
del racconto di Filippini.
Pedagogia e nichilismo è un testo che rimette in campo l’assunzione di responsabilità individuale, sottraendosi al lamento
facile sull’esistente, al rimpianto di altre
epoche, invitandoci a vivere la nostra, un
richiamo etico alto, che ci annoda al passato, ma per evitare di esserne schiavi, ad
una pedagogia come “messa in questione,
nell’angoscia e nella febbre, di ciò che un
uomo sa del fatto di essere”.
Ambrogio Cozzi
Gaurav Suri, Hartosh Singh Bal
Una certa ambiguità. Romanzo
matematico
Ponte alle GrazieAdriano Salani
Editore, Milano,
2008, Pagine 360
€ 16,80
Il “Romanzo matematico”, come recita
il sottotitolo, affronta il tema filosofico
della ricerca della certezza e la matematica si propone, direi quasi inevitabilmen-
112
te, come modello, come frutto ideale del
pensiero umano, al quale ispirarsi; solo in
questa disciplina infatti sembra valere ciò
che può essere dimostrato attraverso una
catena logica di passaggi sostenuta da definizioni e assiomi iniziali assolutamente
certi e regole di deduzione esplicite: “Tommaso (Ceva) sosteneva che (il libro 1 degli
Elementi di Euclide) era come un’opera di
Bach: partiva da poche sempilici definizioni
che davano il tono e modulava postulati che
crescevano a ogni proposizione, laddove ogni
movimento aveva infinite e sorprendenti
connessioni con quelli che lo precedevano,
culminando nel gran finale del teorema di
Pitagora” (pag. 253).
La vicenda è quella di Ravi Kapoor, un
ragazzo indiano, che a diciotto anni lascia
il suo Paese per frequentare l’Università
di Stanford negli Stati Uniti. Qui viene a
conoscenza del fatto che fa da filo conduttore di tutto il romanzo:Vijay Sahni, suo
nonno, un eminente matematico amante
del jazz, adesso scomparso, ma al quale
Ravi era particolarmente legato, era stato
chiamato in gioventù dall’Università di
Morisette, un piccolo centro vicino a New
York; sempre in questa città era stato poi
arrestato con l’accusa di blasfemia, per un
suo discorso, fatto in una pubblica adunanza, nel quale aveva negato l’esistenza
e l’essenza di Dio. Attraverso le cronache
riportate su vecchie copie del Morisette
Chronicle e documenti di archivio contenenti i discorsi in carcere tra il matematico e il giudice Taylor sul problema della
certezza, discorsi in cui si fa largo uso di
argomenti matematici, Ravi ripercorre
tutta la vicenda giudiziaria del nonno.
Nel frattempo Ravi, spinto da un amico,
decide di iscriversi al corso di matematica
“Pensare l’infinito” del dottor Nico Aliprantis, anche questi appassionato di jazz
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
e suonatore di sax. Inizia così per Ravi e
per un gruppo di suoi tre compagni un
periodo intenso “fatto” di musica e di matematica, nel quale, con la guida di Nico,
domina l’esperienza profonda e affascinante dell’incontro con tutte le problematiche
che l’infinito matematico (l’infinitamente
piccolo e l’infinitamente grande) pone:
molte pagine del libro sono dedicate ai risultati che Cantor, Hilbert, Godel hanno
ottenuto in questo ambito e a quelli che
Bolyai, Lobacevskij e Riemann hanno
ottenuto nell’ambito delle cosiddette geometrie non euclidee, tutti esposti con una
chiarezza che è merce veramente rara.
Nello svolgersi del romanzo la storia dei
colloqui del nonno col giudice Taylor si
intreccia costantemente con quest’ultima
esperienza e i pensieri e le riflessioni che essa
produce sul problema filosofico della certezza; il risultato, forse anche stavolta inevitabile, è che questo cammino porta, di fatto,
al di fuori del contesto della matematica per
ripresentarsi, sgradito ospite, altrove.
