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I REGIMI DI PROTEZIONE DELL'IMPIEGO
Valentina Tiecco
ABSTRACT
La presente rassegna si propone di fornire un quadro generale dei regimi di protezione
dell'impiego (RPI) articolato in tre parti. La prima parte è dedicata all’analisi dei principali
modelli teorici di riferimento che ne descrivono i risultati attesi. La seconda affronta i
problemi di misurazione legati alla costruzione di indicatori statistici appropriati e la loro
effettiva adeguatezza nel misurare il grado di severità dei diversi regimi RPI. La terza, infine,
esamina la vasta letteratura empirica che ne studia gli effetti, con particolare riferimento a tre
aspetti: flussi occupazionali, elementi di dualismo nel mercato del lavoro, crescita
dell’efficienza produttiva.
Dalla rassegna svolta emerge, quale risultato consolidato in letteratura, che un maggior grado
di rigidità rende costoso il licenziamento e riduce i flussi occupazionali, determinando un
mercato del lavoro più stagnante. Inoltre, gli RPI rafforzano gli elementi di dualismo tra la
fascia di lavoratori protetti e non protetti, la cui linea di demarcazione è generazionale e di
genere. Emerge, tuttavia, quale risultato più ambiguo, che il legame degli RPI con la crescita
della produttività è più complesso e collegato alle esigenze formative e di innovazione, al
sistema di contrattazione salariale, all'impegno del lavoratore.
Infine, le indicazioni di politica economica che prevalgono da letteratura teorica e studi
empirici sono che ‘riforme al margine’, volte solo ad agevolare tipologie contrattuali che
consentono la diffusione di lavori temporanei, hanno effetti talvolta ambigui e comunque non
duraturi su occupazione ed efficienza produttiva.
JEL Classification: J28; J65.
Keywords: protezione dell’impiego, riforme del mercato del lavoro.
1
1. Introduzione 1
La rigidità che caratterizza il mercato del lavoro europeo è da sempre vista come una possibile
causa dell'alta e persistente disoccupazione del vecchio continente. Le linee guida elaborate
dall'OECD nei primi anni ’90 includono, tra gli obiettivi da perseguire per ridurre la
disoccupazione, quello di "riformare i regimi di protezione dell'impiego che inibiscono
l'espansione dell'occupazione nel settore privato" (OECD, 1994).
Da circa venti anni si assiste infatti ad un processo di riforme teso a ridurre la rigidità dei
regimi di protezione dell'impiego (RPI), soprattutto in quei paesi dell'Europa storicamente
caratterizzati da un sistema di tutele più marcato.
Si tratta di un cambiamento di rotta importante, rispetto alla tendenza storica che aveva visto
un progressivo consolidamento ed una graduale espansione della protezione dell'impiego
come strumento per tutelare i diritti del lavoratore. Tale strumento varia da paese a paese e si
sostanzia in tutto il sistema di norme e previsioni che proteggono il posto di lavoro, sia in
entrata che in uscita, e si traduce in ogni caso in un costo che l'azienda deve affrontare qualora
voglia ricorrere ad un licenziamento. Rientrano in tale tutela tutte le restrizioni all'uso di
contratti a tempo determinato, così come tutta la regolamentazione relativa ai licenziamenti.
Le fonti che disciplinano la tutela dell'impiego possono avere diversa natura: leggi dello stato,
contrattazione individuale e collettiva e giurisprudenza dei tribunali.
La sua stessa natura fa della protezione dell'impiego, un'istituzione che si oppone alla filosofia
economica del laissez faire tentando di porre rimedio a determinate imperfezioni del mercato.
La sua presenza non avrebbe giustificazione in un mercato del lavoro perfetto che riuscisse a
massimizzare al contempo il welfare dei lavoratori e i profitti delle imprese. In particolar
modo con gli RPI si intende sostituire un mercato assicurativo, non idoneo a coprire
adeguatamente l'esigenza di tutela del lavoratore rispetto ad un eventuale licenziamento. È un
sistema che impedisce alle imprese di agire in senso opportunistico, obbligandole ad
internalizzare i costi che un licenziamento produce, non solo a livello individuale, ma anche
sulla società nel suo complesso.
La teoria economica si è concentrata sullo studio delle conseguenze che l'introduzione di un
1
La presente rassegna è tratta dalla tesi di laurea, della stessa autrice, dal titolo “I regimi di protezione
dell’impiego”, Università degli Studi di Perugia, relatore Mirella Damiani. La tesi ha vinto il premio Riccarda
Nicolini bandito da Obiettivo Lavoro e Legacoop Emilia-Romagna, in collaborazione con la Scuola
internazionale di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro ADAPT – Fondazione Marco Biagi
dell'Università di Modena e Reggio Emilia.
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regime di protezione ha sulle performance occupazionali. I modelli teorici sono generalmente
strutturati in modo tale da evidenziare come cambia il comportamento di un'economia dopo
l'introduzione di un certo grado di rigidità. Non è facile, nella vasta mole di modellistica
riguardante gli RPI, selezionare i contributi teorici di riferimento. In questa rassegna si è
scelto di presentare una gamma di modelli, distinti per la diversità delle ipotesi adottate in
ciascuno di essi. Ciò consente di mostrare come i diversi risultati ottenuti dipendono dalle
diverse ipotesi teoriche introdotte. Si ottiene, in particolare, che gli effetti derivanti
dall'introduzione di un regime di protezione dell'impiego sono condizionati da alcuni
principali fattori: specifica composizione degli RPI ed avversione al rischio dei lavoratori
(Garibaldi, 2005a); grado di flessibilità salariale, che consente alle imprese di compensare il
costo legato alla tutela dell'impiego (Lazear, 1990; Schivardi, 1999); possibilità di ricorrere a
strumenti di flessibilità alternativi, come i temporary works (Boeri e Garibaldi, 2007).
Gli studi passati in rassegna permettono di affermare che gli RPI, se da un lato non hanno
conseguenze di rilievo sul tasso di disoccupazione medio, dall’altro incidono negativamente
sui flussi del mercato del lavoro, rendendolo più statico. Le imprese, gravate dal costo
imposto dal sistema di tutela, tendono a non aggiustare il livello di manodopera alle mutevoli
esigenze del mercato, venendo così a determinarsi un impatto negativo sulla produttività.
L’evidenza empirica permette di verificare e, in parte contraddire, i risultati dei modelli
teorici. È tuttavia d'obbligo fare una premessa relativa ai criteri di misurazione degli RPI su
cui gli studi empirici basano i loro risultati, criteri che non possono dirsi esenti da limiti e
problematicità. La tutela dell'impiego è infatti determinata principalmente da grandezze non
direttamente quantificabili ed una sua misurazione sottende sempre un certo grado di
arbitrarietà legato alla valutazione della legislazione, alle variabili considerate e al processo di
aggregazione dei dati. Molti autori si sono confrontati con il problema della costruzione di un
indicatore il più oggettivo possibile e, ad oggi, quello maggiormente utilizzato è fornito
dall’OECD (1999). In questo contributo se ne analizzano le proprietà (criteri di valutazione e
di aggregazione delle variabili considerate), così come i maggiori limiti e lacunosità. Proprio
tali difficoltà di misurazione rendono lo studio e il confronto dei molteplici lavori empirici,
prodotti a tutt'oggi, particolarmente complesso.
Inoltre ci si sofferma su due principali problematiche emerse dagli studi empirici: gli effetti
differenziati che gli RPI hanno sui diversi gruppi di lavoratori, distinti per sesso, età,
precedenti esperienze lavorative, e conseguenze sulla produttività. Su questo ultimo tema, la
3
letteratura empirica mostra risultati ambigui, poiché l'impatto, positivo o negativo, della tutela
dell'impiego è strettamente correlato alle tipologie di innovazione produttiva perseguite, al
sistema di contrattazione salariale e all'impegno del lavoratore.
Infine, viene data una valutazione dei processi di riforma degli RPI, fino ad oggi centrati
prevalentemente sulla sola liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, e non rivolti a
rimuovere le rigidità in uscita. Si mostra, a tale proposito, come il dualismo prodotto dai RPI
permane come risultato di queste riforme, spesso denominate come ‘riforme al margine’, ed
ambigui sono gli effetti empirici sulla crescita della produttività. In definitiva, tali riforme,
seppure di successo sul piano dell'obiettivo dell'aumento occupazionale, non sembrano
altrettanto vincenti sul piano dell’obiettivo della crescita di efficienza.
Il presente contributo è organizzato in 6 sezioni. La sezione 2 definisce gli RPI ed espone una
selezione dei modelli teorici. La sezione 3 si occupa della misurazione degli RPI e illustra la
costruzione dell'indicatore dell'OECD. La sezione 4 espone i risultati degli studi empirici. La
sezione 5 esamina i processi di riforma dei regimi di protezione dell’impiego. La sezione 6
conclude.
2. La teoria
La severità dei regimi di protezione dell’impiego permette di distinguere tra paesi rigidi, in
cui è estremamente difficile licenziare, e paesi flessibili, in cui porre fine ad un rapporto di
lavoro è relativamente semplice e dove quindi le esigenze dei lavoratori sono subordinate a
quelle dei datori di lavoro. A seconda della rigidità, saranno diverse le modalità attraverso le
quali un'azienda risponde ad eventuali shock esogeni di produttività. Mentre in contesti
flessibili si agisce sul livello occupazionale, in contesti rigidi la strategia aziendale dipende in
larga misura dalla modalità con cui i salari vengono determinati, dalla possibilità di ricorrere a
manodopera a tempo determinato e dalla natura stessa degli RPI. La natura del costo che le
imprese devono affrontare qualora vogliano intraprendere un licenziamento può comprendere
infatti due principali componenti (nella maggior parte dei casi coesistenti) che influiscono in
maniera differente sul comportamento dell'impresa (Garibaldi e Violante, 1999). La prima
componente annovera tutti i costi, pecuniari e non, che possono essere ricondotti ad un
trasferimento che l'impresa è costretta a pagare al lavoratore in caso di interruzione del
rapporto di lavoro. Vi rientrano una liquidazione in caso di licenziamento senza colpa, altri
tipi di rimborso imposti all’azienda dal giudice in caso di licenziamento ingiusto nonché
4
l’obbligo di fornire al lavoratore una notifica anticipata. La seconda componente ha gli stessi
effetti di una "tassa sul licenziamento" ed è pagata dall'impresa al di fuori del rapporto con il
lavoratore; si sostanzia in costi burocratici, spese legali in caso di processo per licenziamento
ingiusto, eventuali sanzioni predisposte dal giudice in caso di pronuncia sfavorevole.
Per indagare le conseguenze che gli RPI hanno sul mercato del lavoro è indispensabile quindi
non prescindere dall'analisi di questo costo (e delle sue componenti), nonché dalla possibilità
per le imprese di compensarlo attraverso una struttura salariale ad hoc o tramite il ricorso a
contratti meno tutelati. La rassegna teorica proposta si prefigge l'obiettivo di capire le
conseguenze sul mercato del lavoro che genera l’introduzione di un regime di protezione
dell’impiego in contesti caratterizzati da assunzioni differenti in materia di natura degli RPI e
di determinazione salariale.
2.1. RPI come trasferimento
I modelli di seguito proposti partono dalla premessa che gli RPI siano composti dalla sola
componente di trasferimento, e quindi le imprese paghino il costo del licenziamento
direttamente al lavoratore, senza incorrere in costi ulteriori da pagare a soggetti terzi. Si vedrà
che, mentre in un contesto di flessibilità salariale, il costo derivante dall'introduzione di un
regime di protezione dell'impiego può essere compensato da una struttura salariale ad hoc, in
contesti di rigidità salariale esso avrà un impatto negativo sui flussi occupazionali e sulla
produttività.
Il terzo modello dimostrerà tuttavia che le riforme intraprese per ovviare a tali problematiche
hanno un effetto positivo sull'occupazione solo transitorio.
