ASSASSINIO

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ASSASSINIO
ASSASSINIO
di Bruno Burdizzo
Cascina Macondo – Scritturalia, domenica 9 Novembre 2003
Bang. Finito. Cioè, per la verità la storia inizia qui. Dovendo raccontare un
assassinio mi sembrava giusto partire dallo sparo. Bang. Finito. Si, per lui è finita
davvero. Per lui: la vittima. Un dolore caldo nella schiena, come uno spintone,
un frastuono assordante, e nient’altro. Per noi, invece, inizia adesso.
E allora incominciamo ad analizzare gli eventi con metodo scientifico: dove e
quando avviene il fatto? chi è l’assassinato? chi, e perché, l’ha assassinato?
Domande alle quali cercheremo di dare una risposta.
Beh, dove e quando avviene il fatto è la cosa più semplice, quello si sa: nove
novembre. La primavera è alle porte. Il bosco comincia a pitturarsi di minuscole
foglioline verdi. Il calafate è in piena fioritura. L’oceano infuriato tuona contro le
scogliere nere della Isla Ultima Esperança. Il faro soccombe sotto un cielo grigio,
ma all’orizzonte, dove il Canal Beagle si apre e diventa Oceano Pacifico, una
striscia opalescente d’azzurro si sdraia tra cielo e mare. La baracca di Tomàs è
addossata alla scogliera. Spruzzi salmastri arrivano fin lassù quando il mare,
la corrente e il vento ce la mettono tutta. E’ quasi sera e in quella luce grigia, che
filtra ancora dalla finestrella, il lume a olio che Tomàs ha appeso già incomincia a
rischiarare illuminando d’oro le stoviglie di rame, d’argento le posate di stagno,
di ghiaccio un bicchiere sul tavolo, di pietra la ghisa della stufa spenta, di seta il
lago di sangue sotto il corpo di Tomàs. Tomàs è sdraiato sulla schiena, le braccia
aperte, le gambe scomposte e lo sguardo spalancato verso l’alto, verso le lamiere
del soffitto, verso le ragnatele, verso il Cielo. Con la C maiuscola.
Alla prima domanda abbiamo risposto: dove e quando avviene il fatto. Ma era
anche la più facile. Ora viene il bello: chi è l’assassinato? Va beh, è Tomàs,
d’accordo, ma chi è Tomàs? A prima vista un vecchio: un bel vecchio: barba più
bianca che grigia, un volto tutto rughe riarso dal sole dal vento e dal mare,
un fisico secco, asciutto, magro, ma forte: un fascio di nervi. E’ vestito come un
marinaio: camicia spessa, felpata, a scacchi, calzoni di tela, stivali, e un berretto di
lana che cadendo e picchiando la testa contro uno sgabello gli è scivolato via
lasciandogli i lunghi capelli biondi spettinati. Ma a questo punto altre domande
s’impongono: è chiaro che Tomàs vive solo in quel posto sperduto, lontano dal
mondo, e allora qual è la sua storia? Frugando nel suo portafoglio (ho fatto una
certa fatica a tirarlo fuori dalla tasca dei calzoni intrisi di sangue, senza spostare
troppo il corpo) frugando nel suo portafoglio ho trovato un vecchio documento,
con una fotografia irriconoscibile, scritto in una lingua strana: sembra turco.
Ho fatto le mie ricerche e alla fine ho scoperto che Tomàs non si chiama affatto
Tomàs e qui in Cile è straniero . Viene nientemeno che dall’Armenia, pensate un
po’! E’ originario di un villaggio con un nome impossibile che si trova nella
regione armena della Turchia orientale, alle pendici del monte Ararat (quello
dell’arca di Noè) quasi al confine con l’Azerbaijan. Il suo vero nome è Igor, con
un cognome tutto acca cappa e ipsilon che me lo sono segnato da qualche parte
ma non me lo ricordo più. E allora che ci fa qui, dall’altra parte del mondo? E chi
gliel’ha fatto fare di venire a crepare in questo posto dimenticato da Dio e dagli
uomini che si chiama Isla Ultima Esperança?