Una certa ambiguità è un libro nel quale
percorsi letterari e matematici si incrociano con grande abilità e che propone
un cammino di lettura non usuale ma
che vale la pena di intraprendere fino
alla fine.
Marco Taddei
Maria Zambrano
Per l’amore e per la
libertà, scritti sulla
filosofia e sull’educazione
(a cura di A. Buttarelli)
Editrice Marietti,
Milano 2008
pp. 208, € 24,00
Non sono sicura di essere entrata davvero nello spirito di Maria Zambrano, ma
sicuramente la sento intrigante, come
sempre quando la filosofia viene visitata da una donna. In ogni caso riscontro
nel suo dire espressioni che travalicano i
confini (e questo mi sta bene), ma anche
termini legati a contesti di conservazione o, quanto meno, datati (quale l’affetto discepolare che la fa dipendente dal
maestro Ortega y Gasset); nell’insieme
ci debbo ancora pensare.
Recentissima è uscita la traduzione di
un libro di suoi interventi “sull’educazione” già edito in Spagna da Angel Casado e Juana Sanchez-Gey (Maria Zambrano, Per l’amore e per la libertà, scritti
sulla filosofia e sull’educazione, a cura di
Annarosa Buttarelli, Marietti, 2008)
che mi ha suscitato non poco interesse.
A prescindere dagli equivoci che possono sorgere dalla sua predilezione, per
esempio, per il temine vocazione usata
per l’ arte del maestro, alcune notazioni
sono realmente affascinanti. Mi soffermo sul valore dell’nfanzia.
A partire dal suo far riferimento alla
nascita e alla vita - che la collega ad
Hannah Arendt, quando osservava che
Omero chiama gli uomini “i mortali”
e non (come direbbe una donna) “i
viventi” - Maria, nella parte Sull’educazione e sull’insegnamento (1949-1977),
dice a proposito dell’infanzia: “L’infanzia è un vero continente mai abbastanza
esplorato perché è l’immediata continuazione della cosa più decisiva e misteriosa
della vita: la nascita. Forse, fino a ora, la
morte ha ossessionato la mente occidentale
molto più della nascita, ma la verità è che
parlare di morire non è gran cosa rispetto
all’essere nati”. E’ davvero sull’essere vivo
e sentirsi unico che si fonda ogni trasfor-
Cultura 113
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
mazione morale, spirituale e anche fisica. Zambrano sostiene che “nascere non
è un fatto riducibile all’essere. L’uomo è,
prima di tutto, un nato, un essere vivente
nato” . Risulta evidente che Heidegger
non aveva mai partorito se non pensieri.
“Rivelazione”, dunque, fondamentale
non è essere per la morte, ma “trovarsi
nati nella vita ed essendo; essendo già e
andando verso l’essere”. Per questo l’infanzia è “una continuazione della nascita,
il nascere che si fa manifesto” e che vive
sotto il segno della dipendenza dal cibo
cognitivo come da quello alimentare.