2.1.1. RPI e flessibilità salariale
Lo studio di Lazear (1990) dimostra che, in un contesto di flessibilità salariale e di lavoratori
neutrali rispetto al rischio, l'introduzione di un regime di protezione dell'impiego non ha alcun
effetto sul mercato del lavoro.
L'autore considera un mercato del lavoro e due periodi: nel periodo 1 viene firmato il
contratto, nel periodo 2 avviene la presa di servizio.
L'introduzione di un regime di tutela dell'impiego ha l'effetto di spostare il salario che
garantisce l'incontro tra domanda e offerta di lavoro dal suo punto di equilibrio (quello che
eguaglia la produttività marginale dell'impresa e il salario di riserva del lavoratore) di una
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quantità pari all'ammontare del trasferimento che il datore di lavoro sarà costretto a pagare al
lavoratore nel caso decida di ricorrere al suo licenziamento.
Tuttavia ciò rende la firma del contratto più attraente per il lavoratore piuttosto che per
l’azienda. Per compensare questa condizione, il lavoratore dovrà pagare all’azienda una tassa
in modo tale che il compenso atteso, data la firma del contratto, rimanga inalterato.
Si ha quindi:
pW *   Fee  pW   (1  p)Q
dove p è la probabilità che nel periodo 2 il posto di lavoro venga mantenuto; W * è il salario
di equilibrio; Fee è la tassa che il lavoratore deve corrispondere all’azienda; W  è il salario
dopo l’introduzione dell’indennizzo ed è dato da: W   W *  Q , dove Q è l'ammontare del
trasferimento; (1  p) , è la probabilità che nel periodo 2 il posto di lavoro non venga
mantenuto. Si avrà quindi che:
Fee  Q
Nel periodo 1 il lavoratore dovrà cedere all’azienda l’ammontare del trasferimento di fine
rapporto, per essere certo di riceverlo nel periodo 2.
Quindi in un’economia di questo tipo l’introduzione di un indennizzo obbligatorio di
licenziamento da parte dell’azienda determina una modifica della struttura salariale che
compensa il costo che l’azienda dovrà affrontare in caso di interruzione del rapporto di lavoro.
Nel primo periodo del suo contratto, il lavoratore percepirà un salario inferiore a quello di
equilibrio che si avrebbe in assenza di indennizzo: la somma mantenuta dall’azienda (in
termini di minor salario) sarà esattamente pari all’ammontare del trasferimento di fine
rapporto. Tale quantità maturerà degli utili che verranno corrisposti al lavoratore nel secondo
periodo del contratto di lavoro. In quest’ultimo intervallo di tempo egli percepirà quindi un
salario maggiore a quello di equilibrio.
Tale modello dimostra come, se rispettate le condizioni sopra esposte, l’introduzione di
un’indennità di licenziamento non ha alcun effetto sul mercato del lavoro: il lavoratore ottiene
lo stesso stipendio che percepirebbe in assenza di trasferimento ed essendo neutrale rispetto al
rischio, non ha alcuno svantaggio nel ricevere, nel periodo iniziale del contratto, uno stipendio
minore di quello di equilibrio. L’azienda non sostiene alcuna spesa aggiuntiva in quanto il
costo del trasferimento è già stato pagato dal lavoratore in termini di minor salario.
6
2.1.2. RPI e rigidità salariale
Il modello di Schivardi (1999) 2 dimostra che il risultato di neutralità a cui giunge Lazear
(1990) viene meno se non sussistono le condizioni di perfetta flessibilità salariale e neutralità
rispetto al rischio del lavoratore. Lo studio dimostra infatti che le performance occupazionali
e produttive di due paesi, uno flessibile F, in cui è sempre possibile licenziare e dove la forza
lavoro si aggiusta automaticamente al variare delle condizioni del mercato e uno rigido R,
dove licenziare è impossibile ed è quindi impossibile modificare lo stock di occupati, sono
diverse.
Per comparare gli effetti dell’introduzione del trasferimento obbligatorio si esamina il
comportamento dei due paesi separatamente, posto che essi hanno lo stesso livello salariale
che è fisso ed assume il valore W e la medesima funzione di produzione data da:
Y  Ai log L
dove L è il lavoro impiegato; Y il prodotto; Ai il livello della produttività che può assumere
valori compresi nell'intervallo Al  Ai  Ah . La probabilità che la produttività sia Ah è p
mentre la probabilità che sia Al è 1  p .
Si analizza in primo luogo il paese F. L'impresa rappresentativa di tale economia ha sempre la
possibilità di ovviare a possibili cambiamenti della produttività attraverso una modifica del
livello occupazionale. L’azienda sceglie quindi di volta in volta, a seconda del livello della
produttività, il livello ottimale dell’occupazione e massimizza i profitti semplicemente
massimizzando la sua funzione di produzione in ogni dato livello della produttività:
 F  max Ai log L  WL
L
La quantità di lavoro che massimizza i profitti è quindi:
Ai
 W
L
f ( L ) 
Il valore di L che si ottiene è pari a:
LF  Ai / W
Dato che il livello della produttività varia tra il valore massimo h e il valore minimo l ,
l’impresa modifica il livello dell’occupazione di una quantità massima L  ( Ah  Al ) / W e,
date le probabilità delle rispettive produttività, si ha:
2
Il modello di Schivardi (1999) rappresenta una versione semplificata di quello di Bentolila e Bertola (1990).
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F
L  (1  p ) Al  pAh
W
Non potendo modificare a piacimento il livello dell’occupazione, il comportamento
dell'impresa del paese rigido R si discosta da quello descritto in precedenza in quanto, dovrà
deciderlo sul valore atteso dei profitti, dato a sua volta dal valore atteso della produttività:
 R  max (1  p) Al  pAh log L  WL
L
Da cui si ottiene un livello di occupazione che assume un valore intermedio tra quello che si
avrebbe in caso di massima produttività e quello che si avrebbe in caso di minima
produttività:
R
L  (1  p ) Al  pAh
W
con Al / W  LR  Ah / W .
Dall’analisi dei due contesti si può dedurre che, mentre l’occupazione e la disoccupazione
media sono uguali nei due paesi, i flussi in entrata e in uscita dal lavoro sono maggiori nel
paese flessibile, mentre sono nulli in quello rigido.
D’altra parte, la durata della
disoccupazione è più bassa nel paese flessibile, dove per un disoccupato la probabilità di
uscire dallo stato di disoccupazione è legata ai cambiamenti della produttività: se questa passa
da Al a Ah , il che avviene con probabilità p , il disoccupato ha probabilità 1 di essere
assunto. Quindi la durata della disoccupazione è pari a 1 / p .
Inoltre si può affermare che l’economia del paese flessibile è più efficiente in quanto alloca
meglio le forze lavorative. Mentre il paese rigido utilizza sempre la stessa quantità di lavoro,
quello flessibile utilizzerà più lavoro nei periodi in cui la produttività è alta, massimizzando la
produzione e quindi i profitti medi.
2.1.3. RPI in un contesto two tier
I modelli precedenti studiano l’impatto che gli RPI hanno in un contesto statico, e analizzano
il ruolo dell’introduzione di un certo livello di rigidità. Tuttavia la rigidità dei regimi di
protezione dell'impiego, soprattutto negli ultimi venti anni, ha subito e sta tuttora subendo
profonde variazioni, come risultato di un processo teso a flessibilizzare il mercato del lavoro
attraverso la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato. Tale processo ha reso
necessario, secondo Boeri e Garibaldi (2007) lo studio degli effetti di riforma al margine dei
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regimi di protezione dell'impiego. Una riforma al margine (two tier reform) può essere
definita come una riforma del mercato del lavoro che lascia inalterata la protezione dei
contratti permanenti mentre riduce quella dei contratti a tempo determinato. I due autori
dimostrano che l'effetto positivo sull'occupazione che una riforma al margine comporta è solo
temporaneo e collegato ad un effetto negativo sulla produttività.
Un intervento two tier permette all'impresa di godere di una flessibilità parziale, lasciandola
libera di assumere e licenziare con contratti temporanei, senza però intaccare una certa
quantità stabilita di contratti permanenti che non possono essere sciolti.
Partendo da un regime rigido nel quale il livello occupazionale è determinato come nel
modello di Schivardi (1999) 3 e potendo inaspettatamente godere di una flessibilità al margine,
l'impresa deciderà di assumere con contratto temporaneo la manodopera aggiuntiva necessaria
in caso di periodo favorevole, lasciando inalterato lo stock di lavoratori permanenti in caso di
bassa produttività.
L'occupazione ottimale del regime two tier sarà quindi:
LTwoTier  LR  LTemp
dove LR è il livello dell'occupazione permanente e LTemp è la quantità di occupati con
contratto temporaneo.
Temp
L
 (1  p)( A h  A l )


W
0

seAi  A h
seAi  A l
Una riforma siffatta comporta un aumento permanente dell'occupazione media rispetto al
regime rigido. Dal momento che in ogni dato momento una frazione p di imprese si trova in
condizioni favorevoli e una frazione (1  p) di imprese si trova in condizioni sfavorevoli, si
avrà che l'occupazione media è data da:
L
L
Quindi, si avrà che L
TwoTier
TwoTier
TwoTier
 LR  LTemp
(1  p )( A h  Al )
 LR  p
W
 LR per p  0 . Questo è quello che i due autori chiamano
honeymoon effect: un eterno effetto "luna di miele" sull'occupazione.
3
Si rimanda al precedente paragrafo 2.1.2.
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Tuttavia, in base alla legge della produttività marginale, la produttività media diminuisce nel
passaggio da un regime rigido ad un regime two tier. Al contrario, aumentano i profitti medi
in quanto in un regime two tier le imprese godono degli stessi profitti del regime rigido
durante i periodi sfavorevoli, ma di profitti first best in periodi favorevoli, quando si può
aumentare l'occupazione fino al livello ottimale attraverso l'uso di contratti temporanei.
Il modello fin qui esposto ha come presupposto che i contratti permanenti non possono essere
sciolti. Tuttavia, pur ammettendo che non sia possibile ricorrere a licenziamenti, è necessario
considerare la possibilità che un lavoratore assunto con contratto permanente lasci il suo posto
di lavoro volontariamente o in seguito al pensionamento. Tale possibilità è chiamata "tasso di
attrition" (  ). Considerando  la politica occupazionale dell'impresa si modificherà quindi,
sia in regime rigido che in regime two tier.
Nel regime rigido l'impresa avrà un livello occupazionale obiettivo ( Lu ) che raggiungerà
tramite nuove assunzioni con contratti permanenti durante i periodi favorevoli. Nel caso di
cattiva congiuntura economica invece l'impresa lascerà che l'occupazione diminuisca al tasso
di  . La dinamica occupazionale sarà data da:
 Lu
Lt  
(1   ) Lt 1
seAi  A h
seAi  A l
Minore è l'attrito, più il livello occupazionale tende, nei periodi favorevoli, ad essere uguale a
quello dei periodi sfavorevoli.
Nel regime two tier l'impresa, durante i periodi favorevoli, assumerà lavoratori temporanei
fintanto che il prodotto marginale dell'ultimo lavoratore uguaglia il salario. In caso di
congiuntura sfavorevole l'impresa non utilizzerà alcun lavoratore temporaneo e lascerà
declinare l'occupazione al tasso di  . Il livello occupazionale totale, al tempo t , sarà dato da:
Lt  Lt
Temp
 Lt
Perm
dove:
Lt
Lt
Temp
Perm
 (1   ) Lt 1
 A h / W  Lt 1 Perm

0
Perm
seAi  A h
seAi  A l
Tale politica occupazionale fa sì che tutte le nuove assunzioni avvengano con contratto a
tempo determinato: ciò produce una riduzione costante dello stock di lavoratori permanenti.
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Quindi l'aumento occupazionale che comporta l'introduzione di un regime two tier è via via
eroso dal declino dei lavoratori insider.