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Le autorità cilene non hanno trovato niente, qui. Hanno aperto l’inchiesta e poi
l’hanno richiusa: Tomàs, alias Igor Accakappaipsilon, vive in Cile da vent’anni,
solo, praticamente nessuno lo conosce, e un giorno, il nove novembre, qualcuno si
arrampica fin quassù e gli spara una fucilata nella schiena. Poi sparisce per
sempre. Caso Chiuso.
Se io fossi uno degli inquirenti che lavorano al caso di Igor-Tomàs, un poliziotto
qualunque, potrei fermarmi qui: mi verserei un po’ d'acqua calda nella mia
zucchetta piena di yerba màte, mi chupperei l'infuso con calma dalla bombilla,
come con calma sanno chupàr el màte solo i cileni, poi me ne tornerei a casa dove
mi aspetta Maria Dolòres con i bambini: Hòla, Manuèl, que pàsa? Nada, Maria
Dolòres, solo un morto ammazzato alla Isla Ultima Esperança... è pronta la
comìda?
Ma io, ahimè, non sono Manuèl. Ho una responsabilità ben più grande. Io devo
assolutamente risolvere il mistero. Assolutamente. Questa storia l’ho inventata io
e quindi ora mi tocca andare avanti.
E allora? E allora si parte per l’Armenia.
All’aeroporto di Dyarbakyr ho trovato Ibrahim ad aspettarmi con la jeep. Ibrahim
è un ebreo turco di origine araba figlio di madre armena e padre aghano. Insomma
un miscuglio impossibile. Però ha il pregio di conoscere bene lingue e culture di
questa terra. Gli ho mandato un fax con i dati di Igor-Tomàs e lui ha fatto alcune
ricerche per me. Ora attraversiamo a tutto gas l’altopiano anatolico battuto dal
vento. Fa un freddo porco. Qui a novembre non è primavera. Il cielo, però, è lo
stesso cielo del Cile: grigio e basso con una striscia di azzurro all’orizzonte. Solo
che al posto dell’oceano ora c’è un mare d’erba gialla, al posto delle scogliere ci
sono i monti del Tauro Armeno, e là di fronte si staglia la piramide bianca
turchina del monte Ararat.
Il villaggio dal nome impossibile sono quattro case di pietra e merda secca,
muretti, cortili, qualche cane scheletrico, più capre che abitanti. Addossate alle
case ci sono ordinate cataste di mattonelle di merda secca. La merda secca, infatti,
oltre ad essere un buon cemento per le case, è anche l’unico combustibile
disponibile su quell’altopiano spazzato da un vento bastardo dove non c’è
neanche un albero che abbia il coraggio di crescere. Irina abita lì. Lasciamo la
macchina davanti a casa sua e la troviamo sulla soglia ad attenderci: già da
mezz’ora ha visto la polvere della nostra jeep sollevarsi all’orizzonte.
Nella piccola cucina, non poi tanto diversa da quella della baracca di Igor-Tomàs,
la stufa è rovente. C’è una lampadina debole, velata di ragnatele, che pende dal
soffitto. Irina ci offre una scodella fumante di chorba, squisita, un tè caldo, sempre
pronto nel gigantesco samowar, e un bicchierone freschissimo di ayran,
lo squisitissimo yogurt liquido fatto in casa con il latte fermentato. Poi si parla.
Con l’aiuto di Ibrahim, naturalmente. Irina è l’unica parente in vita del nostro
Igor-Tomàs. E’ sua sorella. Una bella vecchietta grassottella, in grembiule e
foulard, che ti vien voglia di svitarla per vedere se dentro ce n’è un’altra uguale.