“Se fosse possibile scoprire il coefficiente
di desiderio nell’epoca dell’infanzia, si
avrebbe un’indicazione di estrema importanza nel futuro. Ma il desiderio, quella
tensione aperta a ricevere tutto, dipende
in gran parte dall’ambiente; tanto l’estrema insoddisfazione come l’opposto possono sciogliere ma anche fissare in maniera
indelebile il desiderio illimitato in colui
che è sottomesso al suo dominio”. Ma vi
è anche un’altra tendenza del desiderio,
che “procede dall’essere che lotta per la sua
indipendenza, senza rendersene conto....e
porta un essere umano fino al suo ultimo
dispiegarsi, la radice stessa della libertà,
dell’inesorabile libertà”. E’ qui che appare il senso del futuro, la creazione del
tempo propriamente umano: “il desiderio elementare che si aspetta tutto in
realtà non sbuca da un prolungato presente; se permanesse al suo interno, l’essere non avanzerebbe di un passo, anche
se lo sviluppo fisiologico dell’organismo
proseguisse normalmente...”. Il progetto
educativo di Zambrano vede nella chiusura dell’orizzonte cognitivo implicito
nel desiderio che non si evolve la causa dell’infantilismo e il ritardo mentale
del bambino dominato dall’avidità. La
114
tendenza verso il futuro “già presente
nel primo involucro della nascita”, viene
sostenuta e fatta crescere nella famiglia
e nell’educazione. Affrontare la realtà
propria di soggetto e del mondo che sta
attorno da ogni parte trova il bambino
in condizioni di solitudine e di conflittualità: i genitori (spesso ignari della
complessità dei processi educativi) in
primo luogo, poi i maestri e gli adulti in genere debbono aiutarlo a uscire
dall’infanzia, senza fargliela perdere del
tutto. Zambrano dice, con un termine
un po’ arcaico che l’infanzia resta come
patria indistruttibile. Infatti “l’infanzia è
il luogo che si porta sempre con sé nel bene
e nel male....è la tappa iniziale della vita
che dev’essere superata come le altre, ma
alla quale si dovrà ricorrere una e un’altra volta ancora, e non solo in virtù della
nostalgia, ma per il fatto che è l’infanzia
il luogo in cui ci siamo risvegliati alla vita
dall’interno della cura, della tenerezza e,
quasi sempre, dell’amore”.
Giancarla Codrignani
Luisa Fressoia
Profumo di pane.
Voci, storie e memorie del ‘900.
Raccolta di autobiografie dall’Umbria
Ali&No Editrice,
Perugia 2007,
pp. 152, € 16,00
Il volume raccoglie
le memorie scritte da un gruppo di 10
anziani nati in Umbria e che vivono a
Perugia o nei paesi intorno alla città,
sulla valle del fiume Tevere.
Le storie ripercorrono i grandi cambia-
Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura/scelti_per_voi
menti che hanno segnato il secolo appena trascorso, in particolare il passaggio dalla società rurale e contadina alla
società del benessere. Esse ci raccontano, in una lingua ogni volta originale,
i traumi e l’entusiasmo, soprattutto i
valori attorno a cui si susseguono e si
intrecciano gli eventi, e che determinano le scelte, i comportamenti, i gesti, le
parole di uomini e donne e bambini; ci
descrivono in forma minuziosa la vita
che si svolge nella casa contadina, il sogno che segue di una casa di proprietà
e il sopraggiungere delle macchine che
cambiano la vita nelle campagne.
“Questo libro è una celebrazione dei valori di un’intera generazione”, scrive nella
prefazione Laura Formenti: “il valore/
passione del sapere, del capire, dell’onestà,
della democrazia, della convivenza e della convivialità, ma anche della persona
amata”.
E le storie raccontano della madre e
del padre, della determinante funzione
educativa da questi svolta, della forza,
ancora presente, che il loro amore ha
impresso nella propria vita. “Valori, che
- rileva la curatrice Luisa Fressoia - lungi
dal rimanere astrazione o idealità, si materializzano nella famiglia, nella scuola,
nella chiesa, nella comunità, nel paese,
cioè in tutte le strutture deputate all’educazione e alla socializzazione di quelle
stesse persone. Si manifestano nell’etica del
lavoro, nella solidarietà, nel rispetto delle
Istituzioni (…) affiora dalle storie la consapevolezza di un bisogno di elevazione o
di “trascendenza a cui le persone rispondono in varie forme…”
L’amore e i valori, ancora, sembrano
essere il filo conduttore dei ricordi; attorno a questi le memorie si aggregano
e diventano una Storia a tutti gli effetti,
dotata di una trama, con una propria
coerenza e organicità.