2.3. RPI come tassa
I modelli precedenti si basano sull'assunto che il costo che comporta un regime di protezione
dell'impiego abbia un'unica natura, ovvero quella di un trasferimento diretto di denaro dal
datore di lavoro al lavoratore che viene licenziato. Tuttavia esiste, come specificato
precedentemente, una seconda componente di questo costo che coinvolge soggetti terzi
rispetto al rapporto bilaterale tra i firmatari del contratto di lavoro e che si sostanzia in costi
burocratici, come ad esempio le spese sostenute per affrontare un processo in caso di
licenziamento ritenuto ingiustificato.
Garibaldi (2005a) dimostra che, mentre il solo trasferimento non ha alcun effetto sui profitti
dell'impresa, la componente di tassa non è mai neutrale, anche in presenza di salari flessibili e
determina un aumento del potere contrattuale dei lavoratori insiders a discapito degli
outsiders.
Il modello di Garibaldi (2005a) è un modello di matching a due periodi. In entrambi i periodi
il salario da corrispondere al lavoratore è negoziato attraverso una suddivisione della rendita e
il lavoratore ottiene una frazione  del surplus totale. La restante parte di surplus spetta
invece all'impresa. La quota del surplus che spetta al lavoratore è il risultato di un processo di
contrattazione tra le due parti e sarà crescente al crescere del potere contrattuale del lavoratore
e decrescente con la sua opzione esterna, che è il valore netto scontato ottenuto quando si è
disoccupati (Boeri e Van Ours, 2008). Intuitivamente si può affermare che l'introduzione di
un costo di licenziamento aumenta il potere contrattuale del lavoratore e quindi la sua quota di
surplus.
Nel periodo 1 al lavoratore non viene applicato il regime di protezione dell'impiego e per tale
motivo questo primo periodo è chiamato "fase da outsider". La produttività del suo lavoro è
data e pari a Ah ; il suo salario, derivante dall'accordo tra impresa e lavoratore, è W0 . La
produzione ha luogo e il lavoratore alla fine del periodo 1 diventa un insider.
Nel periodo 2 il lavoratore beneficia del regime di protezione dell'impiego e per tale motivo
questo secondo periodo è chiamato "fase da insider". Come nel modello con salari rigidi, la
produttività può assumere, in questo secondo periodo, due valori: rispettivamente Ah con
probabilità p , e Al con probabilità (1  p) , e si assume, come in precedenza, che Al  Ah e
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Al  0 . All'inizio del periodo 2 se il valore della produttività è Al , il posto di lavoro viene
soppresso e il datore di lavoro deve pagare al lavoratore (che è già diventato insider) le due
componenti di RPI di tassa e trasferimento. Se invece il valore della produttività è Ah il posto
di lavoro viene mantenuto e le due parti si accordano per un livello salariale Wi . Ovviamente
la presenza del costo di licenziamento aumenta il potere contrattuale del lavoratore nel
secondo periodo e quindi la sua quota di surplus. Il salario da insider sarà maggiore di quello
da outsider. In modo similare al modello di Lazear (1990), in Garibaldi (2005a) l'aumento
salariale, nel caso sia composto dalla sola componente del trasferimento, è completamente
pagato dal lavoratore outsider, il cui salario è decurtato di una quota pari all'ammontare del
trasferimento. Tale quota verrà utilizzata dall'azienda per pagare il lavoratore in caso di
licenziamento nel secondo periodo. Quindi la presenza del trasferimento non ha alcun impatto
sui profitti dell'impresa.
Vediamo ora come si determina il salario in presenza della sola componente di tassa ( F )
tendendo in considerazione che: S IMP = surplus dell'impresa; S LAV = surplus del lavoratore;
S TOT = surplus totale;  = profitti; Wa = opzione esterna del lavoratore.
Nel periodo 2, nel caso in cui la produttività sia Ah , il posto di lavoro viene mantenuto e le
quote di surplus che spettano alle due parti e il surplus totale sono dati da:
S IMP  Ah  Wi  ( F )
S LAV  Wi  Wa
S TOT  Ah  Wa  F
Dove S LAV è una quota di S TOT , il cui ammontare, come detto precedentemente, è legato al
potere contrattuale (  ) del lavoratore stesso.
S LAV   S TOT
Wi  (1   )Wa   Ah  F
Come si può vedere il salario del lavoratore insider è aumentato di un ammontare pari ad una
quota  della tassa che il datore di lavoro deve pagare in caso di licenziamento. Tale quota
sarà tanto più alta quanto maggiore è il potere contrattuale del lavoratore stesso.
Nel periodo 1 l'incontro tra lavoratore e datore di lavoro avviene sulla base dei valori attesi di
salario e profitto, dati rispettivamente da:
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W1  W0  pWi  (1  p)Wa
1  Ah  W0  p( Ah  Wi )  (1  p ) F
I surplus che spettano alle due parti sono così determinati:
S IMP  1
S LAV  W1  2Wa
S TOT  Ah  Wa  p( Ah  Wa )  (1  p ) F
Si vede come in questo caso la tassa rientra nel surplus totale: essendo una componente che il
datore di lavoro deve pagare al di fuori del rapporto con il lavoratore, non potrà essere
compensata da una struttura salariale ad hoc.
Anche in questo caso, per determinare il salario che verrà corrisposto al lavoratore outsider si
deve tenere in considerazione che il suo surplus è una quota  del surplus totale:
S LAV   S TOT
W0  Wa (1   )   Ah   F
Come si può vedere il salario del lavoratore nel primo periodo è decurtato di una quota 
della tassa che il datore di lavoro deve pagare in caso di licenziamento. La restante parte di
tassa andrà necessariamente ad incidere sui profitti dell'impresa (sostituendo il valore del
salario nel primo periodo ai profitti attesi si vede che F compare). Quindi la componente di
tassa non è mai neutrale, anche in presenza di salari flessibili.
Il modello descritto dimostra come la presenza degli RPI beneficia in particolar modo i
lavoratori insider, i quali, sia in caso di trasferimento che in caso di tassa, vedono accresciuto
il loro potere contrattuale e quindi il loro salario. I lavoratori outsider sono invece sempre
svantaggiati dall'introduzione del regime di protezione in quanto l'impresa farà gravare su di
loro il costo che ne deriva.
3. Misurazione degli RPI
I risultati dei modelli teorici sopra esposti sono approfonditi da un'ampia letteratura empirica
non sempre unanime nella valutazione delle problematicità e dei benefici connessi con i
regimi di protezione dell'impiego. Prima di passare all'esame di tali lavori è tuttavia
necessario affrontare il problema della misurazione degli RPI, legato al carattere molteplice
ed eterogeneo di tali regimi. Per ottenere un indicatore è necessario infatti confrontare ed
aggregare grandezze tra loro non omogenee e in gran parte non misurabili quantitativamente.
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Molti autori hanno affrontato tale problema e hanno avanzato soluzioni molto diverse tra loro.
In particolare Salvatori (2003) sottolinea che si devono affrontare quattro step per giungere ad
una misura dell’intensità della regolamentazione: definizione delle informazioni rilevanti;
reperimento delle informazioni; misurazione delle informazioni; aggregazione delle
informazioni 4 .
L’indicatore costruito dall'OECD (1999) che utilizza il metodo di aggregazione dei valori
fornito da Grubb e Wells (1993), è basato sulla tecnica rank-average-rank. Se ne descrivono
di seguito i passi fondamentali.
3.1. La costruzione dell'indicatore OECD
Come si può vedere dalla tabella 1, l'indicatore OECD (si veda OECD, 1999) è calcolato
attraverso quattro livelli gerarchici tramite i quali, ad ogni singolo aspetto del regime di
protezione dell'impiego, viene assegnato un valore compreso tra 0 e 6, dove 0 è il minimo
grado di rigidità e 6 il massimo.
Tabella 1: Indicatore complessivo della rigidità degli RPI per livelli di aggregazione successivi con
specificazione dei valori di ponderazione
Livello 4
Livello 3
Contratti regolari
Peso
Licenziamenti
collettivi
Peso
(1/3)
Notifica e liquidazione
per licenziamenti senza (1/3)
(5/12) colpa
Indicatore
complessivo
della rigidità
degli RPI
Forme di lavo ro a
tempo determinato
Livello 2
Inconvenienti
procedurali
Difficoltà di
licenziamento
(1/3)
Contratti a tempo
determinato
(1/2)
Agenzie del lavoro
interinale
(1/2)
(5/12)
(2/12)
Livello 1
1. Proced ure di notifica
2. Ritardo co n cui la notifica può partire
3. Periodo di notifica dopo
9 mesi
4 anni
20 anni
9 mesi
4. Liquidazione dopo
4 anni
20 anni
5. Definizione di licenziamento
6. Lunghezza d el periodo di prova
7. Compenso statuito dalla corte
8. Reintegro statuito dalla corte
9. Casi di validità
10. Massimo numero di contratti successivi
11. Massima durata cumulativa
12. Casi di validità
13. Restrizioni al numero di rinnovi
14. Massima durata cumulativa
15. Definizione di licenziamento collettivo
16. Procedure di notifica addizionali
17. Ritardi addizionali
18. Altri costi a carico del datore di lavoro
Peso
(1/2)
(1/2)
(3/21)
(3/21)
(3/21)
(4/21)
(4/21)
(4/21)
(1/4)
(1/4)
(1/4)
(1/4)
(1/2)
(1/4)
(1/4)
(1/2)
(1/4)
(1/4)
(1/4)
(1/4)
(1/4)
(1/4)
Fonte: OECD (2004)
4
Per una panoramica dei principali indicatori proposti in letteratura nel corso degli ultimi anni, e dei relativi
limiti, si veda Salvatori (2003).
14
Come si mostra in Tabella, il valore dell'indicatore, che corrisponde all'ultimo livello di
aggregazione, il livello 4, è dato dalla media ponderata dei tre sottoindicatori ottenuti al
livello 3. Questi riguardano rispettivamente: la protezione dei lavoratori con contratto di
lavoro regolare contro i licenziamenti individuali; la regolazione delle forme di lavoro
temporaneo ed infine la disciplina dei licenziamenti collettivi 5 .
La rigidità di questi tre macro-aspetti è calcolata sulla base della media ponderata delle
variabili considerate al livello 2, a loro volta determinate dai 18 indicatori specifici del livello
16.
Tutte le variabili del livello 1 sono espresse in unità di tempo o in punteggi in scala ordinale, a
seconda delle caratteristiche. Il primo passo da fare è quindi quello di stimare tutte queste
variabili attraverso un'unità di misura univoca. A tal fine esse sono state convertite in scala
cardinale e classificate in base ai valori nell'intervallo 0-6.
La Tabella 1 indica, a fianco di ogni variabile, il rispettivo peso, da usare per calcolare,
attraverso una media ponderata, il successivo livello di aggregazione dell'indicatore.
L'OECD (1999) ammette che l'assegnazione dei pesi e la scala di convertibilità dei valori
rappresenti un'ulteriore dimensione soggettiva, che si aggiunge a quella imprescindibile della
scelta delle 18 variabili specifiche del livello 1. Tuttavia afferma che, avendo effettuato
sperimentazioni con ponderazioni alternative delle variabili del primo livello, si è potuto
constatare che è improbabile che le conclusioni raggiunte dall'analisi siano eccessivamente
influenzate dall'arbitrarietà che caratterizza questa fase.
Stabiliti i pesi, il passo successivo consiste nell'aggregare i valori delle variabili del primo
livello, attraverso appunto medie ponderate, per ottenere i punteggi del livello 2. Come si può
vedere, nella maggior parte dei casi si utilizzano medie semplici, mentre si ricorre a medie
ponderate per calcolare solo tre variabili del livello 2, rispettivamente : notifica e liquidazione
per licenziamenti senza colpa; contratti a tempo determinato; agenzie del lavoro interinale.
Una volta stabiliti i valori delle variabili del livello 2, si passa alla loro aggregazione,
attraverso medie semplici, per ottenere i tre sottoindicatori del livello 3.
5
La direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, definisce licenziamento collettivo “ogni licenziamento
effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore se il numero dei
licenziamenti effettuati è, a scelta degli Stati membri”, e a seconda della durata del periodo, pari ad una certa
percentuale di occupati.
6
Per la descrizione dettagliata degli indicatori specifici si rimanda all'Appendice.
