ostello della gioventù a Parigi

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ostello della gioventù a Parigi
Irina e il Prof
maggio 2009
«Scusami Igor. Ho avuto una giornata piuttosto densa e non vedo l’ora di andare a
dormire. Se non ti dispiace facciamo domani sera». Mentre finiva la frase al telefono
sentì Irina esclamare qualcosa in russo. Cercò di coprirla, sperando che Igor non
l’avesse udita, aggiungendo: «Sì, dai. Mi racconti domani». Gli parve di sentire un
attimo d’indecisione al di là del filo, ma subito Igor concluse con l’intesa di sentirsi il
giorno dopo.
E se l’amico avesse udito la voce femminile e recepito il suo tentativo di celarla? Come
giustificarsi? Pur col cameratismo e la consolidata familiarità acquisita in quasi
vent’anni di amichevole, naturale, franco sodalizio c’erano aspetti, pensieri e intimità
della propria vita che non sentiva e non intendeva manifestare. Quanto gli era capitato
da due giorni era uno di quegli intimi aspetti che riguardavano il suo animo profondo e
– almeno per il momento – non se la sentiva di manifestarlo a nessuno al mondo. Specie
in questo caso, in questa sua strana e sorprendente avventura – era già un’avventura la
sua? – con una giovane che poteva esser sua figlia. Che gli stava procurando una
inimmaginata dolce gioia, ma che nello stesso tempo gli faceva provare quell’imbarazzo,
specie se la cosa fosse andata oltre loro due. Comunque forse Igor non aveva inteso. O
poteva pensare ad amiche di Nabìl. Mi sto suggestionando… Intrinseco senso di colpa?
«Irina, avevi detto qualcosa mentre ero al telefono? Non ho capito». La giovane non
rispose. La trovò addormentata dove l’aveva lasciata poco prima, Minerva sempre
accovacciata ai piedi. Sorrise guardando la bottiglia di vodka vuota per terra accanto
al letto. Le aveva fatto effetto. Forse anche in quel suo lasciarsi andare nell’amore. Si
soffermò ad ammirarne il corpo nudo e lo pervase di nuovo quel pieno senso di gioia
così raro nella vita. Minerva aprì un occhio accorgendosi di lui.
Lasciò la stanza in punta di piedi, andò in cucina e mise sul gas l’acqua per la pasta.
L’acqua stava quasi bollendo che la sentì: «Ouch!». E qualcos’altro in russo. Andò da lei.
«Ho mosso il piede e la gattina me l’ha morso. Anche prima mentre telefonavi.
Dev’essere un passatempo comune per i gatti. Mi capita anche con Masha, la gatta di
mia nonna Olga. Come hai detto che si chiama?». «Si chiama Minerva, come la dea della
guerra». «La dea della guerra? In quale religione? Non certo nel cristianesimo da voi».
Lui rise. «Nooo. Era una dea dell’antica Roma quando la città era la capitale di un
grande impero». «Quando?». Si meravigliò che non ne sapesse niente. «Non hai
studiato la storia a scuola? Non sai niente dell’Impero romano?». «Ora che me lo dici,
ricordo che a scuola s’era trattato dell’Impero romano che andava a finire fino
all’attuale Inghilterra, ma la storia dei paesi al di là dell’Unione Sovietica e dei suoi
satelliti era considerata superficialmente… Beh, allora la gattina Minerva è una dea. Ci
proteggerà», concluse ridendo.
Parlando, lui l’aveva guardata mentre si rivestiva. E la trovò bella. Naso compreso.
«Irina, ti piace il piccante?». «Sì, ma non quando lo è troppo». «Come me. In passato,
quando lavoravo nel Sultanato d’Omàn, nella Penisola araba, mi toccava spesso la cucina
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pachistana e indiana. Pepatissime. Finivo sempre con le lacrime agli occhi da
meravigliare i miei compagni di tavola. Indiani e pachistani, ovviamente. Bene. Allora
preparo una pasta all’italiana condita con olio, aglio e un po’ di peperoncino rosso. È un
tipico piatto italiano che si prepara rapidamente. Da giovane ricordo che capitava di
farcelo, per sfizio e per concludere la serata, a mezzanotte a casa di qualcuno di noi.
A Nabìl piace molto e porta sempre dall’Italia, dove si reca spesso per lavoro, tutti gli
ingredienti necessari per questo ed altre specialità gastronomiche italiane».
Mentre aglio e peperoncino soffriggevano nell’olio egli prese una bottiglia di vino rosso
libanese. «Forse hai bevuto troppa vodka e non hai voglia di vino?». «La ‘sento’ ancora
ed è piacevolissimo. E sarà ancora più piacevole bere del vino con la tua pasta che, dal
profumo, sarà senz’altro squisita». Sorridendo gli si era avvicinata, gli strinse la mano
e alzandosi appena sulle punte dei piedi gli baciò l’angolo delle labbra, accarezzandolo
con la punta della lingua. Gli parve d’udir sussurrare pianissimo “I love you”. Un lampo
di nuovo desiderio lo inondò. La strinse a sé baciandola e accarezzandola. Lo distolse lo
sfrigolio del soffritto.