L’invito a scrivere di sé è stato raccolto
con creatività generosa dagli autori di
queste storie, che ci consegnano, attraverso i delicati affreschi della quotidianità, le voci, le credenze, i misteri e gli
stessi luoghi della memoria; tratti che
accompagnano l’esistenza e l’incredibile vitalità di questi autobiografi, i quali
svolgono una parte molto attiva anche
oggi da pensionati, e che ci rimanda al
concetto di cura, nel suo senso più profondo di “avere a cuore” se stessi e gli
altri.
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Pedagogika.it/2009/XIII_1/cultura
ARRIVATI_IN_REDAZIONE
Grazia Honneger Fresco
I figli, che bella fatica. Il mestiere del genitore
Edizioni dell’Asino, Roma, 2008, pp.184, € 14.00
Il duro ed esaltante mestiere del genitore in un contesto sociale sempre più difficile e condizionato dall’invasività dei media
e del modello consumistico. L’educazione e la genitorialità
di fronte alla prima infanzia e all’adolescenza. Si tratta di un
tema sempre più importante di fronte al ruolo negativo che
hanno le altre “agenzie educative” delta nostra società. L’effetto invasivo della TV e la crisi del sistema scolastico assegnano
ai genitori un ruolo sempre più importante…
Halima Bashir, Damien Lewis
La bambina di sabbia
Sperling & Kupfer, Milano, 2009, pp. 325, € 18.00
Le tiepide notti nel deserto del Darfur e le dolci ninnananne materne
sono i primi felici ricordi di Halima, una giovane donna della tribù nera
degli zaghawa, nata e cresciuta in un villaggio ospitale nel sud della regione. Motivata dalla forza di carattere, Halima impara presto ad affrontare
le difficoltà: si oppone con orgoglio alle compagne e alle insegnanti arabe
che la discriminano, riesce a laurearsi e diventa il primo medico della
sua comunità. Intanto, però, la minoranza araba al governo scatena una
feroce campagna repressiva contro le popolazioni nere...
Daniel Woodrell
Un gelido inverno
Fanucci. Roma, 2007, pp. 224, € 15.00
Ree Dolly è una ragazzina delle campagne del Missouri, esile e
pallida, e passa le sue giornate prendendosi cura della madre malata e dei fratelli minori. Suo padre, Jessup, è uscito di prigione impegnando la fattoria per pagare la cauzione, e poi ha fatto perdere
le proprie tracce. La data del processo si avvicina, e se l’uomo non
si presenterà in tribunale, la casa verrà confiscata. È così che Ree,
spinta dalla forza della disperazione, indossa un vestitino giallo...
La paura di essere padre
Magi., Roma, 2007, pp. 171, € 16.00
La paternità rappresenta, da sempre, un ambito particolarmente problematico. Ce lo raccontano i miti, ce lo svela la
Bibbia, continua a testimoniarlo la quotidianità. Può sembrare quasi un paradosso che, mentre la psicoanalisi tutta di fatto
si fonda sul Padre, alla paternità venga dedicato così poco
spazio. Ogni neo-padre ripercorre la storia evolutiva lunga
millenni e i grandi temi mitici vengono rivissuti ogni volta...
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Henry Krystal
Affetto, trauma, alessitimia
Magi., Roma, 2007, pp. 475, € 44.00
È un volume sull’equilibrio emotivo dell’individuo e sui processi che lo creano e lo sostengono, sugli eventi che lo minano
e, qualche volta, lo distruggono e sulle modalità di cura – sia
psicoterapeutiche che autoterapeutiche – che cercano di ripristinarlo. L’alessitimia, la difficoltà a riconoscere e a descrivere
i propri sentimenti, rappresenta il punto focale dell’intera
trattazione…
Fulvio De Giorgi
Il medioevo dei modernisti
Editrice La Scuola, Brescia, 2009, pp. 352, € 24.00
Il volume, che coniuga la storia dell’educazione e della pedagogia con quella della cultura italiana tra Ottocento e Novecento, focalizza l’attenzione sul periodo del modernismo.
Partendo dallo studio di Fogazzaro, Gallarati Scotti, Semeria
e Murri fino a Tocco e Prezzolini...