15
L'ultimo passo del procedimento, stima il valore finale dell'indicatore attraverso la media
ponderata dei tre elementi del livello 3: rigidità della regolazione per i contratti regolari, per i
contratti temporanei e per i licenziamenti collettivi. Il peso attribuito all'aspetto dei
licenziamenti collettivi è solo il 40% di quello assegnato alle altre due variabili in quanto esso
normalmente rappresenta un piccolo incremento della rigidità complessiva. Inoltre, le
misurazioni dell'indicatore dei licenziamenti collettivi sono disponibili solo dalla fine degli
anni '90. L'indicatore è infatti espresso in due versioni. La versione 1 tiene conto degli
indicatori relativi a lavoro regolare e temporaneo, per tre serie temporali: la fine degli anni
'80, la fine degli anni '90 e il 2003. La versione 2 aggiunge l'indicatore dei licenziamenti
collettivi e si riferisce alle sole due serie temporali per cui sono disponibili i dati relativi a tale
disciplina: la fine degli anni '90 e il 2003.
3.2. La rigidità degli RPI nei paesi OECD
L'OECD (1999) calcola l'indicatore della rigidità degli RPI per 27 paesi tutti facenti parte
dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. In questo studio si
utilizzeranno i dati aggiornati al 2003 (OECD, 2004) che sono calcolati anche per la
Repubblica Slovacca, così da portare il totale dei paesi analizzati a 28.
Le figure che seguono mostrano la classifica dei paesi in base alla rigidità dell'indicatore
complessivo e delle sue tre principali componenti.
16
Figura 1: Rigidità complessiva degli RPI, versione 2, ordinato per valori decrescenti della rigidità nel 2003
Come si può vedere dalla Figura 1, è netta la suddivisione tra paesi di flessibili, quali Stati
Uniti, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda e Australia che si trovano sulla parte meno rigida
della classifica, e rigidi: Turchia, Portogallo, Messico, Spagna, Grecia e Francia.
Per la rigidità del lavoro regolare si ha invece quanto riportato in Figura 2.
17
Figura 2: Rigidità del lavoro regolare, ordinato per valori decrescenti della rigidità nel 2003
La Figura 2 mostra come gli Stati Uniti siano il paese con le più basse tutele dei contratti
regolari, con un distacco significativo dal resto dei paesi caratterizzati da bassa rigidità. Al
lato opposto dello spettro si trovano paesi per la maggior parte europei, fra cui il Portogallo
che resta il più rigido, nonostante una diminuzione costante della rigidità negli ultimi anni.
Dalla Figura si può altresì dedurre che il livello di rigidità è pressoché rimasto inalterato in
quasi tutti i paesi presi in esame, nel corso del periodo considerato. Eccezioni importanti
rimangono il Portogallo, la Spagna, l'Austria e la Finlandia.
Nel leggere questi dati è necessaria una precisazione: la percentuale della forza lavoro
impiegata con contratti di lavoro regolari non è la stessa in tutti i paesi e a volte, per far fronte
ad esigenze di flessibilità, sono proprio i paesi nei quali la protezione per i contratti regolari è
più alta, a fare un uso maggiore di contratti atipici o a tempo determinato. È quindi utile
tenere in considerazione questo aspetto in quanto un alto valore della rigidità per i contratti
regolari non è molto indicativo di per sé e non fornisce, se preso isolatamente, la visione
esatta della rigidità di un mercato del lavoro; è necessario considerare anche l'effettiva
percentuale di lavoratori che sono coperti da questa tipologia contrattuale. Boeri e Van Ours
(2008) si occupano di questo aspetto e ricalcolano l'indicatore di rigidità per i contratti
regolari, tenendo in considerazione il loro tasso di applicazione.
18
Figura 3: Rigidità del lavoro regolare: indicatore OECD assoluto e relativo, anno 2003, ordinato per
valori decrescenti dell'indicatore ricalcolato in base alla copertura (senza lavoro temporaneo e autonomo)
Dalla Figura si può vedere che il valore dell'indicatore così calcolato diminuisce in tutti i
paesi. In particolare molti paesi dell'Europa meridionale, quali Spagna, Grecia e Italia,
appaiono molto meno rigidi, rispetto a quanto risulterebbe sulla base dell'indicatore
dell'OECD; ciò proprio perché tali economie hanno un'ampia percentuale della forza lavoro
impiegata in contratti non regolari ma invece temporanei.
19
Figura 4: Rigidità del lavoro temporaneo, ordinato per valori decrescenti della rigidità nel 2003
La Figura 4 mostra come la rigidità dei contratti a tempo determinato assume valori
nettamente differenti rispetto a quella dei contratti regolari. La prima caratteristica che si
evidenzia è la forte variabilità tra paesi e nel corso del periodo esaminato, del valore della
rigidità dei contratti temporanei. Stati Uniti, Canada e Regno Unito si confermano tra i paesi
meno rigidi, mentre allo spettro opposto si collocano Turchia e Messico, seguiti dai paesi
dell'Europa mediterranea. La tendenza alla liberalizzazione dell’uso di contratti a tempo
determinato è evidente per paesi quali Olanda, Danimarca, Svezia, Germania, Italia, Belgio e
Grecia.
20
Figura 5: Rigidità dei licenziamenti collettivi, ordinato per valori decrescenti della rigidità nel 2003
La classifica dei paesi per quanto riguarda quest’ultimo parametro è abbastanza diversa da
quella basata sugli altri due indicatori visti precedentemente. In questo caso il paese in
assoluto meno rigido è la Nuova Zelanda, seguito da paesi asiatici come Giappone o Corea.
L’Italia è allo spettro opposto della graduatoria, mentre i paesi anglosassoni si trovano in
posizione intermedia.
3.3. Limiti dell'indicatore OECD degli RPI
La descrizione dell'indicatore OECD non può prescindere dall'analisi dei limiti di tale
processo di valutazione quantitativa del fenomeno degli RPI 7 .
Pur essendo classificato da Salvatori (2003) come indicatore oggettivo, l’indicatore OECD
mantiene comunque un certo grado di arbitrarietà, sia nella scelta dell'algoritmo utilizzato per
convertire i dati nella scala da 0 a 6, che misura la rigidità dei regimi a protezione
dell'impiego, sia nella scelta dei pesi per la ponderazione dei valori che formano i quattro
livelli di aggregazione dell'indicatore stesso.
Inoltre, il valore dell’indicatore è determinato in base ad una valutazione delle norme che
regolano le variabili prese in considerazione e non dà quindi adeguatamente conto di alcuni
7
Per un'analisi dettagliata dei limiti dell'indicatore OECD soprattutto in riferimento all'Italia, si veda Del Conte
et al. (2004).
21
aspetti rilevanti della tutela dell’impiego che sfuggono a quanto previsto dal puro e semplice
testo legislativo.
Infatti l'esistenza di una legge in un ordinamento non garantisce di per sé la sua puntuale
applicazione. In primo luogo perché spesso l'applicazione della legge può essere disattesa e
questo accade tanto più frequentemente quanto più deboli sono i controlli e più elevata è la
disoccupazione; inoltre quello che l'indicatore non può cogliere è il cosiddetto enforcement
della norma: le modalità reali con cui essa viene applicata. Da questo punto di vista l'aspetto
maggiormente problematico è la disciplina del licenziamento senza giusta causa. Di fronte a
tale eventualità, gli organi ai quali il lavoratore può ricorrere sono differenziati da paese a
paese (organi amministrativi, tribunali, arbitri privati) e gli unici dati certi a disposizione sono
solo quelli che riguardano le cause portate davanti ad una corte. Inoltre le decisioni dei giudici
possono essere influenzate dal contesto socio economico nel quale si trovano ad operare: è
molto probabile infatti che i tribunali tendano ad essere più bendisposti verso il lavoratore nei
casi di crisi economica o di alta disoccupazione. Il lavoro di Ichino et al. (2004) mostra questa
tendenza prendendo ad esempio il caso di una grande impresa operante su tutto il territorio
italiano.
Inoltre alcuni aspetti dei regimi di protezione dell'impiego non sono previsti da norme, ma dai
contratti collettivi e individuali di lavoro (OECD, 2004), come ad esempio tutto ciò che
attiene al periodo di prova che spesso è consentito, ma non esplicitamente previsto dalla
legge; o ancora ciò che riguarda la soglia delle indennità di licenziamento, che a volte viene
stabilita a livello di contrattazione. Il problema è che non è possibile avere informazioni
dettagliate circa le specifiche clausole contrattuali e che, sebbene si applichino solo ad una
parte della forza lavoro e quindi non siano generalizzabili, restano comunque non misurabili
con l'indicatore della rigidità del regime di protezione.
Infine resta il problema dei contratti a tempo determinato: nella maggior parte dei casi non c'è
un'autorità incaricata di controllare il rispetto de parametri necessari per poter ricorrere ad un
contratto di questo tipo e i lavoratori a tempo determinato hanno sicuramente meno possibilità
dei loro colleghi a tempo indeterminato di portare un eventuale caso di licenziamento davanti
ad un giudice, anche perché probabilmente essi non beneficiano dello stesso supporto dato dai
sindacati ai lavoratori con contratto regolare.
Inoltre va rilevata la mancanza di serie storiche: l'indicatore OECD elaborato nel 1999 ed
aggiornato nel 2004, mette a confronto il valore della rigidità dei regimi di protezione
22
dell'impiego di tre periodi diversi, rispettivamente la fine degli anni '80, la fine degli anni '90
e il 2003; tuttavia esso non dà conto della variazione della rigidità negli intervalli di tempo
compresi tra gli anni considerati. Questa difficoltà riflette, secondo Salvatori (2003), la natura
stessa dell'oggetto da misurare che, essendo multiforme e previsto da molteplici fonti, è
difficile da aggiornare costantemente 8 .
Infine l'indicatore non considera la possibilità che la tutela dell'impiego abbia un campo di
applicazione limitato ai lavoratori di imprese che hanno alla propria dipendenza un numero di
occupati maggiore di una certa soglia. L'Italia, da questo punto di vista, è un caso esemplare
in quanto la tutela reale contro i licenziamenti garantisce solo i lavoratori di imprese con più
di 15 dipendenti. I lavoratori impiegati in imprese di piccole dimensioni godono di una
protezione minore; tuttavia l'indicatore non registra questa differenza.
La tabella 2 ricalcola il valore della rigidità dei contratti regolari e dei licenziamenti collettivi
in Italia in base al grado di copertura, quindi escludendo la percentuale dei lavoratori
impiegati in imprese con meno di 15 dipendenti.
Tabella 2: Indicatore della rigidità dei contratti regolari e dei licenziamenti collettivi ricalcolato in base al
grado di copertura
Contratti
regolari
Rigidità
indicatore
OECD
Copertura % (al netto
degli occupati in imprese
sotto i 15 dipendenti)
Indicatore
ricalcolato
1,8
61,6
1,1
Licenziamenti
4,9
61,6
collettivi
Fonte: nostre rielaborazioni su dati OECD (2004a) e ISTAT
3,0
Quanto detto permette di affermare che nello studio degli effetti delle tutele sul mercato del
lavoro, è bene valutare i risultati con molta prudenza, tenendo in considerazione il margine di
arbitrarietà necessariamente sotteso alla misurazione del fenomeno.
4. Letteratura empirica
8
Allard (2005) si propone di colmare questa lacuna e sviluppa, partendo dall'indicatore OECD, una misura time
varying dei regimi di protezione dell'impiego che copre 21 paesi e 50 anni (dal 1950 al 2003).
23
La letteratura che studia gli effetti degli RPI sul mercato del lavoro ha prodotto un'ampia mole
di studi empirici che si sono mossi su quattro principali linee di indagine: gli effetti che i
regimi di protezione hanno sulle grandezze stock e flusso di occupazione e disoccupazione;
sulle tipologie lavorative e sulla produttività.
Ci si soffermerà quindi sulle problematiche più rilevanti che lo studio di questa istituzione
lascia aperte: le conseguenze differenziate che gli RPI hanno sulle diverse fasce demografiche
e gli effetti controversi che producono sulla produttività e sull'innovazione aziendale.