Tanto magro lui quanto grassa lei, tanto marinaio lui quanto montanara lei. Non sa
nulla della morte di suo fratello e quando Ibrahim glielo dice scorgo appena
un’ombra nel suo sguardo imperscrutabile: lo sapeva che prima o poi sarebbe
successo! Igor, dice Irina, è sempre stato un cercaguài, sin da giovane, uno spirito
irrequieto. La storia armena, si sa, è una storia triste, di guerra e di deportazione,
di fuga. E Igor e Irina, con la loro famiglia, arrivarono profughi in Turchia, come
molti altri, e in quel villaggio sperduto trovarono rifugio. Ma Igor, dice Irina,
cercava qualcos’altro, era un animo irrequieto, lui, non gli bastava lo scampato
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pericolo, la sicurezza di quel villaggio, no, lui cercava altro. Aveva grandi sogni,
non di ricchezza, no, non gliene poteva fregar di meno della ricchezza, abituato
com’era a sopravvivere a stento; non di gloria, perché Igor la gloria manco sapeva
cosa fosse e non gli interessava. No, Igor aveva questo assillo, dice Irina: voleva
conoscere gli altri. Voleva capire chi erano, dove vivevano, cosa facevano,
per curiosità, per cultura, gli altri. Tutti gli altri. Tutti coloro che vivono al di là di
quell’orizzonte di prati gialli, al di là della striscia opalescente d’azzurro che si
sdraia tra terra e cielo. Questa è l’idea che mi sono fatto di Igor ascoltando la
cantilena turcoarmena di Irina, osservandone lo sguardo, i gesti, più ancora che
ascoltando la traduzione di Ibrahim. E questo è tutto quello che sa Irina di suo
fratello: che un giorno qualunque, vent’anni prima, Igor prende la sua mula e se
ne va. Oltre il confine dei prati. Oltre la striscia d’azzurro. E io credo che non si
sia voltato indietro prima di essere ben sicuro che fosse ormai invisibile alle sue
spalle la piramide bianca turchina del monte Ararat.
Ora io vi chiedo comprensione. Forse come investigatore non sono un granchè,
comincio ad avere dei dubbi sulle mie qualità, o forse semplicemente la fortuna
non mi ha aiutato. Insomma: ho seguito una pista che mi ha portato nel mezzo del
deserto anatolico a inseguire un uomo e una mula. Diretti verso chissà dove.
A vent’anni di distanza. Cercando di capire il perché e il percome un giorno di
novembre qualcuno, dall’altra parte del mondo, ha pensato di mettere la parola
fine alla storia di Igor-Tomàs, con una schioppettata. Come farò a risolvere il
mistero? Come potrò ritrovare la pista perduta? Sono giunto alla conclusione che
solo un miracolo potrebbe aiutarmi. Solo una incredibile, romantica, romanzesca
coincidenza.
Ciondolando sconsolato per una Istàmbul gelida e tetra (tra parentesi: i turchi la
chiamano Istàmbul, sono gli americani che la chiamano Ìstambul) ciondolando
sconsolato per una istàmbul gelida e tetra, pensavo a queste cose, nell’attesa che si
facesse tardi, nell’attesa che arrivasse l’ora per prendere un taxi, farmi portare
all’aeroporto e di lì volare a casa, sconfitto, quand’ecco il miracolo!
C’era un pescatore sul ponte di Galata, uno solo, che sfidava il freddo per lanciare
la sua lenza nel Corno d’Oro, che d’oro aveva solo il nome visto che le sue acque
erano talmente plumbee che nessun alchimista avrebbe mai saputo trasfigurarle.
Io mi affaccio alla balaustra e lo guardo pescare, lui mi guarda di sbieco.
E’ anziano. Non so perché, ma mi sembra abbia una faccia armena: un naso
armeno, zigomi armeni. Lui guarda la sua lenza, il galleggiante, e io guardo il
vento giocare coi gabbiani tra le cupole e i minareti aguzzi di Santa Sofia e della
moschea Blu. Dietro di noi un fracasso di macchine, a sinistra la torre di Gàlata è
un’ombra minacciosa e con la sua guglia sembra voler ferire la grigia pelle delle
nuvole. In fondo, sull’orizzonte, una striscia azzurra si sdraia sul mar di
Màrmara. Non so perché, ma tiro fuori da una tasca quella foto ingrandita di IgorTomàs, duplicata dal suo documento, irriconoscibile, stropicciata, nell’originale,
e parzialmente corrosa da una ruggine grigia che io so essere sangue rappreso.