La tipica pasta italiana ‘d’emergenza’ fortunatamente stavolta gli riuscì bene, esito non
sempre scontato data la sua ammessa imperizia culinaria, senza rimpianti. Ed Irina
sembrò apprezzarla particolarmente. Anche se – gli venne da pensare – forse solo
perché in quel momento lei non poteva che mostrar di gradire qualunque cosa lui le
offrisse. E non si tirò indietro neanche col vino rosso che le arrossò ulteriormente le
guance e le fece luccicar gli occhi. La guardava e le appariva sempre più bella. Me ne
sto innamorando? Ma no! È l’effetto del vino.
«Prof, deliziosa la tua pasta. E mi dici che non sai cucinare». S’erano seduti sul divano
portandosi i bicchieri di vino. «Grazie per il complimento. È stato un caso. E forse
anche un po’ di indulgenza da parte tua», sorrise. «No, Prof. La prossima volta provo a
fartela io. Ho visto che la sua preparazione è abbastanza semplice, anche se non credo
di riuscire meglio di te». Bagolarono un po’ di cucineria varia. Poi Irina prese la
chitarra lì accanto e gliela porse: «A momenti devo andare, ma voglio lasciarti solo
dopo che mi avrai cantato una canzone a te particolarmente cara, una canzone che ti
suscita bei ricordi e che poi porterò con me».
Il Prof, quasi senza pensarci, prese la chitarra. La minore. «In gioventù. Studente. In
un ostello a Parigi con delle amiche romane conosciute facendo autostop…».
The House of the Rising Sun
There is a house in New Orleans
They call the Rising Sun
And it’s been the ruin of many a poor boy
And God I know I’m one
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La chitarra era lì, stesa sull’erba. Qualcuno dei giovani attorno l’aveva
momentaneamente abbandonata.
Lui le s’era seduto accanto e l’aveva presa, mentre Marisa e Franca gli s’erano
accomodate dappresso, quasi avessero intuito un’imminente magia. Dlon, dlan, dlen,
dlin, un rapido arpeggio per verificar l’accordatura e via in la minore, do maggiore, re
maggiore. Aveva preso a cantare quel tradizionale folk americano che narra di un
giovinetto (o era una giovinetta?) persosi nel bordello del Sole nascente gestito da
Marianne Le Soleil Levant, giunta da Parigi a New Orleans trasferendovi la sua
benemerita attività.
My mother was a tailor
Sewed my new blue jeans
My father was a gamblin’ man
Down in New Orleans
L’ampio prato dell’ostello della gioventù di Saint Ouen a Parigi, non lungi dal noto
Marché aux puces, nel tardo pomeriggio si riempiva dei giovani ospiti stranieri che – di
ritorno dai loro tour parigini – vi si raccoglievano per un breve relax, in attesa della
cena o di un’uscita serale prima che chiudesse il loro asilo notturno.
Now the only thing a gambler needs
Is a suitcase and a trunk
And the only time he’ll be satisfied
Is when he’s all drunk
Arrivavano alla spicciolata, due, uno, tre, quattro, ragazzi, ragazze, biondi, africani.
Qualcuno tirava dritto alle camerate, altri, i più, si soffermavano sul prato, si
sedevano sull’erba, a chiacchierare, a resocontarsi. A sbaciucchiarsi, qualche coppia
solitaria che si credeva sola. Ad ascoltare un solitario che cantava per sé
accompagnandosi ad una chitarra raccolta dall’erba.
Oh mother, tell your children
Not to do what I have done
Spend your lives in sin and misery
In the house of the Rising Sun
La minore, do maggiore, re. D’un tratto, lui percepì – senza farci troppo caso – che la
chiacchiera attorno s’era attenuata sciogliendosi in un lieve brusio in dissolvimento. Le
coppiette solitarie s’erano momentaneamente distolte.
Well I’ve got one foot on the platform
The other foot on the train
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I’m going back to New Orleans
To wear that ball and chain
Tutti ora ascoltavano compresi di quel giovinetto (o era una giovinetta?) che prendeva
il treno per tornare dove l’ineluttabile destino lo riconduceva.
Well, there is a house in New Orleans
They call the Rising Sun
And it’s been the ruin of many a poor boy
And God I know I’m one
La minore, do maggiore, re, fa, la minore, mi...
Al dlan, dlen, dlin dell’arpeggiato la minore conclusivo lui chiuse gli occhi e piegò la
testa quasi appoggiando la guancia nell’incavo della cassa armonica dello strumento.
Seguirono due secondi due di silenzio totale che gli diedero la percezione tangibile
che il mondo si fosse fermato, quasi che tutti gli elettroni attorno avessero fatto
pace coi protoni accostandosi al silenzioso sit-in dei neutroni. Poi, improvviso,
spontaneo, inatteso (a lui), scoppiò l’applauso.
(continua alla prossima)
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