La tabella che segue offre una selezione di questi studi mettendo in evidenza i risultati più
significativi.
24
25
Occupazione temporanea e
permanente
Impegno del lavoratore
Incidenza del lavoro
temporaneo
Produttività, innnovazione e
contrattazione salariale
Ichino e Riphan
(2001)
OECD (2004)
Bartelsman et al.
(2004)
Burgess et al.
(2000)
Nunziata e
Staffolani (2001)
Occupazione e produttività
Nickell e Layard
(1999)
Tasso di disoccupazione e
occupazione (per genere ed
età)
Produttività
Job turnover
Boeri (1999)
OECD (1999)
Job e labour turnover; durata OECD (1994)
della disoccupazione
Blanchard e
Portugal (1998)
OECD (1999)
OECD (1999)
*
OECD (1999);
Belot e Van Ours
(2000); Blanchard
e Wolfers (2000)
Bertola (1990)
OECD (1999)
OECD (1994)
OECD (1994)
OECD (1994)
Job turnover
Bertola e
Rogerson (1997)
Indicatore
utilizzato
Tema
Studio
Tabella 3: Studi empirici
17 industrie manifatturiere di 18 paesi
OECD
28 paesi OECD
Italia
Belgio, Danimarca, Francia, Germania,
Irlanda, Italia, Olanda, Spagna, Uk
7 maggiori paesi OECD
27 paesi OECD
Australia, Austria, Belgio, Canada,
Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Giappone,
Lussemburgo, Olanda, Polonia,
Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia,
Repubblica Ceca, Uk, Usa
20 paesi OECD
21 paesi
Italia, Germania, Francia, Canada, Uk,
Usa
Paesi, settori
Correlazione negativa tra rigidi RPI e job turnover e labour turnover; correlazione
positiva tra RPI e durata della disoccupazione.
Nonostante la differenza di RPI i mercati del lavoro europei e Usa hanno tassi di job
turnover molto simili. Questo è possibile perché altre istituzioni del mercato del
lavoro, come la compressione salariale, compensano la riduzione del job turnover
causato dagli RPI.
Risultati
La riduzione degli RPI porta alla sostituzione di lavoratori permanenti con lavoratori
temporanei. In particolare ridurre la rigidità dei contratti temporanei ha un effetto
positivo sull'occupazione, sia permanente che temporanea dei giovani; ridurre invece
la rigidità delle agenzie del lavoro interinale ha un effetto positivo solo
sull'occupazione temporanea, mentre riduce quella permanente, soprattutto tra i
giovani.
Rigidi RPI hanno un effetto negativo sull'impegno del lavoratore.
1984-1998
Gli effetti degli RPI sull'innovazione e la produttività sono correlati al sistema di
contrattazione salariale. La combinazione di una forte compressione salariale e di alti
costi di licenziamento tende a favorire la formazione all'interno dell'impresa.
fine anni '80; Differenze nella rigidità degli RPI per i lavori temporanei e regolari possono essere
fine anni '90; un elemento importante per spiegare l'aumento dell'incidenza di lavori temporanei per
2003
giovani e poco qualificati.
1993-1995
1983-1999
Correlazione positiva tra RPI e tasso di occupazione maschile; negativa con il tasso
di occupazione femminile. Effetto negativo sulla produttività perché scoraggia la
cooperazione dei lavoratori e la loro formazione.
fine anni '80; Correlazione negativa tra rigidi RPI e flussi occupazionali; assenza di correlazione
fine anni '90 con il tasso di disoccupazione totale ma non con quello dei differenti gruppi
demografici.
Correlazione positiva tra rigidi RPI e bassa velocità di aggiustamento a shock
esogeni.
Anni '80
Fine anni '80, Rigidi RPI comportano che un'alta percentuale del job turnover sia formato da job-toprima metà
job shift piuttosto che da flussi in uscita dalla disoccupazione. La probabilità per un
anni '90
disoccupato di uscire dalla disoccupazione è negativamente correlata al tasso di
impiego con contratti temporanei. L'effetto è più forte per i disoccupati dai 25 anni in
su.
1985-1994
Fine anni '80
Tempo
26
Flussi occupazionali e
produttività
Tema
Lavoro temporaneo,
occupazione, produttività
Disoccupazione e lavoro
temporaneo (per genere ed
età)
Produttività
Occupazione e produttività
Total Factor Productivity
(TFP)
Boeri e Garibaldi
(2007)
Kahn (2007)
OECD (2007)
Dew-Becker e
Gordon (2008)
Bassanini et al
(2009)
OECD (2004)
OECD (1999)
OECD (1999)
OECD (1999)
OECD (2004)
Due gruppi rispettivamente composti di
11 e 16 paesi
14 paesi europei
18 paesi OECD
Canada, Finlandia, Italia, Olanda,
Svizzera, Uk, Usa
Italia
21 paesi
13 paesi membri dell'UE
OECD (1999)
Allard (2005)
23 paesi OECD
18 paesi (11 paesi industrializzati e 7
paesi in via di sviluppo)
Paesi, settori
OECD (1999)
Botero (2003);
Heckman e Pages
(2003), OECD
(1999)
Indicatore
utilizzato
1982-2003
1978-1995
1995-2003
1982-2003
1994-1998
1995-2000
1980-2001
1992-2002
Fine anni '90
Anni '80 e
'90
Tempo
* I due autori analizzano come varia l'impegno del lavoratore, prima e dopo l'introduzione della protezione dell'impiego.
Occupazione e produttività
Allard e Lindert
(2006)
Insicurezza percepita
Postel-Vinay e
Saint-Martin
(2004)
Auer et al. (2005) Durata dell'impiego e
produttività
Micco e Pages
(2004)
Studio
Tabella 3 (cont.): Studi empirici
Rigidi RPI per i contratti regolari sono negativamente correlati con la crescita della
TFP in settori che tendono ad innovare attraverso cambiamenti del personale (EPLbinding industries ). Restrizioni all'uso dei contratti temporanei hanno un impatto
nullo (o leggermente positivo) sulla crescita della TFP.
Le riforme che riducono la rigidità degli RPI hanno un effetto di breve periodo
positivo sull'occupazione e negativo sulla produttività. Infatti gli RPI sono
positivamente correlati con la produttività pro capite. La diminuzione della
produttività causata dalla riduzione degli RPI è parzialmente compensata
dall'aumento occupazionale che tali riforme comportano.
Rigidi RPI per i contratti regolari hanno un basso effetto negativo sulla produttività (e
soprattutto sulla TFP). Tuttavia la diminuzione della rigidità per i contratti
temporanei (risultato delle riforme al margine) ha un impatto sulla produttività
ambiguo.
Correlazione positiva tra rigidità degli RPI e tasso di disoccupazione di giovani,
immigrati e donne. Rigidi RPI accrescono l'incidenza di lavori a tempo determinato
per i lavoratori con bassa qualifica, giovani, donne e specialmente donne immigrate.
Questo effetto è maggiore nei paesi con un alto livello di contrattazione collettiva.
Una riforma two tier aumenta la possibilità, per le imprese, di rispondere
velocemente a shock esogeni di produttività; aumenta temporaneamente
l'occupazione; è correlata negativamente con la produttività.
Rigidi RPI aumentano il capitale umano degli insiders e possono quindi accrescere il
PIL pro capite e per ora. Tuttavia, diminuendo nuove assunzioni degli outsiders,
deteriorano il loro capitale umano, riducendo la loro futura produttività. Per questo
motivo l'introduzione di un regime di protezione ha un effetto positivo sulla
produttività nel breve periodo e negativo nel lungo periodo.
Correlazione positiva tra rigidi RPI e una lunga durata dell'impiego. La durata
dell'impiego è positivamente correlata con la produttività.
Correlazione positiva tra rigidità degli RPI e livello di insicurezza percepito dai
lavoratori.
Rigidi RPI sono correlati a bassi flussi occupazionali. Questo effetto ha maggiori
implicazioni sulla produttività di quei settori che richiedono frequenti aggiustamenti
della forza lavoro.
Risultati
4.1. RPI e dualismo del mercato del lavoro
La letteratura è abbastanza concorde nel confermare i risultati ipotizzati da Lazear (1990) e
Schivardi (1999) di un impatto nullo degli RPI sul tasso medio di disoccupazione. Tuttavia gli
studi empirici mostrano anche che è negativo l'impatto degli RPI sul tasso di disoccupazione
degli uomini adulti, mentre è positivo sulla disoccupazione dei giovani e delle donne (OECD,
1999). Questi risultati confermano che gli RPI sono un'istituzione che va a vantaggio dei
lavoratori insiders, provocando ricadute negative sugli outsiders. È vero infatti che la
diminuzione dei flussi occupazionali che un regime di protezione dell'impiego comporta
(Schivardi, 1999) non è distribuita uniformemente sulla forza lavoro e colpisce in misura
maggiore chi, come i giovani, fa il suo primo ingresso nel mercato del lavoro o chi, come le
donne, ha una partecipazione intermittente a causa dei periodi di maternità (Kahn, 2007).
Queste due categorie non godranno del basso tasso di licenziamenti che gli RPI assicurano,
ma saranno piuttosto colpiti dalla bassa propensione delle imprese ad assumere. Tendenza
tanto maggiore in un mercato del lavoro caratterizzato da scarsa informazione, dove
l'incertezza circa le qualità professionali di persone senza esperienza lavorativa o di
disoccupati di lunga durata, unita all'onerosità di un eventuale licenziamento, scoraggiano
l'azienda dal puntare su nuovi rapporti di impiego (Scarpetta, 1996).
Inoltre gli RPI proteggono i lavoratori già occupati per l'effetto che essi hanno sul potere
contrattuale dei lavoratori. I costi legati alla tutela dell'impiego rientrano infatti in quelli che
Lindbeck e Snower (1988) chiamano i labour turnover costs (LTC) e che comprendono tutti i
costi di licenziamento, assunzione e formazione che un’azienda si trova a sostenere per l'avvio
di ogni contratto di lavoro. Ovviamente più prolungata è la permanenza nella stessa
occupazione, maggiore è l’accumulazione da parte del lavoratore di esperienza e più alti sono
gli investimenti che l’azienda decide di intraprendere per la sua formazione; quindi tanto più
importanti saranno gli LTC associati alla sua posizione in quanto un eventuale turnover
avrebbe un duplice costo per l’azienda in termini di mancata produttività aggiuntiva attesa
dall’investimento in formazione e per la necessità di intraprendere un nuovo percorso di
formazione con un neo assunto. Lindbeck e Snower dimostrano che la presenza degli LTC dà
agli insider il potere di negoziare un salario maggiore, diminuendo la spinta dei disoccupati, i
cosiddetti outsider che rimangono necessariamente fuori dal processo di contrattazione.
Questi lavoratori non protetti saranno coloro che maggiormente verranno assunti attraverso
contratti a tempo determinato; infatti l'incidenza di questa tipologia contrattuale non è
distribuita a caso tra la forza lavoro (Kahn, 2007). In particolare, più un regime di protezione
è rigido, maggiore è l'incidenza relativa, tra i lavoratori salariati, di lavori a tempo
27
determinato per giovani, donne e specialmente donne immigrate, così come per le persone
con basse qualifiche professionali. In questi contesti i contratti temporanei, piuttosto che come
filtro di selezione della forza lavoro, vengono utilizzati come quantità cuscinetto (buffer
stock) a disposizione delle esigenze di produttività dei datori di lavoro (Garibaldi, 2005b) 9 .
Questa tendenza riveste un ruolo importante nel peggioramento del welfare del lavoratore
medio, in quanto i contratti temporanei sono tendenzialmente meno pagati e meno formativi
(Kahn, 2007).
4.2. RPI e produttività
Le evidenze sulla relazione tra RPI e produttività sono non conclusive (OECD, 2007) in
quanto la presenza di un regime di protezione condiziona il comportamento delle imprese
attraverso molteplici canali quali: l'aggiustamento della manodopera a seconda delle esigenze
produttive; l'investimento in attività di formazione; il processo di selezione del personale 10 .