La tengo in modo che il pescatore la possa vedere. Non so il perché. Così. E lui la
vede. E, miracolo, la riconosce. Lo so, ho barato: queste cose non capitano nella
realtà ma questa qui non è la realtà: questa è la mia storia e qui le regole le invento
io. Mi parla inglese, il pescatore, un inglese migliore del mio. Quello è Igor,
mi dice. Io barcollo per l’emozione. Mi racconta di una nave mercantile, salpata
quasi vent’anni fa da Istàmbul, con un carico di lana. Balle di lana. Lui ci
lavorava, su quella nave, e mi dice che fu contento quando scoprì che un altro
armeno, come lui, era stato ingaggiato nel porto di istàmbul. Erano diventati
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molto amici, lui e Igor, in quegli anni passati sul mare. Non solo su quella nave,
anche su altre, con altri carichi, con altre balle, in altri porti, in altri mari, ovunque
in giro per quella grande palla di mare e di porti che è il mondo. Gli dico che Igor
è morto ammazzato. Vedo una lacrima gonfiarsi tra le rughe, ma subito il vento
salmastro la strappa e la porta via. Non è possibile, dice: Igor era un tipo
tranquillo, solitario, non aveva nemici, e nemmeno amici, a dir la verità, a parte
lui. Penso che questo è un ritratto un po’ diverso da quello che mi ha fatto Irina.
Che sia poi un’altra persona? Ma scarto subito l’idea: coincide la fotografia,
coincide il nome, coincide il periodo, no, se fosse un’altra persona la coincidenza
sarebbe ancor più grossa. Se mai mi avete perdonato l’altra, non mi perdonereste
questa. No, è lui, non c’è dubbio, ma è un Igor cambiato, senza più quella frenesia
di vedere, di conoscere, di scoprire… Un uomo taciturno, dedito al lavoro e
nient’altro. Senza nemici e senza amici. A questo punto gli faccio la domanda che
da un po’ mi brucia sulle labbra: dove e quando l’hai visto l’ultima volta?
Lui ci pensa, si gratta la barba ispida, poi risponde: vediamo, saranno sette o otto
anni fa, si, perché mia nipote Lijuba oggi ha sei anni e quando è nata lei io ho
smesso di navigare e mi sono ritirato qui a Istàmbul… Dunque l'hai lasciato sulla
nave? dico io, e mi viene un brivido freddo: dovrò inseguire una nave che chissà
quali rotte ha tracciato in tanti anni e quanti mari ha solcato e inseguire un
marinaio che chissà in quanti porti può essere sbarcato prima di andare a crepare
in Cile? No, dice lui, non l’ho lasciato sulla nave, è sceso prima. E dove è sceso?
E’ sceso a Skageway. Dove? Skageway. Alaska. Oh mio Dio!
Skageway. Alaska. Qui in un’altra epoca approdavano i cercatori d’oro. C’erano
baracche, una gigantesca tendopoli. Poi si mettevano per strada, a piedi, in lunghe
file, e salivano il Chilkoot Pass. Salivano d’inverno, nella neve, nella tomenta,
nel gelo, per arrivare in Canada in primavera, dopo il disgelo, sulle rive dello
Yukon, e risalire il fiume sul battello che portava a Dowson City, alla confluenza
del Bonanza e del Klondyke, dove il duro permafrost si era già scongelato ed era
facile setacciare la ghiaia, scavare, trovare il filone, arricchirsi a dismisura. Quanti
ne sono morti! No, non temete, Igor non c’entra con l’oro, questa è un’altra storia,
un’altra epoca. E allora? Che ci fa Igor in Alaska? Domande, sempre domande!
Mai una risposta.