Dario Ianes, Vanessa Macchia
La didattica per i bisogni educativi speciali. Strategie e
buone prassi di sostegno inclusivo. Con cd-rom
Centro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2008, pp. 200, € 19.50
Il libro presenta una metodologia di didattica speciale, cioè più
efficace e più umana, alcuni metodi specifici di lavoro e varie
“buone prassi” realizzate. L’insegnante avrà così a disposizione
una cornice culturale generale, modelli operativi ed esempi...
Monica T. Whitty, Adrian N. Carr
Incontri@moci. Le relazioni ai tempi di internet
Centro Studi Erickson, Gardolo (TN), 2008, pp. 256, € 16.00
Con un ricco apparato bibliografico e solidi dati di ricerca il
volume esamina le implicazioni relazionali dei nuovi media:
in che modo le relazioni online sostituiscono, integrano,
entrano in conflitto o amplificano quelle tradizionali o ne
inaugurano di nuove? “lncontri@moci” è un arguto saggio
sull’identità e l’alterazione della rappresentazione di sé
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in_vista
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L’educatore sociale
in un mondo globalizzato
AIEJI XVII World Congress, Copenhagen, 4-7 May 2009
Il presidente dell’AIEJI (Associazione Internazionale Educatori Sociali), Benny
Andersen non ha dubbi: il convegno AIEJI di Copenhagen sarà un’opportunità
unica per tutti i membri della Federazione Nazionale degli Educatori Sociali di
fare una straordinaria esperienza e di scoprire cosa succede negli altri paesi
incontrando altri colleghi dall’estero.
Benny Andersen invita tutti a partecipare al XVII Convegno AIEJI: “Cogliete l’occasione e
raggiungeteci! Sarà divertente oltre che un importante momento di riflessione”, dice, anche se,
con il suo entusiasmo rischia che il numero dei partecipanti sia oltre la soglia prevista.
“Ci organizzeremo. Possiamo tranquillamente arrivare a 1.000 persone e anche di più” dice
Benny Andersen con uno sguardo che lascia trapelare la preoccupazione di far quadrare i
conti. In particolare quando promette ingressi gratuiti ai 200 volontari che sono necessari
per l’organizzazione e le 350 famiglie che offriranno ospitalità agli ospiti stranieri.
All’ultimo convegno mondiale in Uruguay, il vicepresidente della SL è stato eletto presidente del network globale degli educatori sociali. Per lui questo congresso di quattro giorni
di Copenhagen riguarda molto più che le mere politiche educative.
Si tratta di avere un’esperienza personale che conta almeno come una settimana di formazione, se non come
più settimane. Quasi a costo zero. Andersen pensa che i datori di lavoro dovrebbero concedere dei permessi
retribuiti durante il congresso. Sicuramente sarà valsa la pena di aver fatto questo investimento.
Pratica e teoria
“Incontrerete educatori dai più svariati paesi di provenienza, eppure si scoprirà che i loro problemi sono simili ai vostri problemi. Incontrare colleghi e pari in questo modo accresce molto, favorisce la riflessione e porta nuove conoscenze che sono spendibili poi nel proprio lavoro”, dice.
Benny Andersen stenta a trovare le parole giuste per descrivere l’energia che si viene a creare quando quasi un migliaio di educatori sociali con un background così differente si trovano a discutere
di educazione sociale – non di counselling o lavoro sociale in generale, ma esattamente dell’intersezione tra persone, organizzazioni e politiche sociali dove gli educatori si trovano ad operare.
“Metteremo insieme le relazioni degli esperti alle discussioni al creare contatti: il convegno sarà
un misto di workshop e interventi teorici con l’apporto dei migliori teorici e operatori sul campo
del mondo.” promette il presidente dell’AIEJI.
Il suo entusiasmo è sincero e frutto della sua esperienza personale, dapprima come partecipante al Convegno di Barcellona del 2001 e tre anni fa di nuovo a Montevideo dove venne
eletto presidente.