Come si assume sul modello di Schivardi (1999), l'economia flessibile è più efficiente di
quella rigida in quanto alloca meglio le forze lavorative, utilizzando il fattore produttivo
lavoro nella quantità esatta richiesta dalle mutevoli esigenze di produttività. L’esistenza di un
costo associato al licenziamento distorce il comportamento economico che un’impresa adotta
nell’eventualità di uno shock: essa sarà meno incline a licenziare in caso di shock negativo e
d’altra parte sarà meno propizia ad assumere in caso di shock positivo, in quanto si troverebbe
nella necessità di assicurarsi della persistenza o meno della nuova situazione. In questo modo
però, trovandosi sempre con un livello occupazionale non ottimale, non massimizza i profitti
(Hopenhayn e Rogerson, 1993).
Tuttavia le ricadute di tale comportamento imprenditoriale in termini di produttività, non sono
le stesse in tutti i settori produttivi. Sono infatti correlate al tipo di innovazione perseguito,
alla volatilità della domanda e alla specificità dei fattori produttivi utilizzati.
Ampia parte della letteratura sottolinea come la riallocazione dei lavoratori da settori meno
produttivi a settori in crescita, favorisca la produttività e la progressiva uscita dal mercato
delle aziende meno efficienti. Tuttavia non tutti i settori industriali richiedono lo stesso grado
di flessibilità del fattore produttivo lavoro. In particolare i settori che necessitano di un alto
livello di specializzazione del capitale umano sono meno inclini a distruggere posti di lavoro
9
L'OECD (2004) verifica che c'è una relazione positiva tra la rigidità dei contratti regolari e la propensione delle
aziende a ricorrere a forme di lavoro non standard che sono più flessibili e comportano costi minori. Inoltre,
maggiore è la differenza tra la rigidità del lavoro regolare e temporaneo, più alta è l'incidenza del lavoro a tempo
determinato per i giovani e i meno qualificati e minore è la probabilità di transizione da una tipologia
contrattuale temporanea ad una a tempo indeterminato.
10
Per una panoramica sulla letteratura che si è occupata della relazione tra regimi di protezione dell’impiego e
produttività, si rimanda a Bassanini, Nunziata, Venn (2009).
28
in quanto la loro sostituzione presuppone alti costi di formazione. Si può quindi sostenere che
rigidi regimi di protezione, correlati a bassi flussi occupazionali, limitano maggiormente la
produttività in quei settori che richiedono capitale umano generico e frequenti cambiamenti
nella composizione della forza lavoro (Micco e Pages, 2004).
La produzione di nuovi beni per i quali non si ha ancora una domanda certa e stabile nel
tempo, sarà effettuata nei paesi con mercati del lavoro più deregolamentati e caratterizzati da
costi inferiori. Invece la produzione di beni cosiddetti "maturi", ovvero quei beni che si
producono da un tempo relativamente lungo e per i quali si ha una domanda certa e stabile nel
tempo, rappresenta una scelta "sicura" ed è preferita in quei paesi con un mercato del lavoro
particolarmente rigido.
I paesi hanno quindi incentivi ad innovare nei beni nei quali hanno un vantaggio comparato:
le economie flessibili tendono ad intraprendere innovazioni "primarie", ovvero puntano
all'introduzione di beni nuovi, le economie rigide adottano piuttosto innovazioni "secondarie"
grazie alle quali si limitano a ridurre il costo di produzione dei prodotti già esistenti e maturi.
È intuibile che l'attività di innovazione "primaria" è quella tecnologicamente più avanzata e
che richiede un maggior grado di specializzazione. Ciò spiega perché l'Europa, con il suo
mercato del lavoro rigido, sembra essere meno specializzata nei settori high tech rispetto agli
Usa (Saint-Paul, 2002).
Anche lo studio di Bartelsman et al. (2004) mostra che la presenza di RPI influenza il
processo di innovazione, ma evidenzia che il legame è molto complesso e influenzato dal
sistema delle relazioni industriali. In particolare si sottolinea l'importanza del sistema di
contrattazione salariale nella determinazione delle modalità attraverso le quali l'innovazione
viene perseguita. Nei paesi dove la negoziazione salariale è decentrata, le imprese tendono ad
innovare aggiustando con maggiore frequenza la propria manodopera attraverso nuove
assunzioni di personale competente. Al contrario, nei paesi con una contrattazione salariale
centralizzata, nei quali il livello salariale è molto più compresso e uniforme all’interno del
settore, le imprese intraprendono relazioni di lungo periodo e tendono ad innovare attraverso
l'investimento in capitale umano specifico, con la formazione continua del proprio personale
già assunto. Tale investimento è sicuro in quanto la compressione salariale, ostacolando la
concorrenza delle retribuzioni, non permette alle aziende di sottrarsi a vicenda personale già
formato.
La combinazione di una forte compressione salariale e di alti costi di licenziamento tende
quindi a favorire la formazione continua all'interno dell'impresa e l'apprendimento sul posto di
lavoro, oltre che l'investimento in capitale umano specifico (Belot et al., 2002; Wasmer,
29
2006). In un contesto simile si viene a creare un rapporto di fiducia e di mutua cooperazione
tra lavoratore e datore di lavoro (Nickell e Layard, 1999) che favorisce la produttività. In
particolare l'investimento in capitale umano specifico è molto utile in quei settori dove il
progresso è cumulativo (ovvero formato da innovazioni successive lungo la stessa traiettoria),
ma risulta inadatto per quei settori (più tecnologicamente avanzati) che richiedono frequenti
cambiamenti di capitale umano e fisico. Questo spiega perché molti paesi europei hanno una
posizione forte in industrie a tecnologia cumulativa, come per esempio quello delle
automobili, mentre hanno uno sviluppo più lento nei settori ICT (Bartelsman et al., 2004).
D'altra parte, in generale rigidi RPI sono correlati positivamente con una lunga durata
dell'impiego, a sua volta necessaria sia per la sicurezza del lavoratore che per la produttività
dell'impresa, qualunque sia il settore di appartenenza (Auer et al., 2005).
Infine un'ultima considerazione riguarda il rapporto tra rigidi sistemi di tutela dell'impiego e
processo di selezione del personale da parte dell'azienda. In presenza di alti costi di
licenziamento, l'impresa è meno incline ad assumere personale nuovo, per cui ogni nuovo
incontro tra domanda e offerta di lavoro sarà caratterizzato da alti standard qualitativi richiesti
dall'impresa e da un accurato processo di selezione della forza lavoro. D'altra parte in un
contesto di bassi sistemi di tutela, l'impresa può, in caso di shock esogeni, aggiustare la
propria manodopera liberamente. Questo comporta un tasso occupazionale specifico per ogni
determinato livello di produttività. L'effetto netto sulla produttività sarà quindi legato
all'importanza relativa che, in ogni determinato contesto, assumono i fattori match-specific o
quelli job-specific (Pinoli, 2007).
La rassegna proposta mostra l'eterogeneità degli effetti dei regimi di protezione dell'impiego
sul mercato del lavoro. I maggiori beneficiari di quest'istituzione sono gli occupati adulti già
inseriti stabilmente, mentre i costi, in termini di qualità e quantità occupazionale, sono invece
per lo più pagati da coloro che fanno il loro primo ingresso nel mercato del lavoro, da coloro
che sono meno qualificati e da chi, come le donne, si trova nella condizione di uscire dal
mercato del lavoro per poi rientrarvi. Le imprese, dal canto loro, se da un lato sono aggravate
dai costi che gli RPI comportano, dall'altro si avvantaggiano dei benefici che un rapporto di
lavoro a lunga durata apporta in termini di capitale umano specifico.
5. Riformare gli RPI
I regimi di protezione dell'impiego sono oggi spesso ritenuti un'istituzione inadeguata alle
attuali peculiarità del mercato del lavoro. La globalizzazione e l'aumento della concorrenza
internazionale ad essa collegata, i progressi tecnologici, la differenziazione della domanda di
30
consumo e dei servizi, così come l'aumento del grado di istruzione dei lavoratori, ha reso
infatti necessario un maggior grado di flessibilità. I paesi europei, su invito espresso
dell'Unione Europea 11 , hanno risposto a questa esigenza attraverso una proliferazione di
forme contrattuali atipiche che si differenziano notevolmente dal tradizionale rapporto di
lavoro in termini di sicurezza di reddito e di stabilità, sia di lavoro che di vita.
Tuttavia, mentre i paesi caratterizzati storicamente da una bassa rigidità, hanno potuto
facilmente rispondere a queste nuove esigenze attraverso un processo di riforme
generalizzato, teso ad estendere la flessibilità al'intero spettro occupazionale, i paesi nei quali
invece era forte la protezione dell'impiego hanno dovuto intraprendere riforme al margine.
Riforme di questo tipo comportano però la formazione di un mercato del lavoro duale, nel
quale una classe di lavoratori altamente protetta convive con un'ampia fascia di lavoratori
precari, dove la precarietà è intesa non soltanto come temporaneità dell'impiego, ma
soprattutto come assenza di tutele, sia nel corso del rapporto di lavoro, sia alla sua
conclusione. Senza contare che si tratta di un dualismo specifico, la cui linea di demarcazione
è spesso generazionale o di genere. Il dualismo del mercato del lavoro che i rigidi sistemi di
tutela dell'impiego determinano, tende ad essere riproposto, sotto altre sembianze, come
risultato delle riforme poste in essere.
L’analisi dei dati, ripresa dall'OECD (2004), mostra le peculiarità di questa tendenza
riformatrice.
11
"Libro Verde: Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo", COM(2006) 708
31
Figura 6: Cambiamento della rigidità degli RPI
Nel complesso la tendenza individuata è caratterizzata da un costante avvicinamento dei paesi
presi in esame, in termini di rigidità dei regimi di protezione dell’impiego. L’avvicinamento è
dato prevalentemente da una riduzione degli RPI dei paesi meno rigidi all’inizio del periodo
considerato; tale riduzione è determinata quasi completamente dalla flessibilizzazione della
legislazione sui contratti a tempo determinato che ha portato ad un aumento del loro utilizzo.
La Figura 8 mostra l'andamento della percentuale di occupati a tempo determinato sul totale
dell'occupazione dipendente nei paesi OECD e in Europa. Come si può vedere tale
percentuale cresce costantemente, soprattutto se si prende in considerazione il contesto
europeo. Inoltre risulta chiaro che la componente di occupazione temporanea giovanile (classe
di età 15-24) è la componente maggioritaria del tasso occupazionale temporaneo totale.
32
40
%
35
30
25
20
15
10
5
Europa (occupazione totale)
OECD (occupazione totale)
Europa (classe di età: 15-24)
20
08
20
07
20
06
20
05
20
04
20
03
20
02
20
01
20
00
19
99
19
98
19
97
19
96
19
95
19
94
19
93
19
92
19
91
19
90
19
89
19
88
0
OECD (classe di età: 15-24)
Fonte: nostre rielaborazioni su dati OECD.stat
Figura 7: Percentuale degli occupati con contratto temporaneo sul totale dell'occupazione dipendente
L'Unione Europea, nel valutare positivamente l'introduzione nei mercati del lavoro europei di
tipologie contrattuali flessibili, mette tuttavia in guardia sulla possibilità che questi nuovi
contratti atipici possano avere effetti negativi sul benessere dei lavoratori. Infatti in molti
paesi le riforme volte a realizzare la flessibilità contrattuale hanno spesso determinato una
situazione per cui chi viene assunto con un contratto temporaneo si trova intrappolato in
questa condizione lavorativa non protetta, con poche speranze di uscirne e d'altra parte con un
basso sostegno da parte delle istituzioni.