Si fa tardi e non ho tempo di raccontarvi tutto per filo e per segno. Ma sappiate
che le tracce di Igor le ho ritrovate, a Skageway, e lo ho seguite, e mi hanno
portato fino a Dowson city. Niente a che vedere con la corsa all’oro, no, oggi
Dowson City è il fantasma di quello che era allora: è rimasta intatta, ma vuota:
casette di legno, abbandonate, le stesse di allora, vetri rotti, porte scardinate,
persiane divelte, case vuote. Gli stessi saloon, gli stessi stallaggi, gli stessi empori,
qualche souvenir per turisti in più. Le stesse pozzanghere per le strade. Davanti
alle case più niente cavalli, più niente slitte sovraccariche di vanghe e picconi,
più niente mute di cani: automobili. Gigantesche automobili infangate, fuoristrada
dalle ruote enormi. Il sole tramonta tardissimo a Dowson City d’estate. Perché è
estate, oramai. Qui a Dowson City l’orizzonte non c’è, ma tra le montagne
rocciose, sotto il basso cielo grigio, c’è ancora una striscia d’azzurro che si sdraia
a ponente. C’è un’aria tagliente, non gelida: fredda. Mi affretto verso il Red Dog
Saloon. Dentro fa caldo, il pavimento è coperto da un morbido spesso strato di
gusci d’arachide, i tavolini sono rotondi, come nei film western, e c’è un soppalco
con la balaustra dalla quale chissà quanti sono caduti nelle scazzottate di quei
tempi. Arrampicata a un pilastro di legno c’è la pelle di un Grizzly che sembra
arrampicarsi con le fauci spalancate e l’occhio di vetro assassino. Una ragazza
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prorompente e bionda mi pulisce un tavolo con la manica buttando per terra una
montagna di gusci d’arachide, poi mi serve una birra spumeggiante.
Ho un appuntamento. Si, perché alla fine l’ho trovato, l’assassino di Igor-Tomàs.
Non ho più tempo per raccontarvi tutto per filo e per segno, comunque ho
scoperto che c’era dietro una storia di donne e di soldi. La pista canadese mi ha
disegnato un ritratto di Igor-Tomàs ancora diverso sia da quello ansioso e
frenetico della sorella Irina che da quello mite e solitario del pescatore di
Istàmbul. La pista canadese mi ha portato a un Igor-Tomàs più reale, meno
idealizzato dall’affetto dei suoi: un uomo qualunque, con i suoi pregi, i suoi
difetti, le sue difficoltà, la sua ignoranza, la sua astuzia… Un uomo che si è fatto
dei nemici, che si è fatto un nemico in particolare che lo ha seguito per tutto il
continente, da Dowson a Vancouver a Monterey a Città del Messico a Bogotà a
La Paz a Puerto Alegre a Buenos Aires a Rio Gallegos, fino a trovarlo in Cile a la
Isla Ultima Esperança, fino a saldare il suo conto aperto con una schioppettata.
L’ho scovato, quel tale. Abita qui, a Dowson City. Gli ho telefonato ieri sera: una
voce roca, di cento sigarette. Sicuramente è un uomo grosso, butterato,
masticatore di chewing-gum. Gli ho detto tutto. Mi ha ascoltato in silenzio. Non
ha negato, non poteva negare, i fatti ci sono e parlano chiaro. Per non allarmarlo
troppo gli ho spiegato che io non c’entro niente con la polizia eccetera, gli ho
detto che si tratta solo di concludere questo racconto, di dare una spiegazione,
di dire la verità. Anche senza far nomi. Lui ci ha pensato su e poi mi ha dato
appuntamento qui, questa sera, al Red Dog Saloon.
E’ in ritardo.
Sorseggiando la mia birra ho riletto quello che ho scritto fin qui: è venuta fuori
una storia persino un po’ troppo lunga. Entra qualcuno: che sia lui? E’ un indiano
gigantesco, capelli lunghi, grosso e grasso, si siede al banco, ordina una coca e ci
versa dentro mezzo chilo di ghiaccio e mezzo litro di whiskey. No, non è lui.
Verrà?
Non verrà?
In ogni caso mi viene da pensare che ormai questa storia è finita comunque e che
lui venga o non venga, in fondo, me ne importa poco.
Cascina Macondo
Borgata Madonna della Rovere, 4 - 10020 Riva Presso Chieri (TO)
Tel. 011 / 94 68 397 - cell. 328 42 62 517
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