Ama il lavoro internazionale, gli incontri in paesi lontani e dal punto di vista personale e
professionale la sua è una vera e propria passione. Cominciò nel 2001 quando partecipò a
Barcellona con altri 11 educatori dalla Danimarca.
“Due degli altri danesi conducevano un workshop, il primo sulla psichiatria infantile e il secondo sul lavoro con i senzatetto mentre noi semplicemente partecipammo al convegno. Mi aprì
letteralmente gli occhi” dice.
Rompere il ghiaccio nell’educazione sociale
Nel 2001 il Congresso mondiale verteva sul tema piuttosto sterile della documentazione e
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della qualità. “Partecipai a un workshop dove due operatori di un’istituzione americana di reinserimento di delinquenti minori spiegavano come lavorano sulla valutazione. Quella istituzione
spendeva il 10% del loro budget sulla documentazione e la riflessione. Al workshop partecipavano
trenta persone e i due conduttori, nel migliore stile americano, snocciolavano dati sulle performance e risultati misurabili. Quando arrivammo alla domanda della sessione tutto divenne molto più
concreto. Chiesi loro se dovevano preparare tutta quella documentazione per far piacere al loro
sponsor, la Kellogg’s, ma in realtà essi erano più interessati al processo che non ai risultati. Avevano
trasformato le conoscenze empiriche in conoscenze misurabili, con tanto di dati e numeri, e questa
parte era praticamente obbligatoria nel loro tirocinio così come lo era per gli operatori riflettere e
cercare di migliorare la loro professionalità”, dice Benny Andersen. Nel loro budget e per ogni
educatore sociale erano previsti 20.000 dollari per lo sviluppo di competenze e 5.000 dollari
che gli educatori erano liberi di spendere in corsi di formazione a loro scelta.
“Ciò che mi colpì è quanto poco valore diamo al nostro lavoro. Come educatori sociali produciamo continuamente nuove conoscenze attraverso la nostra pratica. Se tutto va bene le condividiamo con i nostri colleghi o le appuntiamo sul nostro notes, ma non si va più in là di quello”
dice Andersen.
Era il 2001. Quando Andersen tornò a casa dal congresso era stato ispirato dai workshop e
desiderava lavorare su percorsi di qualità all’interno della sua associazione, la SL. Da allora
ha organizzato dei viaggi di istruzione nelle istituzioni del Michigan i cui operatori hanno
poi visitato la Danimarca.
“Abbiamo avuto dei risultati concreti: i due libri pubblicati sul miglioramento attraverso la qualità sono diretta conseguenza del lavoro cominciato proprio nel workshop di Barcellona”, spiega.
Il contatto personale
Sempre a Barcellona Benny Andersen ha incontrato un catalano, Jordi, e dopo qualche
birra, una sera sono diventati amici e lo sono da allora. Come Benny anche Jordy è un
sindacalista attivo, ma lavora anche con i senzatetto nella periferia di Barcellona.
“Eravamo stati all’Assemblea Generale nel pomeriggio e avevamo sostenuto ognuno il nostro candidato alla presidenza. Di sera avevamo continuato a discutere e infine eravamo riusciti a capire i
nostri diversi punti di vista. Da allora ci siamo incontrati molte altre volte. Mi ha fatto conoscere
Barcellona e lui è venuto a visitare Copenhagen e a vedere concerti rock” spiega Andersen.
Benny stimava così tanto Jordi da proporre che si candidasse per le elezioni della presidenza AIEJI
nel 2005. Che la stima fosse reciproca fu chiaro quando Jordi propose, nello stesso momento che
Benny si candidasse. Tutto ciò avveniva nel Congresso Mondiale di Montevideo, Uruguay.
“Per me come educatore sociale era molto interessante visitare un’istituzione di un ghetto che
lavora con i bambini di strada. I loro metodi sono diversi dai nostri ma come denominatore
comune abbiamo che gli educatori sociali devono relazionarsi con le condizioni che ci fornisce la
società, non importa se sia a Rio o in Danimarca”, dice Benny.