È interessante notare a questo proposito quello che l'Employment in Europe (2006) definisce
come "il paradosso dell'insicurezza percepita". Ci si riferisce all'evidenza, confermata dai
lavori di Postel-Vinay e Saint Martin (2004) e di Clark e Postel-Vinay (2004), per cui i
lavoratori sembrano avere una maggiore percezione di insicurezza nei paesi con più rigidi
regimi di protezione dell'impiego. Tale evidenza risulta tuttavia meno paradossale di quello
che può sembrare a prima vista, se si prende in considerazione il fatto che i paesi più rigidi
sono anche i contesti nei quali si è operato maggiormente tramite riforme al margine e nei
quali perdere un lavoro permanente significa entrare in uno status di disoccupazione
probabilmente di lunga durata, con una bassa possibilità di reimpiego e, nel caso di
riassunzione, con un un'alta probabilità di essere reimpiegati in occupazioni temporanee.
Le imprese infatti spesso preferiscono assumere con una serie di contratti a tempo
determinato, piuttosto che convertire in permanente un contratto temporaneo. Il presupposto
alla base di questo strumento viene quindi snaturato: piuttosto che servire al lavoratore come
33
ponte verso tipologie contrattuali più stabili e all'azienda per verificare la convenienza di un
eventuale rapporto di impiego, esso è utilizzato dalle imprese come risorsa aggiuntiva di
manodopera da adoperare a seconda delle esigenze di produttività (Garibaldi, 2005b).
Il risultato di questa politica occupazionale è però quello di trovarsi con rapporti di impiego a
bassa produttività, senza avvenire e senza stimoli per l'azienda ad accrescere il capitale
specifico del lavoratore (Blanchard e Tirole, 2003) e a creare quel rapporto di fiducia e di
collaborazione fondamentale per la crescita produttiva.
L'effetto positivo sull'occupazione, che si intendeva raggiungere attraverso le riforme, è
quindi mitigato dalla caduta di produttività data da lavori meno formativi e produttivi e da
lavoratori più insicuri.
Conclusioni
La rassegna teorica ed empirica proposta mette in luce come gli effetti che gli RPI producono
sul mercato del lavoro dipendono dalla flessibilità salariale, dalla propensione al rischio del
lavoratore e della natura stessa degli RPI.
I modelli teorici dimostrano che, in un mercato del lavoro completamente flessibile e con
lavoratori neutrali rispetto al rischio, l'introduzione di un regime di protezione dell'impiego
non ha nessuna conseguenza di rilievo sulle variabili più significative del mercato del lavoro
in quanto il costo associato alla tutela del lavoratore è compensato grazie ad una struttura
salariale ad hoc. Tuttavia tale risultato di neutralità non è confermato nell'ipotesi in cui i
regimi di protezione dell'impiego siano costituiti non solo dalla componente di trasferimento,
ma anche dalla componente di tassa. In tal caso l'introduzione degli RPI avrà sempre un
impatto sui profitti dell'impresa, anche nell'ipotesi di un mercato del lavoro perfettamente
flessibile.
Se il contesto è invece caratterizzato da salari rigidi e lavoratori avversi al rischio,
l'introduzione di un regime di protezione dell'impiego, pur non avendo conseguenze sul tasso
di occupazione e disoccupazione medio, influenza negativamente i flussi occupazionali e
comporta un'inefficiente allocazione della forza lavoro, con carenza di occupazione nei
periodi di alta produttività ed eccesso di manodopera durante le fasi di contrazione produttiva.
Quindi, in presenza di forti RPI, la produttività e i profitti non sono massimizzati. Recenti
modelli teorici analizzano la tendenza ad ovviare tale problematica attraverso una
liberalizzazione dei contratti a tempo determinato e dimostrano che queste riforme portano un
effetto positivo in termini occupazionali solo temporaneo, avendo invece ricadute negative
34
sulla produttività in quanto i nuovi posti di lavoro, creati grazie al ricorso ai contratti a tempo
determinato, implicheranno effetti di selezione e di incentivazione negativi.
Le evidenze empiriche confermano i risultati dei modelli per ciò che attiene agli effetti degli
RPI sulle grandezze flusso e stock di occupazione e disoccupazione, tuttavia è necessario
sottolineare che, costi e benefici della tutela dell'impiego non sono distribuiti uniformemente
su tutta la forza lavoro. In particolare si dimostra che gli RPI tendono a creare un mercato del
lavoro duale, dove una fascia di lavoratori altamente protetta, formata in prevalenza da uomini
adulti, convive con un gruppo di lavoratori poco tutelati costituito principalmente da giovani,
che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro e da donne che hanno una
partecipazione discontinua a causa dei periodi di maternità.
C'è invece meno unanimità, fra i risultati dei lavori empirici, in merito alla produttività. Se da
un lato è vero che il sistema di tutele diminuisce la propensione delle aziende ad aggiustare la
manodopera a fronte di qualsiasi, anche minimo, cambiamento di produttività, è vero altresì
che la previsione di un impiego a lungo termine, incentiva le imprese ad investire in capitale
umano specifico. Tale investimento è particolarmente vantaggioso, soprattutto in un contesto
di forte compressione salariale. Infatti, solo in questo caso le aziende si sentono tutelate
rispetto alla possibilità che, altre imprese, offrendo salari maggiori, possano "rubare" il loro
personale già formato. Infine, è necessario sottolineare che l'investimento in capitale umano
specifico risulta indispensabile per determinati settori, in particolar modo quelli caratterizzati
da un processo di crescita cumulativo. Il discorso cambia per quei settori più
tecnologicamente avanzati, che richiedono nuove professionalità o tempestive variazioni di
manodopera specializzata, anche in risposta ai progressi della tecnica. Quindi, si può
affermare che, l'effetto sull'innovazione non è univoco: può essere positivo o negativo, a
seconda del tipo di innovazione perseguito e quindi del settore industriale di riferimento.
Alla luce dei risultati descritti, appare opportuno segnalare che le attuali riforme degli RPI
tese a diminuire la rigidità della tutela solo per ciò che attiene ai contratti a tempo
determinato, tendono a riproporre il dualismo del mercato del lavoro, aumentando
l'insicurezza del lavoratore e le diseguaglianze in termini di tutele. Il tutto senza garantire
effetti duraturi né sull'aumento occupazionale né sulla produttività che risulta svantaggiata in
quanto l'uso ripetuto di contratti temporanei non incentiva la formazione e la creazione di un
proficuo rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro.
È opportuno infine segnalare che le comparazioni internazionali e lo studio degli effetti
imposti dai regimi di protezione all’impiego si basano su misurazioni che, come si è visto,
non possono dirsi esenti da problematicità, è quindi sempre necessario mantenere una
35
particolare prudenza nell'interpretazione dei risultati, non potendo prescindere dalla
valutazione critica degli strumenti utilizzati.
36
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40
APPENDICE
Tabella A2: Descrizione degli indicatori specifici - Contratti regolari
Descrizione
Indicatore specifico
1. Procedure di notifica
Ad esempio la necessità che la notifica di licenziamento venga preceduta da una previa sequenza
di avvertimenti, o che debba essere notificata o addirittura approvata da una parte terza.
2. Ritardo con cui la notifica può partire
Tempo necessario alla notifica per pervenire al lavoratore, che dipende a sua volta dalle modalità
di consegna della notifica stessa: può bastare una notifica orale o una lettera consegnata a mano
o per e-mail o ancora è possibile che sia necessaria una lettera raccomandata.
3. Periodo di notifica dopo…
Il periodo di notifica è il periodo di tempo, previsto dal contratto di impiego o dai contratti
collettivi, che va dalla notifica di licenziamento all’effettiva rottura del rapporto di lavoro,
durante il quale le reciproche obbligazioni derivanti dal contratto continuano a persistere.
La liquidazione (severance pay) è la somma che il datore di lavoro deve cedere al lavoratore in
caso di licenziamento.
4. Liquidazione dopo…
9 mesi
4 anni
20 anni
9 mesi
4 anni
20 anni
5. Definizione di licenziamento
ingiustificato
La definizione di licenziamento ingiustificato può essere più o meno restrittiva. Ad esempio le
capacità del lavoratore o un esubero possono essere motivi validi per un licenziamento; o è
invece possibile che il datore di lavoro debba necessariamente tenere in considerazione le
condizioni sociali o di età del lavoratore; o ancora debba garantire al lavoratore un trasferimento
o una possibilità di riqualifica.
6. Lunghezza del periodo di prova
Il periodo di prova è un lasso di tempo, normalmente previsto da una clausola del contratto,
durante il quale il datore di lavoro e il lavoratore possono liberamente decidere di recedere dal
contratto senza incorrere nelle disposizioni relative alla protezione dell'impiego. L'interesse
ritenuto dominante durante tale periodo è quello del datore di lavoro che deve accertare
l'idoneità fisica e attitudinale del lavoratore all'impiego previsto dal contratto. Al termine del
periodo di prova il datore di lavoro potrà esercitare la sua facoltà di recesso ovvero, se ritiene
che la prova sia stata superata, assumere definitivamente il lavoratore.
7. Compenso statuito dalla corte
Ammontare che il datore di lavoro deve pagare al lavoratore in caso di licenziamento giudicato
ingiustificato
Obbligo per il datore di lavoro di reintegrare il lavoratore in caso di licenziamento giudicato
ingiustificato.
8. Reintegro statuito dalla corte
Tabella A3: Descrizione degli indicatori specifici - Contratti a tempo determinato
Indicatore specifico
9. Casi di validità (temporary work)
Descrizione
Tutti i paesi riconoscono la validità del ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato in caso
di ragioni oggettive, quali progetti specifici, lavori stagionali, rimpiazzo temporaneo di un
lavoratore assente e così via. Tuttavia nel corso degli anni ’90 nella maggior parte dei paesi si
assiste ad un ampliamento dei casi nei quali viene ammesso il ricorso a queste tipologie
contrattuali.
10. Massimo numero di contratti successivi Si riferisce al numero massimo di contratti successivi che è possibile stipulare: è anche possibile
che non ci siano limiti a tale numero.
(temporary work)
11. Massima durata cumulativa (temporary Si riferisce alla massima durata cumulativa di un lavoro a tempo determinato, a prescindere dal
numero di contratti rinnovati.
work)
12. Casi di validità (TWAs)
La regolamentazione riguardo al ricorso al lavoro interinale è molto differenziata: può essere
vietato, permesso solo in determinate circostanze o consentito senza alcuna restrizione.
13. Restrizioni al numero di rinnovi
(TWAs)
Si riferisce al numero massimo di contratti successivi che è possibile stipulare: è anche possibile
che non ci siano limiti a tale numero.
14. Massima durata cumulativa (TWAs)
Si riferisce alla massima durata cumulativa di un lavoro a tempo determinato, a prescindere dal
numero di contratti rinnovati.
41
Tabella A4: Descrizione degli indicatori specifici - Licenziamenti collettivi
Descrizione
Indicatore specifico
15. Definizione di licenziamento collettivo L’ampiezza dell’esubero richiesto per dar via all’applicazione delle regole sui licenziamenti
collettivi.
16. Procedure di notifica addizionali
Procedure di notifica addizionali rispetto a quelle richieste per i licenziamenti individuali: può ad
esempio essere prevista la notifica ad uno o più attori esterni, quali consigli del lavoro o autorità
governative.
17. Ritardi addizionali
Sempre rispetto a quelli previsti per i licenziamenti individuali.
18. Altri costi a carico del datore di lavoro
Si riferisce alla presenza di costi di liquidazione magiori rispetto a quelli previsti per i
licenziamenti individuali, o ancora all'obbligo, o comunque alla prassi, di predisporre piani di
compensazione sociale.
42
ISSN 1825-0211
QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA, FINANZA E
STATISTICA
Università degli Studi di Perugia
1
Gennaio 2005
Giuseppe CALZONI
Valentina BACCHETTINI
2
Marzo 2005
3
Aprile 2005
Fabrizio LUCIANI
Marilena MIRONIUC
Mirella DAMIANI
4
Aprile 2005
Mirella DAMIANI
5
Aprile 2005
Marcello SIGNORELLI
6
Maggio 2005
7
Maggio 2005
Cristiano PERUGINI
Paolo POLINORI
Marcello SIGNORELLI
Cristiano PERUGINI
Marcello SIGNORELLI
8
Maggio 2005
Marcello SIGNORELLI
9
Maggio 2005
10
Giugno 2005
Flavio ANGELINI
Stefano HERZEL
Slawomir BUKOWSKI
11
Giugno 2005
Luca PIERONI
Matteo RICCIARELLI
12
Giugno 2005
Luca PIERONI
Fabrizio POMPEI
13
Giugno 2005
14
Giugno 2005
15
Giugno 2005
16
Giugno 2005
David ARISTEI
Luca PIERONI
Luca PIERONI
Fabrizio POMPEI
Carlo Andrea BOLLINO
Paolo POLINORI
Carlo Andrea BOLLINO
Paolo POLINORI
I
Il concetto di competitività tra
approccio classico e teorie evolutive.
Caratteristiche e aspetti della sua
determinazione
Ambiental policies in Romania.
Tendencies and perspectives
Costi di agenzia e diritti di proprietà:
una premessa al problema del governo
societario
Proprietà, accesso e controllo: nuovi
sviluppi nella teoria dell’impresa ed
implicazioni di corporate governance
Employment and policies in Europe: a
regional perspective
An empirical analysis of employment
and growth dynamics in the italian and
polish regions
Employment
differences,
convergences and similarities in italian
provinces
Growth and employment: comparative
performance, convergences and comovements
Implied volatilities of caps: a gaussian
approach
EMU – Fiscal challenges: conclusions
for the new EU members
Modelling dynamic storage function in
commodity markets: theory and
evidence
Innovations and labour market
institutions: an empirical analysis of
the Italian case in the middle 90’s
Estimating the role of government
expenditure in long-run consumption
Investimenti
diretti
esteri
e
innovazione in Umbria
Il valore aggiunto su scala comunale: la
Regione Umbria 2001-2003
Gli incentivi agli investimenti:
un’analisi dell’efficienza industriale su
scala geografica regionale e sub
regionale
17
Giugno 2005
18
Agosto 2005
Antonella FINIZIA
Riccardo MAGNANI
Federico PERALI
Paolo POLINORI
Cristina SALVIONI
Elżbieta KOMOSA
Construction and simulation of the
general economic equilibrium model
Meg-Ismea for the italian economy
19
Settembre 2005
Barbara MROCZKOWSKA
20
Ottobre 2005
Luca SCRUCCA
21
Febbraio 2006
Marco BOCCACCIO
22
Settembre 2006
23
Settembre 2006
Mirko ABBRITTI
Andrea BOITANI
Mirella DAMIANI
Luca SCRUCCA
24
Ottobre 2006
Sławomir I. BUKOWSKI
25
Ottobre 2006
Jan L. BEDNARCZYK
26
Dicembre 2006
Fabrizio LUCIANI
27
Dicembre 2006
Elvira LUSSANA
28
Marzo 2007
29
Marzo 2007
Luca PIERONI
Fabrizio POMPEI
David ARISTEI
Luca PIERONI
30
Aprile 2007
31
Luglio 2007
32
Luglio 2007
33
Agosto 2007
David ARISTEI
Federico PERALI
Luca PIERONI
Roberto BASILE
Roberto BASILE
Davide CASTELLANI
Antonello ZANFEI
Flavio ANGELINI
Stefano HERZEL
II
Problems of financing small and
medium-sized enterprises. Selected
methods of financing innovative
ventures
Regional policy of supporting small
and medium-sized businesses
Clustering multivariate spatial data
based on local measures of spatial
autocorrelation
Crisi del welfare e nuove proposte: il
caso dell’unconditional basic income
Unemployment,
inflation
and
monetary policy in a dynamic New
Keynesian model with hiring costs
Subset selection in dimension
reduction methods
The Maastricht convergence criteria
and economic growth in the EMU
The concept of neutral inflation and
its application to the EU economic
growth analyses
Sinossi dell’approccio teorico alle
problematiche ambientali in campo
agricolo e naturalistico; il progetto di
ricerca
nazionale
F.I.S.R.
–
M.I.C.E.N.A.
Mediterraneo: una storia incompleta
Evaluating innovation and labour
market relationships: the case of Italy
A
double-hurdle
approach
to
modelling tobacco consumption in
Italy
Cohort, age and time effects in alcohol
consumption by Italian households: a
double-hurdle approach
Productivity
polarization
across
regions in Europe
Location choices of multinational
firms in Europe: the role of EU
cohesion policy
Measuring the error of dynamic
hedging: a Laplace transform approach
34
Agosto 2007
Stefano HERZEL
Cătălin STĂRICĂ
Thomas NORD
Flavio ANGELINI
Stefano HERZEL
35
Agosto 2007
36
Agosto 2007
Giovanni BIGAZZI
37
Settembre 2007
Enrico MARELLI
Marcello SIGNORELLI
38
Ottobre 2007
39
Novembre 2007
40
Dicembre 2007
41
Dicembre 2007
Paolo NATICCHIONI
Andrea RICCI
Emiliano RUSTICHELLI
The
International
Study
Group on Exports and
Productivity
Gaetano MARTINO
Paolo POLINORI
Floro Ernesto CAROLEO
Francesco PASTORE
42
Gennaio 2008
43
Febbraio 2008
44
Febbraio 2008
45
Febbraio 2008
46
Marzo 2008
47
Marzo 2008
48
Marzo 2008
49
Marzo 2008
Bruno BRACALENTE
Cristiano PERUGINI
Cristiano PERUGINI
Fabrizio POMPEI
Marcello SIGNORELLI
Cristiano PERUGINI
50
Marzo 2008
Sławomir I. BUKOWSKI
51
Aprile 2008
Bruno BRACALENTE
Cristiano PERUGINI
Fabrizio POMPEI
Melisso BOSCHI
Luca PIERONI
Flavio ANGELINI
Marco NICOLOSI
Luca PIERONI
Giorgio d’AGOSTINO
Marco LORUSSO
Pierluigi GRASSELLI
Cristina MONTESI
Paola IANNONE
Mirella DAMIANI
Fabrizio POMPEI
III
The IGARCH effect: consequences on
volatility forecasting and option
trading
Explicit formulas for the minimal
variance hedging strategy in a
martingale case
The role of agriculture in the
development of the people’s Republic
of China
Institutional change, regional features
and aggregate performance in eight
EU’s transition countries
Wage structure, inequality and skillbiased change: is Italy an outlier?
Exports and productivity. Comparable
evidence for 14 countries
Contracting food safety strategies in
hybrid governance structures
The youth experience gap:
explaining differences across EU
countries
Aluminium
market
and
the
macroeconomy
Hedging error in Lévy models with a
fast Fourier Transform approach
Can we declare military Keynesianism
dead?
Mediterranean models of Welfare
towards families and women
Mergers,
acquisitions
and
technological regimes: the European
experience over the period 2002-2005
The Components of Regional
Disparities in Europe
FDI, R&D and Human Capital in
Central and Eastern European
Countries
Employment and Unemployment in
the Italian Provinces
On the road to the euro zone.
Currency rate stabilization: experiences
of the selected EU countries
Homogeneous, Urban Heterogeneous,
or both? External Economies and
Regional Manufacturing Productivity
in Europe
52
Aprile 2008
Gaetano MARTINO
Cristiano PERUGINI
53
Aprile 2008
Jan L. BEDNARCZYK
54
Aprile 2008
Bruno BRACALENTE
Cristiano PERUGINI
55
Aprile 2008
Cristiano PERUGINI
56
Aprile 2008
Cristiano PERUGINI
Fabrizio POMPEI
57
Aprile 2008
Simona BIGERNA
Paolo POLINORI
58
Maggio 2008
Simona BIGERNA
Paolo POLINORI
59
Giugno 2008
Simona BIGERNA
Paolo POLINORI
60
Ottobre 2008
61
Novembre 2008
62
Novembre 2008
63
Dicembre 2008
Pierluigi GRASSELLI
Cristina MONTESI
Roberto VIRDI
Antonio BOGGIA
Fabrizio LUCIANI
Gianluca MASSEI
Luisa PAOLOTTI
Elena STANGHELLINI
Francesco Claudio STINGO
Rosa CAPOBIANCO
Gianna FIGÀ-TALAMANCA
64
Maggio 2009
65
Giugno 2009
66
Settembre 2009
Fabrizio LUCIANI
67
Settembre 2009
Valentina TIECCO
Mirella DAMIANI
Andrea RICCI
Alessandra RIGHI
Dario SCIULLI
IV
Income inequality within European
regions: determinants and effects on
growth
Controversy over the interest rate
theory and policy. Classical approach
to interest rate and its continuations
Factor decomposition of crosscountry income inequality with
interaction effects
Employment Intensity of Growth in
Italy. A Note Using Regional Data
Technological
Change,
Labour
Demand and Income Distribution in
European Union Countries
L’analisi delle determinanti della
domanda di trasporto pubblico nella
città di Perugia
The willingness to pay for Renewable
Energy Sources (RES): the case of
Italy with different survey approaches
and under different EU “climate
vision”. First results
Ambiente operativo ed efficienza nel
settore del Trasporto Pubblico Locale
in Italia
L’interpretazione dello spirito del
dono
L’impatto ambientale ed economico
del
cambiamento
climatico
sull’agricoltura
On the estimation of a binary response
model in a selected population
Limit results for discretely observed
stochastic volatility models with
leverage effect
Factors behind performance-related
pay: evidence from Italy
The Timing of the School-toPermanent Work Transition: a
Comparison across Ten European
Countries
Economia agraria e pianificazione
economica territoriale nel Parco
nazionale del Sagarmatha (Everest,
Nepal)
I regimi di protezione dell’impiego
ISSN 1722-618X
I QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA
Università degli Studi di Perugia
1
Dicembre 2002
Luca PIERONI:
Further evidence of dynamic
demand systems in three european
countries
Il valore economico del paesaggio:
un'indagine microeconomica
A note on internal rate of return
2
Dicembre 2002
3
Dicembre 2002
4
Marzo 2004
Luca PIERONI
Paolo POLINORI:
Luca PIERONI
Paolo POLINORI:
Sara BIAGINI:
5
Aprile 2004
Cristiano PERUGINI:
6
Maggio 2004
Mirella DAMIANI:
7
Maggio 2004
Mauro VISAGGIO:
8
Maggio 2004
Mauro VISAGGIO:
9
Giugno 2004
10
Giugno 2004
Elisabetta CROCI ANGELINI
Francesco FARINA:
Marco BOCCACCIO:
11
Giugno 2004
12
Luglio 2004
13
Luglio 2004
14
Ottobre 2004
15
Novembre 2004
Gaetano MARTINO
Cristiano PERUGINI
16
Dicembre 2004
Federico PERALI
Paolo POLINORI
Cristina SALVIONI
Nicola TOMMASI
Marcella VERONESI
Cristiano PERUGINI
Marcello SIGNORELLI:
Cristiano PERUGINI
Marcello SIGNORELLI:
Cristiano PERUGINI
Marcello SIGNORELLI:
Cristiano PERUGINI:
V
A new class of strategies and
application to utility maximization
for unbounded processes
La
dipendenza
dell'agricoltura
italiana dal sostegno pubblico:
un'analisi a livello regionale
Nuova macroeconomia keynesiana
e quasi razionalità
Dimensione e persistenza degli
aggiustamenti fiscali in presenza di
debito pubblico elevato
Does the growth stability pact
provide an adequate and consistent
fiscal rule?
Redistribution and labour market
institutions in OECD countries
Tra regolamentazione settoriale e
antitrust:
il
caso
delle
telecomunicazioni
Labour market performance in
central european countries
Labour market structure in the
italian provinces: a cluster analysis
I flussi in entrata nei mercati del
lavoro umbri: un’analisi di cluster
Una
valutazione
a
livello
microeconomico
del
sostegno
pubblico
di
breve
periodo
all’agricoltura. Il caso dell’Umbria
attraverso i dati RICA-INEA
Economic inequality and rural
systems: empirical evidence and
interpretative attempts
Bilancio ambientale delle imprese
agricole
italiane:
stima
dell’inquinamento effettivo