“E’ sorprendente quante cose ci uniscano. Siamo uniti nel cercare di portare attenzione sulle
conseguenze delle decisioni politiche. Dobbiamo agire politicamente se vogliamo fare il nostro
lavoro fino in fondo – vale a dire essere la voce di chi non ha voce”.
Andersen sapeva già tutto ciò ma fu una grande esperienza fare migliaia di kilometri per arrivare alle stesse conclusioni attraverso una prospettiva completamente diversa, quella dei bambini poveri e di un’istituzione quasi altrettanto povera che faceva un’impressione tremenda.
Rispecchiarsi
Ma al Congresso non si avrà solo modo di trarre ispirazione dal resto del mondo ma si avrà anche
la percezione della prospettiva degli altri riguardo le pratiche europee o nazionali, in questo caso,
danesi. Benny Andersen dice di averlo sperimentato egli stesso al Congresso di Montevideo.
“Durante un workshop degli uruguaiani mi chiesero come lavoravamo. Gli raccontai del personale nei centri residenziali e di come sia importante lavorare sulle relazioni” racconta Benny.
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Gli altri partecipanti del workshop trasalirono. In molti paesi latino americani normalmente vi è un educatore sociale ogni 20 ragazzi. “Dopo lo stupore iniziale mi chiesero: ‘e chi
rimpiazza l’educatore quando i ragazzi poi devono andare avanti con la loro vita?’ E avevano
ragione perché dovremmo essere consci che i legami personali per quanto possano essere forti sono
comunque transitori”, dice.
Benny Andersen è sicuro che anche al Congresso di Copenhagen gli educatori avranno
modo di avere esperienze simili con le proprie istituzioni e pratiche professionali messe in
discussione dai visitatori stranieri e conclude quindi con l’invito a partecipare al convegno
poiché se le pratiche e le istituzioni danesi sono conosciute dai più di certo non lo sono le
reazioni internazionali ad esse.
Articolo tratto da SocialPaedagogen, n. 65
Traduzione di Nicoletta Re Cecconi
Le iscrizioni sono aperte online sul sito www.aieji2009.dk dove si trovano anche altre informazioni sul Congresso.
La dichiarazione di Montevideo
Come educatori sociali dobbiamo capire la complessità della globalizzazione per analizzare e valutare i possibili sviluppi della nostra professione nel mondo globalizzato.
Le nostre competenze professionali sono messe in discussione – quelle competenze
che abbiamo definito come professionali nella Dichiarazione di Montevideo al XVI
Congresso Mondiale dell’AIEJI nel 2005 come segue:
Riaffermiamo e confermiamo l’esistenza del campo dell’educazione sociale come un
compito specifico teso ad assicurare i diritti delle persone per le quali lavoriamo, e che
richiede il nostro impegno continuo a livello etico, tecnico, scientifico e politico.
Per svolgere questo impegno il ruolo dell’Educatore Sociale deve essere consolidato
attraverso l’integrazione in gruppi di lavoro e organizzazioni.
Questo compito richiede che l’Educatore Sociale abbia una buona formazione iniziale
e permanente.
La sua formazione deve focalizzarsi sulla pratica con una continua analisi critica.
Consideriamo il processo della sistematizzazione della pratica professionale un importante modo di contribuire alla formazione, all’accrescimento professionale – che è un
diritto degli utenti dell’educazione sociale e all’approccio dei nostri obiettivi politici e
pedagogici.
Riaffermiamo che l’etica deve essere un riferimento continuo, concepito e perseguito
collettivamente con la partecipazione critica dei soggetti.
Come Educatori Sociali rinnoviamo il nostro impegno per la democrazia e la giustizia
sociale, difendiamo il nostro patrimonio culturale e i diritti di tutti gli esseri umani.
Siamo convinti che un altro mondo è possibile.
Montevideo, 18 novembre 2005
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